Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 6 aprile 2021

Canto religioso popolare e liturgia rituale

Quello sviluppato di seguito è un tema mirato e particolare, per avviare una riflessione che possa anche avere un seguito, basata su un approccio estremamente costruttivo e fiducioso, che possa davvero guardare più lontano. In ordine alla Musica sacra, richiamo l'attenzione sull'indice dei numerosi articoli qui pubblicati.

In alcuni suoi recenti contributi il maestro Aurelio Porfiri sviluppava il tema del canto religioso popolare nel quadro delle riforme liturgiche del secolo passato.
Riproponiamo qui la falsariga di una sua agile messa a punto dottrinale per trarne allora le conseguenze della necessità di alcune riconsiderazioni ermeneutiche su quelli che furono gli antefatti della riforma liturgica stessa.

Prenderemo allora le mosse a ritroso dalla Sacrosanctum Concilium, che al paragrafo 118 del capitolo VI dice:
“Si promuova con impegno il canto religioso popolare in modo che nei pii e sacri esercizi, come pure nelle stesse azioni liturgiche, secondo le norme stabilite dalle rubriche, possano risuonare le voci dei fedeli.” Notiamo che vi si indica di promuovere con impegno il canto religioso popolare, e, questo termine va qui decifrato; badiamo bene che il canto popolare non è il canto liturgico, che, a norma dell’articolo 116, è il canto gregoriano e in subordine la polifonia.
Il canto popolare è esso a venirvi detto “religioso”, e tale termine individua quei repertori non volti agli impieghi liturgici ma, a diverse situazioni devozionali, come era ribadito nei documenti preconciliari. Si potrebbe obiettare che nel paragrafo 118 invece si afferma che questo canto può avere posto “nelle stesse azioni liturgiche” ma, e non è trascurabile, “secondo le norme stabilite dalle rubriche.”
E, cosa le rubriche dicevano, dobbiamo allora vederlo subito.

Ci rivolgiamo al motu proprio di San Pio X “tra le sollecitudini” (22/11/1903). Al capitolo III, paragrafo 7, indica qualcosa che già non dà adito a fraintendimenti:
“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina. È quindi proibito nelle solenni funzioni liturgiche cantare in volgare qualsiasivoglia cosa; molto più poi cantare in volgare le parti variabili o comuni della messa e dell’officio.”
Si intende dunque che qui si sta parlando in genere della messa e dell'officio come tali, e non invece a modo particolare come quando le messe vi ci fossero considerate solo per quelle di esse che restituissero speciali celebrazioni più solenni. Infatti il testo assumeva, al contrario, che le "funzioni" delle messe, solenni e lo sono già poi per il fatto di esserne sempre e comunque liturgiche.

Al canto in volgare, si allude più avanti (VI, 21), quando si dice:
Nelle processioni fuori di chiesa può esser permessa dall’Ordinario la banda musicale, purchè non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani. Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il concerto musicale si restringesse ad accompagnare qualche cantico spirituale in latino o volgare, proposto dai cantori o dalle pie congregazioni che prendono parte alla processione.” Il canto religioso popolare (per quanto non vi sia ancora chiamato così esplicitamente), pertanto è estraneo al rito liturgico. Nella Divini cultus sanctitatem (20/12/1928), papa Pio XI si rifà alle medesime prescrizioni di Pio X, particolarmente laddove si richiama quel coinvolgimento del popolo al canto liturgico il quale debba allora risolversene in una maggiore partecipazione di esso popolo al canto gregoriano stesso (“Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo. Occorre infatti che i fedeli, non come estranei o muti spettatori, ma, compresi veramente e penetrati dalla bellezza della liturgia, assistano in tal modo alle sacre funzioni – anche allorché si celebrano processioni solenni – da alternare la loro voce secondo le dovute norme, a quelle del sacerdote o della schola cantorum; se ciò accadrà felicemente, non si avrà più a lamentare quel triste spettacolo in cui un popolo non risponde affatto, o appena con un mormorio sommesso e indistinto, alle preghiere più comuni proposte in lingua liturgica ed anche in volgare.” (IX)).
Qui notiamo che si ribadisce il principio che il non assistere come estranei o muti spettatori presupponga proprio di attenersi a quella partecipazione attiva alla liturgia in cui al popolo sia restituito in ciò che gli spetta il canto gregoriano latino, e, non di meno, si evoca pure un'opportunità che tale restituzione del canto gregoriano ai fedeli possa essere estesa anche alle processioni esterne solenni, rilanciandovi l'obbligo della partecipazione popolare stessa in lingua poi sempre latina quando tali processioni siano allora liturgiche, ma sussistendo ancor sempre la possibilità di un canto religioso popolare in lingua invece volgare quando le processioni interessate liturgiche, proprio anzi, non ve lo siano. L'espressione usata infatti conferma che la lingua liturgica comunque non è quella poi invece volgare.

Più oltre, avremo la Mediator Dei (20/11/1947) di papa Pio XII. Ancora, vi si ribadisce la necessità di restituire al popolo la dignità di unirsi alla Schola almeno nelle melodie più semplici del canto gregoriano.
Troviamo però anche un passo rilevante sul canto religioso popolare:
“Vi esortiamo anche, Venerabili Fratelli, ad aver cura di promuovere il canto religioso popolare e la sua accurata esecuzione fatta con la conveniente dignità, potendo esso stimolare ad accrescere la fede e la pietà delle folle cristiane. Ascenda al cielo il canto unisono e possente del popolo nostro come il fragore dei flutti del mare, espressione canora e vibrante di un sol cuore e di un’anima sola, come conviene a fratelli e figli di uno stesso Padre.” (parte quarta, II).
Così, si persevera sulla linea tracciata dai predecessori, ed eppure c’è un'attenzione nuova per le moderne istanze che giungono dal Movimento liturgico e, finalmente se ne intanto sintetizza la menzione esplicita del canto religioso popolare.
Dello stesso Pio XII è l’enciclica Musicae sacrae disciplina (25/12/1955). Qui, dopo di essersi diffusi su di quella musica che viene definita realmente “liturgica” (gregoriano, polifonia) c’è una riflessione molto significativa:
“Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia per il suo contenuto e le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica religiosa. Invero anche questo genere di musica sacra – che ebbe origine in seno alla Chiesa e sotto i suoi auspici potè facilmente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata in chiesa durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia "fuori di chiesa" nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare... danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni.” (II).
Anche se sostanzialmente si continuano ad affermare i medesimi asserti e princìpi, si è altresì dischiusa un’attenzione rivolta all'indagine sul canto religioso popolare.
Nella riconferma dell’insegnamento precedente, si avverte un approccio diverso all'attenzione per il problema della partecipazione dei fedeli.
Si perviene a dire:
“A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della Chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma essendo più adatti all’indole ed ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, a seconda del carattere delle genti e dell’indole particolare delle nazioni e... quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata come una voce sola, con grande efficacia elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti”.
E sin qui si estrinseca il carattere assolutamente religioso nel senso di non liturgico e non rituale, di essi canti. Ma poi, si introduce una sottile dinamica:
"Perciò sebbene, come abbiam detto, nelle Messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle Messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare affinché i fedeli assistano al Santo Sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti...purché tali canti siano ben adattati alle varie parti del Sacrificio come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio spirituale.
Notiamo subito che qui ci si discosta dallo stile magisteriale di riferirsi, nel merito, alla già implicita solennità insita nella celebrazione liturgica di quell'eucaristia che debba essere intanto partecipata dal popolo: e ce se ne discosta per introdurvi qui l'ipotesi più analogica di una sorta di gradualità di condizione solenne entro della medesima celebrazione liturgica festiva.
Insomma, si postula qualcosa di simile ad una declinazione non piena, non perfetta, di certune messe qual che sia il loro grado celebrativo formale, tanto che in un tal senso metaforico se ne così considera la situazione allora tendenzialmente abusiva, difettiva, di una tal siffatta "non solennità" di simili situazioni pur celebrative.
E così si prende poi in considerazione il caso di certuni abusi diffusi e inveterati che però possano essere provvisoriamente resi sopportabili e tollerabili a partire almeno da determinate eccezioni ed attenuanti. Ossia, si mira a quelle situazioni in cui la prassi in pregiudicato è già purtroppo invalsa ma, semmai, in un modo allora meno insopportabile. E questa condizione si verifica allorché quell'improbabile adattamento dei canti religiosi volgari al Sacrificio, almeno vi sia stato già comunque intentato in quelle "parti del mondo" dove ciò stia nonostante tutto portando "un gaudio spirituale".
E con questo se ne ribadisce che normalmente tutte le messe quando hanno da essere partecipate pubblicamente e attivamente dai fedeli, devono essere ricondotte a quel loro tratto di solennità - quand'anche non strettamente cerimoniale - il quale presuppone il canto sempre in latino da parte dei fedeli stessi, e tuttavia se ne però aggiunge che pur e si daranno quelle circostanze che nel riguardo siano invece abusive e, pur diffuse, le quali però che tali e lo potranno allora esservelo in un modo poi momentaneamente anzi accettabile.
Ma in cosa consisterebbe, quindi, quel gaudio spirituale associato al pur estremo e irrealizzabile tentativo di adattare bene dei canti vernacolari e non liturgici alle varie parti del Sacrificio?
A cosa corrisponde, in realtà?
Ebbene, riscontriamo che la situazione che si vuole andare ad ovviare è quella di una mera persistenza inerziale dell'abuso inveterato e radicato di una riprovata pratica cantuale diffusa in determinati contesti regionali. Perché un margine di tolleranza rispetto a simili situazioni abbiamo visto che la disciplina ecclesiastica pur lo riservava, sia pure in vista della circostanza opportuna per poi porvi rimedio.
Ma qui possiamo intendere che, con lo sviluppo degli eventi, tale paziente attesa possa risultare non più sostenibile, secondo ora il pensiero di papa Pacelli.
Per tuttavia non indulgere allora semplicemente e drasticamente a un giro di vite disciplinare che sancisse una volta per tutte la fine della tolleranza per quegli abusi desueti che trascinano improvvide contaminazioni cantuali non liturgiche e non rituali entro le celebrazioni eucaristiche, pare di capire che Pio XII abbia allora potuto cercare di almeno però accelerarlo quel processo stesso di rinnovamento di tali desueti repertori popolari a-liturgici e però, consuetudinariamente eucaristici, il quale intanto ricercasse l'allora impossibile allineamento di essi repertori abusivi alla poi reale fisionomia rituale e sacrificale propria poi della messa.
Ma accelerandolo, allora, quel processo, di modo così da anzi promuovere l'abbandono delle consuetudini abusive proprio quindi assecondandolo, esso perseguimento dell'illusione pretestuosa di raggiungere quel vagheggiato riscatto della cantualità religiosa non liturgica, il quale che poi vi fosse appena da ottenersi entro la pretesa assurda di un auto-contraddittorio suo buon adattamento al lineamento invece liturgico del rito stesso.
Notevole l'audacia di una tale operazione: presuppone il quadro secondo cui dove sussiste una insistita consuetudine all'abuso del canto popolare irrituale entro la messa stessa, vi si possa pur sempre permettere che ancora ve li si inseriscano i canti popolari in lingua volgare, e anzi, quel quadro persino ve lo presuppone, assumendo pure il rischio di ciò non definirlo in senso immediatamente restrittivo, e ossia senza cioè chiarire, come invece si sarebbe potuto decidere di fare, che i canti di cui si permette l'inserimento avessero dovuto essere solo ormai quelli per cui specificamente già ne sussisteva la consuetudine, e non poi altri nuovi canti ad essi analoghi.
Ma questa anfibologia non risolta, non mirava ad aumentare un'ambiguità confusiva, quanto invece a favorire la rapida sostituzione di canzoni irrituali ma intanto inveterate, con altre sostanzialmente equivalenti ma illusoriamente meglio armonizzabili con la ritualità liturgica, le quali così però e finiscano per essere più facilmente e rapidamente rimovibili di quanto non lo sarebbero invece state quelle stesse pur pessime ma, invece inveterate, se intanto non avessero avuto ad esserne allora rilevate da queste poi nuove che poi solo apparentemente avranno dovuto rigenerarle, e così semmai tramandarne il rilancio d'un loro stesso criterio d'uso e non solo di una loro cogenza materiale. Insomma, il motivo di una certa qual variazione di approccio alla questione, da parte di papa Pacelli davvero potrà implicare l'intento opposto a quello che avrà potuto apparire e, che, fosse stato esso quello reale, avrebbe dovuto far anzi registrare un'incompatibilità insuperabile con il coerente e consolidato magistero precedente.
Resta poi da segnalare la suggerita eventualità della deroga pontificia dallo stesso obbligo di partecipazione popolare non in modo religioso vernacolare ma liturgico latino persino alle messe che restino poi intese tutte solenni anche proprio nella suddetta accezione analogica e perfettiva.
La discrezionalità pontificia di semmai concedere una tale estrema deroga tuttavia assomiglia sempre ancora ad essa medesima altrettanto ardita concessione che la Santa Sede avevamo visto volerla appunto concedere per le determinate eccezioni che non si volevano considerare solenni della celebrazione eucaristica stessa per la quale che poi, quelle stesse, di per sé solenni state anzi e ve lo sarebbero!
Si tratterà, insomma, di una residua ulteriore capacità di estendere la deroga dall'obbligo di piena partecipazione attiva in lingua latina che presenta la stessa fisionomia di esso medesimo arbitrato pontificio il quale stava intanto assumendosi l'onere di concedere la deroga dall'ascrizione stessa alla condizione di celebrazione solenne per quelle ritualità moderatamente abusive in cui ravvisava gli elementi temporaneamente scusanti.
Ma di quanto precedeva possiamo osservare ancor altri elementi che richiedono di essere mutuati secondo un'ermeneutica di continuità.
Potrebbe infatti sembrare se ne stesse dicendo che il non assistere come spettatori muti e inerti richiedesse proprio il canto religioso in lingua volgare nella liturgia stessa. Ma avevamo visto che nel linguaggio dottrinale il non essere spettatori muti presuppone al contrario i fedeli che partecipino col canto gregoriano latino. Allora è utile focalizzare di come si tratti che quelli non così tanto, ve ce ne allora poi partecipino da spettatori inerti quando che già in ciò pur vi ci incorrevano, cantando nella liturgia canti volgari non mai liturgici; perché sarà una sfumatura espressiva la quale in primo luogo ripete che la presunta partecipazione popolare che voglia essere liturgica e restare tuttavia religiosa volgare comunque tenderà proprio essa a rendere i fedeli spettatori muti e inerti, e però in secondo luogo poi concede che tale effetto negativo potrà essere almeno tuttavia attutito ed eccezionalmente perciò tollerato laddove peraltro sia già poi in atto.

Infatti si aveva anche proprio ribadito che:
“Dove una consuetudine secolare od immemorabile permette che nel solenne Sacrificio Eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli Ordinari permetteranno ciò qualora giudichino che per le circostanze di luogo e di persona tale (consuetudine) non possa prudentemente venir rimossa, ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.” (III).
Si ribadisce che liturgico è il canto che riveste le parole del messale, e queste parti non possono essere cantate in lingua volgare, ma neanche possono essere intervallate o seguite da parti aggiuntive non poi liturgiche e anzi vernacolari. E tuttavia, potrà pur sempre darsene una gradualità disciplinare nel procedimento di estirpazione di tali abusi.
Una gradualità tollerante che allora ci spiegherà, senza giustificarveli, i presupposti dell'insorgenza di quegli abusi propri anche della prassi manualistica stessa, i quali pur poi nella concomitanza temporale con una presentazione dottrinale di per sé infine netta e coerente, si saranno posti a precipitoso fattore di confusione nella dinamica divulgativa e didattica di materie che altrimenti sarebbero state abbastanza definite e orientanti.
Abusi interpretativi che attraverso l'assolutizzazione di principio di quanto in realtà sia stata una strategia tutta disciplinare, ancor oggi suscitano confusione ed equivoco in molti che pur sinceramente tentano di porsi ad interpreti e restauratori dei medesimi aspetti dottrinali sopra enunciati, col rischio infine di condursene a rigettare il carattere autenticamente invece dottrinale e irrinunciabile di quegli asserti essi davvero anzi di principio.

Comunque sia, l’istruzione De Musica Sacra et Sacra Liturgia (3/9/1958) della Sacra Congregazione dei Riti, infine puntualizzerà le suddette acquisizioni segnate dai due precedenti documenti di papa Pacelli.
Giunti a questo punto si possono trattenere dei dati ricorrenti: a) il canto liturgico è il canto gregoriano; b) la lingua liturgica è il latino; c) il canto religioso popolare in lingua volgare è incoraggiato, ma assolutamente non ha il suo posto nelle liturgie che sono intese realmente solenni: e ne trattiene uno poi non più che precario e residuale, in quelle messe che non siano ravvisate come davvero solenni d) esso promana dal canto liturgico ma con un carattere, appunto, più “popolare” così almeno da consentire ancora qualcosa di quella partecipazione dei fedeli che invece per essere autentica richiede che essi si associno davvero ai canti gregoriani latini; e) non sostituisce il canto liturgico (che usa testi liturgici ufficiali), ma ad esso potrà semmai venirne apposto solo in via appunto di eccezioni e tolleranze esse motivate da situazioni pregresse ben inveterate.
E infine ritrovandoci, qui, con il Porfiri:
"Il Concilio, certamente, cercherà di favorire ancora più fortemente la partecipazione dei fedeli. Tutta la Sacrosanctum Concilium è un continuo e forte richiamo alla partecipazione più “actuosa” [qui - qui]. Viene detto di curare il canto dei fedeli e le risposte, anche se non ci si spinge laddove non ci si può e non ci si deve spingere. La lingua liturgica rimane il latino, il canto liturgico il canto gregoriano, il canto in lingua volgare continua ad essere chiamato “canto religioso popolare”. Insomma, la spinta al cambiamento che verrà, va cercata nel contesto dell’intero documento e non estrapolando semplicemente qualche frase qui o là."
E tuttavia dalla Sacra Congregazione dei Riti, avremo poi infine l’Istruzione Musicam sacram (5/3/1967), dove nel proemio se ne afferma:
“Sotto la denominazione di Musica sacra si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia sacra antica e moderna... e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso.”
Il canto popolare insieme alla sua qualificazione di religioso, vi risulta anche nominato “liturgico”, tanto da lasciar sembrare che si sia giunti ad una svolta nuova rispetto alla dottrina liturgica precedente, in cui il canto popolare religioso era ultimamente extra liturgico. Ma, il punto è che qui per canto liturgico, proprio si comincia ad intendere tutt’altra cosa.
Si introdurrà una polisemia della dimensione ritualizzata che sgancia il senso del liturgico da quello che si sarebbe precedentemente inteso come rito. E dunque, con l'avvertenza di un tale mutamento di presupposto, in tale ambito diviene effettivamente conseguente una vera assimilazione di quanto era stato definito o religioso o liturgico, ma e non tanto allora per il trasfondersi della dinamica religiosa popolare in quella liturgica, quanto di più, per l'inverso. Ma una così lineare disambiguazione non sarà operabile circa l'ermeneutica dello sviluppo terminologico preconciliare, che richiede, come abbiamo accennato, una chiarificazione più articolata e attenta.
Lorenzo p. Franceschini
02/04/2021, Venerdi Santo

9 commenti:

C'è anche il problema delle traduzioni in volgare. Parallelismo in Iraq ha detto...

LATINIZZAZIONI, MUSEI E PASTICCI LITURGICI
Il 28 marzo avevamo pubblicato un articolo di biasimo delle latinizzazioni dei riti orientali e dell'energico intervento di Benedetto XIV nel 1743 contro tali latinizzazioni le quali non sempre sono avvenute per intervento latino ma sovente si sono verificate per l'insana tentazione degli orientali stessi di latinizzare qualcosa. Non avevamo parlato della scandalosa "riforma" liturgica operata dalla chiesa caldea perché vi era implicato pure papa Francesco e non abbiamo molta voglia di criticare pure le disinvolture liturgiche di papa Bergoglio per l'infimo livello al quale si situano. Visto però che Sandro Magister ha parlato del "nuovo messale" caldeo usato pure dal papa nella recente visita in Iraq, parliamone pure noi. Il patriarca caldeo in un comunicato annuncia trionfalmente che "la messa non è un museo". E ha ragione. Ma non è neppure una fiera di abiti alla moda che cambiano a ogni cambiar di stagione, non è un ristorante che adegua il proprio menù ai gusti dei nuovi avventori. Viene citato san Giovanni Crisostomo che disse esser la liturgia fatta per l'uomo e non il contrario. Anche qui si ha ragione ma siccome l'uomo è volubile e schiavo delle mode la liturgia non può essere cambiata ogni momento e quindi bisogna educare e formare l'uomo a capirla. L'educazione! La formazione! Ecco il cuore di ogni problema liturgico, latino come orientale: la formazione! Senza formazione liturgica si finisce per non capire più le tradizioni liturgiche; non capendo più le tradizioni liturgiche si finisce per odiarle e buttarle via, per sostituirle con prodotti nuovi "alla moda", che come tutte le cose alla moda diventeranno subito vecchie e sorpassate, fuori moda. Il patriarca caldeo per giustificare l'introduzione di nuove lingue nella liturgia afferma che "la nostra gente non capisce più la lingua siriaca e il suo vocabolario". Ma siccome ha pure ricordato come oramai non c'è più l'ignoranza di una volta e moltissimi sono i laureati....così come i sacerdoti e i fedeli conoscono molto bene l'inglese (lingua inserita ora dalla riforma liturgica) non avranno certo difficoltà a studiare pure un po di lingua siriaca. Il problema che questa "riforma" liturgica caldea evidenzia (e che adesso interesserà altre comunità cattoliche orientali che hanno già annunciato riforme liturgiche) è il modernismo che attraverso i principii dell'ultimo concilio è penetrato pure presso i cattolici orientali che, di fatto, si sentono indietro rispetto alle magnifiche sorti e progressive operate dai latini con le riforme liturgiche di Paolo VI. E il patriarca caldeo infatti dice chiaramente che la riforma liturgica caldea appena realizzata "segue le orme di quanto già fatto dalla Chiesa latina". Sandro Magister riferisce che alla messa papale in Iraq celebrata con questo rito caldeo latinizzato vi erano pure degli ortodossi i quali, dice Magister da acuto osservatore, "erano allibiti". Anche noi siamo allibiti della devastazione che il modernismo produce nella mentalità, anche di chi, come gli orientali, sono più attaccati alle tradizioni e più refrattari a cambiarle. La storia della riforma liturgica romana del 1969 e degli esiti catastrofici ai quali ha condotto in pratica non hanno insegnato nulla se non la voglia di seguirle. Sappiamo tuttavia che c'è già qualcuno tra i caldei che si oppone a questa bastardizzazione liturgica. Anche tra i caldei cioè nascerà un movimento identitario e "tradizionalista". Il patriarca caldeo afferma che la sacra congregazione romana per le chiese orientali fu creata "per aiutare" i riti orientali. Anche qui il patriarca ha ragione. La congregazione delle chiese orientali fu voluta proprio per aiutare i cattolici orientali a conservare e restaurare le loro tradizioni liturgiche, non per aiutarli a violentarle e buttarle via, come invece fa questa riforma liturgica caldea.

C'è anche il problema delle traduzioni in volgare. Parallelismo in Iraq ha detto...

...segue
Ci vorrebbe un papa con la cultura e la sensibilità liturgica del Lambertini; e invece ci ritroviamo un papa che proibisce le messe "private" in san Pietro ma poi va a celebrare messa privata in casa di un cardinale, addirittura il giovedì santo, quando l'unica messa deve essere quella cattedrale. La liturgia e il suo spirito, per i modernisti, è un giocattolo da smontare e rimontare a piacimento, un tappetino su cui pulirsi i piedi.
(Da Lo spigolatore romano. Piccole note di teologia liturgica romana)

Anonimo ha detto...


OT. Voyez comment le "catholique" Joseph Robinette Biden, président des très maçonniques Etats-Unis d'Amérique, célèbre Pâques :

https://sputniknews.com/us/202104061082550475-biden-family-celebrates-resurrection-and-renewal-on-easter-monday/

Pas de doute qu'avec ce genre d'imbécilité les USA méritent de diriger le monde !

Anonimo ha detto...

Musica, Canto, Arte e storia dell'Arte cattolica dovrebbero essere materie fondamentali di ogni seminario. Il Sacerdote è la guida, sia in Chiesa che fuori, lui deve guidare ed affinare il senso religioso del popolo per mezzo della musica, del canto, attraverso il suo esempio e con le sue scelte. Scelte che non saranno arbitrarie se lui sarà stato 'ben formato'.

Nell'anno trascorso ho assistito sul pc a diverse Messeinlatino, in generale straziante l'audio che diventa supplizio per la resa della musica e del coro. Ma anche quando raramente l'audio non rimbombava, musica e coro non ne uscivano bene. Quindi c'è molto da migliorare ovunque.

Il Credo dovrebbe essere cantato in latino con la stessa musica ovunque nell'orbe terracqueo, cioè dovrebbe essere veramente corale. Ho ascoltato strane musiche, ognuna diversa oppure diversamente interpretata, non so, mentre anima e spirito sprofondavano sotto terra.

Capisco che in una parrocchia siano sempre presenti i volenterosi che poi è difficile rimuovere, ma il maestro del coro o è tale o è meglio la messa letta.
Quindi non è la Chiesa che deve andare incontro al popolo, ma è il popolo che deve essere educato musicalmente dalla Chiesa.

La musica eleva l'anima e lo spirito, quindi per la vera religione Cattolica trascurare questo ambito è come amputarsi i piedi e tagliarsi le ali. La musica ed il coro diventano potenti, non già quando si alzano di tono, ma quando con una sola voce si rispettano i tempi e si articolano i suoni.

I canti religiosi popolari in questi settanta e passa anni si sono moltiplicati furiosamente, risultato i canti religiosi popolari ante CVII sono caduti nel dimenticatoio ed i nuovi nei fatti nessuno li conosce ancora perché variano di anno in anno. Il livelli si è abbassato di molto anche qui, sempre fatte salve le poche eccezioni.

Le processioni non si fanno più o se si fanno, si fanno in chiesa o si fanno di notte tra i campi 'per non disturbare' e quando fuori nei campi si usano gli altoparlanti, già questo puntare sulla tecnica denota che la maggior parte del corteo nulla sa o quasi nulla sa dei canti che si andranno a cantare e che saranno seguiti a senso dal popolo.

Quindi in chiusura bisognerebbe mettere a punto una serie di canti rituali in latino
imprescindibili da Roma a Papua e di canti religiosi popolari che i vescovi del luogo sceglieranno con Fede certa. I Canti alla Santa Madre possono essere in latino e/o sulla stessa musica. Una stessa musica, uno stesso canto dovrebbero sempre innalzarsi con amore dalla terra al Cielo

gsimy ha detto...

durante il convegno del 2011 sull'anafora di Addai il vescovo caldeo Jammo ha fatto un lungo intervento spiegando come avevano ricostruito lo sviluppo storico della sopraddetta anafora per poterla 'riformare' (in breve: dando per scontato che il 'nucleo antico' fosse simile a Didache 10 e la Birkat hamazon, e tutto il resto fosse un'aggiunta successiva)
nella stessa convegno il professor Spinks ha criticato le tesi del vescovo dicendo che si basano su troppe assunzioni date per vere senza valutare altre possibilità e mostrando che alcuni elementi che lui giudicava come posteriori potessero essere parte del nucleo originario

questo solo per dire che questi sono i 'vescovi studiati' che mettono mano a testi millenari

è identico a ciò che fu fatto nel Rito Romano: negli anni '60 i big (Jungmann in testa) sostenevano che la liturgia primitiva fosse quella della cosiddetta 'Tradizione Apostolica' e le liturgie che presentavano delle notevoli dissomiglianze da questo modello fossero 'corruzioni della purezza originaria'

Anonimo ha detto...

OT
Hans Küng è morto oggi all'età di 93 anni nella sua casa di Tubinga, in Germania, come annunciato dalla Fondazione Weltethos da lui fondata

Presbitero, saggista e soprattutto teologo che facilmente si potrebbe definire progressista e riformista, sostenitore di una maggiore attuazione del Concilio Vaticano II, a sua volta avversato dai fronti tradizionalisti che lo bollavano come "relativista", Kung esprimeva un pensiero teologico più in sintonia con un'ampia area cattolica tedesca che ora, negli anni del pontificato di papa Francesco, è venuta fortemente in luce: come dimostrano anche le recenti proteste contro il divieto alla benedizione delle unioni gay. Il suo cavallo di battaglia è stata la critica al dogma dell'infallibilità papale, su cui nel 1975 venne richiamato dalla Congregazione per la dottrina della fede, che poi, in seguito all'inasprirsi dei toni della contestazione, il 18 dicembre 1979 gli revocò la 'missio canonica' (l'autorizzazione all'insegnamento della teologia cattolica).
Cit:
“Noi controlliamo i seminari, i dipartimenti accademici della teologia, le istituzioni catechistiche e liturgiche, le case editrici, le riviste che contano e le cancellerie. La maggior parte dei vescovi sono ora dalla nostra parte, e coloro che non lo sono sono stati neutralizzati. Chiunque vuole un futuro nella gerarchia o nell’accademia Cattolica non ha altra scelta che collaborare»
(Andrea Papetti)

Anonimo ha detto...

La Pontificia Accademia per la Vita pare abbia twittato così: «Scompare davvero una grande figura nella teologia dell'ultimo secolo, le cui idee e analisi devono fare sempre riflettere la Chiesa, le Chiese, la società, la cultura».

Anonimo ha detto...

Come prevedibile, la morte del teologo svizzero Hans Küng ha svelato le inclinazioni di molti cuori.
Non sorprendono le parole piene di ammirazione del presidente della Conferenza Episcopale tedesca, mons. Bätzing, il quale ha chiamato Hans Küng una «personalità» affermando che egli «lascia dietro a sé una ricca eredità teologica».
Pur con il profondo rispetto e pietà per la sua morte, come per la morte di ogni uomo, trovo francamente fuori luogo le parole del tweet della Pontifica Accademia della vita, diretta da mons. Vincenzo Paglia, la quale scrive:
«E' scomparsa una grande figura della teologia nell'ultimo secolo, le cui idee e analisi devono farci riflettere sulla Chiesa cattolica, le Chiese, la società, la cultura».
Insomma, un tweet che è un vero e proprio panegirico.
Attendiamo con ansia l'inizio del processo di beatificazione.
Ormai ci possiamo attendere davvero di tutto.

Anonimo ha detto...


La Pontificia Accademia per la Vita dovrebbe esser sciolta, allo stesso modo delle Conferenze Episcopali.
Blaterano in continuazione di Chiesa da riformare.
la prima riforma dovrebbe essere questa: abolizione di tutta una pletora di organi che servono solo a seminare confusione e disordine, restituzione del suo effettivo potere e della sua effettiva responsabilità al vescovo, all'Ordinario.
Mons. Paglia è sulla stessa lunghezza d'onda di mons. Forte.