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giovedì 19 dicembre 2024

Incertezze in Siria dopo la caduta di Assad: cristiani e drusi temono l’ascesa jihadista

Le storiche minoranze religiose siriane rischiano di perdere sicurezza e autonomia di fronte alla frammentazione politica e alla minaccia estremista. Si rivela forte anche l'influenza turca, dagli interessi sui gasdotti alla connivenza con i Fratelli musulmani e che appare già pronta all'offensiva contro i Curdi... Qui l'indice dei precedenti.

Incertezze in Siria dopo la caduta di Assad:
cristiani e drusi temono l’ascesa jihadista


La nuova situazione in Siria, dopo la caduta del governo di Bashar al-Assad è segnata dall’incertezza e dalla frammentazione politica. In un contesto del genere, le comunità cristiane e druse, dopo anni di relativa stabilità sotto uno Stato laico, guardano il futuro con trepidazione, nel timore che l’avvento delle forze estremiste causi la perdita delle storiche garanzie acquisite.
In Siria le comunità cristiane rappresentano una parte fondamentale del tessuto sociale e culturale: la loro presenza millenaria comprende diverse confessioni come i greco-ortodossi, i siro-ortodossi, i maroniti e i cattolici romani. Lo stato centrale di Assad garantiva loro un contesto stabile, libertà di culto e sicurezza.
Il vuoto di potere odierno è causa di incertezza e di preoccupazioni crescenti. La possibile affermazione di gruppi islamisti radicali, già attestati in alcune aree, minaccia seri rischi per il delicato equilibrio interreligioso e i diritti delle minoranze.
Il parroco ad Aleppo, Padre Bahjat Karakach, ha confermato che la precedente stabilità dello Stato abbia costituito un baluardo contro l’intolleranza religiosa. Ma oggi è forte in molti cristiani il timore di perdere la sicurezza fin qui goduta, subendo la marginalizzazione se non la persecuzione.

Lo stesso discorso vale per la comunità drusa, storicamente concentrata nella regione montuosa di Jabal al-Druze. Essa, con credenze peculiari derivanti dall’Islam sciita ma sviluppatesi in modo indipendente, non si è mai schierata apertamente nelle tensioni politiche del Paese. Ed anche la sua neutralità viene messa a rischio.
Il problema è l'instabilità attuale, che rappresenta un terreno fertile per l’ascesa di gruppi jihadisti e della loro influenza in diverse regioni della Siria. La situazione non ha ancora provoato persecuzioni sistematiche, ma la loro crescente presenza è poco rassicurante per tutte le minoranze religiose.

Il rischio concreto per la Siria è la perdita del pluralismo che l’ha sempre contraddistinta. Per cristiani, drusi e altre comunità storiche, lo scenario attuale rappresenta un pericolo concreto: senza la garanzia di un governo centrale, il rischio di marginalizzazione, o peggio, diventa sempre più tangibile.

7 commenti:

Silente ha detto...

Assad ha sempre rispettato e difeso le molte minoranze religiose ed etniche della Siria: alawiti, sciti, cristiani delle varie confessioni, drusi, yazidi, curdi. Ora che una banda di tagliagole jihadisti, che si sono messi la giacca e la cravatta a favore di telecamere, ha preso il potere, sono già iniziate le rese dei conti: uccisioni per le strade, vendette personali, arresti. Assaltata la chiesa ortodossa di san Giorgio a Damasco, una famiglia cristiana ad Aleppo massacrata. I criminali musulmani hanno intimato ai cristiani di non allestire luminarie natalizie. Ma l'occidente liberal, progressista e anticristiano esulta per la caduta del "dittatore": evidentemente si è dimenticato dei massacri di cristiani di qualche anno fa, da parte delle stesse milizie jihadiste create da USA, Gran Bretagna e Israele, fermate allora solo per l'intervento liberatore delle forze russe e iraniane scese in campo a fianco dell'esercito regolare siriano. Sì, il generale iraniano Sulemaini, fatto assassinare da Trump, proteggeva i cristiani. Quando ora vedo la stampa mainstream esultare sgangheratamente per la caduta del "dittatore" Assad, penso allo stato d'animo delle famiglie cristiane di Siria, ora minacciate da un nuovo massacro da parte dei terroristi musulmani, pudicamente rinominati "ribelli", aiutati da un occidente complice, con l'entità sionista, della pulizia etnico-religiosa delle residue, millenarie comunità cristiane del Medio Oriente. D'altronde abbiamo l'esempio, recentissimo, della pulizia etnica dei cristiani armeni in Nagorno Karabakh ad opera degli azeri musulmani armati dai turchi: 120.000 cristiani costretti alla fuga, migliaia ancora prigionieri degli azeri, chiese antichissime distrutte, cimiteri profanati. Il tutto nel silenzio vile e complice dell'Europa e degli USA e della sua stampa menzognera.
Silente

Anonimo ha detto...

https://formiche.net/2024/12/elt-group-benigni-qatar-guerra-elettronica/#content

Anonimo ha detto...

Silente ha tratteggiato brevemente ed in maniera superba la dinamica e il nesso degli eventi bellici siriani e armeni. Un filo doppio, neppure tanto sottile, unisce una buona parte dell'Occidente, quello che potremmo definire "tossico", all'islamismo giocato come pedina in funzione anticristiana.

Anonimo ha detto...

https://www.youtube.com/watch?v=znvD68vVVqE

Anonimo ha detto...

La Russia ha una soluzione di riserva in Libia, paese che ha due dirigenti rivali, tra cui quello di Khalifa Haftar che controlla la Cirenaica e il Fezzan con l’appoggio dell’Esercito nazionale libico sostenuto da diverse potenze straniere, tra cui la Russia.
Mosca ha ottenuto la creazione di una base navale russa nel porto di Tobruk.
Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha affermato che la Russia stava "trasferendo risorse dalla sua base siriana a Tartous alla Libia, compresi i 'sistemi di difesa aerea' S-300 e S-400, trasportati da aerei cargo verso siti militari controllati dall'LNA. Mosca intende modernizzare il porto di Tobruk e avere accesso anche a quello di Bengasi.
La Russia può quindi mantenere la propria influenza nella regione e sostenere una presenza navale nell’area, dove gli Stati Uniti e altri membri della NATO hanno basi e navi da guerra.
La Russia non perde terreno disponendo di strutture militari nella Libia orientale, tra cui il porto di Tobruk che le permette di avere una vista “mozzafiato” della parte centrale [Catania è a 1.000 km] e orientale [Atene è a 650 km], o addirittura di installare una bolla di diniego e divieto di accesso suscettibili di ostacolare i movimenti della NATO

In Medioriente ha detto...

Così Netanyahu ha finanziato Hamas per affondare i due Stati /
Claudia Carpinella

26 Novembre 2024

Per ben 14 anni la politica di Netanyahu è stata quella di mantenere Hamas al potere. Anche se i fatti narrati dal 7 ottobre in poi menzionano raramente questo delicato aspetto si tratta, tuttavia, di un passaggio fondamentale per chiarire parte delle dinamiche del feroce conflitto in corso nella Striscia di Gaza. Occorre però tornare indietro nel tempo e analizzare quanto accaduto dal 2009 in poi, data in cui Benjamin Netanyahu ha ottenuto, per la seconda volta, la carica di Primo ministro d’Israele.

Riportiamo di seguito le analisi fatte da Adam Raz, storico israeliano e attivista per i diritti umani, citate sia da Haaretz sia da +972 magazine. Ebbene, Raz afferma che tra Netanyahu e Hamas ci sia stata “una stretta cooperazione”, grazie anche al sostegno di molti nella destra israeliana.

Divide et impera

La strategia di Netanyahu è stata, da un lato, sostenere il dominio di Hamas nella Striscia di Gaza, e dall’altro, indebolire l’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas (più noto come Abu Mazen). Fino al 2009, l’esercito israeliano, insieme all’AP, ha cercato di eliminare il potere del movimento. Poi però, Netanyahu ordinò di interrompere la cooperazione tra l’esercito di Tel Aviv e le forze di sicurezza dell’AP nella lotta contro Hamas. L’obiettivo, neanche troppo celato, era quello che Ehud Barak, ex primo ministro israeliano, ha spiegato lucidamente così: “La strategia di Netanyahu è mantenere Hamas vivo e vegeto per indebolire l’AP”, ossia l’unico vero organismo politico palestinese in grado di collaborare per la tanto sofferta soluzione dei due Stati.

Questo meccanismo si rafforzò ulteriormente negli anni successivi. Nel 2012, il Qatar iniziò a trasferire denaro ad Hamas, tramite bonifici bancari, anche se in quantità molto ridotte. Tuttavia, nel 2018, il presidente dell’AP, Abu Mazen, smise di trasferire fondi a Gaza, lasciando Hamas sull’orlo del collasso. In soccorso dell’organizzazione fondamentalista arrivò proprio Benjamin Netanyahu che “convinse il suo gabinetto ad approvare trasferimenti di denaro a Gaza, consistenti e soprattutto in contanti”, salvando, di fatto, Hamas. Da allora, prosegue l’analisi di Raz, “un’auto con valigie contenenti quasi 30 milioni di dollari è passata ogni mese attraverso il valico di Rafah”. Stiamo parlando di un arco temporale che va dall’estate del 2018 fino all’ottobre 2023.

Haaretz, però, avverte: “Sarebbe un errore supporre che Bibi, quando ha permesso il trasferimento di fondi, abbia agito pensando al benessere dei poveri e oppressi abitanti di Gaza, anch’essi vittime di Hamas”. Il suo obiettivo era quello succitato, ovvero “danneggiare Abu Mazen e impedire la divisione della Terra d’Israele in due Stati”. Fine che il Primo ministro ha perseguito in diversi modi. Oltre alla cospicua iniezione di contante proveniente dal Qatar, ma approvata da Netanyahu, dal 2018 il governo in carica, scrive Adam Raz, “ha autorizzato l’importazione di un’ampia gamma di beni, in particolare materiali da costruzione, pur sapendo che gran parte sarebbe stata destinata al terrorismo [nello specifico alla realizzazione e all’incremento dei tunnel sotterranei nella Striscia] e non alla costruzione di infrastrutture civili”.

Per oltre un decennio, dunque, Netanyahu ha contribuito consapevolmente alla crescita del potere militare e politico del suo nemico giurato. Tant’è, conclude lo storico, che Hamas, da organizzazione terroristica con poche risorse qual era, è divenuta un’entità semi-statale.

https://it.insideover.com/guerra/cosi-netanyahu-ha-finanziato-hamas-per-affondare-i-due-stati.html

Anonimo ha detto...

La Russia ha una soluzione di riserva in Libia
https://www.rferl.org/a/33247673.html