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martedì 22 ottobre 2024

I Paesi “sicuri” sono quelli dove non c'è bisogno di emigrare

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I Paesi “sicuri” sono quelli dove non c'è bisogno di emigrare

Proviamo a collegare i puntini, non dico tutti ma almeno quelli necessari per far emergere dallo sfondo la figura nelle sue linee essenziali.

I primi trattenimenti in Albania non sono andati in porto (mo ci vuole) perché la sezione immigrazione del tribunale civile di Roma ha deciso, in ottemperanza alla sentenza della Corte di giustizia europea, che i Paesi di provenienza degli immigrati – Egitto e Bangladesh – non sono “sicuri”.

Nel 1953 la Convenzione di Ginevra stabiliva che chiunque per motivi di razza, religione, nazionalità, politica fosse perseguitato nel proprio Paese avesse diritto allo status di “rifugiato”. Ma a partire dai primi anni duemila il concetto di rifugiato si è a mano a mano ampliato e sempre più numerosi sono gli immigrati che (grazie a strumentali apparati di “accoglienza”) presentano domanda di protezione perché “vittime” in patria di pratiche vessatorie e così accade che un immigrato chieda asilo perché è un soggetto lgbt i cui diritti non sono garantiti nel proprio Paese. È diventato quindi molto più semplice acquisire lo status di richiedente asilo.

Si parla di “requisiti” in base ai quali un Paese è considerato “sicuro” oppure no. E si fa passare l’idea che la maggioranza di chi emigra dal proprio Paese lo faccia perché questo non è “sicuro” non perché non gli garantisce una vita sicura sul piano economico e sociale ma perché lì non si osservano i diritti così come confezionati dall’Occidente. Per cui, tanto per limitarci a qualche esempio, l’Inghilterra è un Paese sicuro pur se ha detenuto illegalmente per cinque anni su ordine americano il giornalista Assange; come sicuro è Israele dove si ritiene sacrosanto diritto praticare un intervento militare genocidario ai danni dei palestinesi… per eliminare i “terroristi”. Dal che emerge la vecchia vocazione colonialista per cui noi siamo la civiltà gli altri solo barbarie. Lo diceva senza giri di parola quel gran signore dell’Alto rappresentante UE Josep Borrell: «Noi siamo un giardino, il resto del mondo giungla». Più chiaro di così!

Fuori da ogni narrazione, chi studia e conosce la questione sa che le migrazioni hanno come causa prevalente la questione economica; chi non la conosce, farebbe bene ad astenersi prima di parlare, oppure ad informarsi su fonti e dati, evitando “idee”, perché, come cantava il buon Gaber, «un'idea un concetto un'idea/finché resta un'idea è soltanto un'astrazione/se potessi mangiare un'idea/avrei fatto la mia rivoluzione».

Buona parte di quelli che partono non sono “disperati”, come amano rappresentarli i nostri ferventi “accoglienti” (dietro i quali c’è una fitta rete di interessi materiali: una trafila che parte dalla raccolta dei dati anagrafici fino ad arrivare al sostegno legale); sono quelli, invece, che possono permettersi di pagarsi il viaggio, il prezzo del quale varia a seconda della tratta (c’è un tariffario, che tempo fa pubblicai). Nella speranza che l’investimento vada a buon fine. Poi nella realtà accade che tanti immigrati, una volta arrivati, vanno a rimpolpare le già nutrite schiere del degrado sociale, chi nella pura emarginazione chi nella criminalità. L’importante è pero “accoglierli”.

Ma tanti altri riescono a infilarsi nelle pieghe del sistema produttivo, e sono quelli che alimentano ciò che Marx definiva “esercito industriale di riserva”. Un esercito molto caro al capitale, in particolare a quello liberal globalista, che vede in esso lo strumento di regolazione a ribasso del prezzo della forza lavoro tramite il noto meccanismo della competizione tra lavoratori. Un esercito di riserva risultato molto utile ai detentori del potere dominante per smantellare le conquiste in campo di legislazione del lavoro e di diritti sociali ottenute non per grazia ricevuta ma in seguito alle lotte dei lavoratori dei campi e dell’industria nei primi due decenni dopo l’ultima carneficina mondiale.

Se si va in Africa, e si parla con gli esponenti panafricanisti, quelli cioè che lottano per liberare il continente dall’ipoteca neocolonialista (predazione delle risorse naturali, contratti commerciali capestro, imposizione di brevetti, transizione verde che riduce le possibilità di sviluppo...) si scopre che tra i principali punti di battaglia costoro mettono il contrasto all’emigrazione. Sì, perché l’emigrazione svuota le nazioni africane delle migliori risorse, non produce ricchezza in loco, e le famose rimesse degli emigranti altro non sanciscono che rapporti di dipendenza verso i Paesi occidentali.

Se si va in Africa, si scopre che l’episcopato cattolico (l’Africa è il continente che dà i più alti numeri di credenti, eppure praticanti) è contro l’emigrazione. Vescovi e cardinali la considerano un cancro sociale che affligge i popoli africani. Emigrazione favorita in tutti i modi da una fitta rete di imprenditori del ramo, sia in loco che all’estero. Mentre qui da noi, dove la partecipazione religiosa è ai minimi termini e i seminari sono vuoti, abbiamo un Vaticano in salsa global che dedica buona parte della sua missione al culto dei “migranti” (andare in piazza San Pietro per ammirare la scultura della barca dei migranti) e addirittura da questa estate finanzia (grazie alla fondazione “Migrante”, un organo della Conferenza Episcopale Italiana) l’attività di un’imbarcazione a vela, la “Migrantes”, che segue a vista la “Mare Jonio” (quella di Casarini&co) durante i “soccorsi”.

La sentenza dei magistrati della sezione romana ha emesso una sentenza politica, che ancora una volta sancisce la totale subalternità italiana a logiche extranazionali che mirano a mantenere l’Italia in stato di soggezione. Non ci vuol tanto a capire, basta il famoso buon senso, che una politica di accoglienza indiscriminata di tutti i provenienti da Paesi non “sicuri” è la via maestra per il disfacimento sociale. È un parlar da dicervellato alla centro sociale o da opportunisti del ceto politico della sinistra liberal progressista.

La sinistra – iper liberista, formalmente in opposizione alla destra, ma solo per il fatto che la si vuole scalzare – sguaiatamente urla contro il fascista governo Meloni che “deporta migranti”, e lo fa usando toni e argomenti UE, che giustamente non convincono i ceti popolari.

A questo riguardo ci tengo a sottolineare che i ceti popolari non odiano gli immigrati, non sono razzisti, semplicemente vivono il peggioramento delle proprie condizioni sia di lavoro che sociali, peggioramento determinatosi anche e grazie all’uso che i padroni hanno fatto, e fanno, degli immigrati come “esercito di riserva”.

Gli ambienti popolari sono accoglienti per natura, per vocazione direi, la solidarietà proletaria ce l’hanno nel sangue, perché aiutare l’altro è aiutare sé stessi. Bussare alla porta del vicino per chiedere un qualcosa è sempre stato un gesto naturale, poi si ricambia alla prima occasione. Solidarietà contrastata dal galateo della civiltà capitalistica, che spinge invece a far diventare gli uni diffidenti agli altri, tutti potenziali rivali, meglio ognuno farsi i fatti propri, chiudersi in casa, diffidare, diffidare.

Gli appartenenti alle classi alte e ai ceti medio alti non conoscono la pratica della solidarietà, non l’hanno storicamente acquisita, gli è loro completamente estranea l’idea di rivolgersi al vicino per chiedere che ne so, una mano per spostare un mobile, le classi agiate se hanno bisogno di qualcosa acquistano direttamente la prestazione di servizio necessaria a soddisfare il bisogno del caso: colf, badante, cameriere, operatore sanitario, giardiniere… Solo che a volte certuni avvertono la “colpa” del proprio privilegio di classe e per liberarsene si prodigano (spesso facendo danni) per “fare qualcosa” a favore dei “bisognosi”, degli “ultimi”, ignorando di questi cultura e sentimenti.

Racconto un episodio fresco fresco, per rendere l’idea dell’estraneità delle classi medio alte al mondo della vita. Stamattina mentre mi recavo con un amico a un impegno politico organizzato in quel di Monteverde (un quartiere “bene” di Roma), passiamo accanto a un cassonetto dov’è letteralmente la testa di uno zingaro che rovista con un filo di ferro a uncino tra i rifiuti per trovare qualcosa di utile. Arriva una signora con un sacchetto in mano e rivolgendosi alla persona con la testa immersa nel cassonetto domanda: «Qui è la raccolta indifferenziata?».

La stessa estraneità dell’attuale sinistra, ormai espressione di interessi e mentalità dei ceti medio alti, prevalentemente del settore cosiddetto cognitivo, dalla mentalità “aperta”, fluida e cosmopolita, naturalmente accogliente e inclusiva nonché favorevole alla transizione verde con tutti i suoi corollari di resilienza e sostenibilità, oltre che di diritti civili a la carta. Una sinistra che merita appieno la qualificazione di sinistra al caviale o, come dice Sahra Wagenknecht, sinistra neo liberale o alla moda.

Il provvedimento del governo Meloni è un provvedimento bandiera, di quelli sventolati per mostrare che si fa quello che si era promesso. Perché, solo a voler parlare di numeri, Gjader con il suo centro per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), il suo Cpr (144 posti) e il suo penitenziario (20 posti) è del tutto insufficiente a trattare in modo deciso la questione. Sicuramente, in termini di efficacia, il Decreto sicurezza del governo Conte-Salvini fu molto più pagante, perché il respingimento delle navi funzionò da dissuasore per nuove partenze.

Infine, ma è la questione principale, quella causante. Premesso che non è realistica l’accoglienza indiscriminata, la questione migratoria si affronta, e si contrasta, innanzitutto imboccando la strada della distruzione dei vincoli neo coloniali che impongono condizioni di sottomissione ai popoli non occidentali. Una battaglia che va a braccetto con quella per la sovranità nazionale, insieme a quella per il superamento dell’ordine unipolare americano.
Tanto lavoro da fare.
Antonio Catalano, Lunedì 21 ottobre 2024
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1 commento:

Anonimo ha detto...

La sezione immigrazione del tribunale civile di Roma ha deciso, in ottemperanza alla sentenza della Corte di giustizia europea, che i Paesi di provenienza degli immigrati – Egitto e Bangladesh – non sono “sicuri”.
Che carini! Esattamente come farebbe un buon papa' e una buona mamma.