Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 27 febbraio 2015

Regalità di Cristo e l’impegno del cattolico in politica

Ringrazio Silvio Brachetta, nostro collaboratore di vecchia data, che sono felice di ritrovare in questo momento del nostro percorso anche attraverso l'articolo che pubblico di seguito, perfettamente in tema con quanto andiamo dibattendo. Lo abbiamo incontrato di recente in un suo scritto pubblicato da Sandro Magister, di cui si è parlato qui. Ha una bella formazione e un lodevole impegno. L'analisi che segue è ben articolata, interessante per mostrare, tra l'altro, come si possa fare una lettura in continuità del concilio, in molte delle cui proposizioni essa si può trovare. C'è però il problema, non ignorabile alla luce degli esiti sotto i nostri occhi, degli effetti sia della legittima autonomia della realtà temporale che degli effetti del dialogo non finalizzato alla conversione [vedi]. E saranno opportune alcune puntualizzazioni sulla Regalità sociale del Signore [qui] che non si trova direttamente rinnegata sui documenti (almeno che io sappia); ma che, per effetto di alcune riforme e del loro spirito, risulta di fatto diluita se non ancora oltrepassata del tutto. Accenno solo alla libera diffusione degli errori per effetto della mancata loro condanna; alla famosa Ostpolitik, per nulla tramontata, con le aggravanti di conio TdL, ecc.
Potremo sviluppare queste riflessioni nella discussione, approfondendo con profitto i punti controversi.
Metto a disposizione [qui], per fosse interessato a scaricarsela, la versione pubblicata da Il Corriere del Sud nell'ottobre 2013.

Regalità di Cristo e l’impegno del cattolico in politica

Qualche anno prima della pubblicazione della prima enciclica sociale[1], Leone XIII riproponeva estesamente l’insegnamento dottrinale della Chiesa sulla Regalità di Gesù Cristo, nell’enciclica “Immortale Dei”[2]. E anche in seguito, nella “Annum sacrum”[3], il Pontefice confermava che Gesù Cristo è «re e signore di tutte le cose», specificando che la sua autorità «non si estende solo ai popoli che professano la fede cattolica […], ma abbraccia anche tutti coloro che sono privi della fede cristiana». Tutta l’umanità è, dunque, «realmente sotto il potere di Gesù Cristo», il quale «non ha il potere di comandare soltanto per diritto di nascita, essendo il Figlio unigenito di Dio, ma anche per diritto acquisito». Acquisito come? Con il suo «sangue», versato sulla Croce: «ecco il prezzo» con cui, per comprare «tutto», Cristo «ha dato tutto» se stesso.

Autonomia delle realtà temporali

Non che il regno di questo mondo coincida con il regno di Cristo. Leone XIII dichiara altrove[4] che la Chiesa è posta per «estendere» e «dilatare» il regno di Cristo nel mondo[5]. È Cristo stesso, infatti, ad affermare: «Il mio regno non è di questo mondo».
Il regno di questo mondo, benché sorretto dalla Provvidenza divina, ha una sua autonomia, nel senso che il governo è esercitato dagli uomini (e dalle leggi fisico-chimiche). E questo non deve sembrare strano perché, così come Dio - causa prima di tutte le cose - creò l’universo soggetto alle leggi fisiche - cause seconde, che producono gli effetti del movimento e delle trasmutazioni chimiche -, allo stesso modo stabilì l’autorità civile e religiosa, la prima a governo delle nazioni e la seconda a governo delle anime.
Il potere di Dio sul cosmo è, dunque, reale ma indiretto, come pure suggerisce san Tommaso d’Aquino: «quanto alla potestà, tutto è soggetto a Gesù Cristo, anche se non tutto gli è soggetto quanto all’esercizio del suo potere», che Egli delega alle creature[6]. Il fatto, però, che il sovrano goda di potere reale sui sudditi - così come le cause seconde della natura hanno reale potenza di muovere e trasmutare le cose - non significa che egli debba tenere lo sguardo fisso su di sé e sui propri interessi ma, al contrario, «in qualsiasi tipo di Stato i Principi devono soprattutto tener fisso lo sguardo a Dio»[7]. «Santo», allora, «dev’essere il nome di Dio per i Principi»[8]. I sudditi, poi, non dovranno in alcun modo resistere alla legittima autorità civile, con «sedizioni» o rivolte, ma tributare al principe «ossequio e fiducia»[9]. Si parla, comunque, di principato e sudditanza a prescindere da una qualche forma politica determinata, perché la Chiesa - in linea generale - non ha preferenze di ordine politico.
Quanto all’ambito civile, c’è dunque una «legittima autonomia delle realtà temporali», secondo l’espressione adottata molto più tardi dal Concilio Vaticano II[10], purché tale autonomia non venga confusa con l’indipendenza assoluta e la sussistenza equivoca degli enti in se stessi. Il Concilio, anzi, approfondisce ulteriormente: se «con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” s’intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce»[11].

Principio di laicità

Così la distinzione tra l’ambito civile e quello religioso non può significare separazione né, tanto meno, rottura. Leone XIII, sempre nella “Immortale Dei”, precisa meglio quello che nel secolo successivo sarà chiamato «principio di laicità», menzionato spesso però dal pensiero liberale, come pretesto per rivendicare l’autonomia assoluta dello Stato da ogni riferimento religioso. Il Santo Padre scrive che Dio «volle ripartito tra due poteri il governo del genere umano, cioè il potere ecclesiastico e quello civile, l’uno preposto alle cose divine, l’altro alle umane». In che modo, quindi, interpretare correttamente le parole di Gesù: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»?[12]
Quello che è dovuto a Dio e a Cesare concerne il «fine immediato» dei due poteri e costituisce l’ambito specifico d’azione di ciascuno: allo Stato spetta la «cura delle cose terrene» e alla Chiesa «la salvezza delle anime o il culto di Dio». Ma c’è un «fine comune» della società e degli individui, immensamente superiore in dignità al fine immediato, che è rintracciabile nella stessa dignità delle persone e che rappresenta «quel supremo ed ultimo bene al quale devono essere rivolti tutti i pensieri». Questo bene e fine comune è l’eterna beatitudine, cioè la «perfetta e completa felicità degli uomini». Quindi affrancamento dalle occupazione e dagli ambiti altrui non significa affrancamento dalla Signoria di Dio, causa diretta della felicità, che perdura immutata nella storia - compresa o ignorata - e alla quale è dovuto l’ossequio delle società e dei singoli. Una laicità siffatta, intesa come autonomia dei fini immediati, è non solo auspicabile, ma del tutto conforme alla volontà di Dio. Viceversa, la laicità come separazione dal fine ultimo del genere umano (il “laicismo”) non può che implodere su se stessa o, quanto meno, produrre generazioni d’infelici.

Laicismo e democrazia

Di «laicismo» e «dei suoi errori» parla Pio XI nella “Quas primas”[13]. Il documento tratta estesamente della Regalità di Cristo, con molti spunti di riflessione ispirati alla “Immortale Dei” di Leone XIII. Il laicismo è definito da Pio XI «peste della nostra età» e consiste nel «negare l’impero di Cristo su tutte le genti» e altresì negare alla Chiesa il diritto di «ammaestrare» i popoli e «condurli alla eterna felicità». Il Papa è qui preoccupato per i «pessimi frutti» prodotti da «questo allontanamento da Cristo». Egli forse contempla ancora i milioni di morti della Prima guerra mondiale, innescata dai laicissimi governi dei nascenti stati liberali. E già Leone XIII scriveva sulla Regalità di Cristo quando il potere temporale della Chiesa era stato gravemente compromesso, dopo i fatti di Porta Pia (1870). Non si può sostenere, quindi, che tali pronunciamenti risentano del rassicurante clima di alleanza fra Trono e Altare.
Specialmente in Italia, invece, s’era imposto il clima del «non expedit»[14] di Pio IX che non consentiva ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche dello Stato italiano. Solo nel 1919 Benedetto XV abrogò il «non expedit» e, indirettamente, favorì la nascita del Partito popolare italiano (Ppi), su iniziativa (tra gli altri) di don Luigi Sturzo. Certamente la Chiesa sostenne la prassi democratica quando, il Ppi prima e la Democrazia cristiana nel secondo dopoguerra, intesero ispirare e fondare la propria azione politica sui principi della Dottrina sociale della Chiesa. Ma tale prassi fu però anche ostacolata dal Magistero allorché fu usata come pretesto ideologico per la promozione del «democratismo silloniano», conosciuto anche come «cattolicesimo democratico».

Democrazia forse, democratismo no

La democrazia insomma, come forma politica, ha molti aspetti di governo positivi, ma anche dei limiti ideologici, che non possono essere trascurati dalla Chiesa. Uno dei limiti più vistosi emerse con la formazione, in Francia, del movimento Le Sillon[15], ortodosso all’inizio, ma scismatico in seguito. Le tesi silloniane sono confutate da san Pio X nella “Notre charge apostolique”[16], che ripropone l’insegnamento sociale della Chiesa. Al Sillon, Pio X contesta specialmente l’errore secondo cui il potere economico e politico di un principe o di un governo non discenderebbe dall’alto (dall’autorità divina), ma dal basso: il popolo «sovrano», dunque, sarebbe formato da una moltitudine d’individui, priva di diseguaglianze e capace di portare «al grado massimo», nel tempo, «la coscienza e la responsabilità civica di ciascuno». Questo popolo composto di «re» e «padroni», completamente emancipato da ogni potere esterno, perverrebbe alla società perfetta grazie alla capacità morale di sviluppare una «forza» d’«amore dell’interesse professionale e dell’interesse pubblico». Tramite, quindi, «l’educazione democratica del popolo», fondata appunto su tale «forza d’amore», attecchirebbe spontaneamente «la democrazia economica e politica», nonché «il regno della giustizia, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità». Ovvero, l’ideale della Rivoluzione francese.
Queste idee sono sbagliate per diversi motivi. Innanzi tutto, ricorda Pio X nella Lettera, il Magistero esclude nel singolo e nella società una forza d’amore tale da annichilire spontaneamente l’egoismo o il vizio, presenti in ogni uomo. In secondo luogo, l’autorità non sorge mai da basso, ma procede da Dio, come si è visto. La Dottrina sociale della Chiesa, poi, insegna che le classi non possono essere livellate e manterranno sempre una certa diversità. È, infine, erroneo quel concetto di libertà che pretenda di affrancarsi dall’autorità e dall’obbedienza, come hanno dimostrato i santi con la propria vita.
Pio X cita spesso il Magistero di Leone XIII il quale, oltre le già citate “Rerum novarum”, “Immortale Dei” e “Annum sacrum”, ha prodotto altri due importanti documenti sulla questione sociale[17]. È proprio Leone XIII, del resto, a sancire la legittimità del procedimento democratico: «fatta salva la giustizia, non è proibito ai popoli darsi il governo che meglio risponde al loro carattere o alle istituzioni e ai costumi che hanno ricevuto dai loro antenati»[18]. E ancora: «quanti presiedono al governo della cosa pubblica possono certamente, in determinati casi, essere eletti dalla volontà e dal giudizio della moltitudine, senza che ciò ripugni o si opponga alla dottrina cattolica»[19]. Ma aggiunge: «Tuttavia, se questa scelta designa il governante, non gli conferisce l’autorità di governare; non delega il potere, ma designa la persona che ne sarà investita»[20]. In altre parole, l’elezione del governante ha una funzione solo indicativa della persona (o delle persone) e non costituisce un trasferimento del potere dal popolo (dal basso) al governante (all’alto). Per questo motivo Pio X, applicando il Magistero, è favorevole alla democrazia, ma precisa che «la democrazia non gode di un privilegio speciale»[21] rispetto ad altre forme di governo. E ancora, la democrazia costituirebbe un «disastroso regresso per la civiltà» nel caso mancasse «l’unione degli spiriti nella verità, l’unione delle volontà nella morale» e «l’unione dei cuori nell’amore di Dio e di suo Figlio Gesù cristo»[22].

È inopportuno che nel cattolico convivano due persone

Pertanto, la Chiesa respinge la democrazia laddove si dimostrasse un pretesto per inaugurare la nuova «religione»[23] del democratismo, i cui nuovi dogmi si possono così riassumere: la religione si deve assoggettare al partito politico e per principio, dunque, il cattolicesimo si deve asservire a una qualche forma di governo[24]; in ogni cattolico convivono perennemente due persone, delle quali l’una serve i principi della religione e l’altra quelli del partito[25], i cattolici si devono associare interconfessionalmente e perseguire il progresso della civiltà a prescindere dalla Chiesa[26]; bisogna dunque lasciare il proprio cattolicesimo «fuori dalla porta»[27]; i cittadini «mettano in comune quanto li unisce» e «dimentichino quanto li divide»[28].
Quanto questa nuova religione acattolica sia penetrata nella società, fin quasi a paralizzarla, è cosa oggidì evidente a chiunque. Altrettanto evidente è che il democratismo, così come s’è imposto nella storia, «scorta il socialismo, con l’occhio fisso su una chimera»[29]. Non sembra anzi incongruo quel pensiero che vede una comune base in molti dei movimenti filosofici e politici moderni (liberalismo, anarchismo, socialcomunismo, democratismo e, per alcuni aspetti, nazifascismo).
Del tutto dimenticato è, invece, il principio cattolico secondo cui «la religione deve dominare su tutti i partiti»[30], non in maniera teocratica ovviamente, ma tenendo conto della laicità di cui s’è detto. Il cattolico in politica, soprattutto, vive male quando cerca di venire a patti con la mentalità del mondo a pretesto di una soggettiva incapacità di condurre il proprio apostolato tra le genti. Vive male poiché c’è in lui una sorta di schizofrenia: spinto, in un verso, dalla coscienza alla verità e al bene, è però bloccato, nell’altro, dal timore di esporsi o di subire contumelie a motivo della testimonianza dovuta a Gesù Cristo.

Il Concilio Vaticano II conferma la Regalità di Cristo

Eppure, anche dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, le esortazioni della Chiesa nei confronti del laicato non si sono esaurite ma, semmai, ampliate. Il Catechismo della Chiesa Cattolica[31] ripropone, nel merito, la dottrina fin qui esposta: «La Chiesa […] manifesta la Regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane»[32]. In particolare si ricorda che «il dovere sociale dei cristiani è di rispettare e risvegliare in ogni uomo l’amore del vero e del bene. Richiede loro di far conoscere il culto dell’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica»[33].
È, comunque, il Concilio stesso che approfondisce la questione. Nella “Dignitatis humanae” si interpreta ancora la nota prescrizione di Gesù, di dare a Dio e a Cesare il dovuto[34]: [Gesù] «riconobbe la potestà civile e i suoi diritti, comandando di versare il tributo a Cesare, ammonì però chiaramente di rispettare i superiori diritti di Dio»[35]. Il Concilio, dunque, afferma che i diritti di Dio sono «superiori» ai diritti della potestà civile. Più avanti si precisa che è doveroso riconoscere e obbedire all’autorità civile, ma «è necessario obbedire a Dio prima che agli uomini»[36]. Il cristiano, pertanto, non deve aver «timore di resistere al pubblico potere», quando questo si oppone «alla santa volontà di Dio»[37].
Molto esplicita è anche la “Apostolicam actuositatem”: «Quanto al mondo, è questo il disegno di Dio: che gli uomini, con animo concorde, instaurino e perfezionino sempre più l’ordine delle realtà temporali»[38], ovvero i laici sono chiamati ad «estendere il regno di Dio e ad animare e perfezionare con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali»[39]. Non si tratta solo - chiarificazione quanto mai opportuna - di «portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini», ma di «animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico»[40]. Il fatto cioè che l’uomo viva nella città terrena non lo esenta dal dovere di costruire, già su questa terra, la città di Dio.
Laici e chierici sono chiamati a testimoniare schiettamente la verità ricevuta, a parole e con l’esempio, ognuno nel proprio ambito specifico d’attività. Né c’è posto - insegna il Concilio - per una schizofrenia laica delle coscienze: «I laici, dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale. Questi ordini, sebbene siano distinti, tuttavia sono così legati nell’unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo. Nell’uno e nell’altro ordine il laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana»[41]. Unica coscienza, indivisa, libera solo quando è in comunione d’amore e di verità con Dio.

Ma cos’è il dialogo?

Il Vaticano II parla sì di dialogo, ma non nel senso di vaga discussione: «Quanto all’apostolato per l’evangelizzazione e la santificazione degli uomini, i laici debbono essere particolarmente formati a stabilire il dialogo con gli altri, credenti o non credenti, per annunziare a tutti il messaggio di Cristo»[42]. Non, allora, il dialogo inconcludente, ma il dialogo a condizione di «annunziare a tutti il messaggio di Cristo». Il fine del dialogo è cioè l’apostolato. Il Concilio, anche altrove, non dà alla parola una finalità diversa. [E perché continuare a insistere sul dialogo, che non sembra tanto Apostolato se si esclude il 'proselitismo' inteso come esito dell'Annuncio e dell'insegnamento: Gesù insegnava (Ecclesia docens) e non dialogava] 
È vero, quindi, che ogni ambiente presuppone un suo linguaggio e una propria terminologia specifica, ma nel caso che un politico cristiano - ad esempio - dovesse trovarsi nella condizione di firmare o meno una legge a favore dell’aborto, il suo diritto e dovere sarebbe quello di rifiutare la firma e dire senza imbarazzo: «non è lecito» a nessuno uccidere[43]. O se il primo articolo di una Costituzione non prevedesse il riconoscimento della religione cattolica come religione di Stato, diritto e dovere del laico cattolico sarebbe di affermare: «non è lecito» a nessuno rinunciare alla Signoria di Cristo.
Verità disagevoli, spesso accompagnate da riprovazione pubblica, ai danni di chi le propone. Ma il cattolico in politica non dovrebbe preoccuparsi troppo della propria reputazione o della scarsa possibilità di realizzazione delle sue proposte o dinieghi legislativi. Disastrosi, a questo proposito, sono stati i risultati di una politica democristiana fondata sul compromesso col laicismo. Aborto, divorzio, educazione scolastica, religione di Stato: i cattolici hanno perso goffamente tutte le sfide e le battaglie che, con tenera ingenuità, si erano illusi di combattere. Essi credettero cioè di realizzare la città di Dio, rinunciando alla propria ferma identità cristiana e, in ultima analisi, alla confessione schietta della verità morale.
Eppure il Concilio Vaticano II era stato chiaro su questo: «L’apostolato dell’ambiente sociale, cioè l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive, è un compito e un obbligo talmente proprio dei laici, che nessun altro può mai debitamente compierlo al loro posto»[44]. E ancora: «Animati dall’amore di patria e nel fedele adempimento dei doveri civici, i cattolici si sentano obbligati a promuovere il vero bene comune e facciano valere il peso della propria opinione in maniera tale che il potere civile venga esercitato secondo giustizia e le leggi corrispondano ai precetti morali e al bene comune. I cattolici esperti in politica e, come è naturale, saldamente ancorati alla fede e alla dottrina cristiana, non ricusino le cariche pubbliche, potendo mediante una buona amministrazione provvedere al bene comune e al tempo stesso aprire la via al Vangelo. Si sforzino i cattolici di collaborare con tutti gli uomini di buona volontà nel promuovere tutto ciò che è vero, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è amabile»[45]. Il Magistero conciliare parla, beninteso, di «obbligo» per il laico, non di possibilità arbitraria di una coscienza sganciata dalla verità.
Di nuovo, quanto al dialogo: «Entrino in dialogo con essi, andando loro incontro con prudenza e gentilezza e promuovano indagini circa le istituzioni sociali e pubbliche per portarle a perfezione secondo lo spirito del Vangelo». Anche qua, il dialogo prudente e gentile è inteso come finalizzato alla perfezione delle istituzioni sociali secondo lo spirito del Vangelo di Gesù Cristo, Re dell’universo[46].
____________________________
 Leone XIII, Lettera enciclica “Rerum novarum”, 15 maggio 1891.
 Leone XIII, Lettera enciclica “Immortale Dei”, 1 novembre 1885.
 Leone XIII, Lettera enciclica “Annum sacrum”, 25 maggio 1899.
 in Leone XIII, Lettera enciclica “Sancta Dei civitas”, 3 dicembre 1880.
 Gv 18, 36.
 in Leone XIII, “Annum sacrum”, cit.
 in Leone XIII, “Immortale Dei”, cit.
 ibid.
 ibid.
 Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), Costituzione pastorale “Gaudium et spes” (1965), n. 36.
 ibid.
 Mt 22, 21.
 Pio XI, Lettera enciclica “Quas primas”, 11 dicembre 1925.
 «non conviene» [ai cattolici partecipare alla vita politica dello Stato italiano, ndr], coniato dalla Sacra Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari il 30 gennaio 1868. L’astensionismo era proposto come opposizione intransigente al liberalismo e al democratismo risorgimentali.
 Il Solco, fondato nel 1902 dal giornalista e politico francese Marc Sangnier (1873-1950).
 San Pio X, Lettera apostolica all’episcopato francese “Notre charge apostolique” (“La nostra carica apostolica”), 25 agosto 1910.
 Leone XIII, Lettera enciclica “Diuturnum illud”, 29 giugno 1881; Lettera enciclica “Graves de communi”, 18 gennaio 1901.
 Leone XIII, “Diuturnum illud”, cit., in San Pio X, “Notre charge apostolique”, cit., n. 23.
 ibid., n. 21.
 ibid.
 in San Pio X, “Notre charge apostolique”, cit., n. 23.
 ibid., n. 24.
 «[…] siccome il movimento del Sillon, i capi l’hanno detto, è una religione», ibid., n. 39.
 cf. ibid., n. 31.
 cf. ibid., n. 32.
 cf. ibid., nn. 36-37.
 ibid., n. 37.
 ibid., n. 38.
 ibid.
 ibid., n. 32.
 Redatto «nel dinamismo generato dal Concilio» (dalla Prefazione, n. 10), su indicazione della Sessione straordinaria del Sinodo dei Vescovi (1985) e su mandato di Giovanni Polo II.
 Catechismo della Chiesa Cattolica, LEV, n. 2105.
 ibid.
 Vedi nota n. 12.
 Concilio ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanae” (1965), n. 11.
 ibid.
 ibid.
 Concilio ecumenico Vaticano II, Decreto sull’apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem” (1965), n. 7.
 ibid., n. 4.
 ibid., n. 5.
 ibid.
 ibid., n. 31.
 cf. Mc 6, 18.
 “Apostolicam actuositatem” cit., n. 13.
 ibid., n. 14.
 ibid.

18 commenti:

Silvio Brachetta ha detto...

Ringrazio Maria Guarini per la pubblicazione di questo lavoretto, che non ha alcuna pretesa di completezza.
È evidente che non si può non notare il riferimento al Concilio Vaticano II. E Maria ovviamente mette in luce ben altro problema: va bene la Regalità di Cristo, va bene tutto, ma qua mi usi il Concilio con troppa disinvoltura. Ha ragione. Quindi metto da parte la Dottrina sociale e quant’altro, vado volentieri fuori tema, e spendo due parole sul Concilio, per chiarire cosa mi è sembrato di capire e per chiedere un parere a Maria o a qualche altro fratello interessato alla questione.
Il mio approccio (sostituibilissimo con uno migliore) al Concilio lo riporto brevemente di seguito.
La lettera del Concilio, i motivi della sua convocazione, il suo spirito e la modalità con cui si è svolto, annegano nell’ambiguità e nell’equivoco. Le questioni o le riserve di Amerio, che condivido, restano tuttora inevase, da parte della Chiesa docente. Però giudico questa ambiguità come una salvezza, nel senso che forse lo Spirito ha fatto in modo di rendere inoffensiva l’eresia, che doveva comunque esplodere, dando modo all’ortodossia di potersi difendere: uso allora a mio vantaggio la celebre allegoria della coperta troppo corta e la tiro spudoratamente a mio vantaggio, quando devo dimostrare una certa tesi.
Qualcuno, ad esempio, mi fa notare che la Dignitatis Humanae non contempla il foro interno? Gli rispondo che lo contempla in modo implicito, perché un Concilio non può ridire ogni volta tutta la dottrina. Lo posso fare per via del fatto che, fortunatamente o provvidenzialmente, la Dignitatis Humanae è ambigua: se qualcuno la cita per portare acqua alle sue tesi, io faccio altrettanto per portarla alle mie. È solo un rattoppo, è chiaro. Ma non ho la vocazione e la capacità, almeno credo, di quadrare i cerchi.
Anche in questo breve saggio ricorro al Concilio tirando semplicemente la coperta conciliare dalla mia parte. In genere, comunque, faccio riferimento a ben altri magisteri, meno equivoci. Accetto ogni consiglio, sulla questione. Questa mia prassi non è certo un dogma.

mic ha detto...

Lo posso fare per via del fatto che, fortunatamente o provvidenzialmente, la Dignitatis Humanae è ambigua: se qualcuno la cita per portare acqua alle sue tesi, io faccio altrettanto per portarla alle mie. È solo un rattoppo, è chiaro. Ma non ho la vocazione e la capacità, almeno credo, di quadrare i cerchi.
Anche in questo breve saggio ricorro al Concilio tirando semplicemente la coperta conciliare dalla mia parte. In genere, comunque, faccio riferimento a ben altri magisteri, meno equivoci. Accetto ogni consiglio, sulla questione. Questa mia prassi non è certo un dogma.


Carissimo, dici bene e l'ho fatto alcune volte anchio ;)

Lo hanno fatto più autorevolmente di noi anche mons. Gherardini a mons. Schneider. La 'lettura' in continuità di fatto è possibile proprio grazie a quanto di infallibile è stato ribadito e interpretando in chiave tradizionale le proposizioni 'ambigue' o integrando quelle 'monche', perché anche l'obliterazione, alla lunga diventa negazione (lo abbiamo appreso dalla storia come ci ricorda sapientemente Michael Davies)...

La tua prassi è più che giusta e lodevole e considera anche il fatto che il concilio non può essere cancellato, ma va "interpretato" nella maniera giusta.

Il problema è che la pastorale lascia l'interpretazione (quella autorevole che dovrebbe costituire il Magistero attuale) alla gerarchia di ogni presente della storia senza più fondamenti oggettivi e sappiamo ormai per esperienza cinquentennale quanto queste gerarchie siano inquinate e quanto debordino o siano svianti dalla Via maestra...

E non bastano le nostre singole voci, non altrettanto autorevoli, a frenare la de-formazione che ha ormai raggiunto - e forse superato - i livelli di guardia.

Però anche questa lettura è necessaria, per non perdere il filo e rimanere radicati non solo nel passato (e in quel che di buono e vero dobbiamo tramettere alle nuove generazioni perché ci sia un futuro) ma anche nel nostro presente, che è la concretezza che ci è data e che non può essere oltrepassata.

Sono povere considerazioni che faccio di getto e che completerò in maniera più meditata anche con l'aiuto, che mi aspetto illuminante e sapiente, di Paolo Pasqualucci, e di diversi altri commentatori che danno sempre contributi validi e nutrienti per tutti.
Ti ringrazio e ci diciamo vicendevolmente: coraggio, avanti!

Anonimo ha detto...

Segnalo il commiato di Antonio Livi da un contesto non in linea col suo pensiero....

Paolo Pasqualucci ha detto...

@ Mic - obliterazione della verita' diventa sua negazione

Cara Mic, ti ringrazio sempre della grande stima che mi dimostri; mi mette anche in crisi, per cosi' dire, provocando un impegno da parte mia che mi auguro, Deo adiuvante, possa esser sempre all'altezza e valido, come lo e' sempre quello di tutti coloro che concorrono a questo blog; ammirevole per l'impegno a difendere la vera dottrina della Chiesa, cosa difficile, tanto piu' su internet. Non lo dico per farci i complimenti a vicenda. Ribattendo razionalmente e con validi argomenti (non costruiti su nostre opinioni personali) alle false critiche ed accuse, facciamo il nostro dovere per quanto sta a noi.
Al momento vorrei solamente ricordare, a sostegno del tuo detto di cui all'intestazione del mio intervento, la (nota) frase di Papa Felice III riportata da Leone XIII nell'Espistola "Inimica vis" del 1892, con la quale condannava la massoneria: "L'errore che voi non contrastate, voi l'approvate; la verita' che voi non difendete, voi l'uccidete".

Luisa ha detto...

Segnalo il commiato di Mons. Livi dall`isola:

http://isoladipatmos.com/wp-content/uploads/2015/02/ANTONIO-LIVI-come-mai-mi-accomiato-dalla-Isola-di-Patmos.pdf

E vi lascio vedere la reazione di don Levi che non fa che rincarare la dose confermando così i motivi per cui Mons. Livi ha preso commiato da quel contesto.

Anonimo ha detto...

Don Ariel ha totalmente perso le staffe, non fa tesoro delle parole di Mons. Livi, non prende il tempo della riflessione e dell`autocritica ma si scaglia con inaudita violenza contro la FFSPX da lui qualificata" opera di satana il cui peccato preferito è da sempre la superbia". Don Ariel non si rende di quanto lui stesso sia intriso di superbia.

mic ha detto...

Sto per pubblicare qualcosa su cui non si può tacere. Avrei evitato per evitare qualunque tipp di approccio con quel contesto. Ma c'è una deformazione della verità che è intollerabile. E purtroppo non manca chi dà credito a certe fonti.

Franco ha detto...

@ Faruk, ex re d'Egitto in esilio a Roma negli anni '50, dove si era abbandonato a uno stile dolcevitoso, diceva:"A questo mondo sono rimasti solo cinque re: i quattro delle carte e la regina d'Inghilterra". A parte le battute, rimane il fatto che già ai tempi di Pio XI l'idea della regalità, dopo la caduta degli Hohenzollern, degli Asburgo e dei Romanoff appariva largamente in crisi; e ancor più desueta appare nel nostro mondo mentale anno 2015 con relativo "immaginario".
Nei Vangeli la regalità di Gesù si manifesta nell'esercizio del potere giudiziario: remissione dei peccati dei singoli ( l'adultera, Zaccheo... ) durante la vicenda terrena e poi apparizione supremamente maiestatica nel Giudizio Universale ("Rex tremendae maiestatis" ) . Per il resto all'uomo d'oggi Gesù appare ( o è presentato ) più come un contestatore delle strettoie della Legge che come il creatore di un corpus di leggi positive discendenti da una filosofia-teologia del Diritto organicamente strutturata. Unica grande eccezione quella relativa all'indissolubilità del matrimonio.
Di questi tempi l'idea di una "Chiesa in uscita" aliena dal legalismo si sta mirabilmente coniugando con il concetto di società "liquida", caratterizzata da connessioni molteplici e in perenne cambiamento; per cui è difficilissimo farne venir fuori l'idea di un Ordine Gerarchico, con differenza di livelli, di ruoli, esclusioni, precise "regole del gioco". "L'obbedienza non è più una virtù" proclamava il per me troppo sopravvalutato don Milani, e questo atteggiamento si è diffuso a tutti i livelli. Se uno sfoglia un manuale cattolico di etica medica dei tempi di Pio XII, gli sembra di riconoscere un andamento simile a quello di un codice penale; con il che, se ne dichiara di fatto l'obsolescenza per inapplicabilità alla vita concreta.
A me sembra che il grande compito dei tradizionalisti sia di mostrare in modo ben argomentato e convincente come l'organicità minuziosa della Legge corrisponda allo spirito evangelico; questo soprattutto il relazione alla indissolubilità del matrimonio.

Anonimo ha detto...

Probabilmente faccio un discorso di bassissima macelleria ma "l'impegno cattolico in politica" coincide con l'avvenuta totale l'identificazione della Chiesa Cattolica Italiana col PD sia a livello centrale che locale.
In sostanza se non si è buoni elettori del PD non si è nemmeno (buoni) cattolici qualsiasi cosa voglia dire.
Miles

Paolo Pasqualucci ha detto...

@ FRANCO - Vangelo e Regalita' di Cristo oggi.
Lei pone questo problema: "l'organicita' minuziosa della Legge corrisponde allo spirito evangelico?".
1.Il problema esiste oggi perche' si da' una lettura del Vangelo che non e' quella dovuta, come se fosse un testo che ci incita alla contestazione dell'autorita' (Don Milani, "falso fratello intruso", Gal. 2, 4), alla felicita' in questo mondo, alla conoscenza di se stessi (dei propri diritti), all'emancipazone delle donne [sic], ad "aprirsi all'altro". Lo spirito del Vangelo e' quello riassunto da NS stesso quando ha detto: "Cosi' anche voi, quando avete compiuto tutto quanto vi e' stato comandato, dite: Servi inutili siamo! abbiamo fatto il nostro dovere" (Lc 17,10). "Servare mandata", questo e' il vero spirito evangelico, si diceva in passato: mettere in pratica gli insegnamenti di Dio (verso noi stessi e gli altri), Dio che ci parla direttamente in NS e tramite gli Apostoli. Anche l'amor del prossimo e' "per amor di Dio" (non per la dignita'[?] del prossimo), e' attuazione di un comando divino. Come convincere l'uomo di oggi, corrotto com'e' dalla falsa scienza, dalla superbia e dai cattivi costumi, di queste verita'? Innanzitutto tornando a credere al vero spirito del Vangelo e poi proponendolo senza infingimenti, aggiornamenti,adattamenti, con la parola e l'esempio di vita (fede e opere). Al resto pensa lo Spirito Santo. Gli Apostoli, non facevano cosi'? E se non gli Apostoli, chi dobbiamo imitare, allora?
2. Mi sembra che lei restringa il campo d'azione di Cristo Re e Legislatore. Come ha sempre insegnato la Chiesa, NS e' Legislatore in tutti i sensi ed anzi nel senso piu' ampio, quello del legis-latore, fondatore di un'intera societa', terrena e sovrannaturale ad un tempo. Fonda la Chiesa, cominciando giustamente dai quadri, dagli Apostoli, dando loro norme, istruzioni, poteri, una gerarchia con a capo Pietro (per diritto divino). Fonda una societa' civile con le regole del matrimonio, della morale, del comportamento (Discorso della Montagna). Gli Apostoli furono del pari "legislatori-fondatori" come Lui, cio' risalta eminentemente in S. Paolo. Vuol quindi NS esser onorato come il Re-Legislatore, che ha fondato la societa' cristiana che deve attuarsi in questo mondo, presso tutti i popoli e per tutti gli individui, come intenzione, con la mediazione indispensabile della Chiesa da Lui fondata.
@ Silvio Brachetta [segue testo, in giornata, spero, se il direttore me lo consente].

mic ha detto...

Grazie Paolo, condivido.
Sto preparando qualcosa anch'io.
È importante approfondire. A me è stato utile per conoscere e accogliere sempre più il Signore.

Silente ha detto...

Ottimo testo. Riguardo al tema della democrazia, osservo: la Chiesa ha sempre fatto sostanzialmente propria la dottrina politologica "classica" che, ammettendo in via di principio la legittimità dei tre idealtipi di reggimento (monarchia, aristocrazia, democrazia), ha tuttavia espresso con Platone una preferenza per la monarchia e, con Aristotele, un orientamento per una prudente forma mista, opinione condivisa da Polibio e Cicerone che si riferivano alle istituzioni romane. San Tommaso, dopo aver analizzato le varie forme di costituzione, egualmente propendeva, nel De Regno per la monarchia.
Mai la Chiesa ha espresso una preferenza esclusiva ed escludente per la democrazia. Giustamente sottotitola Silvio Brachetta: "Democrazia forse, democratismo no". Le affermazioni magistrali, opportunamente citate dall'Autore, di Pio IX, Leone XIII, Pio X, Pio XI sono giustificate dall'ovvio, inevitabile conflitto che sorge tra democrazia e diritto naturale, tra "sovranità del popolo" (concetto confuso e ambiguo, se non ontologicamente sbagliato perché potenzialmente avverso alla Regalità sociale di N.S. Gesù Cristo e all'ordine naturale che è per definizione gerarchico) e dottrina morale.
Persino (sottolineo il volutamente provocatorio "persino") Giovanni Paolo II, nella Veritas Splendor, ammette (sottolineo l'altrettanto volutamente provocatorio "ammette") il rischio che presenta l'"alleanza tra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità".

Per un buon inquadramento della posizione della Dottrina sociale della Chiesa nei confronti della democrazia, considero ancora assai valido il testo di P. Raimondo Spiazzi, Democrazia e ordine morale, Morcelliana, Brescia 1959.

Paolo Pasqualucci ha detto...

@ Silvio Brachetta - La Regalita' di Cristo etc.

Bello studio, che a mio avviso ha soprattutto il merito di far conoscere la dottrina preconciliare e il suo rigetto del "democraticismo" oggi di moda (v. "Silente"). L'Autore mette giustamente in rilievo le parti del Concilio in accordo con la dottrina di sempre. Cio' non e' sufficiente, secondo me, a fugare i dubbi sull'effettiva continuita' del Concilio. Dati i limiti di tempo e spazio, non faro' un discorso organico ma indichero' alcuni punti a mio avviso meritevoli di un approfondimento critico. Si tratta di tre sezioni, che inviero' una alla volta, per evitare che mi salti tutto alla fine dell'intervento, come mi e' gia' capitato piu' volte.

A. L'Autore afferma che GS 36 riconosce la legittima autonomia delle realta' temporali, che non deve essere indipendenza dal Creatore. Tuttavia, osservo, l'art. 36 si trova nel cap. III della Gaudium et Spes (33-39), dedicato addirittura alla "attivita' umana nell'universo". L'art. 39 e ultimo del cap., ispirato a de Lubac, propugna nientemeno che la visione escatologica di una "Terra nuova e un cielo nuovo" a conclusione della'attivita' umana "nell'universo"[!]. Secondo me, c'e' una prospettiva millenaristica, che riprende lo spunto millenaristico presente nell'Allocuzione di apertura del VII di Giov. XXIII. Il "millenarismo", sappiamo, e' quella cattiva dottrina che auspica lo stabilimento del Regno di Dio in terra, una Citta' terrena perfetta, che andra' cosi' incontro a Cristo nel giorno del Giudizio. Un "Regno" spirituale, nella migliore delle versioni (millenarismo spirituale e mill. carnale). [SEGUE]

Paolo Pasqualucci ha detto...

B. IL DOVERE SOCIALE DEI CRISTIANI, ci ricorda il CCC 2105 e' quello di "rispettare e risvegliare in ogni uomo l'amore del vero e del bene"[frase retorica ed inane, a mio avviso]. Richiede loro di far conoscere il culto dell'unica vera religione che sussiste [unicamente] nella Chiesa cattolica ed apostolica". L'avverbio "unicamente" l'ho messo polemicamente io tra le quadre. Perche'? Perche' cosi' la continuita' con l'insegnamento di sempre sarebbe stata evidente, direi. Invece il testo resta incompleto ed ambiguo perche' sappiamo da altri testi del Vat. II che gli acattolici si trovano (si troverebbero) "incorporati in modo non pieno" alla Chiesa, che possiede essa sola "tutta la pienezza dei mezzi della salvezza" (Dichr. Unitatis Redintegr. 3). Cio' significa che, accanto alla salvezza "piena" offerta dalla Chiesa, esiste per il Concilio, una salvezza "non piena", quella offerta dalle comunita' acattoliche (eretiche, scismatiche) in quanto tali, visto che esse sono "incorporate alla Chiesa di Cristo in modo non pieno", cioe' senza la "piena comunione ecclesiale". Ci rendiamo conto della tesi pazzesca insufflata qui nei testi del Concilio, ai fini del "dialogo"? Se ne ricava l'esistenza di una salvezza piena ed una "non piena". E come? a meta'? a cottimo? temporanea? Se non fosse in ballo la salvezza delle anime, si dovrebbe dire che il pastorale e tumultuato Vat. II scade qui nel comico. Queste aberrazioni teologiche sono state rese possibili dal cambiamento della dottrina, ispirato dal nefasto card. Bea SI, il quale, annoto' Amerio (Iota Unum par. 246), "seguendo la sentenza comune, asseri' che i Protest. non sono staccati del tutto giacche' hanno il carattere del battesimo. Pero', citando dalla Myst. Corp. di Pio XII che 'sono ordinati [in voto] al mistico corpo' giungeva ad asserire che vi appartengono [errore evidente], e che percio' versano in una situazione di salvezza non diversa da quella dei cattolici (Oss. Rom. 27.4.1962). La causa dell'unione - continua Amerio - e' da lui ricondotta a esplicitazione di un'unita' [non piena] gia' virtualmente presente, di cui si tratta di prendere coscienza [...] Non quindi reversione degli uni agli altri [ritorno alla Chiesa] ma conversione di tutti al centro che e' [secondo Bea] il Cristo profondo". [Ultima parte domani. Grazie]

Paolo Pasqualucci ha detto...

C. IL SENSO DI TERMINI TRADIZIONALI E' STATO MUTATO DAL CONCILIO.

Questo e' un punto essenziale da tener presente. L'ho accennato a proposito del concetto di "legittima autonomia delle realta' terrene". Mi sembra risulti evidente con il termine "conversione", che appare impiegato nella direzione erronea indicata dal card. Bea.
Tale assurda idea di "conversione" la ritroviamo, a mio avviso, nel decr. Unit. Red., 7-9 gia' citato, paragr. che spiegano come attuare il vero "ecumenismo spirituale". "Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione" (UR 7.1). Quale "conversione"? Quella degli eretici e scismatici pentiti che abiurano i loro errori e ritornano all'unica vera Chiesa di Cristo, la Cattolica? Quando mai. "Infatti, il desiderio dell'unita' nasce e matura dal rinnovamento dell'animo, dall'abnegazione di se stessi e dal pieno esercizio della carita'" (ivi). Ma qui la carita' e' "umilta' e dolcezza nel servizio e fraterna generosita' d'animo verso gli altri" (ivi), dove "gli altri" sono gli acattolici, eretici e scismatici. La "conversione interiore" non e' quella degli acattolici, che i cattolici devono favorire con l'esempio di una vita veramente cristiana: e' quella dei cattolici, che devono andare incontro ai "separati" per realizzare con loro l'unita' (e quindi l'unione con il Cristo 'cosmico'). Per far cio' (per convertirsi al "dialogo" ecumenico) occorre riconoscere le nostre "colpe contro l'unita'"! Proprio cosi'.
"Anche delle colpe contro l'unita' vale la testimonianza di s. Giov. (1 Gv 1, 10): 'Se diciamo di non aver peccato, noi facciamo di Dio un mentitore e la sua parola non e' in noi". Percio' con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori" (ivi, 7.2).
Il richiamo a 1 Gv 1, 10 e' generico. Ci si vuol dire che dobbiamo noi cattolici considerarci peccatori, per aver peccato contro l'unita', e dobbiamo "chieder perdono ai fratelli separati". Tesi assurda. Ecco qui l'origine delle tante, continue e cervellotiche richieste di scuse della Gerarchia attuale. Quali colpe? Non sono stati loro ad andarsene, professando le eresie piu' incredibili e l'odio piu' feroce contro di noi? E le guerre di religione non le hanno cominciate i protestanti, gia' con il praticare l'iconoclastia, con la quale distruggevano tutti i segni e simboli del nostro culto? Anche quest'errore hanno riportato alla luce! UR 7 cita poi due volte S. Paolo, Ef 4 1-3, 23, che invita all'unita'nella pace. Ma s. Paolo si rivolge esclusivamente ai credenti, alla comunita' da lui fondata, che non ricomprendeva certo gli eretici. Il richiamo trae in inganno.[segue]

Paolo Pasqualucci ha detto...

D- CONCLUSIONE SULL'USO INGANNEVOLE DELLA TERMINOLOGIA TRAMANDATA.

Il discorso si e' allungato, cerco almeno di concludere su questo concetto di falsa "conversione". UR 8.1 ci illustra "l'unione nella preghiera". "Questa conversione del cuore [nel senso sopra visto] e questa santita' di vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l'unita' dei cristiani, devono esser considerate come l'anima di tutto il movimento ecumenico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale". E' chiaro che "l'unita' dei cristiani" intesa in questo modo non e' affatto conforme a quanto la Chiesa ha sempre insegnato, non si puo' accettare, va combattuta: il Concilio vorrebbe con essa farci servire due padroni, Cristo e Belial, la verita' e l'errore. UR 8 incita poi a pregare "con i fratelli separati" (8.3). E la "communicatio in sacris"? No, anzi si', pero' "prudentemente", a giudizio "prudente" dei vescovi, si capisce (8.4). Incita poi a conoscer meglio "i fratelli separati": "a questo scopo molto giovano le riunioni miste, con la partecipazione di entrambe le parti, per dibattere specialmente questioni teologiche, etc."(ivi, 9). Quanti hanno perso la fede, per colpa di queste "riunioni miste"? Il Concilio vuole da noi esattamente il contrario di quello che aveva ordinato di fare S. Giovanni, l'Apostolo della carita': "Chiunque va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non ha Dio; chi invece rimane saldo in tale dottrina, egli ha il Padre e il Figlio. Se uno viene da voi e non porta questa dottrina, non lo ricevete in casa, e non salutatelo. Perche' chi lo saluta, partecipa delle sue opere malvage" (2 Gv, 8-10). Simile ammonimento in S. Paolo, Rm 16, 17. L'uso anomalo ed ambiguo di un linguaggio apparentemente tradizionale compare anche nella Apostolicam Actuositatem. Non vi si parla mai di "conversione" ma di "dialogo"(termine nuovo) e si capisce perche', se la "conversione" deve intendersi nel senso che ho cercato di illustrare.
[Fine. Anche se non ho affrontato la AA, credo tuttavia di aver messo a fuoco dei punti importanti per la discussione sull'ortodossia del Vat. II].

Silvio Brachetta ha detto...

@ Paolo Pasqualucci: grazie per queste integrazioni. Più che integrazioni sono uno studio a parte. Davvero interessante. Me le salvo e le archivio.
Sì, evidentemente nei documenti conciliari vi sono prospettive più o meno nascoste.
Grazie anche a Franco e agli altri commentatori.
@ Maria: sono contento che Antonio Livi si sia espresso su una certa retorica che ha stufato tutti.

Paolo Pasqualucci ha detto...

@ Silvio Brachetta - Studio su AA

Sono contento che il mio contributo le appaia suscettibile di utili spunti ermeneutici. Spero in un prossimo futuro di indagare anche la AA, partendo dal suo saggio. Mi viene in mente che poco tempo fa, ho letto, ha cessato le pubblicazioni il mensile (o settimanale) dei Missionari e il direttore ha dichiarato che in pratica "la Missione" e' finita (cito a memoria). E per l'apostolato dei laici, le cose non stanno tanto meglio, direi. Cordialmente, PP