Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 15 marzo 2022

Quando l’anima russa salvava l’Occidente - Marcello Veneziani

Nel cuore di Roma, al tempo dell’Unione Sovietica, una scrittrice raffinata, delusa dal Concilio Vaticano II e dalla fine della messa in latino, bussava alle porte del Russicum per seguire la messa celebrata in rito bizantino-russo. Era la Quaresima del 1966 quando Vittoria Guerrini, più nota nel mondo delle lettere col nome di Cristina Campo, prese a frequentare la Chiesa di Sant’Abate all’Esquilino, attigua al Collegio Russicum, oggi chiamato Pontificio Istituto Orientale. Un crocifisso ortodosso in ottone smaltato, donatole al Russicum, campeggiava sul suo letto. Vittoria-Cristina non aveva quarant’anni e racconta in una lettera a un suo amico le affollate messe pasquali ortodosse, con sei preti officianti tra canti e nuvole d’incenso. L’amico in questione, il professor John Lindsay Opie, che insegnò tra l’altro Arte bizantina e Icone russe, era reduce dalla Chiesa anglicana convertito alla Chiesa ortodossa (un cammino che balenò nell’irrequieto Bruce Chatwin). A lui Cristina rivolge tredici lettere ora pubblicate in appendice a un ricco volume di saggi dedicati a lei, Cristina Campo, la disciplina della gioia (a cura di Maria Pertile e Giovanna Scarca, ed. Pazzini). Il prossimo anno sarà il centenario della sua nascita. Come leggere questo suo passaggio al rito bizantino? La ricerca di una viva spiritualità rispetto al degrado occidentale, in quella stessa Russia in cui trionfava il materialismo ateo sovietico. L’ambiguo fascino di Santa Madre Russia, l’inattuale come via di realizzazione spirituale nella forma più alta dell’attenzione.

Cristina nel suo Con lievi mani, teorizzò la sprezzatura come “una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile di situazioni immodificabili”, denotata da “un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte”; e dalla bellezza. Intorno a lei si raccolse un cenacolo nel segno della tradizione della Chiesa d’Oriente che studiava i mistici e i padri greci e latini, e adottava la filocàlia, l’amore per la spiritualità delle icone. La sua apertura alla spiritualità russa la condusse verso il massimo filosofo, scienziato e cultore delle icone, Padre Pavel Florenskij, fucilato da Stalin nel 1937. Per lui il simbolo è “una realtà che è più di se stessa”, un condensatore di vita spirituale.

Cristina visse per anni con Elémire Zolla, studiò Simone Weil, frequentò Maria Zambrano e in via epistolare Andrea Emo; fondò Una voce per salvaguardare la liturgia latino-gregoriana. Scrisse pochissimo, ricercando la perfezione, e avrebbe voluto scrivere ancor meno. A suo dire l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, che a suo volta “reclama la difficile, impervia arte di ereditare”. Traditio, in senso pieno.

Adottò il nom de plume per sfuggire agli sguardi del mondo e rendersi più prossima all’invisibile. Visse “per pura cortesia” e consegnò la poesia “a quattro sfingi sorelle: memoria, sogno, paesaggio e tradizione”. A Guido Ceronetti apparve una creatura in contatto con l’inesprimibile, esile e leggera. ‘Due mondi e io vengo dall’altro’… Scrisse con rara densità e con densa rarità, le sue prose hanno l’incanto dello stupore infantile: “con quale ipnotica lentezza battono le ciglia di un bambino che ascolta rievocare”… Tutti viviamo di stelle spente…Una vita pura – scrive Cristina ne Gli imperdonabili – è interamente ritmata su questa musica leggera e veemente, tutta oblio e sollecitudine, sorriso e pietà. La sua succinta e delicata esistenza è percorsa come un filo d’amore da una “profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto”.

La liturgia, scrive Cristina, “è fonte e meta di ogni poesia”, “è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile”; la liturgia è iniziatrice sovrana e “splende, lume coperto, sulle rocce più inaccessibili, come il Monte Athos o qualche abbazia benedettina”. La grande poesia, per Cristina, “è bellezza geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino”; ma aggiungeva di non conoscere “poesia universale senza una precisa radice: una fedeltà, un ritorno”. Il poeta è là per nominare le cose; ma “oggi sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte”. Scrive i nomi sull’acqua. Tutto muore appena affiora la tecnica, che spegne ogni artigianato del vivere. Eppure dice Cristina, “amo il mio tempo in cui tutto vien meno e insieme è forse è proprio per questo il vero tempo della fiaba”. L’uomo ha distrutto tappeti volanti e specchi magici quando ha preteso di fabbricarli, dice la poetessa; ma “siamo nell’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire”. Cristina non disprezza ma ama il suo tempo, di cui coglie la bellezza sulle soglia del tramonto; un modo insolito, intenso e struggente, di affrontare la decadenza, senza trattenerla, piangerla o fingere che si possa tornare indietro.

I suoi versi raccolti ne La tigre assenza, includono il suo primo libro di poesie; il titolo, Passo d’addio, indica il saggio che le ballerine eseguono a fine corso per congedarsi dalla scuola e dalle altre allieve. ‘T’insegnerò anima mia questo passo d’addio’…Un commiato dalla giovinezza in punta di piedi ma anche il primo esercizio di una più grande cerimonia d’addio. ‘Con lieve cuore, con lievi mani’…La immagini così svanire con un accenno di danza e un leggero sorriso, allusivo della destinazione. “Non si può nascere ma si può morire innocenti”.
Marcello Veneziani, La Verità (6 marzo 2022) 

9 commenti:

Anonimo ha detto...

"... A suo dire l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, che a suo volta “reclama la difficile, impervia arte di ereditare”.Traditio, in senso pieno..."

"... fingere che si possa tornare indietro..."

"... “Non si può nascere ma si può morire innocenti”"

Sintesi personale:
l’arte di vivere presuppone l’arte di leggere, che a suo volta “reclama la difficile, impervia arte di ereditare”. Traditio, in senso pieno, quando l'arte di ereditare si incarna nell'arte di vivere il presente purificandolo, migliorandolo fino all'innocenza, necessaria all'ultimo passo.

Fede e opere ha detto...

CONOSCIAMO IL SANTO DEL GIORNO: S. LUISA DE MARILLAC

Oggi 15 marzo 2022 si festeggia a Parigi santa Luisa de Marillac, vedova Le Gras, Fondatrice, insieme con san Vincénzo de' Paoli, delle Figlie della Carità, zelantissima nel soccorrere i poveri, dal Papa Pio undecimo ascritta nei fasti delle Sante.
Sebbene nata il 12 agosto 1591, si può dire che Luisa di Marillac è una Santa d'oggi e per oggi.

Proveniente da famiglia agiata, fin dalla fanciullezza frequenta gli studi propri della sua età e diviene abile nello svolgere i lavori domestici. Nella giovinezza prova una prima esperienza religiosa: vuole entrare nelle Suore Cappuccine, ma l'idea non ebbe seguito soprattutto per motivi di salute. A ventidue anni, morto il padre ed essendo già orfana di madre, sposa Antonio Le Gras, uomo onesto e credente. Alla fine di questo stesso anno diviene madre. Sempre fedele alla sua vita di pietà e all'amore verso i bisognosi, ha la fortuna di trovare nel suo cammino uomini che furono luminari nella sua epoca, come S. Francesco di Sales, i cui consigli dovevano esserle di così grande conforto in alcune difficoltà.
Vedova nel 1625 si vede libera di darsi interamente alla sua ardente vocazione: la carità verso i poveri.
L'incontro con S. Vincenzo de' Paoli darà il definitivo orientamento nella via del bene al quale vuole consacrarsi. Parigi conosce lo zelo, l'ardente carità di questa donna. Per opera di lei e per iniziativa di S. Vincenzo de' Paoli sorge la Congregazione delle Figlie della Carità. Alle prime giovani contadine giacché furono bonnes filles de champ le sue prime Suore, così diceva: «Onorate anche i malati e considerateli come i vostri padroni». Il loro campo d'azione è vasto e si estende dalla strada, da cui raccolgono gli infelici abbandonati, alle visite a domicilio, all'assistenza ai poveri.
Nelle umili e faticose opere della carità le Figlie della Marillac erano animate dai santi ideali che S. Vincenzo de' Paoli fissava nella prima conferenza alla novella comunità: « Perfezionarsi senza sosta, per fare sempre più e meglio, per divenire migliori e più sante, per sempre far più bene attorno a sè »; e più tardi, parlando della regola che allora s'iniziava: « Le Figlie della Carità avranno per monastero una casa di malati, per cella una camera in affitto, per chiostro le strade della città o le sale degli ospedali, per clausura l'obbedienza, per cancello il timor di Dio, per velo la santa modestia ». Idee
queste del tutto rivoluzionarie in quell'epoca.
Passando gli anni le opere si moltiplicano: l'assistenza ai vecchi, piccole scuole, ricoveri ai ragazzi senza tetto e il difficile apostolato fra i galeotti.
La caratteristica dell'opera della Santa è stata l'unione di due generi di vita: una solida e profonda pietà fondata sulla preghiera costante e viva, e una carità ardente, che spinge all'azione, all'apostolato, a darsi a tutti per l'amore di Dio. E questo nel lontano '600, quando tale genere di vita religiosa era sconosciuto alle donne che si consacravano a Dio. Le prime fatiche della Santa e delle sue compagne ebbero la fortuna, cosa insolita nelle opere del Signore, di essere ricompensate abbondantemente. Durante il primo anno di lavoro ben 760 persone traviate furono ricondotte a Dio.
Nel febbraio del 1660 Luisa s'ammalò per non rialzarsi più. Sono giorni di atroce sofferenza fisica: «Figlie mie, bisogna soffrire prima di morire ». « Vivete da buone cristiane ». Queste le ultime due raccomandazioni. Il giorno 15 marzo 1660 Luisa di Marillac s'addormenta nel Signore.
Venne beatificata il 9 maggio 1920 e canonizzata l'11 marzo 1934 dal Papa Pio XI.

Lo stesso giorno si ricorda:

- A Cesarèa, in Cappadócia, la passione di san Longino soldato, che si dice abbia trafitto colla lancia il
costato del Signore.

Antonio ha detto...

Mah… Affascinante, ma il Cristianesimo non è nemmeno estetismo gnostico.

Anonimo ha detto...

Faccio osservare che Cristina Campo faceva la letterata e non la Papessa.

lorenz ha detto...

Con coerenza alle premesse dei suoi orientamenti in materia spirituale Veneziani riporta con soavità la pagina ben importante di questa fascinazione che la Cristina Campo subì da quelle liturgie orientali che la consolarono della perdita della ritualità occidentale che si consumava l'anno precedente.
Tuttavia questo richiamo può esser percepito con una nota invece di sofferenza e di grande sbalordimento. La Cristina Campo nell'anno prima aveva giocato un ruolo nevralgico nell'improntare quel movimento "Una voce" di recupero e restaurazione del Rito romano che resta la traccia primordiale di un segnale di speranza in tal senso per la Chiesa.
L'apertura da parte allora della Campo verso quelle derive invece orientaliste nel riguardo fu poi a sua volta anzi antesignano dei tanti scoraggiamenti e defezioni che su quel fronte in molti saranno stati tentati di perseguire...
Dunque resta anche un monito, e un esempio in questo da non seguire.
Comunque, fu appunto una pagina, un episodio, niente affatto secondario, quale sia la lettura che se ne voglia dare.

Cristoforo ieromonaco ha detto...

@ lorenz

Lei parla di "derive orientaliste". Faccio presente che la Campo frequentava il Russicum, che era (ed è) una chiesa cattolica, seppur di rito bizantino-slavo, e morì cattolica. Nella chiesa cattolica, a quanto mi risulta dalle parole di Benedetto XIV Lambertini, tutti i riti hanno pari dignità, ergo cosa la spinge a definire una "deriva" quella della Campo?

Se si vuol criticare la Campo, lo si può ben fare sulla sua adesione alla filosofia di S. Weil...

lorenz ha detto...

Condivido quanto osservate, e proprio volentieri. Quanto accennavo lei lo potrà inquadrare meglio nel suo contesto prossimo, ossia nel frangente specifico in cui non fu affatto in gioco la vitalità e rappresentatività cattolica del rito bizantino, quanto di quello romano. Il quale, come giustamente lei implica, dovrebbe pur esso conservare la pari dignità nella giurisdizione cattolica, e forse così da allora non è. Rispetto alla Cristina Campo non esprimevo alcuna riserva, quanto un rammarico che il suo contributo iniziale alla causa specifica del ripristino di una legittimità anche del Rito romano possa non aver trattenuto lo zelo e l'incisività peculiari di quei primi momenti. La parola deriva nel gergo filosofico-ermeneutico non riveste una connotazione per forza dispregiativa ma rinvia all'ampiezza e alla radicalità di opzioni paradigmatiche, almeno per l'uso che ho inteso farne. E poi allora si evocavano, dunque generalizzando, i casi che pur ci sarebbero stati di soggetti tradizionalisti che effettivamente si saranno venuti invece compiacendo non solo e non tanto dell'oggettivo apprezzamento del Rito bizantino, ma proprio di una adesione confessionale alla forma slavonica dell'Ortodossia scismatica. Come anche lei osserva, costoro non dovranno in ciò prendere ad esempio e pretesto il percorso biografico di Cristina Campo.

Anonimo ha detto...


Un'influenza non buona sulla poetessa deve aver avuto la sua relazione sentimentale con Elemire Zolla, critico acuto del nostro tempo ma pure
profeta di un "tradizionalismo" ambiguo e tenebroso, che accanto a Platone metteva lo sciamanesimo quale elemento vitale da recuperare.

Anonimo ha detto...

Cristina Campo è esempio di una esperienza spirituale colta, che a posteriori può offrire approfondimenti a chiunque sia in cerca, ma non fu santa. Questo per noi è sufficiente. Finezza di sentire, di pensare, di vivere non fanno santità. Le nostre figure di riferimento sono Gesù, Giuseppe, Maria. Figure che il mondo da sempre ridicolizza, sdegna e volutamente ignora, perché semplici; figure fin dal passato ritenute fantasiose, mai state al passo dei tempi.