Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 4 ottobre 2024

Giorgio Agamben/ La fine del giudaismo

Israele, specie l'Israele biblico, non filosofeggia, non fa grandi riflessioni sui problemi fondamentali della vita. Israele narra, racconta. Chi ha un po' approfondito riconosce il connubio indissolubile: Torah-Popolo-Terra [terra nella concretezza, non in senso simbolico, di appartenenza]; ma questo è l'ebraismo, non il sionismo. Chi ha interesse può approfondire qui
In ogni caso non dimentichiamo che la radice ebraica del cristianesimo è nell'ebraismo puro della Torah, non in quello spurio, rabbinico, del Talmud, differenziatosi ufficialmente nell'Assemblea di Yavne dopo la distruzione del Tempio.

La fine del Giudaismo

Non s’intende il senso di quanto sta oggi avvenendo in Israele, se non si comprende che il Sionismo costituisce una doppia negazione della realtà storica del Giudaismo. Non soltanto infatti, in quanto trasferisce agli ebrei lo Stato-nazione dei cristiani, il Sionismo rappresenta il culmine di quel processo di assimilazione che, a partire della fine del XVIII secolo, è andato progressivamente cancellando l’identità ebraica. Decisivo è che, come ha mostrato Amnon Raz-Krakotzkin in uno studio esemplare, a fondamento della coscienza sionista sta un’altra negazione, la negazione della Galut, cioè dell’esilio come principio comune a tutte le forme storiche del Giudaismo come noi lo conosciamo. Le premesse della concezione dell’esilio sono anteriori alla distruzione del Secondo Tempio e sono già presenti nella letteratura biblica. L’esilio è la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra e l’intera tradizione ebraica, dalla Mishnah al Talmud, dall’architettura della sinagoga alla memoria degli eventi biblici, è stata concepita e vissuta nella prospettiva dell’esilio. Per un ebreo ortodosso, anche gli ebrei che vivono nello stato d’Israele sono in esilio. E lo Stato secondo la Torah, che gli ebrei aspettano all’avvento del Messia, non ha nulla a che fare con uno stato nazionale moderno, tanto che al suo centro stanno proprio la ricostruzione del Tempio e la restaurazione dei sacrifici, di cui lo stato d’Israele non vuole nemmeno sentire parlare. Ed è bene non dimenticare che l’esilio secondo il Giudaismo non è soltanto la condizione degli ebrei, ma riguarda la condizione manchevole del mondo nella sua integrità. Secondo alcuni cabalisti, fra cui Luria, l’esilio definisce la situazione stessa della divinità, che ha creato il mondo esiliandosi da sé stesso e questo esilio durerà fino all’avvento del Tiqqun, cioè della restaurazione dell’ordine originario.

È proprio questa accettazione senza riserve dell’esilio, con il rifiuto che comporta di ogni forma presente di statualità, che fonda la superiorità degli ebrei rispetto alle religioni e ai popoli che si sono compromessi con lo Stato. Gli ebrei sono, insieme agli zingari, il solo popolo che ha rifiutato la forma stato, non ha condotto guerre e non si è mai macchiato del sangue di altri popoli.

Negando alla radice l’esilio e la diaspora in nome di uno stato nazionale, il Sionismo ha tradito pertanto l’essenza stessa del Giudaismo. Non ci si dovrà allora meravigliare se questa rimozione ha prodotto un altro esilio, quello dei palestinesi e ha portato lo stato d’Israele a identificarsi con le forme più estreme e spietate dello Stato-nazione moderno. La tenace rivendicazione della storia, da cui la diaspora secondo i sionisti avrebbe escluso gli ebrei, va nella stessa direzione.
Ma questo può significare che il Giudaismo, che non era morto a Auschwitz, conosce forse oggi la sua fine.
Giorgio Agamben, 30 settembre 2024

3 commenti:

Anonimo ha detto...

LA NARRAZIONE DEL 7 OTTOBRE

Sempre più spesso la narrazione oggi sostituisce la rappresentazione della realtà, per cui la realtà diventa ciò che si narra. Dove per narrazione è da intendersi il “racconto” che si fa di una determinata sequenza di fatti, che non sono più letti secondo schemi interpretativi teorico-politici che diano la possibilità di inquadrare in modo razionale, anche se non concorde, la realtà considerata.

Nel linguaggio prevalente il concetto di narrazione ha assunto il significato di una forma comunicativa il cui obiettivo è conquistare il consenso di chi ascolta utilizzando forme retoriche, enfatiche, di solito farcite di elementi emotivi con i quali creare la giusta empatia. La narrazione come interpretazione ideologica della realtà, il modo di costringere la realtà a significare ciò che si “narra”. Una posizione analitica, che provi a ragionare sulla questione di turno, infastidisce perché introduce il dubbio, il sospetto che la narrazione sia debole se non addirittura fallace.

Questa premessa per impostare correttamente la questione in oggetto, ma non per arrivare tutti alla medesima conclusione, cosa impossibile in generale perché la contraddizione è parte costitutiva oltre che della vita stessa della questione sociale, dove essa si esprime nel contrasto di interessi di classe ognuno dei quali tende a prevalere sull’altro. Sul campo geopolitico poi la contraddizione si esprime a un livello di complessità per cui si rende necessaria la considerazione e l’analisi di molteplici fattori, che non sempre si esprimono con quella chiara evidenza che a noi semplici esseri umani serve per capire come stanno le cose.

È indubbio che la narrazione dell’11 settembre – senza entrare nel merito della sua natura – sia servita agli Usa per legittimare quella “guerra infinita” che ha messo a soqquadro mezzo mondo. Come è indubbio che la narrazione del 7 ottobre sia servita per legittimare Israele a intraprendere un’operazione che lo stato sionista covava da tempo. Altrimenti non si capirebbe come si è arrivati a bombardare l’Iran, il Libano e la Siria, così come non si capirebbe perché gli Usa sono andati in Afghanistan e poi in Iraq e altrove… per colpire i responsabili dell’attentato alle torri gemelle, così come non si capirebbe perchè ormai l’area mediorientale sia diventata cruciale per i destini del mondo.

Alla luce di un’analisi ragionata che rifiuta la “narrazione” come metodo di indagine, diventa quindi “strano” il fatto che uno Stato che vanta uno dei più efficaci (e subdoli) servizi segreti del mondo, con un apparato militare e di controllo sofisticatissimo si trovasse quel fatidico 7 ottobre nudo a subire un’incursione condotta da Hamas. Anche una persona semplice capisce che qualcosa non ha quadrato in quel 7 ottobre.

Il che non vuol dire che Hamas abbia agito sotto comando nemico o che non ci siano stati morti in campo israeliano. Per capire meglio come sono andate le cose è necessario sapere della “direttiva Hannibal”. Di tratta di un protocollo militare israeliano istituito nel 1986 finalizzato a precludere la cattura di soldati israeliani durante i combattimenti, per evitare che i “terroristi” catturino civili o soldati israeliani per poi utilizzarli come merce di scambio. La direttiva Hannibal, nel caso dei fatti del 7 ottobre, ha impedito che i militanti di Hamas facesse il maggior numero possibile di prigionieri (non era negli interessi di Hamas ammazzare indistintamente), da che se ne deduce che molti israeliani siano caduti vittima del fuoco di Tshal.

Da quel giorno la “reazione” di Israele è stata a dir poco feroce, Gaza è diventata un campo di sterminio dove la soldataglia israeliana ha dato sfogo ai peggiori istinti antipalestinesi. Ufficialmente oltre 40.000 mila morti (senza considerare i grandi feriti e le morti conseguenti all’impossibilità di cure, visto che buona parte dei presidi ospedalieri sono stati colpiti), migliaia dei quali innocenti bambini.

Anonimo ha detto...

Segue

La narrazione del “7 febbraio” è servita quindi a legittimare la strategia geopolitica di desertificazione di quel poco di terra ancora popolata da palestinesi (contemporaneamente a Gaza si interveniva nello stesso modo in Cisgiordania). (Parlare ancora oggi di soluzione “due stati per due popoli” è incredibilmente fuori irrealistico, la soluzione, certo di prospettiva, è: un solo stato multietnico.)

La narrazione del “7 ottobre” continua a fare da quadro di giustificazione ai feroci bombardamenti in Libano, centinaia di tonnellate di bombe scaricate su quartieri civili per colpire i capi di Hezbollah, per non parlare delle continue provocazioni all’Iran in modo che questa fosse “costretta” a rispondere, come è accaduto. Non bisogna essere esperti di geopolitica per capire che questo scenario ha come regista la potenza americana, la quale mostra un’aggressività – dalle conseguenze terribili per l’intera umanità – direttamente proporzionale alla sua perdita di carisma internazionale.

La manifestazione annunciata a Roma per il 5 ottobre non è stata autorizzata. Stiamo assistendo allo scatenamento del potente apparato politico-mediatico che nega in maniera assoluta che si possa denunciare la logica criminale, in questo caso genocida, dello stato d’Israele. Questo apparato supera la dicotomia destra/sinistra, è rappresentato equamente in entrambi gli schieramenti, anche se la destra in questa circostanza sembra essere più israeliana degli stessi israeliani.

La condanna della condotta israeliana è liquidata come anti-semita. Serve a nulla stare a specificare che un conto è dirsi anti sionista un altro anti semita. Serve a nulla. In tutti i programmi televisivi si scatenano i Parenzo di turno: ringhiano, roteano gli occhi, ridacchiano rabbiosi impedendo con ciò qualsiasi tentativo di ragionamento politico. Gli stessi che hanno giustificato l’invio di armi in Ucraina perché lì c’era un “aggressore e un aggredito” ribaltano il tavolo e non vogliono sentire ragione. Bisogna capirli, non possono fare diversamente, devono rispondere allo stesso padrone: gli Usa.

Ritengo quindi che vada espressa piena solidarietà umana e politica all’eroico popolo palestinese, oltre che a quello libanese, iraniano e siriano. Un’area, quella mediorientale, martoriata e dannata, ma non per cause intrinseche alla natura delle popolazioni che vi abitano, ma per via di una “legalità internazionale” figlia della seconda guerra mondiale che ha imperialisticamente tracciato righe immaginarie sulla sabbia del deserto, che non potevano che portare alla catastrofe.

In conclusione, una valutazione politica. Ritengo errata la decisione politica di manifestare a ridosso del 7 ottobre, in questo modo si va a rafforzare la “narrazione” ufficiale che vuole ricondurre a questa data l’inizio di una guerra, che invece era largamente premeditata. La politica deve agire sul piano della comprensione della situazione concreta, per far sì che gli effetti del proprio agire siano utilizzabili a proprio favore, non a quello dell’avversario.

4 settembre 2024 ore 11.31

Anonimo ha detto...

Il testo di cui sopra è di Antonio Catalano