Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 29 maggio 2018

Crisi della Chiesa: "Linee di lettura filosofica di testi dell'attuale pontificato" di Giovanni Turco - Nota previa di P. Pasqualucci

Linee di lettura filosofica 
di testi dell’attuale pontificato 
Giovanni  Turco

Nota  previa: Pubblico qui, con il suo cortese assenso, l’originale italiano di un articolo del prof. Giovanni Turco, docente di Filosofia del diritto pubblico, Etica e deontologia professionale, Teoria dei diritti umani, nell’Università degli Studi di Udine. Il testo è già apparso in versione francese ne il “Courrier de Rome”, LI, n. 593, nov. 2016, con il titolo:  “Axes de lecture philosophique de textes du Pontificat actuel”.   
Questo importante articolo spiega a mio avviso in modo eccellente la “peculiare semantica” soggiacente all’inconsueto argomentare  di Papa Francesco, fonte di notorio ed ampio sconcerto per tantissimi fedeli, laici ed ecclesiastici.     

L’Autore fa innanzitutto vedere come Papa Francesco, nelle sue uscite da “dottore privato” ma anche nei suoi documenti ufficiali, riduca il concetto della  v e r i t à  a quello di una semplice “relazione pragmatica, esistenziale, vitalistica, in quanto originata dalla “vita” (senza aggettivi), da un “sé”, da una “situazione””.  Ragion per cui, “alla verità non risulta appartenere alcun contenuto proprio.  Non è ciò che misura ma ciò che è misurato (dalla relazione).  Perciò non è originaria e dirimente ma piuttosto derivata e diveniente. In tal senso ben si intende la tesi secondo la quale non esistono “verità assolute””; tesi attribuita al Papa (e da lui mai smentita) in una delle sciagurate sue interviste a Eugenio Scalfari.
La verità viene pertanto “assimilata alla vita, non è il suo criterio”.  Questa nozione di verità “assimilata alla vita” è chiaramente incompatibile con la nozione di verità rivelata da Dio stesso mediante il Verbo Incarnato e pertanto immutabile (come ad esempio l’indissolubilità del matrimonio, valida ai tempi di Gesù come ai nostri, proclamata dal Signore senza sfumature di sorta). 
Non per nulla – ricordo – la riduzione della verità alla “vita”, ossia all’esperienza cosiddetta “vitale” del soggetto, sentimentale ed emotiva, la troviamo nel pensiero di Maurice Blondel e nella mentalità modernista, da lui influenzata, della quale costituisce un tratto tipico. Come rammentava il grande teologo domenicano P. Réginald Garrigou-Lagrange in un celebre articolo apparso in francese nel 1946 nella rivista ‘Angelicum’ (“Dove va la nuova teologia? Essa ritorna al modernismo”), il Sant’Uffizio nel 1924 condannò dodici proposizioni tratte dalla filosofia di Blondel, tra le quali appunto quella concernente la sua nozione della verità quale “conformità di mente e vita” e non più conformità razionale dell’intelletto con la cosa indagata (adaequatio rei et intellectus); come se la verità dovesse ora ritenersi un significato sempre in fieri, funzionale all’azione, alla “vita” in continuo progresso e movimento.  

Questo concetto del vero, sostanzialmente irrazionale, anche a causa del carattere indeterminato del concetto di “vita”, influisce inevitabilmente su quello del “giudizio morale”, come propugnato da Papa Francesco: in antitesi alla vera cognizione cattolica dello stesso, esso viene di fatto ad esser del tutto soggettivo perché affidato soprattutto al sentire della coscienza individuale (vedi ‘Amoris Laetitia’ § 303-305, con la famigerata nota n. 351, richiamati espressamente dall’Autore). Pertanto, dal discorso bergogliano risulta che “non vi sarebbe [più] per ciascuno il dovere morale di cercare la verità e di cercare Dio.  Ma unicamente ciascuno avrebbe il dovere di essere coerente con se stesso, cioè di conformarsi alle proprie credenze, dal momento che ‘ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce’. Dovrebbe, quindi, escludere di verificare la bontà delle premesse delle proprie azioni.  Viceversa dovrebbe assecondare la propria opinione dell’agire e dei fini che egli ha in vista. La coscienza avrebbe, allora, come misura la coscienza stessa”.  
In quest’ottica, sottolinea l’Autore, diventa “incomprensibile lo stesso appello evangelico alla  c o n v e r s i o n e” ed il male e il peccato “consisterebbero nell’incoerenza soggettiva, nell’infedeltà a se stessi” mentre “l’azione avrebbe in se stessa la sua verità etica”, ormai priva del punto di riferimento rappresentato dalla norma inderogabile costituita dalla verità rivelata, mantenuta nei secoli dall’insegnamento costante della Chiesa.

Corollario grave quanto inevitabile di quest’impostazione soggettivistica, mirante a far scaturire il principio e criterio dell’azione dall’azione stessa, dal  f a r s i  della nostra esperienza vitale, è (in ‘Amoris Laetitia’) una rappresentazione dell’ordine morale  in termini alquanto vaghi, solo come “proposta generale del Vangelo”. “Senza ulteriori precisazioni – specifica il prof. Turco – ossia senza indicare se si tratta di precetti o consigli, se si tratta della legge naturale o di esigenze teologali. Mentre va ricordato che la morale coniugale afferisce anzitutto all’ambito – razionalmente conoscibile – dell’etica naturale.  Moralmente vincolante, quindi, per ogni essere umano (in termini di giustizia), anche per coloro i quali ignorano il Vangelo”. La disastrosa insufficienza della visione bergogliana appare inoltre dal fatto che, sempre in ‘Amoris Laetitia’, l’ordine morale viene in pari tempo posto come “ideale oggettivo” di difficile attuazione, ragion per cui il testo propone addirittura la tesi, che giustamente ha suscitato tanto scandalo, “secondo la quale vi può essere una incolpevolezza soggettiva in una ‘oggettiva situazione di peccato’, tale da renderla addirittura compatibile con la vita di grazia [sic]” (‘Amoris Laetitia’ § 305, cit.).   
L’Autore dedica infine una accurata analisi ai quattro presupposti di fondo della visione complessiva di Papa Francesco, esposti nella sua prima Esortazione apostolica, ‘Evangelii gaudium’ § 221, e ripresi nei documenti successivi:  “il tempo è superiore allo spazio”; l’unità prevale sul conflitto”;  “la realtà è più importante dell’idea”; “il tutto è superiore alla parte”.

Il prof. Turco dimostra che si tratta di veri e propri postulati, la cui legittimità non viene dimostrata in alcun modo, con nessun tipo di discorso argomentato: essa viene semplicemente presupposta.  

Tradotti in pratica, essi significano (primo presupposto) che l’azione della Chiesa deve “avviare processi più che occupare spazi” ovvero promuovere “nuovi dinamismi”, capaci di svilupparsi nel tempo.  E tanto basta, non occorre cercare di organizzarli in uno “spazio” concreto e sostenibile dal punto di vista sociale, territoriale, economico, politico, storico (come, osservo, facevano invece gli Apostoli, i quali fondavano comunità cristiane e chiese locali non per annientare la società pagana afflitta da gravi problemi e ingiustizie bensì per migliorarla lentamente dall’interno attraverso la conversione dei cuori a Cristo). 

Il secondo presupposto comporta la ricerca costante dell’unità tra le forze che si combattono ma imponendo ai conflitti il principio di solidarietà senza sfumature, in modo da ottenere “una pluriforme unità che genera nuova vita” (‘Evangelii Gaudium, § 228). Osservo che, sulla base di questo astratto e utopistico modo d’intendere “l’unità”, Papa Francesco predica l’accoglienza indiscriminata dei cosiddetti “migranti”, del tutto indifferente all’esistenza di spazi e risorse adeguate e più in generale del rapporto proporzionato che, secondo il senso comune, deve pur darsi tra mezzi e fini. Né sembra preoccuparsi affatto del grave conflitto di civiltà provocato da quest’accoglienza massiccia e indiscriminata di popolazioni non solo a noi estranee per mentalità e cultura ma persino ostili, a causa soprattutto della loro religione, che è quella di Maometto.

Che la realtà sia “più importante dell’idea” è affermazione del tutto generica e in se stessa ingiustificata, comunque funzionale al primato della prassi, dell’azione il cui “dinamismo” deve imporsi su tutto e tutti, propugnata da Bergoglio. 
Similmente, il dictum secondo il quale “il tutto è superiore alla parte”, più che riflettere problematiche aristoteliche, appare sempre concepito in funzione della “relazione operativa tra il tutto e la parte”, in modo da far prevalere il tutto sulla parte. “Il ‘tutto’ -  spiega il prof. Turco -  qui appare come il complesso e il contesto.  Non è il tutto come un “qualcosa”, come ciò che fonda e dà sostanza alle parti.  Non è il tutto come bene rispetto al quale è ordinato il bene delle parti. È il tutto come trama di relazioni, come struttura totale.  Ed è il tutto come unità di obiettivo.  In tal senso è indicato come un ‘bene più grande’.  In questa chiave, il tutto finisce per assorbire le parti”. Questo conclamato prevalere del tutto sulle parti è, a mio avviso, da mettere in relazione alla visione sociale o comunitaria del cattolicesimo messa in cantiere da Henri de Lubac SI, uno dei padri della “nuova teologia”,  che cercava di introdurre in qualche modo l’idea ereticale di una salvezza collettiva del genere umano, nella sua al tempo celebre opera ‘Catholicisme’ (1935), messa giustamente all’Indice. Quest’idea bislacca di una salvezza collettiva ritorna oggi nell’idea errata ma diffusa (perché la si è lasciata diffondere) di una salvezza garantita a tutti gli uomini già dal fatto dell’Incarnazione del Verbo, il quale, secondo il noto e famigerato passo di ‘Gaudium et spes’ 22.2, “ con l’Incarnazione si è in certo modo unito ad ogni uomo”! 

Dall’accurata ed esauriente analisi del prof. Turco si viene confermati nell’impressione che, nella visione complessiva di Papa Francesco, vi sia pochissimo spazio per la  prospettiva soprannaturale intrinseca al cristianesimo (la salvezza eterna individuale delle anime) e ciò in modo assai più marcato rispetto ai suoi predecessori, da Giovanni XXIII in poi, che pur non hanno abbondato in questa direzione.  
Dio, per il Papa, sottolinea il prof. Turco, “si trova nel tempo”, vale a dire “nei processi in corso”, all’interno della storia e in particolare nelle “azioni che generano dinamiche nuove”:  un taglio interpretativo che sembra pencolare sgradevolmente verso una forma di immanentismo che scorge il divino in ogni emergere del Nuovo nei processi sociali di massa.
[Paolo  Pasqualucci]
* * *

Sommario:  1. Un problema essenziale.  2.  La posizione nei confronti della verità.  3.  Il problema del giudizio morale.  4. I presupposti di fondo.  5.  Conclusione.

1. Un problema essenziale

La stagione storica aperta con l’elezione al soglio pontificio di Jorge Mario Bergoglio presenta una patente originalità ed al contempo, anche solo di primo acchito, segnala i caratteri di un epilogo. Di modo che se parole, gesti ed atti, possono apparire ai limiti dell’incomprensibilità, d’altro canto vi si profilano i tratti di un approdo (a suo modo coerente) di premesse (nel campo delle tendenze, delle tesi e dei fatti) prossime e remote. In tal senso le linee di fondo (considerate sotto il profilo filosofico e teologico) dell’attuale pontificato ne indicano non solo un carattere, semanticamente, “di eccezione”, ma a suo modo una connotazione “epocale”. Dove appunto l’eccezionalità ed epocalità non solo non si escludono, ma rinviano l’una all’altra, dove la prima informa la seconda e la seconda dilata la prima, ed entrambe si configurano come tali da aprire alla stessa comprensione della sua singolarità.

Il mancato riconoscimento di tale obiettiva configurazione non può non ostacolare una analisi che voglia andare in profondità. Anzi, ancor prima, che non voglia limitarsi a restare in superficie e perciò autocollocarsi nella vacuità. L’interdizione della contezza franca e schietta dei dati essenziali o la loro volontaria epochizzazione si rivelano (come in ogni questione) delle preclusioni pregiudiziali. Tali atteggiamenti configurano – quali che ne siano le intenzioni – una di chiusura nei confronti della verità, che si concretizza in un “non volere vedere” o in un “non volere andare a fondo”. Ciò che eventualmente palesa una condizione nella quale l’affettività fa velo alla razionalità, e la rappresentazione (fatta propria) prende il posto dell’intellezione (da conseguire).     
A ben vedere, la novità che connota la linea intellettuale del pontificato non è circoscrivibile ad aspetti determinati, ma ne attraversa sostanzialmente i diversi momenti: gli atti e i testi, i gesti e le dichiarazioni. Sicché una analisi che si limiti a isolarne alcuni dati, o che non sia in grado di cogliere il rilievo sintomatico di alcuni o il comune denominatore che li attraversa, non semplicemente risulta monca, ma si autopreclude l’essenziale. Impedisce a se medesima, cioè, di cogliere il nesso ed il fondo che consente – per così dire – di “annodare i fili sparsi”.

D’altra parte, come è chiaro che i problemi teologici presuppongono quelli filosofici (fin dalla intelligenza dei praeambula fidei e dei concetti necessari per pensare i dati della Rivelazione) così le discussioni in materia di fede trovano le loro premesse in tematiche filosofiche, che ne costituiscono come il quadro (euristico) e lo sfondo (concettuale). In modo da precedere (logicamente) la stesse risposte teologiche. Come, in definitiva, si è verificato per le tesi capitali del Protestantesimo, nel quale il soggettivismo religioso e l’arbitrarismo divino ne indicano già in principio il destino intellettuale. Tale è stato il caso, emblematicamente, della crisi modernista.

In altri termini, l’indagine filosofica, se coglie le premesse comuni a tesi apparentemente disparate, può offrire la possibilità di intenderne la traiettoria internamente cogente. Sicché, là dove l’omogeneità del disegno di fondo non è ravvisabile attraverso la composizione di singoli elementi, esso può risultare nitido attraverso la penetrazione del tessuto concettuale connettivo che ne fissa i confini. Questo appare identificabile, cioè, piuttosto che attraverso particolari proposizioni, mediante una linea comune, che ne sorregge l’impianto e ne ispira gli svolgimenti.

In questa prospettiva, la linea intellettuale che attraversa gesti, atti e testi, a partire dalla rinuncia di Benedetto XVI, esige, prima ancora che una analisi teologica, una analisi filosofica. In assenza di una analisi propriamente teoretica, che ne faccia emergere l’ubi consistam, l’indagine propriamente teologica rischia di considerare isolatamente una molteplicità di sentieri – tutti, indubbiamente, meritevoli di attenzione – e di doversi confrontare, comunque, col problema di ricondurli ad una sintesi capace di fornire un quadro unitario.

Tale riflessione si rivela ardua, non solo per la concentrazione intellettuale che essa richiede, ma anche per l’attenzione indagativa che le occorre. Lo sguardo essenziale su tali argomenti presuppone, infatti, almeno due condizioni preliminari e coestensive. La prima consiste nel considerare ut sic il proprio oggetto, ovvero nel considerarlo nella sua consistenza propria. In altri termini, si tratta di “prendere sul serio”, fino in fondo, le proposizioni attraverso le quali emerge una linea di pensiero, senza sovrapporre ad esse interpretazioni più o meno accomodanti (adattattive o integrative), tali da mutarne la sostanza del significato. In tal caso, infatti, la semantica propria ed originaria (dei termini come veicolo del pensiero) finisce per essere sostituita da una rappresentazione interpretativa, la quale giunge ad assumere una funzione surrogatoria o giustificatoria, ma, nondimeno, oggettivamente, mistificatoria. Per se stessa, infatti, una interpretazione che abbia la pretesa di assimilare un testo ad un giudizio atteso o presupposto (rispetto alla natura del testo medesimo) non è “più benevola”, ma semplicemente deformante.

L’altra condizione (parimenti preliminare e coestensiva) richiesta da tale analisi consiste nel pensare ciascuna proposizione (di qualsivoglia testo) in modo conforme a se medesima. Si tratta, cioè, di intenderla “dall’interno”, ovvero conforme all’universo di discorso che essa esprime, e non ad altro. Badando in particolare a che la sinonimia non sia, frettolosamente, assimilata alla omologia (come è indispensabile distinguere, in ogni caso, tra grafemi e semantemi). Tale condizione costituisce null’altro che uno svolgimento della precedente.       
     
L’analisi che segue prescinde completamente da ogni giudizio sulle intenzioni di chicchessia. Come non vuole concludere ad alcun giudizio che si riferisca a persone. Prescinde, quindi, deliberatamente, da ogni considerazione relativa al foro interno e a tutto ciò che ne deriva (direttamente o indirettamente). Per sua natura, infatti, l’analisi di testi pubblicati, riguarda per se stessa il pensiero formulato attraverso i testi medesimi. Questi, in se medesimi, sono tali, infatti, da offrirsi all’attenzione di ogni possibile lettore. Tale analisi presuppone, quindi, serenità di concentrazione, avendo come obiettivo solo le esigenze proprie di una autentica ricerca.        

2. La posizione nei confronti della verità

In ogni campo del pensiero l’attitudine nei confronti della verità è decisiva. Lo è non solo da un punto di vista intellettuale, ma anche da un punto di vista morale. Sotto il primo profilo la considerazione della verità è rivelativa del rapporto del pensiero all’essere e della relazione interna al pensiero stesso tra atto e contenuto. La priorità del pensiero sull’essere, come quella dell’atto sul contenuto riduce la verità a risultato di un’attività sempre in divenire, ovvero la svuota di consistenza propria. Diversamente la fondatività dell’essere, ed analogamente del contenuto rispetto all’atto, fa emergere la priorità della verità, come sostanza e come criterio.

Sotto il secondo profilo (morale) l’attitudine nei confronti della verità è decisiva di quella nei confronti del bene, ovvero nei confronti di tutto l’ordine morale. Il primato della verità corrisponde al primato del fine, e quindi del bene. Tale primato comporta – come già osservava Platone – che sia la verità a giudicare, piuttosto che essa sia oggetto di giudizio.

Altrimenti la verità si converte nell’effettività, nella relatività, nella preferibilità. Ne deriva la sua subordinazione ad una funzione, quale che sia. Talché la verità si muta in strumentalità (quali che ne siano le intenzioni). Ed in ultima istanza si profila il primato della prassi (eventualmente, anche nel caso della prassi pastorale), per cui la prassi si afferma (esplicitamente o implicitamente) come giudizio della verità. In tal modo la verità è sottomessa al potere (anche nel caso del potere dell’interpretazione e dell’interpretazione del potere) fine a se stesso. Non più misura del potere, ma suo prodotto, per sé mutevole e provvisorio, come ogni prodotto. Con il conseguente annichilimento (assiologico) del significato stesso della verità.

Ora, al fine di riflettere sulla posizione nei confronti della verità che caratterizza il fondo e lo sfondo della linea intellettuale bergogliana, si palesano di notevole interesse alcuni testi, diversi certamente per indole propria, ma innegabilmente rivelatori per la tematizzazione e fondamentalmente omogenei per l’impostazione. Anzi, a ben vedere, tali da contribuire, reciprocamente, l’uno ad esplicitare l’altro. Tra i diversi interventi a riguardo possono essere segnalati come emblematici almeno i seguenti: la lettera pubblicata dal quotidiano “Repubblica” l’11 settembre 2013, l’intervista concessa ad alcuni giovani belgi (31 marzo 2014), l’omelia pronunciata durante la messa nella cattedrale cattolica di Istanbul (29 novembre 2014), l’enciclica Evangelii gaudium e l’Esortazione Amoris laetitia.

Nel corso della lettera inviata ad Eugenio Scalfari, in risposta ad alcuni quesiti formulati dal fondatore di “Repubblica”, in riferimento alla questione della verità papa Bergoglio scrive: «io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive ecc. Ciò […] significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita».

Altresì, di fronte alla domanda, posta da una giovane belga, relativa al modo di parlare della fede per testimoniarla adeguatamente, papa Bergoglio ha dichiarato: «se tu vai con la tua fede come una bandiera, […] e vai a fare proselitismo, quello non va. La strada migliore è la testimonianza, ma umile: “io sono così” […] La testimonianza: questa è la chiave, questa interpella. Io la dò con umiltà, senza fare proselitismo».

Considerando, inoltre, la funzione propria dello Spirito Santo (particolarmente in prospettiva ecclesiologica) viene affermato (nell’omelia pronunciata nella cattedrale di Istambul) che lo Spirito Santo «non riempie tanto la mente di idee, ma incendia il cuore». Nello stesso contesto è detto che lo Spirito Santo «scombussola, […] smuove, fa camminare […] Egli è freschezza, fantasia, novità».  
D’altra parte, in Evangelii Gudium (232) si legge che «L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità». Parimenti nello stesso testo si dichiara che «la realtà è superiore all’idea» (233) e che vi è il rischio di «una razionalità estranea alla gente». 
Analogamente in Amoris laetitia emerge una considerazione «in ordine a tenere i piedi per terra» (6). Il medesimo testo pone in guardia da una «morale fredda da scrivania» (312). Al contempo vi è asserito che «la Parola di Dio non si mostra come una sequenza di tesi astratte, bensì come una compagna di viaggio» (22).

I testi segnalati risultano esemplari nel loro genere e rappresentativi di molteplici altri analoghi. La loro sequenza ed il loro confronto lungi dal segnalare discontinuità, appare rivelativo dello svolgimento di una medesima impostazione, che si esplicita e si rivebera variamente lungo uno stesso asse.

Tali testi non solo attestano la continuità di una attitudine intellettuale, ma si esprimono altresì con un medesimo linguaggio. Un linguaggio che si mostra alieno dalla perspicuità dei concetti, per modularsi attraverso l’evocazione delle situazioni: che non si palesa mirato ad enucleare principi, ma a rappresentare condizioni che si proiettano sullo schermo di altrettante rappresentazioni (psicologiche o sociologiche).

A ben vedere, le proposizioni segnalate appaiono suscettibili non di molteplici interpretazioni, ma solo di una intelligenza capace di capirle proprio attraverso le espressioni che le caratterizzano. E non altrimenti. Risultano, cioè, intelligibili a condizione che se ne assuma la peculiare semantica, inconfondibile con quella del pensiero classico, ed estranea a quello scolastico. Diversissima, peraltro, da tutta la inveterata e consolidata formulazione del magistero ecclesiastico. 

Gli interventi menzionati, peraltro, possono trovare riscontro in molteplici altri analoghi, oltre che in atti e gesti che ne rendono in certo modo “visibile” il significato. D’altra parte, la nettezza che li caratterizza sollecita a ricondurre alla prospettiva che vi si palesa, anche altri testi apparentemente difformi.

Dal complesso dei testi surriferiti emerge che la verità consiste in una relazione, deriva da una relazione, mai sta senza relazione. Come tale essa non è il criterio della relazione, ma il prodotto della relazione. Non distingue tra relazione e relazione, ma dalla relazione sorge ed in essa rifluisce. In tal senso, la verità, proprio in quanto originata dalla relazione, non può che essere relativa.

La relazione qui non è l’adeguazione, ovvero la conformità alla realtà: non è la classica adaequatio rei et intellectus (di cui è misura l’essere della cosa o dell’azione, oppure il suo stesso autore). L’adeguazione, infatti, è il “che cosa” della verità, è il suo contenuto. Deriva dalla realtà cui essa è conforme, e da cui è misurata intrinsecamente.

Ma non solo. Va aggiunto che nella prospettiva considerata la relazione donde è asserita scaturire la verità non è una relazione intellettuale (che si rapporta a ciò che è), neppure risulta una relazione definita dalla volontà come esito di una deliberazione. Piuttosto si tratta di una relazione pragmatica, esistenziale, vitalistica, in quanto sarebbe originata dalla “vita” (senza aggettivi), da un “sé”, da una “situazione”.

Alla verità, perciò, non risulta appartenere alcun contenuto proprio. Essa non è ciò che misura, ma ciò che è misurato (dalla relazione). Perciò non è originaria e dirimente, ma piuttosto derivata e diveniente. In tal senso, ben si intende la tesi secondo la quale non esistono “verità assolute”. Cioè non esistono – secondo questa prospettiva – verità la cui sostanza consiste nell’essere vere, indipendentemente da ogni altra considerazione (e da chiunque le riconosca). E come tali valide, assolutamente, ovvero proprio in quanto vere – in qualsivoglia campo dello scibile – indipendentemente da ogni condizione estrinseca.

Come non è arduo inferire (al di là di qualsiasi riferimento alle intenzioni), la negazione della “verità assoluta” comporta  per se stessa la negazione della verità in quanto tale. Ogni verità, infatti, proprio perché verità, è assoluta, anche se attesta qualcosa di contingente. Lo è, perché determinata dal suo oggetto. Lo è, in quanto si fonda sulla realtà, che è ciò che è (o che si è data come si è data). Lo è, in quanto la verità null’altro è se non la realtà in quanto è conosciuta. Lo è, in quanto ciascuna cosa è vera poiché è e per ciò che è. Lo è, in quanto ciascuna cosa o azione è determinata nella sua natura (ed in ciascun suo aspetto), indipendentemente da qualsivoglia gradimento. Lo è, insomma, in quanto la verità logica fa agio sulla verità ontologica. Diversamente neppure potrebbe distinguersi dall’opinione. Diversamente neppure potrebbe affermarsi di Dio che è vero, anzi è la Verità. Tale verità, infatti, non può che essere assoluta, ovvero indipendente da qualsiasi relazione, in quanto identica all’essere stesso di Dio.

D’altra parte, l’identificazione tra la verità e “l’amore di Dio”, riduce (contraddittoriamente, giacché anche questo finirebbe per essere una verità “assoluta”) il campo della verità – che per se stesso ha gli stessi confini dell’essere – ad un solo dato. Al di là dell’amore di Dio, cioè, non vi sarebbe alcuna verità. Di conseguenza, in ogni altro campo dello scibile, opinione e verità resterebbero indiscernibili, apparenza e realtà sarebbero indistinguibili, soprattutto errore e verità non potrebbero essere dirimibili. Insomma, tutto il sapere – che senza la verità non ha alcun significato – (eccetto il dato dell’“amore di Dio”) resterebbe privo di verità e perciò privo di consistenza. Il campo del sapere, come il campo dell’essere, privo di verità, sarebbe, di necessità, indeterminato ed indecidibile.

Inoltre, la verità risulterebbe assimilata alla vita. Non il suo criterio. Non la ragione ed il fine del suo cammino. Ma il cammino stesso. La verità colta a partire da se stessi, risulta immanente a se stessi. Non come ciò che illumina se stessi, ma come ciò che deriva dalla relazione con se stessi e col mondo. La verità, infatti, può illuminare – sia sotto il profilo intellettuale sia sotto quello morale – solo a condizione di trascendere se stessi. Ma se essa consiste nella relazione endogena (nell’origine) ed esogena (nella condizione), coincide con la relazione con se stessi o meglio, con il sé che risulta dalla relazione-situazione.

La verità si riduce, così, ad una autoproiezione. Ad un effetto della relazione (psicologica e/o sociologica). La verità diviene un effetto situazionistico, un prodotto dell’interazione del soggetto. Risulta indistinguibile dalla rappresentazione (individuale o sociale), dalla fenomenologia delle pulsioni e dei bisogni, dall’immagine proiettata a partire da se stessi di un intorno che finisce per essere intrascendibile (come intrascendibile è assunto l’io stesso nella sua attività e nella sua empiricità). Assunte tali premesse, la verità appare evacuata in se stessa, e resa impensabile in se medesima.

Congruente rispetto a tale posizione risulta la tesi secondo la quale l’argomento migliore a sostegno della fede sia la testimonianza. Una testimonianza identificata con l’esserci del vissuto (“io sono così”), che non solo non dimostra ma neppure si mostra. In questa prospettiva, l’esistenza precederebbe (sia pure sotto il profilo della prassi pastorale) l’essenza. Anzi, l’essenza (la sostanza del Cristianesimo), in fondo, resterebbe un “oltre”, una sorta di noumeno. Di più. Non vi sarebbe, quanto all’esperienza, se non da proporre “l’esistenza” (“io sono così”). Ogni rinvio all’essenza (al “perché”), sarebbe assimilabile ad una forzatura dell’esistenza. Ogni esigenza di rendere ragione si configurerebbe come una forma di controllo dell’altro. L’istanza di “rendere ragione” in rapporto all’atto ed al contenuto della fede (quindi relativa al suo ubi consistam) dovrebbe cedere il passo a ciò che “interpella”, ovvero che suscita attenzione, insomma al suo riflesso psicologico. Al di qua della naturale esigenza di valutazione.

In questi termini, l’apostolato (sia propositivo sia argomentativo) non appare distinguibile dal proselitismo. Offrire ragioni per accogliere la fede, e per illustrare le “cose” da credere, sperare e praticare, andrebbe certo al di là del puro “io sono così”. Non vi sarebbe se non l’alternativa invalicabile tra “io sono così” e “proselitismo”. In entrambi i casi, non si può non osservare che tanto l’“io sono così” quanto il “proselitismo” non sono tali in dipendenza di un contenuto. Tanto l’uno quanto l’altro, infatti, possono avere qualsiasi contenuto. Non vengono considerati per il “che cosa”. In questa chiave, alla domanda: “perché così?” non potrebbe che seguire come risposta: “perché così!”. Cioè non potrebbe esservi altra risposta dell’indicazione del “così”. La risposta finirebbe per essere irrilevante o addirittura nociva. Alla domanda “perché proseliti?” la risposta dovrebbe essere interdetta, ancor prima di entrare nel merito.

Lungo una medesima traiettoria si colloca l’affermazione secondo la quale lo Spirito Santo piuttosto che “Spirito di verità” va inteso come “Spirito di entusiasmo” (“non riempie tanto la mente di idee, ma incendia il cuore”). Se ne dovrebbe concludere, quindi, che incendierebbe “il cuore” a prescindere dalle “idee in mente”. Il “cuore”, qui, rende indistinguibile volontà e sensibilità. Esse appaiono, implicitamente identificate o almeno omologate. Entrambe, però, potrebbero (dovrebbero?) prescindere dalla razionalità, ed ancor prima dall’intelligenza. Lo Spirito Santo, scaldando il “cuore”, (avendo, cioè, principalmente tale funzione) lo presupporrebbe indifferente alle “idee”. In fondo lo presupporrebbe autocentrato.

Di conseguenza, la stessa azione dello Spirito Santo sarebbe qualificabile non dal contenuto (dal “che cosa” compie), ma dall’operatività, o meglio dalla modalità operativa: “scombussolare”, “smuovere”, “far camminare”, giacché in se stesso sarebbe “fantasia” e “novità”. Si tratterebbe di un’attività non qualificata dal fine, ma dal suo darsi, dal suo divenire. In tali azioni, infatti, non vi è traccia di finalità: si può “smuovere” per il bene o per il male, una “novità” può essere fruttuosa o esiziale, si può “camminare” verso il miglioramento o verso il peggioramento, come una “fantasia” può essere innocente oppure morbosa. Altrimenti ogni “scombussolamento”, come ogni “novità”, sarebbe necessariamente un bene. Ciò che è contraddetto dalla più comune esperienza e da ogni autentica riflessione. 

A loro volta le “idee”, piuttosto che intese come l’eidos (ovvero il principio) o come gli esemplari (o imitazioni dell’essenza divina) pare siano piuttosto da intendersi come rappresentazioni o come costruzioni dell’individuo o del gruppo. Pertanto, non qualificate dal valore cognitivo, ma dall’origine o dalla funzione. Ogni “idea”, quindi, finirebbe per essere una sovrapposizione rispetto al suo oggetto, piuttosto che la penetrazione della sua natura. Avrebbe, in definitiva, lo scopo di “dominare” piuttosto che quello di conoscere. E proprio per questo non sarebbe misurata dalla verità intrinseca, ma dal rapporto estrinseco con le situazioni. La “realtà”, infatti, non appare intesa come corrispettivo della sostanzialità, ovvero del “che cos’è”, degli enti. Essa appare assimilata, piuttosto, all’effettività, cioè al complesso degli effetti. In tal modo la realtà non si distingue dall’accidentalità, il “che cosa” non si distingue dal “come” e dal “qui ed ora”. L’essere finisce per coincidere con la presenza (efficace) e con l’esistenza (fattuale).

L’idea “staccata dalla realtà” finisce per essere una costruzione almeno in certo modo anoperativa (“non coinvolgente”). Che non assume come decisiva la situazione e che non interagisce con questa. Il rapporto tra “idea” e “realtà” appare estrinseco, anche là dove la prima è “attaccata” alla “realtà” (cioè alla situazione). Sicché ciò che rileva per una “idea” non è la verità, ma tale rapporto situazionale-operativo: in sostanza la sua capacità di produrre risultati. Ben si intende, che il torto dell’idealismo e del nominalismo (indicati al plurale, perciò assunti secondo una formalità attitudinale ipostatizzata) non sarebbe il difetto di capacità esplicativa (cioè di rendere ragione) sotto il profilo teoretico, ma la loro “inefficacia” o la loro incapacità a “coinvolgere”. Secondo questa impostazione, quindi, si può inferire che le tesi (quale che ne sia il contenuto) che producono risultati (effettuali) trovano in questi, e non nella loro sostanzialità conoscitiva, la loro qualificazione positiva. In fondo, le “idee”, in quanto tali, appaiono intese al modo delle ideologie. Non dei principii e delle idealità, né dei giudizi e dei ragionamenti, i quali, per se stessi, sono o veri o falsi. Come tali si configurano come assunzioni o come presupposti, oppure, come strumenti di giustificazione o di cambiamento dell’esistente. Al di là della considerazione sostanziale del loro valore intrinseco.

In questo senso si può intendere l’espressione secondo cui il nominalismo sarebbe “formale”, mentre, in quanto tale, non può che essere empiristico (per cui, cioè, non vi è altra realtà se non quella del singolare). Nonché quella secondo cui l’oggettività è “armoniosa”, mentre in se stessa non può che essere determinata (dal suo stesso oggetto, appunto). Parimenti si può intendere l’espressione secondo la quale si può “manipolare la verità”. A rigore, infatti, la verità può essere solo intesa (o altrimenti respinta). Diversamente, solo può essere manipolata, cioè falsificata, l’informazione (come prassi e prodotto di una prassi). In tal modo verità e comunicazione risultano implicitamente assimilate, di modo che la prima consisterebbe nella seconda. Analogamente, la razionalità viene indicata per la sua collocazione funzionale, espressa da una prossimità di efficacia: l’essere “vicina” o “estranea” dalla “gente” (che, per sé, è termine generico ed approssimativo). Non è, quindi, considerata tale in quanto autentica in rapporto all’essere ed al pensiero (quindi conforme a se medesima, tanto sotto in profilo ontologico quanto sotto quello logico). 

Talché la superiorità della “realtà” rispetto all’idea, non corrisponde al primato dell’essere rispetto al pensiero, ma al primato della situazione (e del suo cambiamento) rispetto a qualsiasi rappresentazione o costruzione mentale. La “mediazione” rispetto alla “realtà”, si riferisce ad un’istanza della prassi, non all’intenzionalità della conoscenza.             
     
In riferimento a questa prospettiva l’alternativa intellettuale non può che mutarsi in alternativa “posizionale”. Non tra conoscenza autentica e conoscenza inautentica (ovvero non-conoscenza), ma tra diverse “posizioni” (pur metaforicamente) corporali. Come tali, espresse non dal rapporto del pensiero al suo oggetto, ma dalla postura degli arti inferiori: il “tenere i piedi per terra” o lo stare “da scrivania”. La questione della verità (dei principii, dei giudizii e dei ragionamenti) diviene un problema di atteggiamento, espresso da una metafora psico-somatica. Dove il soggetto stesso si qualifica per la sua “postura esistenziale” (sicché il soggetto e l’oggetto, l’atto ed il contenuto conoscitivo risultano indistinguibili). Ma così l’oggetto del giudizio finisce per venire assunto come risultato della situazione del soggetto. Al di là del suo valore intrinseco.

Sulla medesima linea, si intende che la “Parola di Dio”, piuttosto che “rivelare” presentando delle verità (“un complesso di tesi”) da credere, da sperare e da praticare, sia intesa come “compagna di viaggio”. Piuttosto che rivolgersi alle facoltà propriamente umane, ovvero offrendo criteri all’intelligenza ed alla volontà, la Rivelazione appare essa stessa segnata dalla posizionalità. Si porrebbe, cioè, fisicamente, “accanto”. Si posizionerebbe, avendo, quindi, come riferimento le mete che l’accompagnato persegue. Al di là dell’universalità del Fine ultimo. È chiaro, infatti, che a decidere il cammino, ovvero la destinazione e la via, non è chi accompagna, ma chi è accompagnato. Come tale la posizione dell’accompagnatore è subordinata a quella dell’accompagnato. Sicché, chi si limita ad “accompagnare” non ne illumina il cammino, ma segue l’itinerario (quale che sia) deciso dall’accompagnato, e lo asseconda (fino  ad esserne, almeno in qualche misura, funzionale e strumentale).

3. Il problema del giudizio morale

Intimamente connessa alla questione della verità è quella del bene. Come l’ambito del conoscere prelude a quello dell’agire. Non solo, infatti, la verità è il bene dell’intelligenza, ma, ancor prima, la verità è il criterio del bene, ed il bene corrisponde alla verità dell’agire.

L’ordine noetico è distinto ed al contempo correlativo a quello etico. Onde, pur nella inconfondibilità dell’uno rispetto all’altro, col primo sta o cade il secondo. Ed il secondo riflette e rivela (mediante l’esercizio della libertà) il primo nel campo dell’attività umana in quanto tale. La questione dell’attingimento della verità, infatti, è corrispettiva a quella del giudizio in virtù del quale il bene emerge come perspicuo all’intelligenza.

Come la verità rende possibile il riconoscimento del bene – tanto sotto il profilo noetico quanto sotto quello etico – così la negazione della verità comporta, di conseguenza, l’impossibilità della conoscenza (e quindi della pratica) del bene. Analogamente, l’inintelligibilità della verità corrisponde all’inintelligibilità del bene. E l’inattingibilità del bene per se stesso ne vanifica la possibilità del compimento. Parimenti, se il bene viene dissolto in se medesimo e risolto in una proiezione dell’apparire, esso è svuotato di realtà propria.

Riguardo a tale ambito di riflessione appaiono emblematici e rappresentativi, per immediatezza di espressione e tematicità di riferimento, alcuni testi bergogliani. Tra essi possono essere segnalati: l’intervista ad Eugenio Scalfari, pubblicata dal quotidiano “Repubblica” (1/10/2013), la lettera pubblicata dal quotidiano “Repubblica” dell’11 settembre 2013, e l’Esortazione Amoris laetitia.

Nell’intervista a “Repubblica” si legge: «ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene […] Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce».

Altresì, nella Lettera al medesimo giornale è affermato che «la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza […] Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».

A sua volta Amoris laetitia dichiara: «questa coscienza [illuminata, formata e accompagnata dal discernimento] può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta chiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (303). Poco oltre, nel medesimo contesto, si incontra la tesi secondo la quale «a causa dei condizionamenti e dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio».

I tre testi segnalati si mostrano tra loro coerenti. Anzi, in certa misura, l’uno contribuisce a rendere ragione dell’altro ed a farne emergere il significato. In particolare, i primi si segnalano per nettezza ed incisività. Per se stessi, quindi, stanno come altrettanti indicatori della sostanza delle tesi (pur afferenti a contesti più o meno diversi) che si riferiscono alla medesima tematica.

Dai testi segnalati emerge che il bene ed il male morale, sono tali in quanto rilevano per il soggetto. Vanno accolti come vengono concepiti dal soggetto (empirico), o meglio dall’individuo. Quindi non per quello che sono. Né vanno ricercati in quanto tali. Piuttosto vengono identificati con la stessa rappresentazione-opinione che un particolare soggetto ha di essi. Il bene ed il male finiscono per acquistare una connotazione relativa alla visione che ciascuno ne ha. Piuttosto che dover essere confrontata tale visione con ciò che obiettivamente ne verifica la congruità (per evitare possibili illusioni o deformazioni). Ciascuno, piuttosto che essere vincolato al perseguimento del bene in quanto tale (e del dovere che consta per se stesso), e quindi alla ricerca del vero bene, appare giustificato dalla sola adesione a ciò che egli opina essere bene (e reciprocamente ad evitare ciò che egli opina essere male).

Sicché il bene reale finisce per essere indiscernibile dal bene apparente. Il secondo sussume il primo, anziché essere il primo la misura del secondo. In fondo, secondo tale impostazione, non vi è che il bene apparente, ovvero il bene che tale appare a qualcuno. Almeno quanto alla prassi, la sua fenomenicità sarebbe intrascendibile. Di conseguenza viene sostenuto che ciascuno deve essere sollecitato a perseguire la sua opinione del bene, piuttosto che essere aiutato a riconoscere il bene, corrispondente alla finalità iscritta nella natura delle cose. Non è eccessivo inferire, perciò, che qualsiasi insegnamento morale, date tali premesse può configurarsi come “ingerenza”. Esso sarebbe, così, illegittimo tanto sotto il profilo noetico quanto sotto il profilo deontico. Non resterebbe che il soggetto – o meglio l’individuo – con le sue rappresentazioni (del bene e del male) e le sue decisioni (sul da farsi e da evitarsi). E queste giungerebbero ad essere misura a se stesse, ovvero finirebbero per non avere alcuna misura.

La coscienza, anziché essere testimone di verità, sarebbe del tutto solidale con la decisione. E questa resterebbe indiscernibile dall’arbitrio autoreferenziale. Non vi sarebbe per ciascuno il dovere morale di cercare la verità e di cercare Dio. Ma unicamente ciascuno avrebbe il dovere di essere coerente con se stesso, cioè di conformarsi alle proprie credenze, dal momento che “ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce”. Dovrebbe, quindi, escludere di verificare la bontà delle premesse delle proprie azioni. Viceversa dovrebbe assecondare la propria opinione dell’agire e dei fini che egli ha in vista. 
La coscienza avrebbe, allora, come misura la coscienza stessa. In definitiva, questa si identificherebbe con la libertà in atto e con il giudizio come atto. La misura di tale giudizio diverrebbe il soggetto medesimo, di fronte a se stesso. La coscienza, così, da norma prossima finirebbe per divenire norma ultima. A condizione di essere fedele alle proprie convinzioni, ciascuno risulterebbe sempre moralmente giustificato, quale che sia il comportamento adottato (rendendo così incomprensibile lo stesso appello evangelico alla “conversione”).

La coscienza non assicurerebbe una mediazione razionale, capace di illuminare assiologicamente la particolarità – hic et nunc – degli atti. Piuttosto, la conoscenza offerta dalla coscienza sarebbe assimilabile ad una percezione. Come tale incapace di travalicare l’immediatezza. Piuttosto che rendere perspicuo il bene da farsi, la coscienza rifletterebbe il sentire. Resterebbe incapace di trascendere il “qui ed ora” ed ancor più di trascendere l’affezione proiettata sullo schermo della sensibilità individuale.

In questa linea di pensiero si identificherebbe qualificazione morale e atteggiamento individuale. Almeno sotto il profilo dell’autenticità soggettiva, coinciderebbero situazione (individuale) e decisione (attuale). Il valore morale starebbe, in fondo, nella loro corrispondenza soggettiva. Ne consegue che il male (ed il peccato) consisterebbe nell’incoerenza soggettiva, nell’infedeltà a se stessi. Sarebbero equivalenti al “voluto altrimenti” o al “non-voluto”, rispetto alla coerenza con se stessi. La decisione sarebbe irriconoscibile rispetto all’arbitrio. L’azione avrebbe in se stessa la sua verità etica.

Vi è da notare, inoltre, che nei testi dianzi menzionati (ed in altri del medesimo tenore) non si distingue tra coscienza e coscienza. Non si distingue tra coscienza vera e coscienza erronea. Né tra coscienza erronea di ignoranza vincibile o di ignoranza invincibile. Non si distingue tra coscienza certa e coscienza dubbiosa. Neppure tra coscienza scrupolosa, delicata e rilassata. Nella proposizione riferita, esemplificativamente, facendo riferimento ad una coscienza “illuminata, formata e accompagnata dal discernimento”, si asserisce che essa  può indicare come da farsi ciò che obiettivamente non è conforme al dovere morale (“non pienamente l’ideale oggettivo”). In tal senso si rivelerebbe al contempo vera (in premessa) e falsa (nell’esercizio).

La coscienza giunge così ad essere assolutizzata nel suo attuarsi. Come una sorta di formalità ipostatizzata, permanentemente in fieri, suscettibile di qualsiasi contenuto. Una sorta, però, di “formalità situazionale”, che trova la sua materia nel rapporto tra individuo e situazione. Donde si può inferire che una tale concezione della coscienza finisce per renderla indiscernibile da un giudizio tale da assumere il carattere della “sovranità” (ovvero da “non riconoscere superiori”).

Particolarmente in Amoris laetitia, la coscienza appare quasi arbitra del bene e del male, se non addirittura posta al di là del bene e del male. Secondo tale impostazione, infatti, potrebbe indicare come da farsi ciò che è riconosciuto come intrinsecamente manchevole, quindi iniquo. Potrebbe, cioè, stabilire come moralmente da compiersi (“ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio”) un atto che per se stesso è cattivo proprio in quanto risulta “non ancora pienamente l’ideale oggettivo”. Ma, così, la coscienza sarebbe “creativa” del dovere, piuttosto che indicativa del dovere.

A partire da tale impostazione, vi sarebbe una separazione – posta come valida – tra “ciò che è da farsi” e “ciò che è bene”. Un atto potrebbe essere in coscienza “da compiersi”, pur venendo riconosciuto come male, ovvero come disconforme al dovuto. Sicché la coscienza dovrebbe essere obbedita, a prescindere dal proprio contenuto, anche quando consta con certezza che essa richiede di compiere ciò che, per se stesso, bene non è. La coscienza sarebbe, allora, vincolante anche quando pretende di prescrivere di fare il male (conosciuto come tale) affinché ne venga un bene (ipotetico). La coscienza pretenderebbe, così, di giustificare un male come mezzo in vista di un bene. Sicché il fine (l’adesione piena “all’ideale oggettivo”) basterebbe a giustificare il mezzo consistente in una azione per se stessa moralmente manchevole (in quanto risposta non pienamente conforme “all’ideale oggettivo”).

Il male, infatti, non è altro (come ricorda la riflessione agostiniana) se non la privazione del bene dovuto. Ogni male contiene, quindi, un bene manchevole, quindi imperfetto. Ma proprio perché carente di ciò che lo rende integralmente conforme al dovuto, esso è male e non bene. Il bene “inadeguato” non è altro, in realtà, che il male per se stesso. L’atto buono è tale in quanto è tutto quello che deve essere, quindi ha in sé tutto ciò che deve avere (“Bonum ex integra causa”, come segnala il noto lemma dell’Areopagita). Viceversa un atto è moralmente cattivo quando manca di ciò che dovrebbe avere, per essere ciò che deve essere, tanto per l’oggetto, quanto per il fine, quanto per le circostanze (“Malum autem ex quocumque defectu”, ovvero “Quilibet singularis defectus causat malum”come precisa il medesimo lemma). 

Se la coscienza fosse da seguirsi anche quando contrasta consapevolmente con l’ordine obiettivo del bene dovuto, anche quando, cioè, essa risulta al soggetto conclamatamente erronea, non sarebbe più un atto razionale. La coscienza, infatti, come precisa san Tommaso, è “quodammodo dictamen rationis” (S. Th., I II, q. 19, a. 5), e la sua misura non è né la psicologia del soggetto né la sociologia della situazione, né il loro rapporto, ma l’ordine obiettivo del bene, che in ultima istanza deriva dalla sapienza divina. Solo a questa condizione il giudizio umano (razionale) è regola della volontà ed è come tale vincolante [“Quod autem ratio humana sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas mensuretur, habet ex lege aeterna, quae est ratio divina” (S. Th., I II, q. 19, a. 4)]. 

Inoltre, secondo la tesi che emerge da Amoris laetitia, Dio stesso potrebbe richiedere positivamente il male (ovvero un atto moralmente non conforme al bene dovuto). Ciò che attribuirebbe a Dio, in questo caso, l’origine del male, almeno quanto alla consapevolezza soggettiva di quello che Dio starebbe “chiedendo”. Il che contrasta con la stessa perfezione metafisica e morale, che Dio non può non avere, proprio per essere Dio. Allora, la “risposta generosa” a Dio sarebbe una risposta difettosa (quindi iniqua) rispetto al bene da compiere (“l’ideale oggettivo”).

D’altra parte, può essere osservato che in Amoris laetitia l’ordine morale è indicato con una formula piuttosto vaga: “la proposta generale del Vangelo”, senza ulteriori precisazioni (senza indicare se si tratta di precetti o di consigli, se si tratta della legge naturale o di esigenze teologali). Mentre va ricordato che la morale coniugale afferisce anzitutto all’ambito – razionalmente conoscibile – dell’etica naturale. Moralmente vincolante, quindi, per ogni essere umano (in termini di giustizia), anche per coloro i quali ignorano il Vangelo.

L’ordine morale – nella medesima Esortazione – è presentato come “ideale oggettivo”. Esso è qualificato, appunto, come “ideale”. Anzitutto è significativo che sia stato impiegato tale termine piuttosto che altri. Non si menzionano né i primi principi, né la legge morale (naturale e rivelata), né i giudizi che ne conseguono. Tuttavia il termine “ideale”, per se stesso, è suscettibile di molteplici accezioni. Può essere inteso alla maniera dell’eidos platonico oppure al modo dell’idealità romantica. Il primo è per se stesso fondante sotto il profilo noetico ed etico (essendo principio metafisico). Il secondo è permanentemente irraggiungibile, indicativo di una meta tanto elevata quanto inarrivabile. Nel linguaggio comune il termine suggerisce, appunto, un traguardo assoluto, in quanto tale superiore alle umane possibilità. Il che importerebbe una analoga considerazione del bene morale, il quale anziché propriamente adeguato e dovuto, finirebbe per configurarsi come un punto liminale, tanto alto quanto impari rispetto alle umane possibilità di conseguirlo.       

Importante risulta, altresì nel medesimo Testo, la tesi secondo la quale vi può essere una incolpevolezza soggettiva in una “oggettiva situazione di peccato”, tale addirittura da renderla compatibile con la vita di grazia. Ma non è precisato, in alcun modo, quale sia il rapporto tra le due “situazioni”, ovvero a quali condizioni particolari l’una sia compossibile rispetto all’altra, tanto da giustificare soggettivamente pur nell’oggettività della “situazione di peccato”. La loro giustapposizione pone – ma non risolve – il problema di una sorta di “ammissibile” diaframma tra soggettività ed oggettività morale. Solo è indicato che la causa di tale eventualità va rinvenuta (o può trovarsi) in “condizionamenti” e in “fattori attenuanti”. Ora, può essere rilevato che né i “condizionamenti” né le “attenuanti”, sono per se stessi elementi determinanti dell’agire umano. L’esercizio ordinario dell’agire libero, infatti, si attua sempre in costanza di condizionamenti (e di attenuanti o di aggravanti) della responsabilità morale. Per se stessi i condizionamenti non sono tali da giustificare qualsivoglia comportamento. Le circostante attenuanti o aggravanti, per se stesse, non sono esimenti del merito o del demerito morale, a meno che non siano tali da escludere del tutto – in particolarissimi casi – la consapevolezza e la libertà. Se si tratta di eventuale errore, questo può essere (moralmente) invincibile o vincibile. Se si tratta di ignoranza, questa può essere colpevole o incolpevole, soggettivamente inestinguibile o semplicemente affettata. Tali condizionamenti, come è evidente, non stanno sullo stesso piano, nella valutazione degli atti umani. 

4. I presupposti di fondo

Nell’enciclica Evangelii Gaudium (221) vengono enumerati quattro “principi”, che emergono come distintivi della linea di pensiero che attraversa molteplici interventi di papa Bergoglio. Essi possono essere essenzialmente così indicati: “il tempo è superiore allo spazio; “l’unità prevale sul conflitto”; “la realtà è più importante dell’idea”; “il tutto è superiore alla parte”.

Il primo di tali presupposti è ripreso nell’enciclica Laudato sì (178), e nell’esortazione Amoris laetitia (3 e 261), oltre ad essere già presente nell’enciclica Lumen fidei (57). Si riferisce al primato del tempo. La sua enunciazione trova luogo nelle seguenti espressioni: «Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina  li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici» (E. G., 223).

In questa linea, «si tratta di generare processi più che di dominare spazi» (A. L., 261). La medesima Esortazione ne ricava una applicazione contestualistica: «Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. […] Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali” (A. L., 3).

Riguardo a tali tesi, risultano molto significative le espressioni che compaiono nella intervista di papa Francesco apparsa in “Civiltà Cattolica” (19/9/2013): «Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. […] Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove».

Il secondo assunto è già presente nell’enciclica Lumen fidei (55), è ripreso in Laudato sì (198) ed è illustrato in Evangelii gaudium (226-230). Si riferisce all’atteggiamento di fronte al conflitto. A proposito, vi si legge che «vi è […] un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (E. G., 227). In questa prospettiva, la solidarietà «diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita» (E. G., 228). Con l’obiettivo di puntare «alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto» (ibidem).

Il terzo punto è espresso in Evangelii gaudium (231-233) e trova conferma in Laudato sì (201). Esso riguarda il rapporto tra “idea” e “realtà”. La sua formulazione si esplicita come segue: «Esiste una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza» (E. G., 231). Talché, prosegue il testo, «L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono» (E. G., 232).

Il quarto presupposto è formulato in Evangelii gaudium (234-237) e trova menzione ancora in Laudato sì (141). Vi si prospetta la relazione operativa tra il tutto e le parti: «Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. […] Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo» (E. G., 235).

Ora, in una considerazione complessiva, tali asserti, anziché principi, si profilano, in realtà, come presupposti, ovvero come assunzioni poste, ma non discusse in se stesse. Essi appaiono, in sostanza, come punti di vista. Per se stessi, non verificati, né sotto il profilo filosofico né sotto il profilo teologico. Infatti, lungi dall’essere evidenti (intrinsecamente o estrinsecamente), sono assunti in vista degli effetti da essi ricavabili. Non si tratta di principi di natura metafisica, gnoseologica o etica. Non rinviano all’essere in quanto tale, non rilevano sotto il profilo della natura stessa del pensiero, non attingono i fondamenti dell’agire. Non rimandano, per se stessi, alla verità e al bene. Quanto ad essi non è affrontata tematicamente la questione della loro verità, ma è svolta una esplicitazione in funzione della prassi. Essi si profilano, in definitiva, come postulati della prassi in vista di obiettivi della prassi stessa. In altri termini, essi non costituiscono propriamente dei principi, ovvero dei criteri obiettivi per l’intelligenza del reale, ma piuttosto si dànno come funzionali, in quanto, appunto, permettono «di lavorare» (E. G., 223). Ma una tale attitudine non corrisponde a quella teoretica, ma in fondo all’atteggiamento ideologico.

In tali assunti il giudizio di valore ed il giudizio di fatto finiscono per identificarsi. Anzi, si presentano come giudizi di fatto (in relazione agli effetti) tali da sussumere giudizi di valore, o di converso come giudizi di valore sotto forma di giudizi di fatto. La doverosità che li caratterizza fa appello non a dati naturali o rivelati, ma a risultati attesi ed a mete auspicate. Piuttosto che rendere ragione, essi giustificano operativamente. Di modo che l’attività che ne risulta finisce per essere validante in se stessa, a prescindere dal suo contenuto.

Tali presupposti presentano una sorta di “trascendentalismo della prassi”. Non vi si palesa, cioè, la trascendentalità dell’essere e neppure il trascendentalismo razionalistico, che presuppone l’originarietà del pensiero rispetto all’essere (anzi la dipendenza di questo da quello). Piuttosto ne emerge un trascendentalismo pragmatistico, ove ciò che è distintivo non è né l’analogia dell’essere, né la condizione di possibilità, ma l’atteggiamento psico-sociologico: il “come” del “fare”, che è al tempo stesso un rappresentare-rappresentarsi ed un relazionare-relazionarsi. Non il “che cosa”, non la finalità obiettiva dell’azione. Al punto che l’azione pensata in tal modo finisce per fare della qualificazione assiologica un risultato dell’attività.

Passando ad una riflessione analitica, si può notare, in primo luogo, che il primato del tempo rispetto allo spazio, è affermato al di là del soggetto e dell’oggetto. Ne prescinde, svuotando così l’agire di rilievo tanto per il primo quanto per il secondo. Ne risulta un tempo non indeterminato qualitativamente rispetto a ciò che accade o può accadere. Quello che conta, secondo questa prospettiva, è “iniziare processi”, è “generare nuovi dinamismi”, è “coinvolgere altre persone e gruppi”, è far sorgere “importanti avvenimenti storici”. Non vi è riferimento vincolante impegnativo alla moralità dell’atto e della sua meritorietà in ordine al fine ultimo. Una novità, infatti, può essere costruttiva o distruttiva. Come una continuità può essere buona o cattiva. Il tempo, per se stesso, non ha rilievo qualitativo, ma solo quantitativo. A meno che non si intenda immanentisticamente identificare (senza prove, anzi contro ogni evidenza) il mutamento cronologico con l’incremento assiologico (di modo che ciò che segue sarebbe necessariamente migliore di ciò che precede). 

È chiaro, infatti, che i “nuovi dinamismi”, non traggono validità dall’essere nuovi, ma dall’essere buoni. Altrimenti, la loro novità può essere iniqua e distruttiva. Il “coinvolgimento” di persone o gruppi può darsi in vista di una finalità giusta o di una ingiusta. Il coinvolgimento, altrimenti, può divenire complicità o correità. Per se stesso, il coinvolgimento non è, né può essere misura della bontà di un’iniziativa, quale che sia. A loro volta, gli “avvenimenti storici” possono essere “importanti”, pur essendo catastrofici. Come una malattia può essere importante, proprio in quanto si tratta di una grave patologia. L’importanza non è un criterio in sé: l’importanza di un gesto efferato, lungi dal connotarlo positivamente, ne aggrava il carico di responsabilità dell’autore e di sofferenza per la vittima. Senza precisare l’intrinseca qualificazione della “novità”, del “coinvolgimento” o dello “avvenimento”, si viene a svuotare qualitativamente l’agire, e ad escludere la capacità valutativa della ragione e della fede.

La tesi, poi, secondo cui “Dio si trova nel tempo” ovvero “nei processi in corso”, per cui “Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia”, non chiarisce se Dio si identifichi con il tempo o se il tempo sussiste in virtù dell’azione creatrice e conservatrice di Dio. Nel primo senso Dio “si troverebbe” nel tempo in quanto il tempo ne sarebbe una immediata manifestazione (come una necessaria teofania), nel secondo senso il tempo esisterebbe come tutte le realtà creaturali, con la determinatezza e la finitudine che gli è propria. Il tempo non ha una sua sostanzialità: è proprio di ciò che diviene. Come tale registra sviluppi e corruzioni, eventi fausti ed infausti, albe e tramonti, nascite e decessi. In tali eventi agiscono, a diverso titolo, l’uomo e Dio. Dove nel tempo il male si afferma, la responsabilità dell’uomo non si identifica, né può identificarsi con la volontà positiva di Dio. Altrimenti Dio verrebbe ad essere la causa diretta del male, o viceversa il male non esisterebbe mai come tale.

Inoltre, se occorre “privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove”, per se stesse, si è condotti a pensare che la “presenza” di Dio al tempo sia intesa come identica all’essere stesso di Dio. In altri termini, se ne deduce che la novità diverrebbe una sorta di termine tale da unificare divino ed umano. Dovunque c’è una novità – quale che sia – lì ci sarebbe immediatamente una manifestazione di Dio. Dove c’è una novità lì sarebbe presente Dio, anche se si tratta della novità del peccato e del vizio. Ma in tal modo la concezione di Dio ne risulterebbe immanentizzata e la presenza del male negata.               
D’altra parte, il rinvio alla possibilità di interpretare e di inculturare, non determina il criterio né dell’una né dell’altra possibilità. Non ne emerge il rapporto tra atto e contenuto dell’interpretazione e dell’inculturazione. Se il primo (l’atto) è il criterio del secondo (il contenuto) si è condotti ad una conseguenza interpretazionistica e contestualistica, per cui l’interpretazione (individuale o collettiva) o il contesto (culturale o sociale) sarebbero il principio e la verità un risultato. Per se stessa, l’interpretazione può essere intesa secondo l’accezione aristotelica (come ricerca della verità) o secondo la visuale nietzschiana (come strumentalità rispetto alla volontà). Come tale un’interpretazione può essere fondata o arbitraria, illuminante o mistificante. I “modi di interpretare” e le “soluzioni inculturate” non sono, infatti, una misura in se stessi. Altrimenti, ogni proposizione, tanto di ragione quanto di fede, non sarebbe altro se non un prodotto dell’interpretazione, come tale sempre mutevole e provvisoria. Non avrebbe, quindi, alcun significato proprio. Perciò neppure alcuna validità propria.

Dal primato del tempo non è arduo inferire il primato del divenire. In questo caso, si profila una sorta di “primato assiologico del mutamento”: ogni cambiamento – ogni “novità” – risulterebbe perciò stesso un bene. Dunque ogni permanenza risulterebbe perciò stesso un male. Lungo questo asse, non vi sarebbe né vi potrebbe esservi il male dove si attua il cambiamento, quale che sia. Non vi sarebbe se non un solo peccato: la “fissità”. Tale dovrebbe essere anche se si tratta della durevolezza dei principi. In questa prospettiva, appaiono coerentemente come negative tutte le forme di permanenza intellettuale, ovvero di fermezza nelle valutazioni, da considerarsi come forme di “intellettualismo”, di “legalismo”, persino di “pelagianesimo”, e per se stesse paragonabili alla costruzione di “muri”.

Di seguito, raccordato al primo presupposto appare il secondo. Dal primato del tempo consegue l’intrascendibilità del conflitto. Il conflitto avrebbe una sua giustificazione dialettica (nella accezione hegeliana del termine) in relazione allo svolgersi del tempo. Il conflitto, infatti, sarebbe sorgivo del “nuovo”. Ed in tal senso avrebbe una sua positività nella negatività. Anzi, in fondo, avrebbe una “negatività positiva”. Dove la negatività sarebbe propria dell’opposizione (conflittuale) e la positività risiederebbe nell’essere motore del cambiamento. Perciò bisognerebbe “accettare di sopportarlo”, e così “trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo”.

Di conseguenza, il conflitto non andrebbe risolto attraverso una valutazione ed una azione conseguente, che, come tale, non può porre i termini del conflitto sullo stesso piano. Il conflitto non andrebbe risolto facendo prevalere la giustizia, sulla base della quale conseguire una pace autentica. Piuttosto, invece, il conflitto andrebbe visto come un momento (necessario) di una totalità in divenire. Quindi andrebbe superato “su di un piano superiore”, il quale “conserva in sé le potenzialità delle polarità in contrasto”, definite addirittura “preziose”. Così, quali che siano i termini dell’opposizione che il conflitto registra, entrambi i poli dello scontro recherebbero in sé potenzialità positive. Esse troverebbero la propria giustificazione proprio in quanto configgenti (nell’atto del configgere).

In questa visuale sembra di intendere che occorrerebbe procedere al modo dell’Aufhebung hegeliana, ovvero attraverso un togliere ed un conservare insieme. In modo tale che il positivo risulta il “processo” orizzontale, che si svolge nel tempo. Non eventualmente le ragioni dell’uno o dell’altro dei protagonisti. Non eventualmente il bene conculcato o rivendicato nel conflitto. Mentre il negativo finirebbe per essere solo la stasi del “processo” (il “trattenere”).

Anche il terzo presupposto contribuisce a delineare lo svolgimento di una prospettiva complessiva. In fondo, esso pare segnalarne l’impostazione epistemica. In questo quadro è presentata una dialettica tra la “realtà e “l’dea”. Tali termini vanno intesi nella loro peculiarità semantica, ed al di là di ogni corriva identificazione con le classiche polarità teoretiche. Infatti, in questa visuale la realtà “semplicemente è”. Non è la sostanzialità degli enti, non è la natura delle cose. Non vi si distingue tra il reale e l’effettuale, tra il sostanziale e l’accidentale, tra il naturale ed il convenzionale. La “realtà”, come si evince dal contesto, corrisponde alla situazione, all’accaduto dell’accadere, alla presenza del presente. In tal senso, non vi è possibilità di distinguere tra realtà dell’essere e realtà del dover essere. Difatti la realtà può essere come deve essere, oppure può essere la negazione di ciò che deve essere. Tale distinzione è fondamentale proprio là dove ci si riferisca alla realtà del mondo umano (ovvero all’ambito morale).

Parimenti, occorre soffermarsi sul significato attribuito al termine “idea”. Di essa si dichiara che “si elabora”, ovvero deriva dalla “elaborazione”. Ora, come tale, una elaborazione intellettuale può essere fondata o infondata, può essere argomentata o arbitraria. Tali elaborazioni non stanno, né possono stare sullo stesso piano. In questo senso, perciò, l’idea non corrisponde al concetto, né al principio, né ad un archetipo. Tanto da venire posta lungo il medesimo asse della “sola parola”, “dell’immagine”, “del sofisma”. Essa piuttosto risulta correlativa ad una costruzione teorica (che in quanto tale si articola a partire da premesse poste, al di là della loro verifica fondativa). L’idea, insomma, non viene intesa come corrispettivo di conoscenza vera, ma appare piuttosto come sinonimo di rappresentazione e di progettazione convenzionale.

Talché la nozione di “idea” appare indifferente alla verità. Non viene qualificata come vera o come falsa. La “classificazione” e la “definizione” non presenterebbero un problema di verità: tanto da potersi attribuire tanto ad “idealismi” quanto a “nominalismi” (entrambi al plurale, senza alcuna specificazione). La validità di una definizione (o di una classificazione) non starebbe nel suo contenuto di verità. L’idea non sarebbe autentica se e solo se vera. Piuttosto in luogo del criterio di verità si profila come dirimente la validazione operativa: “l’efficacia” o meglio la capacità di “coinvolgere”.

In tal senso si intende che l’idea può essere più o meno “staccata” dalla situazione alla quale si riferisce. La questione della verità risulta surrogata da quella del rapporto topografico dato dalla “distanza” situazionale. Ma in tal senso nessuna conoscenza risulta avere valore per se stessa, ovvero per il suo contenuto. Piuttosto, “l’idea”, non avendo validità noetica, avrebbe solo rilievo pragmatico. Anche in questo caso, però, l’azione è considerata prescindendo dalla sua finalità obiettiva. Si può coinvolgere, infatti, per compiere sia un’azione onesta sia una disonesta. Il coinvolgere, come tale, non è una categoria assiologica, né etica, né teologica.

In definitiva, se ne può evincere che il primato della “realtà” corrisponde al primato della situazione. Di fronte a questa non vi sarebbe se non la rappresentazione (“l’idea” o “l’elaborazione”). Di modo che non vi sarebbero se non situazioni e rappresentazioni. Le prime sarebbero mera effettività. Le seconde sarebbero pure costruzioni. Tra le prime e le seconde non vi sarebbe spazio per la verità. Solo sarebbe possibile la loro relazione fisico-pragmatica, data dalla possibilità di operare le une sulle altre: le prime per dare contenuto alle seconde, le seconde per incidere sulle prime.

Analogamente, la relazione tra il tutto e la parte (di cui al quarto presupposto) non ha, nella prospettiva in considerazione, carattere né metafisico, né fisico, né etico. Ne emerge, propriamente, una relazione prassiologica. Il “tutto” qui appare come il complesso e il contesto. Non è il tutto come un “qualcosa”, come ciò che fonda e dà sostanza alle parti. Non è il tutto come bene rispetto al quale è ordinato il bene delle parti. È il tutto come trama di relazioni, come struttura totale. Ed è il tutto come unità di obiettivo. In tal senso è indicato come un “bene più grande”.

In questa chiave, il tutto finisce per assorbire le parti. Rispetto ad esso le parti perdono quasi di consistenza propria. Difatti le “questioni particolari” sono segnalate come tali da non meritare specifica attenzione (esse non vanno “sradicate”). In questo caso, la “parte” equivale ad ambiti dell’esperienza, problemi determinati, principi specifici. L’attenzione puntuale ad essi andrebbe sostituita da una considerazione, per così dire, “globalistica”, all’insieme ed al risultato finale totale. Di conseguenza anche la valutazione degli atti umani, sempre come tali concreti e particolari, dovrebbe essere sostituita da una visuale “totalizzante”. Tale da far prevalere l’integrazione nel “tutto”. In fondo, il “tutto” (dell’umanità, della società, della storia …) nella sua unità, verrebbe ad essere l’unico bene.

La relazione tra “parte” e “tutto” non fa riferimento ad alcun fondamento. Sia il “tutto” sia la “parte” appaiono come suscettibili di qualsiasi contenuto (tanto dal punto di vista ontologico, quanto da quello assiologico). Se il “tutto” si riferisce all’esperienza sociale, questa può registrare connotazioni umane oppure disumane. Come potrebbe il “tutto” meritare il “primato” nel secondo caso? A sua volta, la parte corrisponde ad ogni aspetto particolare, ma anche ad ogni soggetto particolare. Ma anche in questo caso la sua particolarità non è mai indifferente, ma sempre qualificata nei suoi atti. E proprio tale qualificazione la dispone – rettamente oppure obliquamente – in rapporto al tutto. Mai in modo indifferente. Mai in un rapporto privo di valore. Diversamente tale relazione si presenta come una accidentalità fenomenica ipostatizzata.     

In ordine a tale relazione risulta, del resto, molto significativa l’esemplificazione-applicazione proposta nel testo summenzionato. È il caso di “una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità”, la quale “quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo”. A riguardo, non può non essere osservato che un essere umano può avere le più diverse “peculiarità”: fisiologiche o patologiche, virtuose o viziose. Si può trattare di pregi o di difetti (nei più diversi campi). Queste “peculiarità” certamente non stanno, né possono stare, sullo stesso piano. Tanto in riferimento al singolo, quanto in ordine al suo rapporto con gli altri.

Analogamente può essere osservato per “l’identità”. Questa, se priva di specifica qualificazione, può consistere tanto nell’identità psicologica, quanto nell’identità sociologica, quanto nell’identità morale, quanto nell’identità ontologica. L’una è ben diversa dall’altra. L’una non equivale all’altra. La loro distinzione è reale. Non possono essere poste sullo stesso piano. Segnatamente, le identità morali sono diversissime tra loro: possono esservene di oneste e di disoneste. Se assimilate (immanentisticamente), ogni identità sarebbe qualitativamente equivalente all’altra, in quanto appunto parimenti “identità”. Nessuna “identità” sarebbe, allora, suscettibile di correzione, di emenda, di perfezionamento, di conversione. Anzi, ogni identità andrebbe non solo conservata, ma anche manifestata ed incrementata. L’identità andrebbe integrata in una comunità: quale?, finalizzata a cosa? E da questa non potrebbe non ricevere “stimoli per il proprio sviluppo”: perché? Tali “stimoli” deriverebbero dalla “comunità”: per quale necessità? Perché una qualsiasi comunità (anche con finalità deviate) avrebbe tale congenita capacità di favorire lo sviluppo? E poi, per quale ragione lo sviluppo di una qualsiasi identità sarebbe un bene (sia l’individuo, sia per la comunità)? Nel caso di una nevrosi o di un vizio, come potrebbe essere considerato un bene lo sviluppo di questa identità? 
Neppure l’integrazione – anche se “cordiale” – risulta a ben vedere un bene in sé. Ciò che ne decide il valore è il contenuto e la finalità. Non la modalità. L’integrazione può essere tale in vista di un bene reale o di un bene apparente. L’integrazione può essere ordinata alla autentica felicità o alla sua simulazione ingannevole. Se si è “integrati” in un ambiente ammorbato da un’epidemia, questo rappresenta di certo un danno (possibile o effettivo) per la salute. Se si è integrati in un gruppo criminale, l’integrazione non reca alcun miglioramento autentico al soggetto che vi viene accolto.       
     
5. Conclusione

Le presenti riflessioni riguardano testi, che, come tali, sono offerti alla meditazione di ciascuno. Esse vi si soffermano, intendendo serenamente considerarne premesse, argomenti, inferenze (esplicite o implicite), tentando, ovviamente, di intenderli nel loro autentico significato. Tali considerazioni non intendono, quindi, formulare alcun giudizio sul loro Autore, men che meno sulle intenzioni che vi soggiacciono.

In una visione d’insieme, le linee di fondo che emergono dai testi analizzati si mostrano convergenti nel delineare una prospettiva che caratterizza il conoscere e l’agire, per il loro farsi nell’ambito delle relazioni proprie dei processi nel tempo. Se svolta in tutte le sue conseguenze, tale impostazione giunge a fare tanto della conoscenza quanto dell’azione, il risultato di tali relazioni. Queste, se di primo acchito possono apparire analoghe alla dialettica orizzontale (feuerbachiana) “io-tu”, appaiono piuttosto tali da esprimersi nella dialettica (parimenti orizzontale) individuo-situazione, intesa, questa – sembra di potere concludere – come totalità relazionale processualmente diveniente.

In tal senso, tanto il conoscere quanto l’agire si volgono in espressioni dell’operatività. Ciò che rileva in essi non si dà in se medesimo, ma si compie in ciò in cui si rende effettuale. La prassi ed i suoi effetti appaiono tanto un principio quanto un risultato del divenire. Di modo che non solo l’azione appare intimamente solidale con i suoi risultati, ma anche intrinsecamente ricondotta al primato della totalità situazionale.

Tale prospettiva si esplicita sulla base di un quadruplice primato prassiologico: della temporalità (mediante l’attività), della processualità (attraverso il conflitto), della situazione (in virtù dell’efficacia) e della totalità (sulla base dell’inclusione). Tale impostazione si esprime al contempo tanto sotto il profilo diagnostico quanto sotto quello prognostico. 

La riconduzione del soggetto alla sua attività e di questa alle relazioni psico-sociali, se sembra consentire con l’assunto sartriano per cui l’esistenza precede l’essenza, appare suscettibile di risolvere l’esistenza stessa nell’insieme dinamico-relazionale, il quale si configura come permanentemente proteso oltre se stesso. Dove più che palesarsi forme di soggettocentrismo e di etnocentrismo, pare potersi intravedere un assorbimento tanto dell’individuo quanto del gruppo in una relazionalità scaturente da una processività totalizzante. 
              
La prospettiva di fondo che ne emerge, lascia intravedere – come pare di potere inferire – alcuni dei tratti distintivi della postmodernità. In questo senso, un’analisi incline a cogliervi un “trascendentalismo della prassi”, dovrebbe riconoscervi un “trascendentalismo dopo il trascendentalismo”, tale da compiersi, al di là del trascendentalismo stesso, ma al contempo tale da svolgerne (coerentemente) una virtualità implicita.

In definitiva, dai testi considerati (e da quelli ad essi omologhi) appaiono delinearsi i tratti tipici dell’attitudine della “modernità dopo la modernità” (intesa, questa, in senso categoriale e non temporale). O altrimenti della modernità che si compie proprio attraverso la sua mutazione. Dove il primato spetta piuttosto che ai “progetti” ai “processi”. Piuttosto che alla sistematizzazione alla contestualizzazione.

Come è noto, la caratterizzazione della postmodernità è stata individuata nella “teoria del rifiutare le teorie” e nella “immersione nelle correnti del cambiamento”, (con l’esclusione delle “metanarrazioni”). Lungo l’asse della postmodernità si assiste alla “scomparsa della cosa in sé” (ovvero della natura delle cose e degli atti), tale non sulla base di una negazione ontologica, ma di una modificazione semantica e pragmatica. Come è proprio della postmodernità assumere “elementi linguistici come veicolo di valenze pragmatiche”. Dove evento linguistico ed evento pragmatico rifluiscono l’uno nell’altro: il primo dà luogo al secondo, e questo si compie attraverso quello. 

Giovanni  Turco
[A cura di Paolo Pasqualucci – [Fonte] Domenica 27 maggio 2018]

30 commenti:

Roberto De Albentiis su Fb ha detto...

Martedì 29 maggio 1453, esattamente 565 anni fa, dopo un penoso assedio da parte delle truppe turche cade Costantinopoli, la seconda Roma, l'erede dell'Urbe come sede dell'Impero e della Chiesa e quale custode della Classicità; fu quella la vera caduta dell'Impero Romano, fu quella la vera fine del Medioevo e l'entrata nella Modernità. Fu un evento paragonabile all'11 settembre.
Costantino XI, il Basileus, l'erede di Cesare, Augusto, Marco Aurelio, Costantino e Giustiniano, pur potendo fuggire, pur essendogli perfino stata offerta la vita salva e la nomina a governatore della nuova Istanbul, si rifiuta e decide di morire combattendo in prima persona, non prima di aver chiesto perdono ai suoi ufficiali e di aver ringraziato uno ad uno tutti i volontari europei che erano accorsi a salvare Costantinopoli, pur senza contraccambio o vantaggio terreno alcuno.
Per un classicista, un cristiano, un europeo, il 29 maggio è una data di lutto, incancellabile e inconsolabile; è quella rappresentata da Roma e Costantinopoli la vera Europa, nulla a che vedere con le attuali istituzioni con sede a Bruxelles, Francoforte, Strasburgo, o con i suoi falsi valori. Così come i freddi e anonimi burocrati europei, che dalle loro scrivanie decidono la vita e la morte dei popoli, non hanno nulla a che vedere con Costantino XI, che non risparmia la sua vita, ma la dona e sacrifica per il suo popolo; per un uomo come Costantino XI, per un'idea come Roma e Costantinopoli si può morire, non per mezzi uomini come gli Junker, i Draghi, i loro vari camerieri italiani.
Secondo la leggenda, un giorno Costantinopoli tornerà città cristiana e capitale imperiale; fino ad allora, si possono leggere e rileggere gli ultimi discorsi di Costantino XI, davanti ai quali è impossibile non commuoversi nè non fare paragoni con chi ci governa oggi...

"Darti la Città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti; abbiamo infatti deciso di nostra spontanea volontà di combattere e non risparmieremo la vita. "
"So che avrei vantaggi se abbandonassi la Città, ma via non posso andare...Non vi lascerò mai. Ho deciso di morire con voi!"
"Miei signori, miei fratelli, miei figli, l'ultimo onore dei Cristiani è nelle nostre mani.So che l'ora è giunta, che il nemico della nostra fede ci minaccia con ogni mezzo... Affido a voi, al vostro valore, questa splendida e celebre Città, patria nostra, regina d'ogni altra...Vi chiedo scusa per ogni eventuale sgarbo, che io ho compiuto verso di voi senza volerlo..."
"Ci sono quattro grandi cause per cui vale la pena di morire: la Fede, la Patria, la Famiglia e il Basileus. Ora voi dovete essere pronti a sacrificare la propria vita per queste cose, come d'altronde anch'io sono pronto al sacrificio della mia stessa vita."
"Da oggi Latini e Romani sono lo stesso popolo, uniti in Dio, e con l'aiuto di Dio salveremo Costantinopoli."

Anonimo ha detto...


Magnifique !

Anonimo ha detto...

Il voto a Lisbona. Il Portogallo dice «no» al suicidio assistito e all'eutanasia

Anonimo ha detto...

...il Portogallo conserverà il dogma!

Anonimo ha detto...

“La disastrosa insufficienza della visione bergogliana appare inoltre dal fatto che, sempre in ‘Amoris Laetitia’, l’ordine morale viene in pari tempo posto come “ideale oggettivo” di difficile attuazione, ragion per cui il testo propone addirittura la tesi, che giustamente ha suscitato tanto scandalo, “secondo la quale vi può essere una incolpevolezza soggettiva in una ‘oggettiva situazione di peccato’, tale da renderla addirittura compatibile con la vita di grazia [sic]” (‘Amoris Laetitia’ § 305, cit.). “

Anche i cardinali dei Dubia fanno scandalo, allora, visto che affermano quanto segue

“Così, per la Dichiarazione [del Pontificio consiglio per i testi legislativi del 24 Giugno 2000] la questione dell’ammissione ai sacramenti riguarda il giudizio della situazione di vita oggettiva della persona e non il giudizio che questa persona si trova in stato di peccato mortale. Infatti soggettivamente potrebbe non essere pienamente imputabile, o non esserlo per nulla.
[....] La questione 3 dei "dubia" vorrebbe così chiarire se, anche dopo "Amoris laetitia", è ancora possibile dire che le persone che abitualmente vivono in contraddizione al comandamento della legge di Dio vivono in oggettiva situazione di grave peccato abituale, anche se, per qualche ragione, non è certo che essi siano soggettivamente imputabili per la loro abituale trasgressione”.

Saranno eretici?


Marco Porfiri

Anonimo ha detto...

La fonte da cui ho tratto le parole dei cardinali http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351414.html?refresh_ce

Marco Porfiri

Fabrizio Giudici ha detto...

A parte che non ho capito sostanzialmente in cosa sarebbero eretici i cardinali, c'è una questione formale che vanifica la sua tesi: tra le caratteristiche che caratterizzano l'eresia c'è l'insistenza e la caparbietà nel sostenere una tesi erronea. Fare una domanda è l'antitesi di sostenere una tesi, figuriamoci caparbiamente. Se comunque, per assurdo, ci fosse una traccia di eresia nel comportamento dei cardinali, il Papa sarebbe comunque in difetto perché, non rispondendo, non la correggerebbe.

Anonimo ha detto...

Fabrizio, la mia era ironia. L’autore da me quotato trovava scandalosa la porzione di Amoris Laetitia che sostiene che gli adulteri non siano necessariamente in peccato mortale soggettivo (cioè privi della Grazia) nonostante la loro situazione di peccato materiale grave, e allora ho quotato i cardinali che dicono la stessa identica cosa.

Marco Porfiri

Fabrizio Giudici ha detto...

I cardinali non dicono la stessa identica cosa: dicono esattamente l'opposto. I cardinali dicono una cosa che è nota da secoli, ovvero che nessuno - tranne i mistici come Padre Pio, ma ovviamente è un caso particolare che lasciamo stare - può stabilire con sicurezza se un altro è in stato di grazia o no; il famoso "foro interno". Non lo può stabilire neanche il soggetto stesso (il Catechismo a questo riguardo cita una famosa frase di San Giovanna d'Arco che non si pronunciò sul proprio stato di grazia, a domanda di un giudice inquisitore che voleva incastrarla - ne approfitto per ricordare che è la santa del giorno). Neanche il prete confessore; proprio per questo motivo la Chiesa, sapendo che la ricezione dell'Eucaristia è "giudizio di condanna" per chi non è in stato di grazia, cerca di comprendere il più possibile a riguardo a partire dalle questioni oggettive, ovvero dal comportamento esteriore. Per esempio, un concubinato. Invece è l'Amoris Laetitia che pretende che il soggetto, guidato dal prete, sarebbe in grado di stabilirlo (il famigerato "discernimento", in senso distorto) anche in presenza di un dato oggettivo contrario (per esempio, il citato concubinato).

papista ha detto...

Se il Collegio dei Cardinali è istituito solo per far funzionare la "macchina" vaticana e non si occupa di correggere o di richiamare il Pontifex quando questi è caduto nella ERESIA mi sembra che sia come un qualunque parlamento che si sottomette ai poteri forti e "lega l'asino dove vuole il padrone". Nostro Signore l'asino lo ha cavalcato poi Anna e Caifa (nostri fratelli maggiori) Gli hanno fatto la festa ma con sulla CROCE chi ha vinto è stato LUI.Viva CRISTO RE.

Anonimo ha detto...

“I cardinali non dicono la stessa identica cosa: dicono esattamente l'opposto. ”

No, la mia critica all’autore era rivolta al fatto che egli giudicasse scandaloso il fatto che Al affermi che “vi può essere una incolpevolezza soggettiva in una ‘oggettiva situazione di peccato’, tale da renderla addirittura compatibile con la vita di grazia”. Ma questo appunto è ciò che hanno affermato i cardinali stessi, scrivendo che “soggettivamente potrebbe non essere pienamente imputabile, o non esserlo per nulla”.

Il problema dell’ammissione ai Sacramenti non era l’argomento da me toccato. L’argomento da me toccato era rivolto alla affermazione citata sopra.

“nessuno - tranne i mistici come Padre Pio, ma ovviamente è un caso particolare che lasciamo stare - può stabilire con sicurezza se un altro è in stato di grazia o no; il famoso "foro interno" [....] Invece è l'Amoris Laetitia che pretende che il soggetto, guidato dal prete, sarebbe in grado di stabilirlo (il famigerato "discernimento", in senso distorto) anche in presenza di un dato oggettivo contrario (per esempio, il citato concubinato)“

Personalmente io ritengo che sia più prudente astenersi dai Sacramenti in tali situazioni, ma faccio notare che tale discernimento non è nulla di nuovo. È stato già fatto, all’epoca di San Giovanni Paolo II, al riguardo della contraccezione, per esempio. Prego leggere qui http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1344740.html

Come si può leggere dall’articolo, già all’epoca non era stato mandato ai confessori di attenersi esclusivamente al dato oggettivo. Infatti non serve la certezza assoluta per assolvere qualcuno, è sufficiente formarsi una certezza morale al riguardo. Anche perché, se servisse la certezza assoluta, nessuno potrebbe mai accedere ai Sacramenti.

Nemmeno gli scismatici ortodossi, che pure secondo il codice di diritto canonico possono essere ammessi ai Sacramenti sulla base della loro buona fede (e del fatto che credono nella transustanziazione come noi e hanno validi Sacramenti, condizioni che ad esempio, laddove mancano -come nel caso dei protestanti- non permettono l’accesso ai Sacramenti nemmeno se si è in buona fede) anche se di fatto rimangono ortodossi e quindi scismatici (per la cronaca, rifiutare di convertirsi alla Chiesa Cattolica è peccato mortale contro il primo comandamento, come stabilito dal Concilio di Firenze, se si rifiuta la conversione colpevolmente).

Marco Porfiri

Fabrizio Giudici ha detto...

ma faccio notare che tale discernimento non è nulla di nuovo.

Faccio notare che ho scritto che è roba nota da secoli.

Anonimo ha detto...


La questione 3 posta dai cardinali non afferma la stessa cosa del Papa.

Visto il tenore di Amoris Laetitia n. 305 essi si chiedono se le persone che vivono oggettivamente in peccato mortale (adulteri, concubini) siano da considerarsi oggettivamente sempre in peccato mortale, anche se soggettivamente potrebbero non esserlo. "Potrebbero", dato incerto, riguardante la coscienza.

Il problema posto da AL 305 consiste nel fatto di render incerta la nozione di una situazione oggettiva di peccato. E come la rende, dubbia o incerta?
Proprio con l'affermare che, pur trovandosi e restando in questa situazione oggettiva di peccato, il peccatore possa ugualmente "vivere in grazia di Dio", usufruendo persino di quell'aiuto della Chiesa costituito dalla partecipazione alla Comunione!
E come fa il Papa a dire una cosa del genere? Presumendo una incolpevolezza soggettiva o colpevolezza non piena: questa purezza interiore (anche se a metà) sarebbe sufficiente a ritenere che il peccatore possa (continuare) a vivere in grazia di Dio. Ma questa non è la dottrina della Chiesa, è Jean-Jacques Rousseau, siamo tornati alla sua "Professione di fede di un Vicario Savoiardo"!
AL 305 sembra svuotare la nozione stessa di "situazione oggettiva di peccato", giocando sulla supposta "incolpevolezza soggettiva o colpevolezza non piena [?]" del peccatore. Da qui la legittima richiesta dei Dubia. La svuota, perché, nonostante la sua permanenza in essa, al peccatore verrebbe consentito di accedere ad un Sacramento come la Comunione.
PP

Catacumbulus ha detto...

PP ha scritto: "Il problema posto da AL 305 consiste nel fatto di render incerta la nozione di una situazione oggettiva di peccato".

Il grosso problema è anche, almeno mi pare, quello della sensatezza di una concezione che obbligherebbe a intendere l'aiuto della grazia come indefinitamente efficace, sebbene per ipotesi si sia in presenza di un reiterato comportamento oggettivamente peccaminoso. In altre parole, e traducendo in termini filosofici, se si ipotizzano non solo rare eccezioni, ma situazioni lungamente perduranti in cui un individuo, pur reiterando comportamenti in sé moralmente cattivi, non sia moralmente colpevole, in quanto soggettivamente inconsapevole della malizia dei propri atti, allora si giunge ad una permanente scissione tra il male oggettivo che si compie e la coscienza che se ne ha. Il che configurerebbe come sensato il paradigma etico cosistente nella realizzazione di atti umani moralmente perfezionanti, nonostante essi siano da considerarsi in sé cattivi, poiché su questo San Tommaso è molto chiaro: "bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu".

Ecco perché San Tommaso quando fa esempi di soggettività innocente, fa esempi relativi a cause particolari di incolpevolezza soggettiva e nega esplicitamente che ciò sia possibile rispetto ai principi generali della legge naturale. Se uno di notte e al buio entra nel proprio letto e giace con quella che crede essere sua moglie, quando invece si trattava di altra donna molto simile, non commette peccato, benché oggettivamente si tratti di atto di adulterio, poiché ignorava incolpevolmente che si trattasse di altra donna. Qui, oltre al fatto che si tratta di un caso ben diverso da quello in cui uno neghi che il suo atto consapevole di adulterio sia tale, si tratta anche di cogliere la particolarità della circostanza come indicatore di "rarità", ossia del verificarsi probabilisticamente molto basso del fatto, che, di conseguenza, si realizzerà solo eccezionalmente.

Una tale scissione permanente in modo indefinito implicherebbe anche la concezione secondo cui anche reiterate spiegazioni, non potrebbero giungere a rendere evidente la verità nemmeno dei principi morali fondamentali; come se vi fossero oggettive difficoltà di comprensione rispetto ai principi più elementari e non, EVENTUALMENTE (se fosse sensato ipotizzare la possibilità di innocenza soggettiva anche rispetto alla trasgressione oggettiva di principi morali basilari...), dosi massicce di plagio, capaci di offuscare, solo temporaneamente ed eccezionalmente, ciò che, invece, normalmente è facilmente coglibile da tutti (ossia la verità dei principi primi della legge naturale).

Catacumbulus ha detto...

Quindi, per concludere, mentre si può sostenere che l'innocenza soggettiva eviti, quando limitata a qualche episodio, che il livello di perfezionamento previamente raggiunto venga compromesso, mi pare molto più difficile sostenere che realizzare il male, pur in presenza di scusante soggettiva, possa portare addirittura ad un ulteriore perfezionamento morale (paragonabile, dunque, a quello che si avrebbe con il compimento di un atto morale integro anche nella propria componente oggettiva).

Ciò specialmente nel caso in cui si preveda una serie indefinita di atti oggettivamente cattivi e soggettivamente incolpevoli (come postulato in AL); perché ciò finirebbe per compromettere la sensatezza dell'etica stessa, il cui senso, appunto, è quello di realizzare cose buone, non, semplicemente, buone intenzioni legate a risultati oggettivamente malvagi e deleteri (almeno per i terzi).

Se possibile gradirei avere un parere su questo da parte del prof. Pasqualucci. Grazie

Anonimo ha detto...


# Catacumbulus

Concordo.
PP

Anonimo ha detto...

“E come fa il Papa a dire una cosa del genere? Presumendo una incolpevolezza soggettiva o colpevolezza non piena: questa purezza interiore (anche se a metà) sarebbe sufficiente a ritenere che il peccatore possa (continuare) a vivere in grazia di Dio. Ma questa non è la dottrina della Chiesa, è Jean-Jacques Rousseau, siamo tornati alla sua "Professione di fede di un Vicario Savoiardo"! ”

Non è così. La I colpevolezza soggettiva o colpevolezza non piena fa si che il peccato grave oggettivo non si traduca in peccato mortale soggettivo, che è l’unico che porta alla perdita della Grazia.

Perciò non è scorretto dire che una persona che vive in situazione oggettiva di peccato, se non ne è pienamente colpevole, possa non essere, la sua anima, in stato di peccato mortale.

“1862 Si commette un peccato veniale quando, trattandosi di materia leggera, non si osserva la misura prescritta dalla legge morale, oppure quando si disobbedisce alla legge morale in materia grave, ma senza piena consapevolezza o senza totale consenso” (Catechismo. Della Chiesa Cattolica).

Poi

“AL 305 sembra svuotare la nozione stessa di "situazione oggettiva di peccato", giocando sulla supposta "incolpevolezza soggettiva o colpevolezza non piena [?]" del peccatore. ”

No, ciò sarebbe avvenuto qualora si fosse affermato che l’adulterio, in certe circostanze, possa essere virtuoso o peccato di materia leggera, invece è sempre peccato grave, è la colpevolezza. Soggettiva che può essere leggera. Commettere adulterio è sempre materia grave.


Marco Porfiri

Anonimo ha detto...

@Catacumbulus

“dosi massicce di plagio, capaci di offuscare, solo temporaneamente ed eccezionalmente, ciò che, invece, normalmente è facilmente coglibile da tutti (ossia la verità dei principi primi della legge naturale).”

E infatti è ciò che è avvenuto in Occidente con la rivoluzione sessuale. Ha reso quasi incomprensibili, o molto difficili da capire, i principi della nostra morale cattolica.

Poi non sottovaluti l’ignoranza abissale di molti. Molti si sposano senza addirittura nemmeno avere chiaro cosa significhi davvero indissolubilità, ed è per questo che molti Matrimoni sono di fatto nulli, perché molti si sposano rigettando implicitamente il Bonum Sacramenti, che è una delle condizioni essenziali per la validità di un Matrimonio.

Riguardo al plagio, per esempio un islamico anche di buona volontà ben difficilmente sarà convinto della malvagità della poligamia, per esempio.

In Occidente è avvenuta una rivoluzione che ha reso agli occhi di molti assurdi e incomprensibili i principi morali della Chiesa.

Comunque Al non si focalizza tanto sulla conoscenza della norma, quanto sul deliberato consenso, per esempio di quei cattolici che si sono risposati con non cattolici e magari hanno pure messo su famiglia.

Per vivere in castità bisogna essere in due, e una persona che non ha Fede Cattolica ben difficilmente accetterà quella che a lei sembra una intrusione nella propria vita privata e di coppia, e alla lunga in molti casi risulterebbe in una separazione, deleteria laddove ci sono figli.

È per questo che in Al è scritto che “un soggetto si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa”: perché in tal caso l’applicazione “cieca” di FC84 porterebbe proprio a ciò che FC84 voleva evitare, cioè la separazione (in FC84 si parla di casi in cui la separazione non è possibile, e tra i vari casi quelli dove ci sono figli sono i primi che balzano alla mente).


Marco Porfiri

Catacumbulus ha detto...

Marco Porfiri ha detto: "non è scorretto dire che una persona che vive in situazione oggettiva di peccato, se non ne è pienamente colpevole, possa non essere, la sua anima, in stato di peccato mortale".

Come ho detto sopra, l'assurdità emerge quando non ci si limiti a enunciazioni generiche di principi in sé validi: ciò che è dirimente è qui l'eccezione rispetto alla regola. In AL si postulano "astrattamente" situazioni continuative (regolari, nel senso di non eccezionali) di peccato oggettivo grave e ciò nonostante soggettivamente incolpevoli, che, se realmente possibili, implicherebbero l'annichilimento dell'essenza stessa dell'etica (già a livello filosofico).

Infatti se si dovesse supporre che lo sviamento morale di massa a cui assistiamo in Occidente (e che anche lei ricorda), pur essendo oggettivamente gravissimo (con effetti criminali che sono sotto gli occhi di tutti, si pensi all'aborto di massa o all'eutanasia di stato del piccolo Alfie), sia purtuttavia soggettivamente incolpevole, allora si avrebbero almeno due conseguenze assurde: 1) significherebbe che il Creatore avrebbe posto regole morali di base in sé troppo difficili da comprendere, oppure che non avrebbe dato facoltà intellettuali sufficienti per comprenderne facilmente la verità; 2) l'etica diverrebbe una catena di azioni cattive e annichilenti, compiute da coscienze erronee, ma innocenti, il che corrisopnderebbe al non senso stesso dell'etica, che non è, come dicevo, quello di "salvarsi soggettivamente in corner", ma quello di portare alla realizzazione di azioni buone in toto, ossia buone sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo.

Inoltre si dimentica completamente la questione dell'ignoranza colpevole, che è un discorso molto complesso, che può essere affrontato solo sul piano oggettivo, quello presupposto in confessionale (nel confessionale inteso correttamente secondo i principi e criteri tradizionali), mentre è totalmente un sofisma il pretendere di affrontarlo tramite "discernimento" dirimente, se non si è dotati, come P. Pio, di poteri sovrannaturali.

Anonimo ha detto...


Giusto porre l'accento su un concetto dimenticato: l'ignoranza
colpevole. Ma c'è qui ignoranza?

Secondo me, non è nemmeno da dire che, nel caso di AL 305 e relativa nota, si possa invocare l'ignoranza colpevole. La questione sollevata da Al si è concentrata sul fatto dei divorziati risposati (cattolici) che continuino ad avere rapporti sessuali e ciononostante vengano autorizzati, dal testo del Papa come interpretato dai vescovi argentini e tedeschi e da lui stesso in modo ufficiale, a ricevere la Comunione. Una Comunione che, secondo la dottrina trdizionale, sarebbe sacrilega perché ricevuta in stato di peccato mortale.

Ora, nel caso di specie, dov'è qui l'ignoranza colpevole? Non c'è nessuna ignoranza. Vogliamo ritenere che la coppia di divorziati risposati ignori che il continuare ad avere rapporti intimi costituisce peccato mortale, data la situazione adulterina nella quale per la Chiesa oggettivamente essi si trovano? Non possiamo essere così ingenui. S
Stiamo parlando di cattolici, di una coppia di divorziati risposati che va a Messa, si confessa e vuole fare la Comunione, restando però così com'è, senza tentare di fare lo sforzo di praticare la castità, come concesso loro dalla Chiesa, con GPII, se non erro, per potersi accostarer al Sacramento.
Mi sembra che qui non si possa invocare in nessun modo una presunta ignoranza o mancanza di consapevolezza, più o meno piena. Qui, sempre a mio modesto avviso, c'è invece la superbia e l'arroganza di chi vuole prevaricare nei confronti della morale e della dottrina cattoliche e adesso ci riesce, avendo trovato un Papa che lo accontenta.
La pretesa della castità coniugale appare eccessiva? Certo, in termini umani può sembrarlo. Ma Gesù non ha forse detto: "Chi non prende la sua croce come me non è degno di me"? E che il suo "carico" è leggero? Leggero? Leggero se inteso nel modo giusto, quello soprannaturale, della fede, della Grazia cui ci si deve affidare con fiducia appunto per portare un carico così pesante (che una volta portato, diventa leggero, perché Gesù NS lo porta con noi).
In ogni caso, ai divorziati risposati cattolici nessuno proibisce di andare a Messa, di confessarsi. Sul loro grado di colpevolezza interiore Dio giudicherà, il giorno del giudizio. Si rimettano al Giudizio di Dio, se sono in buona fede e non se la sentono di portare la croce della castità. Ma è una ben falsa misericordia, fondata, lo ripeto, su di un sentimentalismo alla Rousseau, quella che consente loro di praticare Comunioni sacrileghe, di percorrere una Via Larga che sappiamo dove conduce.
Più realisticamente: che sanziona come valido un grave abuso, quello di tali comunioni, già praticate da anni, nella prassi della componente progressista del clero.
PP

Anonimo ha detto...

“Stiamo parlando di cattolici, di una coppia di divorziati risposati che va a Messa, si confessa e vuole fare la Comunione, restando però così com'è, senza tentare di fare lo sforzo di praticare la castità, come concesso loro dalla Chiesa, con GPII, se non erro, per potersi accostarer al Sacramento”

A dire il vero no. Io ho parlato di coppie di divorziati risposati in cui solo uno dei due è cattolico.

Mi tocca autocitarmi perché vedo che sono stato frainteso

“Comunque Al non si focalizza tanto sulla conoscenza della norma, quanto sul deliberato consenso, per esempio di quei cattolici che si sono risposati con non cattolici e magari hanno pure messo su famiglia. Per vivere in castità bisogna essere in due, e una persona che non ha Fede Cattolica ben difficilmente accetterà quella che a lei sembra una intrusione nella propria vita privata e di coppia, e alla lunga in molti casi risulterebbe in una separazione, deleteria laddove ci sono figli.È per questo che in Al è scritto che “un soggetto si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa”: perché in tal caso l’applicazione “cieca” di FC84 porterebbe proprio a ciò che FC84 voleva evitare, cioè la separazione (in FC84 si parla di casi in cui la separazione non è possibile, e tra i vari casi quelli dove ci sono figli sono i primi che balzano alla mente).”

Mi sembra evidente che, invece, nel caso da lei citato (a meno che non siano stati ingannati incolpevolmente da un sacerdote modernista) non possa essere data l’assoluzione se non c’è almeno l’impegno a vivere in castità. Perché in quel caso sono entrambi cattolici.

Marco Porfiri

Anonimo ha detto...

“Come ho detto sopra, l'assurdità emerge quando non ci si limiti a enunciazioni generiche di principi in sé validi: ciò che è dirimente è qui l'eccezione rispetto alla regola. In AL si postulano "astrattamente" situazioni continuative (regolari, nel senso di non eccezionali) di peccato oggettivo grave e ciò nonostante soggettivamente incolpevoli, che, se realmente possibili, implicherebbero l'annichilimento dell'essenza stessa dell'etica (già a livello filosofico). ”

Ma sono realmente possibili. Un esempio è il dogma dell’Extra Ecclesiam Nulla Salus. Una persona può rifiutare la conversione alla Chiesa Cattolica (come fanno ad esempio gli ortodossi e i protestanti, ma anche gli islamici e i buddisti) e salvarsi appartenendo comunque invisibilmente ad essa se il suo rifiuto è in buona Fede e non colpevole.

Il Concilio di Firenze, nella Bolla Cantate Domino, sancisce infallibilmente che i pagani, gli ebrei, gli eretici e gli scismatici andranno all’inferno se non uniti alla Chiesa Cattolica almeno prima della loro morte, ma questo non essere uniti alla Chiesa Cattolica presuppone una colpevolezza personale, soggettiva, anche se dal punto di vista oggettivo de facto rifiutano la conversione.

Come vede qui siamo proprio in un caso dove c’è una discrasia tra situazione oggettiva e soggettiva: esternamente la persona rifiuta la Chiesa e non appartiene ad essa, ma la sua buona Fede può far sì che detta persona faccia comunque parte della Chiesa (condizione necessaria per la salvezza) invisibilmente.

Perciò non concordo che una eventuale situazione di peccato oggettivo protratta che non sia accompagnata da colpa grave personale annichilisca l’etica. Sono praticamente certo, per fare un esempio, che molti islamici in buona fede e di buona volontà che praticano la poligamia non abbiano colpa grave personale, essendo convinti fermamente che detta pratica sia benedetta da Dio stesso. Quello, insieme a quella dello scismatico o del pagano o dell’ebreo o del musulmano che rifiuta la conversione in buona Fede, è un altro esempio di discrasia tra situazione oggettiva prolungata nel tempo e colpevolezza personale.

Marco Porfiri

Catacumbulus ha detto...

Marco Porfiri ha scritto: "Una persona può rifiutare la conversione alla Chiesa Cattolica (come fanno ad esempio gli ortodossi e i protestanti, ma anche gli islamici e i buddisti) e salvarsi appartenendo comunque invisibilmente ad essa se il suo rifiuto è in buona Fede e non colpevole".

Questo è un esempio puramente teorico, che mette insieme casi ipotetici molto distanti, e perciò dotati di gradazioni molto diverse di possibilità concreta di realizzarsi (un buddista, un mussulmano, un protestante e un ortodosso si collocano ad una distanza culturale molto diversa dalla verità che rifiutano); ma soprattutto intrinsecamente incerti sul piano pratico (perché, come già ricordato più volte, solo Dio può leggere le intenzioni reali del cuore), ossia proprio sul piano che in ultimo conta per stabilire le regole etiche entro cui gestire i casi concreti (nel nostro caso le regole a cui il sacerdote si deve attenere in confessionale). Non si può stabilire alcuna regola sensata che tratti ciò che è impossibile conoscere con evidenza come se lo fosse. L'unica regola generale che può valere di fronte all'incerto è la massima prudenza, altrimenti si cade automaticamente nella massima imprudenza, corrispondente ad accondiscendenza.

A mio avviso, inoltre, il caso di qualcuno che, dicendosi cattolico, pretenda gli venga concessa l'assoluzione e poi anche la Santa Eucarestia, pur sapendo di trovarsi in una condizione che sia la morale naturale (quella comprensibile senza bisogno della Rivelazione), sia la Rivelazione, sia la Tradizione teologica cattolica, sia il Magistero della Chiesa condannano, ebbene è un caso di specie totalmente diversa, e dunque assolutamente non paragonabile a quello da lei fatto della Extra Ecclesiam Nulla Salus.

A meno che uno possa dirsi legittimamente cattolico senza mai avere aperto in vita sua un catechismo, o senza che mai gli venisse spiegato. E, anche se così fosse, il punto non è quello della sua ignoranza di fatto, ma, come fa notare San Tommaso, il punto consiste nel dovere morale che costui aveva (e che per definizione ha disatteso) di istruirsi adeguatamente (o di essere istruito) sia come uomo, sul piano naturale, sia come fedele cattolico. Una tale omissione non è scusabile, esattamente come non lo sarebbe quella di chi, guidando una macchina, non si fosse preoccupato di procurarsi la patente, dato che non è immaginabile che si possa essere incolpevolmente ignoranti del dovere che si ha di informarsi su come una cosa così complessa e importante, nei possibili effetti negativi, vada imparata e gestita. Allo stesso modo, e a fortiori, dato che si tratta delle verità ultime e divine (che devono essere le prime da considerarsi nell'agire quoad nos), non è ammissibile che ci si vada a confessare e comunicare senza essersi preoccupati di intenderne il senso stesso.

Bisogna allora giungere alla conclusione che, poiché qui non ha senso ritenere legittima un'omissione, vi sia stata l'occasione di una reale comprensione, ma che, per qualche motivo, essa non abbia avuto esito positivo. Ebbene, in questo caso l'unico motivo che si avrebbe per non ritenere sufficiente la soluzione consistente in un supplemento d'istruzione, è che in realtà per un motivo o per l'altro non si ha fiducia nella forza stessa della verità. E allora si fa finta di essere "misericordiosi", concedendo ciò che rischia di dannare entrambi, il "concedente" e colui a cui facoltà di perdurare in oggettivi atti peccaminosi sia stata concessa.
[continua]

Catacumbulus ha detto...


Infatti, non ha veramente senso sostenere che costituirebbe condizione maggiormente favorente il disvelamento della verità, il fatto di permettere al sedicente penitente di continuare a vivere in una condizione oggettiva di peccato. A meno che non si abbia l'ardire di sostenere che un'azione in sé malvagia, per quanto soggettivamente innocente (e anche questo per ipotesi estrema nel caso considerato), non solo si limiti a non compromettere quanto guadagnato in precedenza, ma addirittura possa costituire fonte di ulteriore perfezionamento. Che è come dire che la condizione di uno che stia su una macchina rimasta senza benzina, non sia quella di uno che è fermo nel punto dove era giunto con la benzina, ma addirittura che sia quella di uno che sta continuando a macinare chilometri di viaggio.

La condizione di uno bloccato al palo di azioni oggettivamente malvagie, ma soggettivamente innocenti (per ipotesi), non è la condizione di uno che possa restare indefinitamente in tale condizione senza, presto o tardi, cadere in un vero e proprio peccato; perché sarebbe come dire, mi ascolti bene, CHE IL MALE OGGETTIVO NON HA REALE INFLUENZA NEL RENDERE MENO PROBABILE DEL SUO CONTRARIO (IL BENE OGGETTIVO) LA PRESENZA DI UNA COSCIENZA RETTA. Ma stiamo scherzando? Queste sono ESCLUSIVAMENTE condizioni limite del tutto eccezionali, di cui, per di più, in via pratica non si può mai essere minimamente certi, essendo molto più probabile il contrario. Essendo, cioè, molto più probabile che un divorziato risposato e cattolico, che pretende di ottenere l'assoluzione e l'Eucarestia, lo faccia nel migliore dei casi per ignoranza COLPEVOLE, quando non per un ben cosciente atto di orgoglio tipico delle rivendicazioni moderne dei "diritti soggettivi". Ecco perché dicevo che questi casi possono essere plausibili solo come eccezioni e che intenderli come possibili condizioni perduranti in modo indefinito, significa stravolgere il senso stesso dell'etica.

Anonimo ha detto...

Catacumbulus

“Non si può stabilire alcuna regola sensata che tratti ciò che è impossibile conoscere con evidenza come se lo fosse. L'unica regola generale che può valere di fronte all'incerto è la massima prudenza, altrimenti si cade automaticamente nella massima imprudenza, corrispondente ad accondiscendenza.”

Peccato che il codice di diritto canonico, ad esempio, ammette alla Comunione gli scismatici ortodossi senza che, necessariamente, rinuncino al loro scisma e si convertano, se sono in buona Fede https://www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=4284

Il fatto però che siano in buona Fede non cancella il fatto che abbiano il dovere oggettivo di convertirsi alla Chiesa Cattolica, perché gli scismatici vanno all’inferno quando colpevoli del loro rifiuto di conversione.

Perciò come vede qui la Chiesa stessa non si è attenuta alla massima prudenza di cui parla, visto che solo Dio può conoscere con certezza assoluta quanto il rifiuto di convertirsi di uno scismatico sia innocente o colpevole.

“E, anche se così fosse, il punto non è quello della sua ignoranza di fatto, ma, come fa notare San Tommaso, il punto consiste nel dovere morale che costui aveva (e che per definizione ha disatteso) di istruirsi adeguatamente (o di essere istruito) sia come uomo, sul piano naturale, sia come fedele cattolico. Una tale omissione non è scusabile, esattamente come non lo sarebbe quella di chi, guidando una macchina, non si fosse preoccupato di procurarsi la patente, dato che non è immaginabile che si possa essere incolpevolmente ignoranti del dovere che si ha di informarsi su come una cosa così complessa e importante, nei possibili effetti negativi, vada imparata e gestita. Allo stesso modo, e a fortiori, dato che si tratta delle verità ultime e divine (che devono essere le prime da considerarsi nell'agire quoad nos), non è ammissibile che ci si vada a confessare e comunicare senza essersi preoccupati di intenderne il senso stesso. ”

Quello di cui ancora una volta non tiene conto è che molti sono sviati da falsi insegnamenti ricevuti dai modernisti, perciò credono in perfetta buona Fede di sapere tutto quello che c’è da sapere.

“A meno che non si abbia l'ardire di sostenere che un'azione in sé malvagia, per quanto soggettivamente innocente (e anche questo per ipotesi estrema nel caso considerato), non solo si limiti a non compromettere quanto guadagnato in precedenza, ma addirittura possa costituire fonte di ulteriore perfezionamento. ”

Io non l’ho mai detto. Ho detto che può non far perdere l’amicizia con Dio, non che sia fonte di ulteriore perfezionamento. E non credo nemmeno che sia così estrema come dice, di questi tempi. Certo, non saranno tutti e nemmeno la maggioranza, ma da lì a porla come una quasi impossibilità ce ne passa (è lo stesso modo di ragionare che hanno coloro che dicono che si salvano solo coloro che visibilmente sono appartenenti alla Chiesa Cattolica).

Continua nel prossimo post....

Marco Porfiri



Anonimo ha detto...


“Infatti, non ha veramente senso sostenere che costituirebbe condizione maggiormente favorente il disvelamento della verità, il fatto di permettere al sedicente penitente di continuare a vivere in una condizione oggettiva di peccato.”

Ci sono situazioni invece, dove è meglio evitare, almeno al momento, di svelare la verità al fedele, laddove si prevede che non si emenderebbe e cadrebbe in una colpa peggiore.

Cito Sant’Alfonso
“ se il confessore prudentemente giudica che l'ammonizione sia per nocere al penitente, allora deve farne a meno e lasciare il penitente, nella sua buona fede; ed in ciò s'accordano anche gli autori più rigidi. La ragione si è, perché si deve maggiormente evitare il pericolo del peccato formale che del materiale,mentre Dio solamente il formale punisce, poiché da questo solo si reputa offeso” http://www.intratext.com/IXT/ITASA0000/_P2RD.HTM



Poi

“Queste sono ESCLUSIVAMENTE condizioni limite del tutto eccezionali, di cui, per di più, in via pratica non si può mai essere minimamente certi, essendo molto più probabile il contrario. Essendo, cioè, molto più probabile che un divorziato risposato e cattolico, che pretende di ottenere l'assoluzione e l'Eucarestia, lo faccia nel migliore dei casi per ignoranza COLPEVOLE, quando non per un ben cosciente atto di orgoglio tipico delle rivendicazioni moderne dei "diritti soggettivi”

No, io non parlavo di questo. Posto che, come già detto, ritengo che sia più prudente astenersi dall’Eucarestia per chi è in situazione di peccato grave, io parlavo di situazioni dove la persona ha libertà limitata di agire diversamente, ovvero non pienamente colpevole.

Familiaris Consortio parla di divorziati risposati che NON POSSONO separarsi, ad esempio laddove hanno figli da educare nati dalla nuova unione e una separazione sarebbe deleteria per loro. Ora, applicare FC in modo “cieco”, anche laddove ad esempio un cattolico si è unito more uxorio ad un non cattolico che non accetta la dottrina della Chiesa (e quindi non accetterebbe l’imposizione della castità), significa distruggere detta famiglia, perché il rapporto si romperebbe visto che il non cattolico non accetterebbe tale precetto.

In tal caso penso che al cattolico in questa relazione possa essere concessa l’assoluzione, se è pentito ma realizza che al momento non può, per fattori oltre il suo controllo, ottemperare al sesto comandamento perché farlo porterebbe alla distruzione della famiglia con danno dei figli nati da essa (e ripeto, San Giovanni Paolo II stesso parla di famiglie che NON POSSONO ottemperare all’obbligo della separazione; significa che anche FC riconosce che sarebbe deleterio per alcune unioni di divorziati risposati separarsi -laddove ci sono figli soprattutto- e quindi non ha senso insistere su una applicazione cieca di FC84 stessa che porterebbe alla separazione, esito che, in quei casi, FC84 vuole evitare).

È chiaro che, ad esempio, se il divorziato risposato lo è con un’altra persona a sua volta Cattolica, in questo caso devono almeno impegnarsi sinceramente a vivere in castità per ricevere l’assoluzione.

Io parlavo quindi di un caso abbastanza particolare.

Quello poi di cui deve tenere conto è che molti di questi divorziati risposati, come ho già scritto, non hanno un Matrimonio valido alle spalle, non essendosi mai sposati validamente (spesso per rifiuto implicito del bonum Sacramenti, cioè l’indissolubilità). Per quello dicevo che secondo me le situazioni di non piena colpevolezza non sono poi così rare, perché si è perso così tanto il senso cattolico nella popolazione che molti si sposano invalidamente, spessissimo anche complice una insufficiente o cattiva istruzione ricevuta prima.

Nel caso dei divorziati risposati con Matrimonio valido vale quanto ho scritto sopra, e a parte quel caso particolare che ho menzionato non possono essere assolti se almeno non si impegnano sinceramente a vivere in castità.

Spero di essermi spiegato in maniera più chiara.

Marco Porfiri

Catacumbulus ha detto...

@Marco Porfiri

Lei continua a portare esempi che, come le ho già detto, a mio avviso sono molto distanti e, dunque, non trattabili mediante analogia. Teniamoli almeno separati. Le rispondo comunque sul problema dei fedeli di altre confessioni cristiane. Io ho parlato di un criterio di massima prudenza e ciò non significa, ovviamente, separare la prudenza dalla verità.

Ora, non sono un teologo (dunque procedo a tentoni e spero di non sbagliarmi: qualcuno più sapiente mi corregga, se affermo sciocchezze), ma, applicando la logica, mi pare che se i sacramenti amministrati dalle chiese ortodosse in verità sono validi (ma non leciti), e in tali sacramenti rientra anche la confessione, allora ne discenda che è impossibile presumere, come condizione più probabile, la colpevolezza, ossia la condizione di peccato mortale per il comune fedele ortodosso in quanto tale (per un teologo ortodosso, sarebbe già molto diverso). Detto in altre parole, il discorso da farsi logicamente in questo caso, nel caso però dei soli fedeli ortodossi (o assimilabili), è esattamente quello opposto a quanto lei probabilmente (in base a quello che dice) si aspetterebbe da parte mia: nel caso dei fedeli ortodossi generalmente (ossia probabilisticamente fino a prova singola contraria) si deve avere presunzione di assenza di peccato mortale (per il fatto di appartenere alla chiesa ortodossa).

Infatti se un sacramento è amministrato validamente, ciò non può significare altro che esso ha intrinsecamente la possibilità di risultare efficace, ossia che esso può ottenere il suo fine specifico, quando amministrato. Dunque non avrebbe senso ritenere che il fatto di essere fedeli ortodossi corrisponda automaticamente a forte probabilità di trovarsi in peccato mortale, poiché ciò di fatto impedirebbe "sempre o per lo più" (secondo l'espressione aristotelica), la possibilità di efficacia al sacramento della confessione. Si avrebbe cioè l'assurda condizione in cui il sacerdote ortodosso sarebbe teoricamente in condizioni di amministrare una valida assoluzione, che, tuttavia, di fatto non potrebbe attuarsi, proprio perché essere fedele ortodosso implicherebbe ipso facto l'essere in peccato mortale. Anzi, si dovrebbe dedurne, non solo l'impossibilità d'efficacia del sacramento della confessione, ma addirittura l'impossibilità di evitare un sacrilegio, ogni volta che il potere di amministrare validamente il sacramento della confessione venga esercitato di fatto.

In questo caso, dunque, quanto detto dal diritto canonico rientra perfettamente nel criterio di massima prudenza che ho indicato: fino a prova singola contraria, il fedele comune ortodosso non deve essere ritenuto colpevole mortalmente per il fatto di appartenere alla chiesa ortodossa, poiché la validità dei sacramenti amministrati dalle chiese ortodosse, e in particolare quello della penitenza, implicano, generalmente parlando (ossia nel caso del fedele comune, ma non del teologo di professione: dunque nella maggioranza dei casi), la preminenza della loro validità e della loro possibilità d'efficacia sulle questioni teologiche riguardanti il primato della Chiesa di Roma e del papa.
[continua]

Catacumbulus ha detto...

Tutto ciò, in ultima analisi, poiché quello che ho definito come criterio della massima prudenza corrisponde al fine ultimo del diritto canonico e della Chiesa stessa, che è la "salus animarum", come dice San Tommaso: "finis iuris canonici tendit in quietem Ecclesiae et salutem animarum" (Quaestiones quodlibetales, 12, q. 16, a. 2).

Quindi, glielo faccio notare esplicitamente, nel caso dei fedeli ortodossi LA PRESUNZIONE DI INNOCENZA SOGGETTIVA E' DEDOTTA DA CRITERI OGGETTIVI, ossia a partire dal criterio oggettivo e "ontologico" della validità dei sacramenti, in base al quale risulta razionalmente necessario presumere dell'innocenza soggettiva nella maggioranza dei casi. In sintesi: non avendo senso un sacramento valido "sempre o per lo più" solo in teoria, vi deve essere la possibilità di applicarlo con efficacia e ciò implica presumere in positivo che nella maggioranza dei casi essere ortodossi non corrisponda di per sé a condizione soggettiva di peccato mortale.

Tutto ciò non vale per i protestanti, né, tanto meno, per i mussulmani e i buddisti. E, soprattutto, non vale nel caso del cattolico divorziato risposato, dove, invece, in base allo stesso criterio di prudenza, vale la presunzione contraria come più probabile, ossia la presunzione di colpevolezza, per tutti i motivi che ho già addotto (che sono motivi oggettivi, dai quali si desume con grande probabilità che vi sia ignoranza colpevole o addirittura precisa volontà rivoluzionaria).

In ultimo, quanto al suo insistere sul fatto della non piena libertà, piuttosto che su quello della non piena avvertenza. Rispondo solo che in AL è ben presente anche il caso della non piena avvertenza, che è ripreso in maniera sostanziale anche nelle "teorizzazioni" difensive di Buttiglione. E si tratta della questione più importante, poiché la volontà dipende dalla conoscenza, che rimane dunque l'aspetto primario. Però non dico altro, perché dovrei dilungarmi veramente molto.

Anonimo ha detto...

@Catacumbulus

“Infatti se un sacramento è amministrato validamente, ciò non può significare altro che esso ha intrinsecamente la possibilità di risultare efficace, ossia che esso può ottenere il suo fine specifico, quando amministrato. Dunque non avrebbe senso ritenere che il fatto di essere fedeli ortodossi corrisponda automaticamente a forte probabilità di trovarsi in peccato mortale, poiché ciò di fatto impedirebbe "sempre o per lo più" (secondo l'espressione aristotelica), la possibilità di efficacia al sacramento della confessione. Si avrebbe cioè l'assurda condizione in cui il sacerdote ortodosso sarebbe teoricamente in condizioni di amministrare una valida assoluzione, che, tuttavia, di fatto non potrebbe attuarsi, proprio perché essere fedele ortodosso implicherebbe ipso facto l'essere in peccato mortale. Anzi, si dovrebbe dedurne, non solo l'impossibilità d'efficacia del sacramento della confessione, ma addirittura l'impossibilità di evitare un sacrilegio, ogni volta che il potere di amministrare validamente il sacramento della confessione venga esercitato di fatto. “

Rimane il fatto che è, dal punto di vista oggettivo, un peccato grave non convertirsi alla Chiesa Cattolica.

E, tra l’altro, per essere chiari, il peccato in questione non è quello di appartenere alla Chiesa Ortodossa in quanto tale, ma quello di volere, una volta arrivati all’età della ragione, continuare ad appartenere ad una Chiesa scismatica invece che convertirsi alla Fede Cattolica.

E siccome solo Dio legge i cuori e può sapere con certezza assoluta (cosa diversa dalla certezza morale che può formarsi un confessore) se tali persone non si siano convertite senza colpa oppure no, la cosa più prudente da fare sarebbe non ammetterle alla Comunione Cattolica.

Come tra l’altro ha detto anche Athanasius Schneider riferendosi non solo ai protestanti, ma anche agli ortodossi.

“E, soprattutto, non vale nel caso del cattolico divorziato risposato, dove, invece, in base allo stesso criterio di prudenza, vale la presunzione contraria come più probabile, ossia la presunzione di colpevolezza, per tutti i motivi che ho già addotto (che sono motivi oggettivi, dai quali si desume con grande probabilità che vi sia ignoranza colpevole o addirittura precisa volontà rivoluzionaria).”

Ma quale volontà rivoluzionaria che molti non sono nemmeno sposati validamente e sono stati formati nell’ignoranza dottrinale più totale, spesso non per colpa loro, perché normalmente una persona si fida di ciò che le insegnano a Catechismo e in Chiesa e non pensa che le stiano dando una brodaglia annacquata? Ma lei lo sa che l’italiano medio non sa i dieci comandamenti? Ma di che stiamo parlando? Ma davvero lei sembra convinto che i cattolici italiani del XXI secolo siano simili a quelli del XVI secolo.

In ogni caso Al è chiara sul fatto che chi ostenta il proprio peccato oggettivo come se fosse conforme all’ideale della Chiesa non può accedere ai Sacramenti, quindi il caso da lei contemplato è già risolto.

“se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cfr Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione” (Amoris Laetitia 297).


Poi e ultima cosa

“Rispondo solo che in AL è ben presente anche il caso della non piena avvertenza, che è ripreso in maniera sostanziale anche nelle "teorizzazioni" difensive di Buttiglione. E si tratta della questione più importante, poiché la volontà dipende dalla conoscenza, che rimane dunque l'aspetto primario. “

Si, ma la volontà, per potere essere tradotta in atto, ha bisogno di libertà, libertà che nei casi da me elencati è fortemente compromessa.

Marco Porfiri

Catacumbulus ha detto...

@Marco Porfiri

Le ho già risposto.

1) Non ha senso pensare sia verosimile il caso di chi, divorziato e risposato, si presenti dal confessore pretendendo l'assoluzione, onde potersi comunicare, senza che sia informato su ciò che la Chiesa dice al proposito del matrimonio (e non solo la Chiesa, anche la legge morale naturale). Se ciò fosse possibile per assurdo, costui si troverebbe nelle medesime condizioni di uno che non si sia preoccupato di prendere la patente per guidare la macchina: tale ignoranza non gli sarebbe ascritta come "incolpevole" in nessun caso, perché qualsiasi essere razionale ha il dovere di informarsi su come cose così importanti vanno fatte, specialmente se si pretende di farle proprio in quanto ci si professa cattolici. Non prendiamoci in giro su una cosa del genere. Glielo ha fatto notare anche il Prof. Pasqualucci.

2) La fattispecie di persone che il sacerdote si trova di fronte in questi casi è sicuramente a stragrande maggioranza quella di persone che conoscono le regole morali e che, semplicemente, non le accettano e vi si contrappongono. Per questo ho parlato in modo sintetico di atteggiamento "rivoluzionario": si conosce la verità e la si rifiuta, pretendendo poi che gli altri si adeguino, riconoscendoci il diritto di continuare a rifiutarla.

Questo è quello che avvien sicuramente nella maggioranza di questi casi. Il resto sono sofismi basati sulla solita tattica dei casi estremi, del tutto astratti e improbabili.