Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 25 febbraio 2025

Paolo Pasqualucci / La controversa eredità di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II

Pubblico la prima parte di un'accurata analisi di Paolo Pasqualucci sulle derive negli inegnamenti degli papi postconciliari. Questa prima parte riguarda GP II. Un'analisi impietosa della sua famosa prima enciclica, la Redemptor hominis, considerata da molti un baluardo della fede. La seconda parte riguarderà Benedetto XVI evidenziando la sua dipendenza da Teilhard de Chardin.

Paolo Pasqualucci
La controversa eredità di
Benedetto XVI e Giovanni Paolo II


A – Bicchiere mezzo pieno : Benedetto XVI ha ridato cittadinanza alla vera Messa cattolica, di rito romano antico, e alla Liturgia tradizionale; ha criticato ampiamente il “relativismo” del mondo moderno, con le sue derive nichilistiche; ha difeso, allo stesso modo di Giovanni Paolo II suo predecessore, il contributo della Chiesa nella creazione della civiltà europea; come Giovanni Paolo II ha difeso il matrimonio e la famiglia, l’etica cristiana; ha ribadito l’antropocentrismo cristiano, come inteso da Giovanni Paolo II, contrapponendolo all’ateismo e al materialismo, all’utilitarismo edonistico oggi dominanti nel pensiero secolare; ha cercato di far pulizia nella Chiesa, cacciandone numerosi preti indegni…

B – Bicchiere mezzo vuoto : Benedetto XVI ha ricondotto sistematicamente il cristianesimo all’ebraismo, la cui missione sembra ritenere ancora valida; con il suo predecessore ha creato l’ambigua categoria dei valori giudeo-cristiani; non ha visto la piega eterodossa nell’antropocentrismo cristiano di Papa Wojtyla, del quale ha continuato il devastante ecumenismo e la “pastorale del migrante”, che giustifica l’accoglienza indiscriminata degli irrregolari; ha oscurato la verità cattolica della “predestinazione alla Gloria” (Rm 9) ; ha contribuito attivamente al compromesso dottrinale con i luterani sulla Giustificazione, fortemente voluto da Giovanni Paolo II; ha fatto sparire la nozione del Limbo; ha dato un’interpretazione “angelicata” del Sacrificio della Santa Croce; ha accettato infine acriticamente il Vaticano II; ha creato un’enorme confusione sul significato del papato con il suo “papato emerito” puramente spirituale; ha reinterpretato l’escatologia cristiana alla luce delle visioni strampalate e surreali di Teilhard de Chardin… Prima parte

Considerazioni di carattere introduttivo, seguite dalla critica messa a fuoco dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, al quale si deve l’errore esiziale dello “integra permanet”: proclamando il Vaticano II a sorpresa unito il Cristo con l’Incarnazione ad ogni uomo (Gaudium et spes 22.2), l’immagine e la somiglianza nostra inziale con Dio sarebbe “rimasta integra”, come se il peccato originale non avesse prodotto alcuna conseguenza – dottrina nuova e funesta, apertamente contraria al dogma sempre insegnato e definito da ultimo al Concilio di Trento.
* * * 
S o m m a r i o della Prima Parte : 1. La nuova “cristologia antropocentrica” di GS 22, fondamento dell’errore di Giovanni Paolo II. 1.1 Henri de Lubac SI, ispiratore di GS 22, stravolge san Paolo e altera il senso della vocazione cristiana. 2. La deformazione del concetto di Incarnazione ripropone in veste nuova un antico errore, già confutato dal Damasceno e dall’Aquinate. 3. La divinizzazione dell’uomo nella Redemptor hominis, 13 di Giovanni Paolo II. 4. La Redemptor hominis, documento disastroso per la nostra fede. 4.1 Un “umanesimo” non cattolico, senza la fede in Cristo.
Nel mese di gennaio 2025, sul blog cattolico di Maria Guarini, “Chiesa e Postconcilio”, si sono ripetute discussioni polemiche tra chi considera Benedetto XVI un papa difensore della fede (allo stesso modo di Giovanni Paolo II) e chi invece ne vede soprattutto le non piccole ambiguità dottrinali.

I critici vengono accusati di ingratitudine nei confronti di un Papa che ha avuto il coraggio di “sdoganare” la S. Messa Ordo Vetus, mettendosi contro la maggior parte dell’episcopato e dei cardinali. L’accusa è infondata. Nessuno ce l’ha con Benedetto XVI, i cui meriti non si possono negare, ma il nostro dovere di milites Christi non è forse quello di difendere in primo luogo il dogma della fede senza guardare in faccia a nessuno? Nel cattolicesimo non è mai valso il principio di compensazione, come se un errore mantenuto potesse esser compensato da una corretta professione di fede (del pari, una buona azione non compensa né cancella un peccato non confessato).

Nel caso di Ratzinger-Benedetto XVI l’analisi spassionata dei suoi testi dottrinali mostra la presenza di una teologia personale influenzata dalla Nouvelle théologie dei Teilhard de Chardin e dei de Lubac, teologi censurati e costretti al silenzio sotto Pio XII a causa degli errori che disseminavano; nonché dalla filosofia esistenzialistica e da autori quali il pensatore “mistico” israelita Martin Buber, l’inventore della “filosofia del dialogo”. L’onestà critica, prima ancora della fede, impedisce pertanto di accettare l’immagine di Ratzinger quale integro ed ortodosso Defensor fidei, restauratore della tradizione della Chiesa. Ha difeso la tradizione della Chiesa soprattutto in campo liturgico, come sappiamo, ma comunque sempre dalla prospettiva dello “indietro non si torna”: la riabilitazione della mai formalmente abrogata Messa di rito romano antico (il cui canone risale addirittura ai tempi apostolici) doveva servire soprattutto a rivitalizzare l’esangue Messa Novus Ordo, afflitta da tutti gli abusi liturgici possibili; presentati ambedue i riti come se fossero le due facce di una stessa medaglia - cosa che non sono e non possono essere.

Rispetto ai suoi due predecessori Papa Francesco ha iniziato una radicale persecuzione dei chierici rimasti fedeli alla Messa Ordo Vetus e un’estesa restrizione nella concessione della liturgia tradizionale; una demolizione sistematica della morale cristiana e della Costituzione della Chiesa (quest’ultimo aspetto mediante l’ecumenismo e l’accoglienza indiscriminata sempre più spinti e la trasformazione prima “amazzonica” e poi “sinodale” della Chiesa). L’errore ecumenista questo Papa l’ha ereditato dai suoi predecessori, non l’idea di una Chiesa “dal volto amazzonico” o “sinodale”. Quest’ultima dovrebbe superare anche solo di fatto la sua struttura gerarchica per scaturire, come indirizzo, dall’ascolto delle esigenze dei fedeli, dal basso, diventando in tal modo “inclusiva”, perché così richiederebbero i tempi, supposti democratici ed ugualitari ma in realtà dominati da élites e gruppi di potere che pretendono di rappresentare la massa silenziosa, anonima. Papa Francesco, che mantiene intatto il centralismo pontificio, vuole imporre la nozione della Chiesa tipica della cosiddetta “teologia della liberazione” nella sua variante “popular”, fatta mettere in circolazione con il Sinodo dedicato alla trasformazione in senso “amazzonico”, ossia neo-pagano, della Chiesa: la religione rivelata sostituita da una “religiosità” che scaturirebbe dal popolo, dal basso, tirandosi dietro le credenze tradizionali, in pratica le superstizioni del paganesimo del passato, particolarmente orrido in America centrale e Sud America. La teologia della liberazione, inoltre, azzera quasi completamente l’etica cristiana, fondata sulla Rivelazione predicata da Cristo Nostro Signore, e si mostra indifferente ai peccati della carne, anche i più turpi. Essa vuole trasformare i fedeli in una massa in preda allo spontaneismo, moralmente amorfa, facilmente guidabile dall’élite di teologi “novatori” ferreamente inquadrati da un Papa novatore e rivoluzionario.

Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non si sono mai spinti a questi aberranti eccessi. Sia l’uno che l’altro hanno cercato di difendere ripetutamente il matrimonio e la famiglia, sia pure alla luce della rivoluzionaria concezione del matrimonio penetrata nel Vaticano II (costituzione Gaudium et spes, 48), che ha fatto sparire il concetto della procreazione ed educazione della prole quale scopo primario del matrimonio, sua ragion d’essere, l’una e l’altra ora semplice “coronamento” (fastigium) del matrimonio - una fessura dalla quale è penetrato ad abundantiam il fumo di Satana nei costumi della cattolicità.

Tuttavia, certi sottili errori teologici, spesso non facili a cogliersi, sono indubbiamente penetrati nel loro insegnamento. È questo gravissimo aspetto che non può esser taciuto, anche se la stragrande maggioranza dei fedeli e dei chierici non ne vuol sentir parlare. Invece è nostro dovere parlarne, per render Gloria a Dio, per la salvezza della nostra anima e di quella di tanti fedeli, che non sono in grado (e non per colpa loro) di penetrare con le loro forze le radici profonde della crisi. È nostro dovere di milites Christi anche se la nostra voce non può che essere attualmente vox clamantis in deserto.
1. La nuova cristologia “antropocentrica” di Gaudium et spes 22, fondamento dell’errore di Giovanni Paolo II.
Come ha dimostrato nei suoi studi lo scomparso teologo tedesco Johannes Dörmann (1922-2009), nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis, del 4 marzo 1979, nell’art. 13 Giovanni Paolo II insegna un concetto dell’uomo redento incompatibile con il dogma cattolico. Si tratta del concetto secondo il quale Cristo, con l’Incarnazione essendosi in certo modo o addirittura simpliciter “unito ad ogni uomo”, avrebbe già “redento” l’uomo in quanto tale, cioè prima ancora della redenzione conseguente all’azione salvifica concreta del Verbo incarnatosi nell’uomo Gesù di Nazareth. L’idea singolare di questa impura “unione” del divino con l’umano non redento proviene dalla costituzione conciliare Gaudium et spes, art. 22, dedicato a “Cristo, l’uomo nuovo”.

L’articolo l’introduce nel seguente modo.
“Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice” (GS 22.1) (1).

La dottrina di “Cristo nuovo Adamo” è stata come sappiamo insegnata per divina ispirazione da san Paolo, Rm 5, 12 ss. Con Adamo è entrato nel mondo il peccato, con il peccato la morte, che si è estesa a tutti gli uomini poiché “tutti hanno peccato”. Ma per dono divino, in modo del tutto gratuito, un sol uomo, Gesù Cristo, con la sua obbedienza alla volontà divina, renderà giusti i peccatori: Egli, il Figlio di Dio incarnato, è l’uomo nuovo, senza peccato, “risuscitato dai morti”, che salverà tutti quelli che crederanno in Lui e gli obbediranno. L’impostazione di GS 22.1 non è compatibile con i Sacri Testi e con l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Infatti, Cristo, Figlio di Dio, è venuto a salvarci dal peccato e dall’eterna dannazione, l’ha detto lui stesso più volte, affermando inoltre che chi non avrebbe creduto in Lui, il giorno del Giudizio sarebbe stato trattato peggio di Sodoma e Gomorra (Mc 2, 17; Lc 5, 32; Mt 11, 21 ss). Pertanto, se si vuol mantenere un senso ortodosso alla frase conciliare, bisogna dire che la predicazione di Cristo “svela l’uomo a se stesso” nel senso di fargli prender piena coscienza di quanto egli sia peccatore e ribelle di fronte a Dio, meritevole di condanna e persino dell’eterna dannazione. Ne consegue che “l’altissima vocazione” dell’uomo che apparirebbe quale conseguenza di tale “disvelamento” non potrebbe esser altro che quella del cristiano: se la nostra “vocazione” consiste nell’essere accolti nel Regno di Dio alla fine della nostra vita terrena, essa potrà esser soddisfatta solo diventando cristiani a tutti gli effetti, cioè perseverando sino alla fine della propria vita nell’osservanza dell’insegnamento di Cristo. E poiché tale “vocazione” riguarda tutti gli uomini, la Chiesa ha sempre insegnato che la conversione è possibile a livello individu-ale anche per l’uomo giusto che si trovi senza sua colpa fuori della Chiesa e ignori il vero cattolicesimo, creda in Dio e non sia in peccato mortale ma goda per opera segreta dello Spirito Santo del desiderio del battesimo, esplicito o addirittura implicito (DS 3866-3873, Decreto del Sant’Uffizio contro il rigor-ismo, 8 agosto 1949).

I Padri non hanno sempre contrapposto la dignità del cristiano a quella del semplice uomo, ribadendo che essa dignità si perde con il peccare, allo stesso modo di quella dell’uomo? Sin dai tempi dei Romani alla dignitas, che attiene non all’essenza dell’uomo ma al suo comportamento, si è contrapposta la indignitas. La dignità, sin dai tempi di Cicerone, è stata intesa come una qualità che si attribuisce al soggetto che si comporti in modo da meritare un certo tipo di lode, quella per l’appunto che definisce un suo atto o il suo stesso modo di vivere meritevole di stima perché dignitoso. Ma tale qualità si perde, nel comune giudizio, quando il soggetto si comporta male, in modo per l’appunto indegno. La dignità, quando c’è, risulta pertanto da un giudizio di merito dell’opinione altrui sul nostro modo di vivere: esso appare dignitoso in quanto rispetti ed attui certi valori, dal pudore alle buone maniere al decoro al rispetto per gli altri alle virtù civili, in definitiva all’onestà come norma complessiva di vita.

Questa nozione tradizionale della dignità risulta anche dal famoso elogio di Papa san Leone Magno alla dignità del cristiano, riportato anche dall’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica, nel par. 1691. “Riconosci, o cristiano, la tua dignità – disse quel grande Pontefice – e, reso consorte della natura divina, non voler tornare all’antica bassezza con una vita indegna. Ricorda a quale Capo appartieni e di quale Corpo sei membro. Ripensa che, liberato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce e nel Regno di Dio” (2).

Si vede chiaramente che qui il Papa contrappone la vita degna alla vita indegna. La vita veramente “degna” è quella del cristiano (si intende, che lo sia nei fatti non a parole); quella “indegna”, è la vita “tornata all’antica bassezza” cioè alla condizione di peccato dalla quale ci ha salvato la conversione a Cristo; in sostanza, alla religiosità peccaminosa del paganesimo popolare, intriso di superstizioni, magia e ampiamente lassista sul piano morale (3).

Invece GS 22.1 enuncia “una altissima vocazione” dell’uomo che giustificherebbe le “verità sull’uomo” esposte nei paragrafi precedenti del capitolo cui appartiene GS 22. Questo riferimento e il prosieguo dell’articolo mostrano senza ombra di dubbio che qui il testo conciliare vuol dare un fondamento in Cristo alla semplice dignità dell’uomo, l’uomo in quanto tale, prescindendo completamente dalla sua conversione alla vera fede: la dignità dell’uomo sarebbe una sua caratteristica ontologica, cioè appartenente al suo essere stesso, indipendentemente dalla sua volontà e quindi inerente alla natura in sè di ogni uomo in quanto uomo, derivante dal fatto che con l’Incarnazione il Cristo si sarebbe in certo modo “unito ad ogni uomo”. Essendo allora di origine divina, la dignità di ogni essere umano dovrebbe considerarsi “sublime”. E l’essere umano stesso non si trova ad esser divinizzato se la natura divina viene ad unirsi a lui in conseguenza dell’Incarnazione?

Questa visione non è conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa. Essa ricalca le esternazioni di Henri de Lubac, teologo gesuita giustamente censurato e silenziato sotto Pio XII per le sue tesi ereticali ed invece incredibilmente ammesso, unitamente a tutto il resto dell’équipe di teologi in odor di eresia, al Concilio come perito da Giovanni XXIII; fatto infine cardinale poco prima di morire proprio da Giovanni Paolo II.

Infatti, come si arriva ad esaltare in questo modo la “dignità dell’uomo”, in sostanza divinizzandola? Per capirlo, dopo aver sinteticamente accennato al percorso in base al quale il discorso del Concilio sfocia alla fine in questa esaltazione, dobbiamo soffermarci un momento sulla peculiare esegesi di de Lubac.

Vediamo dunque il contesto nel quale si situa il contestato art. 22 di Gaudium et spes. Si trova nel cap. I della costituzione, dedicato alla “Dignità della persona umana” (artt. 12-22). Nel capitolo si enunciano diverse “verità” sull’uomo. La prima risulta dal fatto che l’uomo, in quanto “creato ad immagine di Dio”, possiede la sua “dignità e vocazione” (GS 12). Egli è anche succube del male, del peccato, dal quale “il Signore stesso è venuto a liberarlo, rinnovandolo nell’intimo e scacciando fuori ‘il principe di questo mondo’ [Gv 12, 31], che lo teneva schiavo del peccato” (GS 13). Del peccato, però, il testo si limita a dare questa definizione: “il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguire la propria pienezza” (GS 13). Non la propria salvezza, la propria pienezza!! Solo questo sa dire il Concilio del peccato? Nozione riduttiva, come ognun può vedere, che occulta il significato pro-fondo del peccato, l’esser esso violazione dell’Ordine morale stabilito da Dio, grave offesa a Dio, necessitante pentimento radicale, confessione e muta-mento di vita per salvare il colpevole dall’eterna dannazione.

Comunque sia, la dignità dell’uomo (continua il testo conciliare) risulta dalla “dignità della sua intelligenza e saggezza”, che lo conducono “a cercare e ad amare il vero” (GS 15); dalla dignità della propria “coscienza morale” (GS 16) e dalla “grandezza della sua libertà”(GS 17). Questa vera e propria apoteosi della “dignità” e della “grandezza” dell’uomo, alquanto insolita per la pastorale cattolica, l’art. 21.1 la vuole innestare sulla dottrina paolina di Cristo quale “nuovo Adamo”. Si tratta, per l’appunto, della falsa esegesi di un de Lubac, per il quale il nuovo Adamo “svelerebbe l’uomo a se stesso”, non ovviamente come peccatore destinato alla riprovazione eterna se non si redime in Cristo ma, all’opposto, come portatore di una dignità che ne manifesterebbe “l’altissima vocazione”. Una visione radicalmente ottimistica dell’uomo, dal taglio neo-illuministico, e quindi astratta ed inverosimile, che di fatto cancella la nozione stessa del peccato originale, con le sue molteplici conseguenze negative per le facoltà dell’essere umano; visione che fa mutare di significato all’insegnamento della Chiesa, sostituendo la dignità supposta sublime dell’uomo alla sua salvezza, quale valore fondamentale che la Chiesa vuole ora tutelare. Passiamo dunque al testo di de Lubac.

1.1 De Lubac, ispiratore di GS 22, stravolge san Paolo e altera il senso della vocazione cristiana.

Questo famoso teologo gesuita ha deformato la testimonianza di san Paolo sulla sua conversione in seguito all’improvvisa apparizione a lui di Gesù sulla via di Damasco, narrata in Gal 1, 15-17. Concentrandosi sulla frase paolina “Colui che mi aveva messo da parte sin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, credette di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi alle Genti [“..et vocavit per gratiam suam, ut revelaret Filium suum in me, ut evangelizarem in Gentiles”], de Lubac sosteneva che in questo “rivelare in me” si affermava la presa di coscienza della dignità sublime dell’uomo.

Scrisse, infatti :
“[…] rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui, Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino al fondo del suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sé per scoprirvi regioni fino ad allora insospettate. Per mezzo di Cristo la persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’Universo, prende piena coscienza di sé. D’ora innanzi, anche prima del grido trionfale: “agnosce, o christiane, dignitatem tuam”, sarà possibile celebrare la dignità dell’uomo: “dignitatem conditionis humanae”. Il precetto del saggio: “conosci te stesso”, riveste un nuovo significato” (4) .

Dall’interpretazione di de Lubac sembra che il fine della “chiamata” divina sia stato quello di far prendere a san Paolo coscienza del proprio io, della sua natura profonda. In conseguenza di questa presa di coscienza, l’Apostolo avrebbe scoperto la vocazione a predicare ai Gentili. In tal modo, la predicazione ai gentili dipenderebbe da una decisione autonoma di san Paolo, conseguente alla scoperta di sé provocata in lui dalla “chiamata” divina. Il ruolo fondamentale verrebbe ad assumerlo non Dio che chiama, ma san Paolo che risponde. Ma le parole stesse di san Paolo dimostrano l’erroneità dell’interpretazione di de Lubac.

Ciò che l’Apostolo delle Genti ci narra è molto semplice nella sua linearità. Dio ha voluto che il Figlio gli si rivelasse sulla via di Damasco, affinché (ut, in greco hina) egli lo predicasse alle Genti. La posizione della congiunzione finale “affinché” nel periodo dimostra che la predicazione di san Paolo era nell’intenzione di Dio che si rivelava a lui nel Figlio; e non, invece, nell’intenzione di san Paolo, nella sua coscienza di sé. L’affinché indica l’intenzione di Dio, non quella di san Paolo. L’azione di san Paolo – quello che lui ha fatto dopo la “chiamata” – viene dopo e non è ovviamente retta (nella frase) da alcun affinché: egli se ne andò subito ”in Arabia” e dopo un certo tempo ritornò a Damasco, per adempiere al comando divino.

Il cardinale Siri criticò le esternazioni di de Lubac, il quale considerava “banale” l’interpretazione tradizionale della conversione di san Paolo. Il cardinale colse subito il punto essenziale :
“Il Padre de Lubac dice che il Cristo, rivelato dal Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Quale può essere il significato di questa affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l’uomo è divino. Tali conclusioni possono essere espresse non così nettamente, tuttavia determinano sempre questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana in sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino dell’antropocentrismo fondamentale” (5) .

L’antropocentrismo “fondamentale” è quello che concepisce il soprannaturale “in quanto implicato nella natura umana”. Un concetto del genere sembra trovarsi, con sufficiente chiarezza, nella parte finale dell’opera L’Action, di Blondel, filosofo cattolico francese in odor di eresia, uno dei maestri di de Lubac :
“il est impossible que l’ordre surnaturel soit sans l’ordre naturel auquel il est nécessaire, et impossible qu’il ne soit pas, puisque l’ordre naturel tout entier le garantit en l’exigeant” (6).

In effetti, de Lubac, influenzato dal pensiero di Blondel, nel 1946, nel suo famoso libro sul sovrannaturale, messo all’indice, aveva sostenuto che:
“l’ordine sovrannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. Come conseguenza di questo concetto, veniva fatalmente che il dono dell’ordine soprannaturale non è gratuito perché è debito della natura. Allora, esclusa la gratuità dell’ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si identifica al soprannaturale” (7).

Osservo: sostenere che il sovrannaturale “è implicato” nella natura umana in quanto tale, significa annullare l’effettiva differenza tra il sovrannaturale e la natura, facendo cadere la distinzione tra Dio e il mondo, tra la creatura e il Creatore, e la conseguente gratuità della Creazione da parte di Dio che non era obbligato a creare né il mondo né l’uomo. Di fatto, de Lubac proponeva una concezione di tipo panteistico, del resto sviluppata in termini ancor più radicali a partire dagli anni venti del Secolo scorso dal confratello gesuita, il paleontologo Teilhard de Chardin, anch’egli giustamente costretto al silenzio e impedito dall’insegnare (8).

Ma torniamo al concetto della “dignità dell’uomo”. L’esegesi lubacchiana di Gal 1, 15-16 non è sostenibile. L’oggetto della Rivelazione sulla via di Damasco è il Figlio di Dio a Saul il fariseo (la natura divina di Gesù, che deve esser predicata alla Genti) e non, all’opposto, Saul a se stesso. Saulo resta puramente passivo , in tanto frangente, stravolto e abbacinato per di più, salvo aderire subito dopo con tutto il suo libero arbitrio alla chiamata divina. Nella testimonianza diretta dell’Apostolo non c’è nessuna sublime e nascosta dignità umana che venga alla luce per effetto della Rivelazione sulla via di Damasco.

Per quanto riguarda l’uomo, vale a dire la personalità di Saulo, c’è solo la riaffermazione della sua pronta obbedienza alla chiamata divina, avvenuta in modo così straordinario, drammaticamente sovrannaturale. E quindi, secondo l’interpretazione tradizionale: non solo rivelazione sovrannaturale a me (esteriore), ma anche in me (interiore) come continuità di visione ed ispirazione da parte di Cristo. 

A me, specifica san Paolo, indegno persecutore, peggiore “dell’aborto”, che tutto ho lasciato di colpo cioè “senza neppure consultare la carne e il sangue” (Gal 1, 16), per seguire la chiamata di Cristo, da quel momento in me, padrone della mia anima e del mio intelletto. La rivelazione di Cristo “in me” fa di colpo apparire la nullità e la miseria di tutto ciò che è umano, consegnato “alla carne e al sangue”, succube del peccato: “quod Christus venit in hunc mundum peccatores salvos facere, quorum primus ego eorum” (1 Tm 1, 15). La rivelazione salvifica di Cristo “in me”, mi rivela a me stesso come il peccatore che io sono, anzi “primo fra i peccatori”.

Altro che disvelamento della dignità dell’uomo!! La rivelazione salvifica di Cristo mostra la bontà di Dio che viene a guarire la nostra miseria morale, la nostra indegnità di esseri umani sempre succubi del peccato.

Nella prima Epistola a Timoteo, vescovo da lui stesso consacrato, san Paolo ritorna sul significato della sua conversione (1 Tm, 12-16). Si tratta di un ragionamento del tutto trascurato da de Lubac et pour cause, possiamo dire. Dopo aver ricordato che la Legge (giudaica) “è buona purché se ne faccia un uso legittimo” e che essa punisce tutti i tipi di peccato, egli introduce il discorso sulla sua conversione.

“Ringrazio colui che mi ha fortificato, cioè Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno di fiducia, chiamando a suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore, un violento. Ma ottenni misericordia perché agivo per ignoranza, non avendo ancora la fede: la grazia del Signore ha sovrabbondato in me, con la fede e la carità che è in Cristo Gesù”. Un violento persecutore della vera Fede e persino un bestemmiatore della stessa, si definiva san Paolo. Ma era spinto da zelo eccessivo per la religione ufficiale non da malanimo e forse per questo egli “ottenne misericordia” presso il Signore: l’ottenne non per meriti ma per Grazia. Come aveva spiegato nel cap. 9 della Lettera ai Romani, la sua scelta da parte del Signore “sin dal seno di sua madre” era del tutto unilaterale, e prescindeva da ogni suo possibile merito. L’agire per ignoranza non può infatti considerarsi un merito agli occhi di Dio, caso mai solo un’attenuante, non tale comunque da esimerci dal castigo; dal nostro limitato punto di vista umano possiamo attribuire alla nostra ignoranza in buona fede unicamente la capacità di muovere Dio a pietà, non certo di farci scegliere da Dio per la sua Gloria, scelta che è frutto di una predestinazione, come illustrato in dettaglio, sempre in Rm 9. Giusto pertanto sottolineare a noi fedeli che la Grazia aveva “sovrabbondato in me, con la fede e la carità che è in Cristo Gesù”. Sovrabbondato, perché mi aveva premiato ben oltre i miei possibili meriti, ammesso che ce ne fossero.
Ma quale “fede” e quale “carità” nel Cristo? La fede professata dal Signore, nella quale si manifestava la sua carità : ovvero l’intenzione sua dichiarata, frutto di una carità sovrannaturale, di salvare tutti i peccatori purché rispondenti al richiamo della sua Grazia, purché insomma desiderosi di andar incontro a Lui, di seguire i suoi insegnamenti. Ed infatti, continua la prima Lettera a Timoteo: 
 “È verità sicura e degna di essere accettata da tutti senza riserva, che Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori, del quale il primo sono io. Anzi è appunto per questo che ho ottenuto misericordia, affinché Cristo Gesù in me, per primo, avesse a mostrare la sua paziente bontà, sicché servissi d’esempio a tutti coloro che crederanno in Lui per ottenere la vita eterna” (1 Tm, 16). 

 Lui, il zelantissimo fariseo, è stato “salvato” dall’intervento assolutamente unilaterale di Cristo, causato dalla divina Misericordia, che vuole salvare gli uomini peccatori: lui, “primo tra i peccatori” in quanto persecutore accanito e acerrimo nemico dei cristiani. La sua conversione (l’aver ottenuto “miseri-codia”), spiegava a Timoteo, ha un significato pedagogico, quello di mostrare la “paziente bontà” di Dio, che sopporta l’iniquo e può indurlo alla conversione, in modo da costituirlo come “esempio” per tutti coloro che “crederanno in Cristo per ottenere la vita eterna”.

Siamo lontanissimi dall’esegesi di de Lubac, la cui arbitrarietà dovrebbe essere evidente a chiunque. L’orizzonte spirituale illustrato dall’Apostolo delle Genti, del quale lui stesso si considerava il primo beneficiario, era quello della conversione dal peccato, della salvezza, della vita eterna garantita da Gesù Cristo solamente a chi vive da suo fedele discepolo: era il dramma dell’uomo che si trovava di colpo di fronte all’abisso della propria miseria ed indegnità morale grazie all’intervento sovrannaturale del Cristo, che gli svelava la sua bassezza e nello stesso tempo gli mostrava l’unica via per sanarla.

Come ha fatto de Lubac ad alterare in tal modo la testimonianza paolina, capovolgendola addirittura, inventandosi una “altissima missione” conforme alla dignità dell’uomo, che sarebbe stata svelata dall’Apparizione sulla via di Damasco? Gli antichi dicevano a chi voleva capire il senso delle azioni umane: Rèspice finem, guarda al fine. E qual era il fine di de Lubac? Con ogni evidenza quello di fondare l’unità del genere umano irredento come idea-guida della Chiesa, muovendo dalla sua interpretazione eterodossa del messaggio paolino. Continuava egli infatti:
“Nella chiamata all’apostolato dei Gentili, come nel rimprovero che gli aveva fatto sentire Cristo, prendendo su di è le sofferenze dei suoi, era implicito qualche cosa per mezzo della quale l’uomo terminava di scoprire le sue dimensioni: per mezzo della rivelazione cristiana, non solamente s’è approfondito lo sguardo che l’uomo porta su di sèé, ma s’è allargato quello che dirige intorno a sè. D’ora innanzi l’unità umana è concepita. L’immagine di Dio, l’Immagine del Verbo, che il Verbo incarnato restaura, e a cui rende il suo splendore, è me stesso, ed è l’altro – ed è ogni altro. È questo punto di me stesso che coincide con ogni altro, è il segno della nostra comune origine ed è la chiamata al nostro destino comune. È la nostra unità stessa in Dio” (9).

Difficile negare, a mio avviso, che qui de Lubac cercava di dimostrare esser stata la predicazione di san Paolo ai Gentili una realizzazione della “unità umana” già presente nell’immagine del Cristo poiché il Cristo avrebbe restaurato l’uomo in generale, in quanto tale: per l’appunto “me stesso e l’altro, ogni altro” ovvero tutti gli uomini. In tal modo si sarebbe realizzata addirittura “la nostra unità stessa in Dio” ma senza bisogno di pentimento e conversione a Cristo, dei quali de Lubac non parla affatto. E se ne capisce il motivo: la con-versione dividerebbe il genere umano in credenti in Cristo e non credenti, in Eletti e Reprobi, in coloro che invocano la Grazia e in coloro che la rifiutano – rendendo vana l’idea stessa di unità di tutti gli uomini in Dio tramite Cristo, un Cristo per l’appunto “cosmico”, quello del “pancristismo” di Blondel e delle al-lucinazioni panteistiche di Teilhard de Chardin.

Possiamo dire che già qui compaia l’errore professato dal Concilio ovvero l’idea assurda che con l’Incarnazione Cristo si è “unito ad ogni uomo”, in quanto uomo. Compare in una forma meno diretta ma non meno sostanziale. La cosa fu notata dal P. Dörmann, il quale scrisse: “Anche per de Lubac il Cristo si è unito nell’Incarnazione a tutta l’umanità, in modo che tutti gli uomini sono organicamente legati al Cristo; a formare, con la Chiesa, un’unità organica. Per de Lubac i cristiani non sono che le “membri formali” del corpo di Cristo. Essi hanno il dovere missionario di rendere accessibile ai non-cristiani la singolarità, a loro sconosciuta, del cristianesimo” (10). Dovere, che è cosa ben diversa dalla conversione: si tratta solo di illustrare una presa di coscienza, di far loro prender coscienza della loro preesistente unità con il Cristo preesistente.

Dörmann trovava perfettamente centrata la critica del cardinale Siri a de Lubac, sopra ricordata. Non solo, affermò che non ci si sbagliava a supporre che la formulazione della nozione di rivelazione proposta da GS 22.2 “risalga, in ultima analisi, a Henri de Lubac” (11). In effetti, la frase sopra citata di GS 22.1, quella che introduce la tesi eterodossa fondamentale, è un calco di quella di de Lubac su san Paolo: GS 22.1 : “ il Cristo, rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui, finisce per rivelare l’uomo a se stesso” – Cattolicismo : “Rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui, Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso” (11).
2. La “cristologia” ereticale di Gaudium et spes 22.2 - Essa ripropone un antico errore, già confutato dal Damasceno e dall’Aquinate.
Tutto ciò premesso, torniamo al testo conciliare, che così continua:
“Egli [il Cristo] è “l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1, 15), è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione infatti Egli stesso, il Figlio di Dio, si è unito in certo modo ad ogni uomo […eo ipso etiam in nobis ad sublimem dignitatem evecta est. Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodamodo Se univit]. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (13).

In questo passo novità sconvolgenti si incrociano con attribuzioni dogmatiche tradizionali, i cui riferimenti ai Concili del passato vengono dati in nota. Ma ciò che conta è costituito dalle novità, che non vengono compensate né tantomeno cancellate dalle proposizioni dogmaticamente corrette.

La prima novità è costituita dalla fuorviante rappresentazione delle conseguenze del peccato originale. Come notò nel silenzio generale della Chiesa “conciliare” il già citato prof. Dörmann, teologo e accademico (è bene ri-cordarlo) inserito nell’istituzione ecclesiastica, del tutto indipendente dalla Fsspx, non è affatto vero che a causa di questo peccato la nostra “somiglianza con Dio” sia stata resa semplicemente “deforme”, continuando pertanto a sussistere sia pure in forma imperfetta, deficitaria. La nostra somiglianza, attestata dalla Genesi, è invece andata p e r d u t a . Si tratta di un dogma della fede, stabilito dal Concilio di Calcedonia (AD 451) e ribadito dal Tridentino, il quale insegna che in conseguenza della Caduta Adamo ed Eva hanno perso irrimediabilmente i doni sovrannaturali ricevuti da Dio all’atto della loro creazione, quando li creò a sua “immagine e somiglianza” (Gen 1, 26). Ma “il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso subito la santità e la giustizia nelle quali era stato creato [statim sanctitatem et iustitiam, in quo constitutum fuerat, amisisse], ed è incorso per questo peccato di prevaricazione nell’ira e nell’indignazione di Dio, e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva minacciato, e, con la morte, nella schiavitù di colui che, in seguito, ebbe il potere della morte e cioè il demonio [Eb 2, 14]; e Adamo, per quel peccato di prevaricazione fu peggiorato nell’anima e nel corpo” (14).

Ora, in questo testo del dogmatico Concilio di Trento (1545-47/1551-52/1562-63), da dove risulta che la somiglianza originaria con Dio sia andata perduta e non sia stata semplicemente deformata? Dalla perdita immediata della “santità e della giustizia” risultanti dalla grazia santificante che era stata infusa ad Adamo ed Eva con la creazione, grazia che venne tolta loro per punizione. In aggiunta, dalla perdita dei “doni preternaturali” costituenti nel loro insieme il “dono dell’integrità”, perdita che ha sottomesso l’uomo alla concupiscenza, alla sofferenza, alla morte. La “somiglianza” con Dio risultava proprio dai doni sovrannaturali. Nello stesso tempo, Adamo ed Eva sono rimasti “vulnerati” nelle loro caratteristiche umane, trovandosi “peggiorati nell’anima e nel corpo”. Il libero arbitrio, come chiarisce il Tridentino, non fu “estinto” ma rimase “attenuato ed indebolito”(sess. VI, c. I; DS 793/1521). Il peccato dei Progenitori non ha provocato la distruzione dell’intelligenza, della volontà, della coscienza morale, della capacità di vedere e fare il bene, non ha fatto regredire l’uomo alla condizione dell’animale. Tuttavia, ha tolto alle nostre capacità razionali il potere di dominare senza dura lotta gli istinti e le passioni, che anzi tendono – come ben sappiamo – a prevalere nei pensieri e nelle azioni di tutti noi, con il risultato che spesso facciamo il male anziché il bene che vorremmo (Rm 7, 21-23).

A causa del peccato originale abbiamo dunque perduto la similitudine (la somiglianza) sovrannaturale con Dio, conservandone in modo imperfetto l’immagine, il cui ambito non eccede quello della natura.

“Secondo la dottrina cattolica, la similitudo Dei è andata perduta e l’imago Dei è rimasta deteriorata nei figli di Adamo – dunque in tutti gli uomini – dal peccato originale. È con l’applicazione dei frutti della redenzione, nel processo di giustificazione, che la similitudo Dei (gratia sanctificans) che era stata perduta, è ridata all’uomo, e che l’imago Dei, deteriorata, è restaurata (gratia medicinalis). Il testo conciliare dice, al contrario, che il Cristo ha restituito a tutti i figli di Adamo la “somiglianza divina” (similitudo) “alterata (deformata) dal primo peccato”. Così la somiglianza divina non sarebbe stata perduta per il “primo peccato” ma solamente “alterata” da esso”(16) .

Ma un Concilio Ecumenico che però si è voluto espressamente solo “pastorale”, mi chiedo, può forse cambiare il dogma senza emanare nuove definizioni dogmatiche: per così dire surrettiziamente, semplicemente con l’uso di un diverso participio passato? Non può, evidentemente. Né tale surrettizio cambiamento può nel merito peggiorare la definizione tradizionale di questo dogma, rendendolo ambiguo quanto al suo significato, aperto a sbocchi ereticali. Noi fedeli abbiamo il dovere di rompere il fronte dell’omertà ecclesiale, denunciando apertamente questo modo di procedere non cattolico. Tra l’altro, l’idea di una somiglianza con Dio che sia “deforme” appare priva di senso e persino bizzarra: la nostra somiglianza con Dio grazie ai doni sovrannaturali della “santità” e della “giustizia” o c’è o non c’è, ma non può essere “deforme” – come se ci potessero essere una santità e una giustizia “deformi”!
La seconda novità risulta implicitamente dal testo conciliare ed appare anch’essa incompatibile con il dogma. Infatti, il testo, per come è articolato, sembra voler dire che Cristo “ha restituito agli uomini la somiglianza con Dio resa deforme dal peccato” già con il semplice evento della sua Incarnazione, la quale avrebbe innalzato la natura umana ad una dignità “sublime”. Ma la Grazia santificante ci viene restituita con il Battesimo per i meriti della Santa Croce e mantenuta se viviamo cristianamente ossia cercando di osservare in tutto e sino alla fine i comandamenti di Cristo, venendo in tal modo giustificati. Solo a questo titolo, cioè affidandoci noi all’amore per il Cristo e alla sua Grazia, saremo amati da Lui e dal Padre e sostenuti dallo Spirito Santo (“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e di-moreremo in lui”, Gv 14, 23). L’Incarnazione non ha a che vedere con il riacquisto della Grazia santificante.

Veniamo ora alla terza novità, la più radicale di tutte. Perché con l’Incarnazione, secondo il testo conciliare, ci viene restituita la somiglianza con Dio? Per il semplice fatto che la natura umana assunta dal Verbo non è stata annientata o assorbita in quella divina, per ciò stesso è stata innalzata a una dignità sublime. Solo nell’uomo concreto Gesù di Nazareth, immune da ogni peccato perché Figlio di Dio? No, anche in noi precisa il testo. Si tratta di un’affermazione che fa apparire una dottrina del tutto nuova. E difatti, come viene giustificata? Con questo ragionamento: “Con l’Incarnazione infatti Egli stesso, il Figlio di Dio, si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Si noti lo infatti Egli stesso: l’avverbio ha significato causale, connette la presente frase a quella precedente, e si associa allo Egli stesso, come a voler conferire particolare forza al concetto che si vuole esprimere: Egli stesso, il Figlio di Dio, incarnandosi, si è unito ad ogni uomo!

Ma il testo dice “in certo modo” si è unito: dobbiamo allora intendere il concetto in senso solo simbolico? Forse così l’hanno inteso molti Padri con-ciliari che hanno votato questa costituzione. Ma è prevalsa invece da decenni l’interpretazione che vuol intendere quest’unione in senso ontologico, come se per l’appunto GS 22.2 propugnasse “una unión ontológica pero tambien existencial con todos los hombres” del Cristo incarnatosi (17).

E l’artefice principale di questa inaccettabile ed assurda interpretazione, per quanto la cosa possa sembrare incredibile, è stato proprio Giovanni Paolo II, nei parr. 13 e 14 della sua prima enciclica, la Redemptor hominis!
3. La divinizzazione dell’uomo nella Redemptor hominis di Giovanni Paolo II.
L’articolo 13 si trova nel cap. III dell’enciclica, dedicato al tema: “L’uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo”. Si noti: non “la redenzione dell’uomo” bensì “l’uomo redento”. Nella traduzione in volgare, l’art. 13 viene intitolato “Cristo si è unito ad ogni uomo”. L’inciso “in certo modo”, di cui a GS 22.2, è caduto. Nel corpo dell’articolo riappare ma solo perché il Papa cita espressamente l’Incarnazione secondo la lettera di GS 22.2. Stabilita l’esistenza di questa “unione” di Cristo con ogni uomo, il compito della Chiesa è allora quello di “far sì che una tale unione possa continuamente attu-arsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa con ciascuno percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa si irradia” (18).

Si noti il linguaggio generico per ciò che riguarda il fine ultimo dell’uomo: invece di dire che l’uomo deve “ritrovare Cristo” per la propria salvezza, convertirsi a Lui per emendarsi dal peccato e sperare nella vita eterna, avendo come terribile alternativa solamente la perdizione, il papa si limita a dire che il compito della Chiesa è solo quello di far sì che Cristo ritrovato possa percorrere con ciascuno di noi “la strada della vita”, tra l’altro senza specificare di quale “vita” si tratti.

Comunque sia, si vede come qui l’unione di Cristo “con ogni uomo” possa ancora intendersi in senso solo spirituale, morale, se essa significa che grazie ad essa “ogni uomo possa ritrovare [spiritualmente] Cristo [e quindi convertirsi]”. Ma che significhi solo questo non lo possiamo dire, anche perché il papa non parla mai di impellente necessità della conversione individuale a Cristo né della vita eterna quale fine ultimo sovrannaturale dell’essere umano, possibile unicamente mediante l’opera della Chiesa, fondata da Cristo esclusivamente a questo scopo e pertanto condizione indispensabile della nostra salvezza.

Il significato dell’Incarnazione e della Redenzione viene visto dal Papa sem-pre e solo nella “potenza dell’amore” di Dio nei confronti dell’uomo. Egli tace su tutti gli altri fondamentali significati, a cominciare da quello di attuare esse la soddisfazione della Giustizia divina nei riguardi dei peccati del mondo e di ot-tenerci il perdono per i nostri individuali peccati.

“Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via “alla casa del Padre”[Gv 14, 1 ss.], ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata da nessuno. Questa è l’esigenza del bene temporale e del bene eterno dell’uomo” (19).

Come intendere qui l’unione? In senso solo spirituale o simbolico? Secondo Dörmann abbiamo qui già un elemento essenziale del concetto della “redenzi-one universale” ossia della erronea concezione di una redenzione già conferita a tutti dall’Incarnazione in quanto tale. Tale elemento è costituito dall’espressione “ogni uomo”, che si deve evidentemente riferire ad ogni uomo esistente sulla faccia della terra, non al solo cristiano, al convertito, al battezzato, in sostanza al cattolico. L’esigenza del “bene eterno” dell’uomo viene ora soddisfatta non con la conversione a Cristo bensì con l’unione di Cristo ad ogni uomo mediante l’Incarnazione!

Vediamo dunque comparire la dottrina spuria di GS 22.2: con l’Incarnazione Cristo si è unito a ciascun uomo in quanto tale, ontologicamente, senza bisogno di conversioni e pertanto dell’opera della Chiesa (che ci amministra i Sacramenti) nonché del contributo del libero arbitrio di ciascuno ad una san-tificazione personale che a questo punto non sembra più indispensabile. Ed anzi, nemmeno il battesimo sembra esser più necessario.

Secondo Dörmann, si potrebbe parlare qui di una rivelazione sdoppiata. Vale a dire: “una rivelazione interiore, già presente in ogni uomo in ragione dell’Incarnazione, e una rivelazione esteriore realizzata dalle parole e dalle azi-oni di Gesù. La rivelazione esterna viene indicata come un mezzo attraverso il quale il Cristo “illumina” l’uomo sul “mistero dell’uomo”, vale a dire sulla realtà ontologicamente presente in ogni uomo ”dell’esistenza del Cristo”. Essa è il mezzo mediante il quale gli “svela” o gli fa “prender coscienza” della sua au-tentica umanità. Ma anche una rivelazione esterna, intesa quale mezzo per illuminare l’esistenza dell’uomo, ha di per sè un carattere antropocentrico” (20).

La visione del Papa veniva pertanto a creare un singolare sdoppiamento tra salvezza come fatto storico e salvezza in senso ontologico. “Storicamente l’opera della salvezza è e rimane quindi l’atto redentore di Gesù Cristo che ci salva, ci redime e soddisfa per noi. “Ontologicamente”, però, il suo effetto ai fini della Redenzione e della giustificazione è retroattivo e risale fino alla creazione dell’uomo, in modo che tutti gli uomini, dall’inizio fino alla fine del mondo, sono effettivamente redenti e giustificati attraverso la Croce” (21). Si può quindi affermare che, in quest’ottica, abbiamo una redenzione “a priori” che applica per l’appunto “a priori” (ontologicamente) a ciascun uomo i frutti della Redenzione “a posteriori”. E l’uomo, ciascun uomo, risulta già “redento e giustificato a priori” (22). La Chiesa deve ora fargli prender coscienza di questo fatto, questa sarebbe l’evangelizzazione, come intesa oggi.

Tutta questa singolare costruzione si fonda sull’idea dell’unione del Verbo con ciascun uomo nell’Incarnazione. Grazie a questa “unione” nell’uomo si deve ammettere una “eminente dignità” (GS 91, espressamente citato) che la Chiesa considera suo dovere salvaguardare con tutta la sollecitudine del Buon Pastore. Ma in tal modo, tacendosi sulla natura peccaminosa dell’uomo e sulla insopprimibile necessità dell’opera salvifica della Chiesa per la sua salvezza, il compito del Buon Pastore sembra ora essere soprattutto quello di salvaguardare e difendere l’eminente dignità dell’uomo, dell’uomo in quanto tale – eminente perché derivante dal fatto che Cristo, secondo il Concilio, si è con l’Incarnazione unito a ciascun uomo. La “variazione dottrinale”, per usare un termine di Amerio, appare qui in tutta la sua devastante portata. Perciò la Chiesa, conclude il Papa sul punto, citando GS 76, “è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana” . Quest’ultimo riferimento alla “persona umana” è più vicino al modo tradizionale di esprimersi della Chiesa. Resta però il fatto che questo “carattere”, come si è visto, è “trascendente” a causa della (supposta) unione del Cristo “cosmico” con ogni uomo! Dopo aver introdotto la sua tesi, il Papa prosegue, approfondendo il concetto dell’uomo. Di quale uomo si tratta, quando si parla dell’ “uomo redento”? Forse del cristiano, anzi del cattolico? No. Di un uomo che è sì “estremamente concreto” secondo il Papa ma solo perché è “ciascun uomo”. E perché “ciascuno”? “Perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero” .

Compreso ognuno nel mistero della Redenzione non mediante la conversione e la giustificazione bensì unicamente per via dell’unione di Cristo ad ogni uomo, con l’Incarnazione. Tuttavia, la frase del Papa potrebbe ancora esser intesa in senso tradizionale, sottolinea Dörmann, se si conferisce all’unione un significato simbolico e non ontologico, anche se la presenza del “per sempre” sembra voler significare il carattere ontologico dell’unione.

Lo stesso si potrebbe dire del prosieguo immediato del ragionamento, nel quale il Papa ci ricorda che ogni uomo è affidato alla “sollecitudine” della Chiesa “a motivo del mistero della Redenzione”. Questa sollecitudine riguarda “l’uomo intero”, l’uomo nella sua “unica ed irripetibile realtà umana”. Ma cosa riveli la nozione di “uomo intero”, a prima vista neutra, lo capiamo subito dopo.

“L’oggetto di questa premura [della Chiesa] è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui peraltro rimane intatta [integra permanet] l’immagine e la somiglianza con Dio stesso [Gn 1, 27]. Il Concilio indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che “l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”(GS, 24). L’uomo, così com’è “voluto” da Dio, così come è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, e del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi [nel 1979] sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore di sua madre”.(25)

Tutto questo testo, scrive Padre Dörmann, “potrebbe esser inteso e inter-pretato nel senso del dogma cattolico, fino alla frase ove si dice che l’immagine (imago) e la somiglianza (similitudo) dell’uomo con Dio rimangono intatte” (26).

A partire da questa frase, NO. Affermazione molto grave ma difficilmente confutabile. Tutte le affermazioni sull’uomo “concreto” incluso nel mistero della Redenzione e quindi affidato alle cure della Chiesa e “unito” a Gesù “per sempre”, per quanto insolite ed ambigue, si potrebbero ancora interpretare in senso ortodosso; ovvero, aggiungo io, in un senso puramente simbolico, spiri-tuale, morale, come se ancora rinviassero in qualche modo all’idea tradizionale della missione come conversione. Si ha invece una rottura evidente con il dogma cattolico là ove il Papa afferma esplicitamente che l’uomo “intero”, unico ed irripetibile nella sua realtà esistenziale, è quello “in cui permane in-tatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”.

Rimarca Dörmann:
“[…] non si può sostenere che nella “realtà unica ed impossibile a ripetere” di ogni “uomo reale, concreto, storico permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”, dal momento che il dogma del peccato originale insegna la ferita inferta all’imago e la perdita della similitudo Dei nella realtà concreta di ogni uomo. La redenzione presuppone la condizione di peccato nella quale ogni uomo si trova dopo la colpa originale, condizione che viene cancellata attraverso la giustificazione del peccatore [per la quale l’Autore ri-manda alla sua definizione tridentina]. È evidente che la frase decisiva dell’Enciclica [il permanere intatto dell’immagine e della somiglianza dell’uomo con Dio] è inconciliabile con il dogma della Chiesa. Questa affermazione è in diretta contraddizione con l’insegnamento del Conclio di Trento sulla giustificazione” (27).

L’enciclica wojtyliana, prosegue Dörmann, va al di là di GS 22.2. Si è passati, infatti, dalla similitudo deformata del testo conciliare alla similitudo quae integra permanet dell’enciclica. Come a dire: da un errore ad un altro, peggiore del precedente. Il tutto al servizio di una nuova dottrina, che comporta obbiettivamente la divinizzazione dell’uomo. In effetti, se ognuno di noi dal momento del suo concepimento “sotto il cuore di sua madre” ha conservato l’immagine e la somiglianza con Dio, che bisogno ha ciascuno di noi di esser “redento”? La redenzione non implica in quanto tale una condizione di peccato per l’appunto da redimere?

L’enciclica sembra proporre apertamente anche l’errata dottrina cosiddetta dei “cristiani anonimi”, tipico prodotto della Nouvelle théologie, noto cavallo di battaglia del gesuita tedesco Karl Rahner, l’epigono di Heidegger in teologia, celebre per le sue fumose quanto eterodosse teorie. Nel par. 14 dell’enciclica scrive, infatti, Giovanni Paolo II: “Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo – ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consa-pevole: ‘Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo” – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – “…luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione” (28). La “via della Chiesa” non è l’uomo da redimere, il peccatore da salvare, ma l’uomo, ogni uomo, che è stato già redento dall’Incarnazione del Verbo, anche se non lo sa, non ne è cosciente!

Ulteriori rilievi critici:
Il Papa contraddice qui anche il dogma della predestinazione perché afferma che l’uomo, nel senso di “ogni uomo”, è stato “eternamente scelto”, chiamato, destinato alla Grazia e alla Gloria. Alla Grazia “sufficiente” sì, lo sappiamo – così è stato rivelato ed insegnato – ma non a quella “santificante”, riservata da Dio ai predestinati, a quelli destinati appunto alla Gloria, secondo quanto ci in-segna san, nel cap. 9 della Lettera ai Romani.

La seconda osservazione concerne il riferimento all’art. 24 della Gaudium et spes, nel quale si afferma che “l’uomo è l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa”.

Quest’affermazione è stata criticata in particolare da Romano Amerio, che l’ha considerata teologicamente errata, dal momento che si è sempre ritenuto aver Dio creato l’intero universo, incluso l’uomo, per la sua propria Gloria (Prov. 16, 4: Universa propter semetipsum operatus est Dominus). Essa mostra un antropocentrismo del tutto fuori luogo. Osservo, inoltre, che appare in contraddizione con l’idea stessa di una creazione dal nulla: venendo dal Nulla rispetto a se stesso, l’uomo non poteva possedere ex sese una qualità tale da indurre Dio a crearlo. Le nobili qualità dell’uomo esistono solo in quanto Dio le ha pensate e volute per un essere creato da Lui che avesse l’immagine e la somiglianza con Lui.

Inserendo GS 24 nel suo discorso nel modo che si è visto, Giovanni Paolo II sembra fornirne quest’interpretazione: scrivendo che “l’uomo sulla terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”, il Concilio sembra aver voluto conferire all’uomo un valore tale da giustificare l’erronea nuova dottrina, sec-ondo la quale nell’uomo l’immagine e la somiglianza con Dio sono rimaste intatte! (29)

Inoltre, terza osservazione, secondo Dörmann, “l’affermazione che per ogni uomo, dal primo istante della sua esistenza, ‘permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso’, offre una chiara definizione, in grado di fugare ogni ragionevole dubbio, della tesi della redenzione universale” (30). Ossia, come si è detto, della tesi secondo la quale l’Incarnazione avrebbe già garantito la “redenzione” ad ogni uomo per il solo fatto di esser uomo.

Una mutazione di questa portata, il cui gravissimo significato dovrebbe esser chiaro a tutti, ha comportato, prosegue Dörmann, un “cambiamento di senso” nel vocabolario teologico tradizionale, che “è difficile da afferrare” e tuttavia è indubbiamente profondo. Egli apporta due esempi.

Il primo riguarda l’immagine caritatevole della Chiesa, alla cui “sollecitudine” ogni uomo, ricorda il Papa, è affidato “a causa del mistero della Redenzione”. Ma questa “sollecitudine” – questo è il punto – non mira più a fare degli uomini e dei popoli “discepoli di Cristo” (Mt 28, 18-20). Dal momento che ogni uomo, “dal primo istante della sua esistenza” lo si concepisce “legato al Cristo da un’unione soprannaturale, per sempre e in maniera indissolubile, che lo sappia o no e che lo accetti o no, è allora in un senso del tutto differente da quello fin qui inteso che egli è affidato alla sollecitudine della Chiesa” (31).

E difatti, ricordiamolo di nuovo, di che cosa appare “sollecita” la Chiesa (la Gerarchia) di oggi? Di convertire individui e popoli a Cristo? Nient’affatto. Di renderli edotti mediante il “dialogo” del fatto che l’Incarnazione con la quale il Figlio di Dio si è “unito ad ogni uomo” [!], li ha già salvati, perché Dio è “Amore”, onde essi devono concorrere con tutti i cristiani e tutti gli altri uomini all’istituzione della pace e della fratellanza universali, all’unità del genere umano!

Il secondo esempio concerne la nozione stessa della Chiesa, che di fatto non è più la stessa.
“Se il Figlio di Dio – osserva Dörmann – con la sua Incarnazione si è unito per sempre e in maniera indissolubile a ogni uomo, se “l’esistenza in Cristo” è diventata la “dimensione” religiosa di ciascun uomo, tutta l’umanità forma allora, nel e con il Cristo, un’unità organica, un organismo natural-soprannaturale. La Chiesa viene allora a coincidere con l’umanità, “nel mistero della redenzione” e “dell’uomo”, mentre il “dualismo” di natura e grazia, Chiesa e umanità, viene superato nel suo stesso principio. La Chiesa Corpus Christi Mysticum e l’umanità Corpus Christi Mysticum non si differenziano più nel loro essere profondo che è “l’esistenza nel Cristo”, ma soltanto secondo “l’espressione” graduale della forma nella quale si presentano” (32).

Sin da quando era cardinale, sottolinea Dörmann, Giovanni Paolo II ha inteso in senso antropocentrico la Rivelazione, muovendo proprio da GS 22.2. Secondo la dottrina tradizionale, fondata sul Vangelo di Giovanni, “la Rivelazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio è divenuto uomo incarnandosi nella Vergine Maria e ha rivelato la gloria dell’unico Figlio del Padre, in una parola la gloria di Dio” (33). Invece, Giovanni Paolo II ha sostenuto più volte che “la Rivelazione si concretizza nel fatto che il Figlio di Dio, mediante la sua Incarnazione, “si è unito a ogni uomo, è diventato, come Uomo, uno di noi”.

La differenza con la formulazione del Vangelo di Giovanni balza subito all’occhio: nel concetto wojtyliano della Rivelazione il fatto interiore dell’unione nascosta del Figlio di Dio con ogni uomo corrisponde al fatto esteriore dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che diventa uno di noi e ci espone o ci “svela”, in quanto uomo, la nostra propria umanità”. E proprio qui abbiamo la svolta antropocentrica. L’unione del Cristo con ogni uomo attraverso l’Incarnazione costituisce l’oggetto primario, fondamentale, della nozione di Rivelazione ed è anche la chiave per la comprensione del “carattere antropocentrico della Rivelazione”, sostenuto dal Papa polacco sin da quando era cardinale” (34).
4. La Redemptor hominis documento disastroso per la nostra fede.
L’analisi a mio avviso impeccabile del prof. Dörmann dimostra come l’inciso eterodosso sull’Incarnazione come unione di Cristo con ogni uomo, infiltrato nel Concilio, abbia provocato una variazione nel concetto della Rivelazione incompatibile con il dogma della fede. A ben vedere, incompatibile anche con il dogma cristologico in senso stretto definito a Nicea e Calcedonia, giusta il quale il Figlio di Dio si è incarnato unicamente nell’individuo storicamente esistito Gesù di Nazareth, ebreo, della stirpe di Davide, senza per questo “unirsi” a nessun altro uomo. In questo individuo, la natura divina e la natura umana non si sono unite tra loro ma ipostaticamente ossia nella persona che è stato l’uomo Gesù di Nazareth, per il censo imperiale romano figlio di Giuseppe e Maria. L’erronea credenza nell’unione fra le due nature nel Cristo ha storicamente implicato l’assorbimento di quella divina in quella umana (eresia ariana) o di quella umana in quella divina (eresia monofisita). Non si può pertanto affermare, con GS 22.2, che c’è stata con l’Incarnazione una unione di nature (poiché altro non può essere), tra quella divina e quella umana. Qui l’eresia è di tipo nuovo poiché quest’unione la postula non in Cristo stesso ma tra la sua natura divina e la natura umana irredenta di ciascun uomo! Come se il Cristo si fosse incarnato unendosi per ciò stesso ad ognuno di noi e in senso ontologico. Si tratta in realtà di un antico errore riproposto in forma ammodernata dalla mente contorta dei “nuovi teologi”, già confutato dal Damasceno nella sua lotta contro gli iconoclasti e successivamente da san Tommaso (35).

L’unica interpretazione logicamente sostenibile di questa singolare “unione” tra il divino e l’umano in tutti noi, può essere a mio avviso solo quella simbolico-poetica, per quanto azzardato sia qui il simbolismo che si è voluto creare. Non si vede, infatti, come l’unione delle due nature senza reciproca commistione nella persona dell’uomo Gesù o unione ipostatica, fatto unico e definito nel tempo, limitato al soggetto concreto Gesù di Nazareth, possa essersi attuata anche come unione “ontologica” del Verbo con ogni uomo. E non solo con gli uomini del tempo di Gesù ma anche con tutti quelli che sono venuti prima e sono venuti dopo. Per quelli venuti prima, tale “unione” prescinde al-lora dall’Incarnazione, che resta un evento accaduto nel tempo, finito, circoscritto ad un solo uomo. Quindi: da un lato deriva necessariamente dall’Incarnazione, tale unione; dall’altro ne prescinde completamente, essendo dovuta al Cristo cosiddetto “cosmico”, sul tipo di quello inflazionato da Blondel e Teilhard de Chardin. Ma anche per gli uomini venuti dopo Cristo, l’Incarnazione non è un fatto del passato, definito e concluso? Non esistendo più come realtà attuale, come può essa provocare l’unione di Cristo con ogni uomo vissuto dopo Cristo? Si tratta, come ognun può vedere, di una concezione confusa e contraddittoria, oltre che errata nei suoi presupposti, che con-sistono nel dichiarar avvenuta ed anzi sempre presente un’unione “ontologica” della natura divina del Verbo con quella umana di ciascuno di noi, a prescindere da ogni conversione a Cristo.

Va inoltre notato: la redenzione è un processo che presuppone un soggetto (uomo o donna) da redimere, il quale nello stesso tempo sia capace di contribuire all’opera della Grazia in lui. Presuppone pertanto un soggetto cosciente, capace di usare la ragione e dotato di forza di volontà. Presuppone in somma quelle caratteristiche razionali racchiuse nel concetto di libero arbitrio. Come può dunque avvenire ad insaputa dello stesso redimendo, anonimamente? O, se si vuole usare la terminologia tradizionale, in senso solo oggettivo cioè per l’azione in sè del Cristo e persino prima di incarnarsi? Eliminare la componente soggettiva della Redenzione (il nostro consapevole contributo ad essa) oltre che contrario al dogma, lo è al più elementare buonsenso: ci troviamo per l’appunto nel regno dell’irrazionale, dell’illogicità più completa.

Il cattivo seme gettato nel Concilio ha fatto nascere una gramigna velenosa molto difficile da estirpare. Si è intorbidato l’insegnamento ortodosso circa l’uomo nel suo rapporto con Dio dopo la Caduta e il concetto stesso di unione ipostatica, ora imbastardito da quest’impossibile idea di un’unione del Cristo “cosmico” con ogni uomo in quanto tale, ancora “irredento”. Ne è seguito un insegnamento addirittura contrario al dogma, come si è visto dai testi di Giovanni Paolo II, avendo esso riproposto come nulla fosse l’uomo quale intatta “immagine e somiglianza di Dio”.

Tutta la teologia ortodossa sulla Caduta, con la distinzione capitale tra “im-magine” e “somiglianza”, e quindi tra Natura e Grazia, è andata perduta per la dottrina che viene attualmente insegnata, che è quella diffusa dal Concilio e dalla Redemptor hominis. Non per nulla, del Purgatorio e dell’Inferno, così come del dogma del peccato originale, si sono perse le tracce. Quando uno muore, oggi, non si dice che “è andato al Giudizio”; si dice, invece, che “è andato alla Casa del Padre”, come se appunto fosse stato già “redento” dall’Incarnazione del Figlio. Del giudizio dell’anima individuale subito dopo la morte, che (è dogma di fede – Eb 9, 27) si troverà immediatamente di fronte il Cristo Giudice in tutta la sua tremenda, sovrannaturale Maestà, nessuno parla più: una delle tante (ostiche) verità “di fede divina e cattolica” che sono state lasciate cadere nell’oblìo. L‘ uomo contemporaneo ne è terrorizzato e non vuol nemmeno sentirle nominare.

Bisogna pur dire la verità: la Reremptor hominis è stata una sciagura per la nostra fede. Avrebbe potuto cominciare a porre riparo ai guasti provocati dal Concilio, e proprio da GS 22, se ne avesse fornito un’interpretazione pura-mente simbolica, cui tutti avrebbero dovuto attenersi. Ma Giovanni Paolo II era convinto che nel Vaticano II fosse addirittura risuonata la voce dello Spirito Santo: “Possiamo – nonostante tutta la debolezza umana e tutte le deficienze accumulatesi nei secoli passati – non aver fiducia nella grazia di Nostro Signore, quale si è rivelata, nell’ultimo tempo, mediante la parola dello Spirito Santo, che abbiamo sentito durante il Concilio?” (36).

All’opposto, l’enciclica si è impegnata al massimo per costruire una nozione della Redenzione incentrata sull’uomo, antropocentrica, facendo chiaramente capire che la famigerata “unione di Cristo con ogni uomo” doveva, contro ogni logica, esser intesa in senso ontologico. Un errore nella fede chiaro e lampante.

Quest’enciclica, ancor oggi portata in palmo di mano da chi vede in Giovanni Paolo II e Benedetto XVI due integerrimi difensori del Deposito della Fede, bisogna ripeterlo con il prof. Dörmann, ha aperto la porta all’errore della Redenzione universale, errore che altera il significato stesso della Redenzione cristiana e rappresenta oggettivamente una gravissima eresia.

4.1 Un “umanesimo” non cattolico, senza la fede in Cristo.

Se vogliamo considerare l’enciclica nel suo insieme, dobbiamo innanzitutto dire che il suo spirito non è cattolico nell’ottimismo di tipo umanistico che la pervade. Nel contesto storico di quegli anni la cosa era meno percepibile. Esisteva ancora la contrapposizione massiccia tra Unione Sovietica comunista e libero Occidente, il comunismo e i suoi alleati politico-culturali erano in piena offensiva a casa nostra e su vari piani, non escluso il terrorismo alimentato su vasta scala dalla c.d. “sinistra extraparlamentare”. Bene faceva dunque il Papa a rivendicare l’umanità dell’uomo e i diritti umani contro il totalitarismo russo e cinese, a contrapporre al materialismo marxista e di tanta parte della cultura occidentale (già inquinata dalla Rivoluzione Sessuale) la natura divina dell’uomo, creato da Dio inizialmente a sua immagine e somiglianza.

E difatti, l’enciclica si soffermava ampiamente sui problemi dell’uomo contemporaneo, sottolineando come il grande suo progresso materiale e nella conoscenza non si potesse separare da un adeguato progresso spirituale, impossibile senza il concorso di Cristo e quindi della Chiesa (RH 15 e 16). Anzi, solamente con l’aiuto dell’uno e dell’altra l’uomo contemporaneo poteva sperare di guarire dalle sue angosce e malattie morali e di rendere la vita sulla terra “più umana” e “più degna dell’uomo” (37). Oltre ai valori sociali sempre mantenuti dal cristianesimo (giustizia sociale, principio di solidarietà, soccorso alla povertà), bisognava “stabilire, accettare e approfondire il senso della responsabilità morale, che l’uomo deve far suo” (38). A questo proposito, il Papa ribadiva che:
“noi cristiani in particolare dobbiamo sempre ricordare la scena del giudizio finale [extremi iudicii imaginem], secondo le parole di Cristo riportate nel Van-gelo di Matteo [Mt 25, 42-43]. Questa scena escatologica [hoc eschatologicum spectaculum] dev’esser sempre “applicata” alla storia dell’uomo, dev’esser sempre fatta “metro” degli atti umani, come uno schema essenziale di un esame di coscienza per ciascuno e per tutti: ‘Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare…; ero nudo, e non mi avete vestito…; ero in carcere, e non mi avete visitato’. Queste parole acquistano una maggior carica ammonitrice se pensiamo che, invece del pane e dell’aiuto culturale ai nuovi stati e nazioni che si stanno destando alla vita indipendente, vengono offerti, talvolta in abbondanza, armi moderne e mezzi di distruzione…” (39). 

Riapparve dunque l’escatologia tradizionale nel discorso del Papa. Egli ammonì soprattutto i cristiani, ricordando loro la “responsabilità morale” nei confronti degli altri uomini, alle cui necessità si doveva provvedere nel modo giusto, fornendo per esempio ai popoli e Stati nuovi pane e non armi da guerra, con le quali sterminarsi a vicenda. Il “giudizio finale”, come testimoniato da Matteo nel celebre passo del cap. 25 del suo Vangelo, riguarda soprattutto il nostro comportamento verso il prossimo: è una “scena escatologica” che dobbiamo sempre tener presente per applicarla come “metro di giudizio” alla storia dell’uomo ed anche come schema dell’esame di coscienza individuale, cui ciascuno di noi è sempre tenuto in quanto cattolico.

Lascia tuttavia perplessi il richiamo al Giudizio finale come “scena”, “spetta-colo” e non esplicitamente come f a t t o , sia pur sovrannaturale, che accadrà inevitabilmente alla fine dei tempi. Ma, pur senza voler sottilizzare troppo sull’uso di questa terminologia, resta l’impressione di una rappresentazione incompleta dei motivi per i quali possiamo noi tutti incorrere nella Riprovazione finale da parte del Signore (e anche edulcorata per i non credenti, che in genere ignorano il Nuovo Testamento, visto che il testo non menzionava l’impressionante Maledizione finale dei Reprobi profferita dal Cristo Giudice, che li avrebbe Egli stesso condannati al fuoco eterno – “Via da Me, maledetti, nel fuoco eterno preparato pel diavolo e gli angeli suoi” – Mt 25, 41). Infatti, possiamo andare all’eterna dannazione non solo per gravi peccati di egoismo verso il nostro prossimo ma anche per non aver creduto alla natura divina di Cristo, per averlo coscientemente rifiutato come Verbo incarnato, respingen-done gli insegnamenti. Questo fondamentale aspetto – la necessità della fede in Cristo per la salvezza – Giovanni Paolo II non lo ricorda m a i nella sua enciclica.

La lacuna non è ovviamente sfuggita all’analisi di Dörmann.
Nell’esporre al par. 10 di RH la già ricordata “dimensione umana del mistero della Redenzione”, nella quale, poiché Cristo “rivela pienamente l’uomo a se stesso”, ne consegue che l’uomo “ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità”, il Papa spiegava che se l’uomo vuole comprendere se stesso “sino in fondo” deve “avvicinarsi a Cristo”; deve, cioè, “appropriarsi e assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso”. Ripropone dunque il Papa il tradizionale “itinerario della mente in Dio”? Così poteva sembrare ma in realtà egli faceva emergere una insolita prospettiva antropocentrica. Continuava egli infatti: se l’uomo mette in opera quest’approfondimento nel modo dovuto, oltre a “scoprire frutti di adorazione di Dio” scoprirà anche “frutti di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se ‘ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore’ [Exultet della Veglia pasquale], se Dio “ha dato il suo figlio” affinché egli, l’uomo, “non muoia, ma abbia la vita eterna” (40).

Lo stupore per le meraviglie operate da Dio, nota Dörmann, si trova in tutte le pagine della Sacra Scrittura e questo “stupore” concerne anche l’uomo. Tuttavia, nell’enciclica “l’accento viene spostato, in modo sottile, da Cristo e da Dio all’uomo. L’Exultet della Veglia pasquale canta: “O felix culpa, quae talem et tantum meruit habere Redemptorem” [Felice colpa, che meritasti tale e così grande Redentore]. Nell’enciclica invece è il “valore dell’uomo” che “ha meritato di avere un tanto grande e nobile Redentore”. Agli occhi del Creatore il valore dell’uomo è così grande che ‘Dio ha dato il suo figlio, affinché l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna’[GV 3, 16]” (41).

La Redenzione sarebbe allora avvenuta a causa del valore dell’uomo, non dell’Amore e della Misericordia divine per i nostri peccati. Mettendo il “valore dell’uomo” in primo piano, il testo del Papa fa sorgere una scomoda domanda: “quanto grande è allora il valore dell’uomo da non essere stato perduto, e, in quanto esistente, da non poterlo essere? Grande come quello del Figlio o maggiore ancora?”.

La domanda sembrerebbe assurda ma il testo dell’enciclica la autorizza pi-enamente alla luce del fatto che Giovanni Paolo II “riporta una citazione del Vangelo in modo incompleto, operandovi inoltre un doppio mutamento di sig-nificato. Ecco infatti la citazione completa di san Giovanni 3, 16: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna”. Nel contesto del Vangelo di Giovanni questo passaggio significa che Dio ha dato la prova visibile del suo amore “per il mondo” consegnando alla morte il suo Figlio unigenito. Ma qui “mondo” assume il significato, come è detto in seguito [sempre nel Vangelo di Giovanni] di umanità allontanatasi da Dio nelle tenebre del peccato e irrimediabilmente condannata al giudizio e alla morte eterna. Ad essa, attraverso la la fede nel Figlio di Dio che si sacrifica per la sua Redenzione, è stata aperta la via della vita eterna. Il doppio mutamento di senso è evidente: Nel Vangelo si tratta dell’amore di Dio per l’umanità perduta, nell’enciclica della grandezza, della dignità e del valore dell’uomo, di quell’uomo che possiede a priori, e in maniera inalienabile, ‘l’ essere in Cristo’ come carattere specifico della sua natura umana. Nel Vangelo la via per la vita eterna è la fede. Nell’enciclica la fede è stata – in modo consapevole – cancellata dalla citazione della Scrittura. Il motivo è ovvio: nella teologia della Redenzione fondata sull’assioma della redenzione universale, la fede in Gesù Cristo non può essere condizione per ottenere la vita eterna, dal momento che l’uomo è redento e giustificato a priori!” (42).

Giustificato a priori, aggiungo, sempre a causa della supposta “unione del Figlio di Dio con ogni uomo” nell’Incarnazione, di cui a GS 22.2, cioè a causa di un’unione che non c’è mai stata in questi termini né poteva aver luogo (vedi supra). Aggiungo inoltre, per far vedere ancor meglio la manipolazione dell’autentico messaggio cristiano attraverso il silenzio e l’oblìo, la continuazione di Giovanni 3, 16 :
“Dio adunque non ha mandato il Figlio suo nel mondo, perché condanni il mondo, ma perché il mondo per mezzo di Lui venga salvato. Chi crede in Lui non è condannato ma chi non crede è già condannato poiché non crede nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio. E la causa della condanna sta in questo: che la luce è venuta nel mondo ma gli uomini preferirono le tenebre alla luce poiché le loro opere erano cattive” (Gv 3, 17-19).

L’Incarnazione non rappresentava l’Avvento del Figlio di Dio per sottoporre il mondo ad un Giudizio finale, di condanna, ma per offrire al “mondo”, ossia a tutti quelli che avessero creduto nella divinità di Cristo e obbedito a Lui, di potersi salvare dal peccato e conseguire la vita eterna, presso Dio.

San Giovanni Battista disse ai suoi discepoli, a proposito di Gesù: “Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna, ma chi rifiuta di credere nel Figlio, non vedrà la vita, ché anzi sopra di lui rimane sospesa l’ira di Dio” (Gv 3, 36). E lo stesso Gesù: “E tu, Cafarnao, sarai esaltata fino al cielo? Tu discenderai sino all’inferno: perché se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli operati in te, oggi ancora sus-sisterebbe. E però vi dico, che nel giorno del Giudizio il paese di Sodoma sarà trattato meno duramente di te” (Mt 11, 23-24; vedi anche: Mt 10, 15).

La grave lacuna rappresentata dal silenzio sulla necessità assoluta della fede in Cristo per ottenere la salvezza, non fu colmata nel ragionamento papale nemmeno nei parr. 18 e 20 dell’enciclica, nei quali trattava, rispettivamente, de “La Chiesa sollecita della vocazione dell’uomo in Cristo” e di “Eucarestia e penitenza”. Siamo nella quarta e ultima parte del documento pontificio, dedi-cata a “La missione della Chiesa e la sorte dell’uomo”.

Il discorso wojtyliano si concludeva così come era incominciato: ribadendo il punto di partenza iniziale:
“Se Cristo ‘si è unito in certo modo ad ogni uomo’ [GS 22.2], la Chiesa, penetrando nell’intimo di questo mistero, nel suo ricco e universale linguaggio,vive anche più profondamente la propria natura e missione. Non invano l’Apostolo [san Paolo] parla del Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Se questo Corpo mistico di Cristo è Popolo di Dio – come dirà in seguito il Concilio Vaticano II, basandosi su tutta la tradizione biblica e patristica – ciò significa che ogni uomo è in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo” (43).

Ogni membro del Corpo mistico che è la Chiesa, intesa però come Popolo di Dio, è “penetrato dal soffio di vita che proviene da Cristo”. Ma lo è, nello stesso tempo, perché Cristo si è unito in certo modo ad o g n i uomo, con l’Incarnazione, non ai soli membri del Popolo di Dio, ai battezzati. Allora, il “soffio di vita” proveniente da Cristo investe solo i membri della Chiesa-Popolo di Dio o tutti gli uomini in quanto tali? In questo secondo caso, il Corpo mistico di Cristo ossia la Chiesa verrebbe a ricomprendere tutta l’umanità, sic et sim-pliciter.

Anche il successivo riferimento alla dottrina dell’uomo nuovo, tipicamente cattolica, si fonda sempre sull’idea dell’unione tra il Figlio di Dio e ogni uomo nel senso eterodosso di GS 22.2. (44)

“Questa unione del Cristo con l’uomo è in se stessa un mistero, dal quale nsce ‘l’uomo nuovo’, chiamato a partecipare alla vita di Dio, creato nuovamente in Cristo alla pienezza della grazia e della verità. L’unione del Cristo con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espres-sione di S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo: ‘Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio’[Gv 1, 12]” . Questa “forza” è di fatto equiparata all’azione della Grazia di Cristo in noi, quando abbiamo la fede, ma senza nominare la necessità imprescindibile della fede. Continua infatti il testo:
“Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna [Gv 4, 14]. Questa vita, promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed unigenito Figlio, incarnato e nato “quando venne la pienezza del tempo” [Gal 4, 4] dalla Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell’uomo. È in qualche modo il compimento di quella “sorte”, che dall’eternità Dio gli ha preparato”. E la “sorte” dell’uomo, alla fine della vita di ciascuno sarà per l’appunto quella di veder “apparire a noi il Cristo oltre questo traguardo: ‘Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me... non morrà in eterno’ [Gv 11, 25 ss.]. Il “traguardo” da superare, per ciascuno di noi, è quello rappresentato dalla morte fisica. Però, al di là di essa la nostra anima non incontrerà il Cristo che la giudica, non si troverà di fronte ad alcun giudizio che deciderà del suo destino eterno, nel Regno del Bene o in quello del Male, secondo i suoi meriti: le verrà invece incontro il Cristo risorto, per condurla nell’eternità. La f e d e in Cristo, dunque, riappare, nelle parole stesse del Signore rivolte a Marta, quale condizione necessaria per ottenere la vita eterna. Ma, a chi non avrà avuto la fede in Lui, cosa succederà? L’enciclica non lo dice, lo lascia supporre, a quelli che conoscono il Testo Sacro.

La contraddizione che aleggia su tutto il ragionamento wojtyliano non può tuttavia considerarsi sanata da questa semplice citazione, dalla quale viene cancellata l’immagine stessa del Cristo Giudice. Infatti, “l’uomo nuovo” di cui al testo di RH 18 non rispecchia esattamente i requisiti dell’uomo nuovo che deve essere il seguace autentico di Cristo. Perché non li rispetta? Il Papa non cita forse in nota i testi corretti, che stabiliscono la figura del cristiano “uomo nuovo”? E cioè: 2 Pt 1, 4; Ef 2, 10; Gv 1, 14-16; Gv 1, 12; Gv 4, 14? Li cita, anche se con qualche taglio, ma non può nello stesso tempo affermare, come fa, che l’uomo nuovo è quello che nasce dall’unione del Cristo con l’uomo, ex art. 22.2 della Gaudium et spes. Non può, perché l’uomo nuovo nato dall’unione spuria di GS 22.2 è “ogni uomo” in quanto tale e viene considerato “unito” al Cristo anche senza saperlo, e quindi, come si è visto, senza bisogno della fede, di convertirsi e mutar vita. Non per nulla, la citazione di Gv 1, 12 è monca. Manca tutta la parte iniziale, qui di seguito in corsivo: “Ma a quanti lo accolsero, a quelli che credettero nel suo nome, diede il potere di diventare Figli di Dio”. Manca ancora una volta il riferimento alla fede per poter diventare Figli di Dio per adozione. Tale riferimento viene introdotto come di soppiatto, in quanto parte non eliminabile di una citazione, e nel contesto generale appare un corpo estraneo. In ogni caso, rimane incapsulato in un discorso contraddittorio perché porta a concludere che l’uomo nuovo in Cristo, può esserlo sia se ha la fede sia se non ce l’ha. Siamo in una dimensione irrazionale, che del resto aleggia su tutta l’enciclica, nonché su testi conciliari come GS 22.

Nel commento di P. Dörmann:
“Il testo dell’enciclica è univoco: dall’unione di Cristo con l’uomo, che si realizza attraverso l’Incarnazione con ciascun uomo, nasce “l’uomo nuovo”. Quanto san Paolo dice dei fedeli: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova” (2 Cr 5, 17; Gal 6, 15) vale nell’enciclica per ciascun uomo. Le parole di san Giovanni nel suo prologo a proposito della nascita soprannaturale dei cristiani da Dio, nell’enciclica valgono per tutti gli uomini. L’uomo nasce, redento e giustificato a priori da questa unione di Cristo con tutti gli uomini. Non è richiesta alcuna condizione, né la fede, né il battesimo. L’espressione forte di san Giovanni: “Il Verbo ha dato potere di diventare figli di Dio”, nell’enciclica viene presentata – ad arte – in una forma ridotta [con il taglio da me sopra ricordato] che è assai eloquente. Il testo del prologo recita integralmente: ‘A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome”. Il papa omette – con logica perfetta – l’elemento soggettivo della Redenzione: l’accoglimento del Verbo e la fede in Gesù Cristo. Perché tutto questo? Certamente, perché egli insegna la redenzione universale” (45).

La grazia dell’esser Figli di Dio per adozione viene dunque concessa a priori a tutti gli uomini, quale che sia la loro religione o assenza di religione, sempre per via dell’unione spuria del Figlio di Dio con ogni uomo, di cui a GS 22.2. Ma, sottolinea ripetutamente Dörmann, il principio della vita divina i n ciascun uomo risulta dal Nuovo Testamento, tuttavia (come sappiamo) esso esige la cooperazione dell’uomo, innanzitutto con la f e d e , requisito scientemente omesso dal ragionamento del Papa (46). Né deve trarre in inganno il riferimento alla fede nel Risorto come testimoniata in Gv 11, 25, sopra riportato e da me qualificato una sorta di corpo estraneo nel discorso wojtyliano. “Nel Vangelo la fede nella risurrezione di Nostro Signore, dalla quale dipende la vita eterna, è pretesa hic et nunc da ciascun uomo in questa vita. Secondo l’enciclica, invece, quando gli uomini varcano “la frontiera della morte”, “appare a noi il Cristo oltre questo traguardo”, dicendo [alla nostra anima] “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me […] non morrà in eterno” (Gv 11, 25). Ciò comporta però che solo dopo la morte, nell’al di là, l’uomo dell’enciclica viene messo a confronto con Cristo e con l’esigenza della fede nel Risorto. Sembrerebbe di essere di fronte a una teoria mirante a dispensare il “cristiano anonimo” dall’obbligo essenziale della fede, nella risurrezione di Cristo in questa vita, esigendola peraltro, ma solo nell’al di là, personalmente dal Cristo risorto. In ogni caso, il cristiano non attende dopo la morte l’incontro nell’al di là con il Cristo della fede, bensì la Sua visione “faccia a faccia” (1 Cr 13, 9-12)” (47).

Il principio dell’unione del Figlio di Dio con ogni uomo a causa dell’Incarnazione comporta evidentemente l’unione di tutti gli uomini in Cristo, di tutti gli uomini in quanto tali, così come sono. Comporta quindi l’unità del genere umano, che diventa pertanto ragion d’essere ed obbiettivo della Chiesa cattolica, sostituendosi di fatto alla salvezza delle anime. E difatti, il par. 18 di Redemptor hominis ci ricorda la “verità sulla Chiesa, messa in evidenza con tanta acutezza dal recente Concilio nella costituzione dogmatica [tuttavia senza dogmi proclamati] Lumen Gentium, laddove insegna che la Chiesa è ‘sacra-mento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano’”[LG 1] (48)

Giovanni Paolo II era convinto che, di contro alle tendenze materialistiche spesseggianti nella nostra epoca, negli uomini, di tutte le religioni, vi fosse una diffusa tendenza ad invocare “lo Spirito”, per contrapporvi una visione posi-tiva, spirituale della vita. Ora, questo Spirito, nell’ottica di Papa Wojtyla non poteva essere altri che lo Spirito Santo, costituente “la forza potente che uni-fica la Chiesa soprattutto dal di dentro”. Nella Chiesa, tale Spirito il Redentore “lo comunica continuamente e la sua discesa, rivelata il giorno della Pentecoste, perdura sempre. Così negli uomini si rivelano le forze dello Spirito, i doni dello Spirito, i frutti dello Spirito Santo. E la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggior fervore e con santa insistenza: ‘Vieni, o Santo Spirito!’. Vieni! Vieni!” (49).

La Chiesa del nostro tempo invocava dunque con fervore lo Spirito, secondo il Papa, e “questa invocazione alla Spirito e per lo Spirito non è altro che un costante introdursi nella piena dimensione del mistero della Redenzione, in cui Cristo, unito al Padre e con ogni uomo, ci comunica continuamente quello Spirito che mette in noi sentimenti del Figlio e ci orienta verso il Padre” . Data l’unione di Cristo con ogni uomo lo “Spirito di Cristo” viene comunicato “continuamente” ad ogni uomo e la Chiesa viene di fatto a coincidere con l’umanità, visto che lo Spirito è la forza che tiene unita la Chiesa “dal suo interno”. Si comprende quindi che “l’intima unione con Dio” della quale la Chiesa sarebbe “sacramento o segno e strumento” è l’unione con Dio secondo GS 22.2 cioè l’immaginaria unione di Cristo con ogni uomo, prima e dopo l’Incarnazione. Ed è a causa di questa “unione” che lo “Spirito di Cristo” viene “comunicato” di continuo ad ogni uomo e in sostanza alla Chiesa, che tutta l’umanità ora spiritualmente ricomprende.

La peculiare, eterodossa nozione di “unione” con “ogni uomo” del Cristo “cosmico” (Il Redentore è “centro del cosmo e della storia”, dice à la Teilhard la prima riga di RH 1) e quindi con l’umanità concepita come Chiesa di Cristo invisibile di contro alla Chiesa cattolica, Chiesa visibile che solamente “sussiste” nella Chiesa di Cristo assieme ad altri “elementi di santificazione e di verità” (Lumen Gentium, 8.2) – questa nozione di “unione” costituisce il fondamento dell’ecumenismo professato da Giovanni Paolo II e dai suoi successori (51). Il fondamento di tutto l’impianto del magistero wojtyliano è rappresentato sempre dall’unione immaginaria di Cristo con ogni uomo grazie all’Incarnazione, è quindi sempre costituito dal testo conciliare. Commenta Dörmann sul punto:
“Quanto la Sacra Scrittura afferma dei doni e dei frutti dello spirito Santo largiti ai fedeli e alla Chiesa, l’enciclica, con una logica sorprendente, lo applica a tutti gli uomini e a tutta l’umanità. Per Giovanni Paolo II la discesa dello Spirito Santo è il risultato di un processo in continuo divenire. La discesa originaria dello Spirito Santo sulla Chiesa il giorno di Pentecoste diventa segno esterno di una discesa che perdura, dello Spirito Santo su tutta l’umanità.
Dal punto di vista della redenzione universale, la visione che il papa ha dell’uomo e dell’umanità è certamente grandiosa e ha una sua logica impressionante. È tuttavia incomprensibile che, in un’enciclica sul Redentore, un papa trascuri la profondità insondabile della caduta originale e l’assoluta necessità di Redenzione dell’umanità, semplicemente ignorando il tema della fede nel suo Redentore, richiesta, invece, in ogni pagina del Vangelo. Alla luce della visione autentica della Sacra Scrittura la visione del papa è mera poesia” (52).

Dörmann lamenta anche che Giovanni Paolo II non usi mai l’aggettivo “cattolica” quando nomina la Chiesa, ma la cosa è una semplice conseguenza, annoto, della dottrina della “redenzione universale”, che fa dell’intera umanità come una Chiesa invisibile, grazie all’unione che ci sarebbe stata tra il Cristo e “ogni uomo”.

Dörmann sottolinea inoltre che la parola “peccato” brilla per la sua assenza. In verità, almeno una volta il Papa l’ha usata, ma come parte di una citazione non relativamente al concetto del peccato. Questo accade nell’art. 20, dedicato a “Eucaristia e penitenza”. Celebrando il valore dell’Eucaristia, che, come dice il Concilio “costruisce la Chiesa” (LG 11), e viene interpretata dal Papa soprattutto come “strumento che costruisce come autentica unità il Popolo di Dio, come assemblea di fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere di unità di cui furono partecipi gli Apostoli e i primi discepoli del Signore” (53), l’enciclica ricorda che “negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in evidenza – in conformità, del resto, alla più antica tradizione della Chiesa – l’aspetto comunitario della penitenza e soprattutto del sacramento della Penitenza nella pratica della Chiesa” (54). Ma si doveva aver alquanto ecceduto in questo senso, si arguisce, se l’enciclica sente il bisogno di ribadire il carattere individuale della Confessione (“conversione”, secondo Mc 1, 15), trattandosi di “un atto interiore di una profondità particolare, in cui l’uomo non può esser sostituito dagli altri, non può farsi “rimpiazzare” dalla comunità […] In quest’atto deve pronunciarsi l’individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto il senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a Lui, come il Salmista, per confessare: ‘Contro di Te ho peccato’[Sal 50 (51), 6]” (55) . Contro la tendenza che evidentemente già si manifestava di eliminare la confessione sacramentale, sostituendola con l’atto di dolore collettivo durante la Messa o semplicemente non considerando più necessaria la confessione dei propri peccati, dal momento che con l’Incarnazione eravamo già uniti a Cristo, e quindi “redenti”, Giovanni Paolo II doveva pertanto ribadire la dottrina tradizionale della Chiesa sulla Penitenza, come atto individuale di pentimento e conversione di fronte a Dio. Ma dobbiamo chiederci: la tradizionale confessione sacramentale individuale poteva applicarsi ai non battezzati, all’umanità formalmente ancora fuori della Chiesa e tuttavia già redenta dal Cristo “cosmico”? Non poteva, evidentemente. la dottrina della redenzione universale insegnata da Redemptor hominis mostrava di nuovo la sua contraddizione più radicale con la dottrina tradizionale della Chiesa, che il Papa era costretto a ribadire per contrastare l’estinguersi della confessione sacramen-tale, fenomeno provocato dalla riforma liturgica con la sua nuova Messa, a sua volta penetrata dallo spirito della nuova e falsa dottrina della “redenzione universale”. Fonte
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1. Su GS 22, vedi: L. Ladaria, L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II, in R. Latourelle (cura di), Vaticano II. Bilan-cio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), Cittadella, Assisi 1987, vol. II, pp. 939-951, in particolare le pp. 940-945. Si tratta di un saggio dal taglio apologetico. Per un’analisi critica (dal punto di vista della teologia ortodossa della Chiesa) concernente la sua origine e i vari aspetti, patristici, scolastici, neomodernistici, coinvolti dal suddetto articolo, cfr. i due accurati studi: P.Toulza, “L’union du Fils de Dieu à tout homme”: origines et actualité, in: La conscience dans la religion de Vatican II. Deuxième Symposium de Paris, 9-11 octobre 2003, ‘Le Sel de la terre’, Angers, 2004, pp. 190-211; G. Castelain, Bref examen critique de GS 22.2, ivi, pp. 212-228.
2. San Leone Magno, Sermones, 21, 2-3, PL 54, 192A; cfr. Liturgia delle Ore, I, Ufficio delle letture di Natale (nota del CCC). Il CCC comunque ripropone l’esaltazione della dignità dell’uomo dei testi conciliari (par. 1700 e ss.).
3. La nozione classica (ciceroniana) della dignitas, pur non considerando ovviamente la dignitas come una carat-teristica “ontologica” dell’individuo, le attribuiva un grande significato come valore fondamentale della società romana, sia a livello individuale che collettivo. Sul punto: Sylvain Luquet, La dignité humaine dans la philosophie classique, nel volume collettaneo La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, Paris, 2020, pp. 13-38. I saggi raccolti fanno giustizia della retorica della “dignità dell’uomo” oggi imperante e del suo uso a volte perverso. Per ulteriori, ampi approfondimenti critici: Paolo Pasqualucci, La falsa dignità. Una visione dell’uomo spesso fraintesa, Fede & Cultura, Verona 2021, pp. 256.
4. Henri de Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (1936), tr. it. di U. Massi, Studium, Roma, 1948, pp. 298-299.
5. Giuseppe Siri, Getsemani, 2a ediz., Edizioni della Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma, 1987, pp. 55-56.
6- Maurice Blondel, L’Action (1893), PUF, Paris, 1993, p. 462. Ma vedi l’introduzione e i primi due capitoli dell’ultima parte del libro, la quinta: pp. 389-423. 7. Siri, Getsemani, cit., pp. 53-54.
8. Giova ricordare l’elogio a de Lubac espresso da Joseph Ratzinger ne La mia vita. Ricordi (1927-1977), tr. it. di Giuseppe Reguzzoni, Edizioni san Paolo, Cinisello Balsamo, 1997: “Nell’autunno del 1949 Alfred Läpple [un insegnante del suo Seminario] mi aveva regalato l’opera forse più significativa di Henri de Lubac, Cattolicismo, nella magistrale traduzione di Hans Urs von Balthasar. Questo libro è divenuto per me una lettura di riferi-mento. Esso non solo mi trasmise un nuovo e più profondo rapporto con il pensiero dei Padri, ma anche un nuovo e più profondo sguardo sulla teologia e sulla fede in generale. La fede era qui una visione interiore, di-venuta nuovamente attuale proprio pensando insieme con i Padri […] De Lubac accompagnava il suo lettore da un modo individualistico e angustamente moralistico di credere verso il largo di una fede pensata e vissuta socialmente, comunitariamente nella sua stessa essenza, ad una fede che proprio perché era per sua stessa natura anche speranza, investiva la totalità della storia e non si limitava a promettere al singolo la sua beatitu-dine privata” (op. cit., p. 62). Si noti il carattere ambiguo di questa “speranza”, sostanzialmente indefinita. Ancora nell’enciclica Spe salvi, del novembre 2007, Benedetto XVI avrebbe confermato la sua adesione alla con-fusa concezione della salvezza cristiana come salvezza “comunitaria”, supposta “condizione” di quella indi-viduale, tipica di de Lubac – concezione che pencolava verso l’eresia della salvezza garantita a tutti. Sempre nelle sue memorie, Ratzinger non taceva la sua sostanziale avversione per san Tommaso d’Aquino, “la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata” (op. cit., p. 44). La logica “preconfezionata” della quale si serviva l’Aquinate era in sostanza la medesima di Aristotele, un autore assente dalla formazione di Ratzinger. La filosofia profana egli la conosceva soprattutto tramite i manuali in uso nel Seminario (op. cit., p. 43). Il che era perfettamente normale, per un seminarista.
9. De Lubac, Cattolicismo, tr. it. cit., p. 299. Corsivo nel testo.
10. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II, tr. it. dalla tr. fr. di Paolo Taufer, Editrice Ichthys, Albano Laziale, s.d., vol. I, p. 81. Il P. Dörmann, la cui specializzazione accademica era la “scienza delle missioni”, pubblicò inizialmente il suo studio in quattro volumetti, praticamente a sue spese. Essi furono tradotti in francese, in-glese, italiano, rimanendo queste traduzioni nella circolazione molto ridotta della pubblicistica cattolica tra-dizionalista. Gli altri tre volumetti della traduzione italiana furono condotti sull’originale tedesco ad opera di Alfons Benedikter e Paolo Taufer. Il testo tedesco è stato ristampato da un editore cattolico di più ampio respiro: Prof. Dr. Johannes Dörmann, Johannes Paul II. Sein Theologischer Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, Stuttgart, 2011. Si tratta di un ponderoso volume di 858 pagine, stampate però in carat-teri grandi. Ho utilizzato la citata traduzione italiana, confrontandola con l’originale qui richiamato, il cui titolo recita: Giovanni Paolo II. Il suo percorso teologico verso la giornata mondiale di preghiera delle religioni ad Assisi. Il libro ricostruisce in dettaglio la peculiare “teologia” di questo Papa, analizzando le sue prime tre lettere encicliche. La Redemptor hominis consta di 22 lunghi paragrafi.
11. Op. cit., vol. I, p. 83.
12. Sulla notevole influenza esercitata da de Lubac al Vaticano II, si veda: Karl-Heinz Neufeld, Vescovi e teologi al servizio del Vaticano II, in: Vaticano II: Bilancio e prospettive etc, cit., pp. 83-109; D. Bourmaud, Le père de Lubac et Vatican II, in : Autorité et réception du Concile Vatican II. Quatrième Syposium de Paris, 6-8 octobre 2005, numero speciale di ‘Vue de haut’, rivista dell’Institut Universitaire Saint Pie X, Paris, 2006, pp. 303-335.
13. Costituzione conciliare Gaudium et spes, art. 22.2. Testo italiano in I documenti del Concilio Vaticano II, Edizioni Paoline, Alba, 1980. Per l’originale latino: Concilii Oecumenici Vaticani II. Constitutiones-Decreta-Declarationes, curante Florentio Romita, Desclée ac Socci – Romae, 1967. Per I Testi Sacri mi sono servito de La Sacra Bibbia, edizioni Paoline, anteriore al Concilio. Per il testo latino delle Encicliche wojtyliane: Giovanni Paolo II, Tutte le Encicliche, a cura di Rino Fisichella, Testo latino a fronte, Bompiani, 2010. Questa pregevole edizione delle encliche di Giovanni Paolo II è ricca di introduzioni generali e particolari, ma inevitabilmente priva di spunti critici. Una singolarità è costituita dal fatto che il tradizionale Noi del testo originale latino è stato reso con l’assai meno tradizionale Io, in tutte le traduzioni in volgare, non solo in quella italiana. Va poi ricordato che i titoletti di capitoli e paragrafi esistono solo nelle traduzioni in vernacolo, come da prassi consolidata. Le traduzioni sono ufficiali.
14. DS 788/1511. Decisioni dei Concili Ecumenici, a cura di G. Alberigo, tr. it. di R. Galligani, UTET, Torino, 1978, pp. 528-529. Si tratta del can. I della V Sessione.
15. Per un quadro dottrinale sistematico, si vedano Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. Marcel Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, § 80; Louis Ott, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. Marcel Grandclaudon, Salvator, Mulhouse, 1954, II parte, § 24. Ricordo, da parte mia, che nell’Epistola dottrinale (Tomus Flavianum) che san Leone Magno inviò al Concilio di Calcedonia, adottata spontaneamente all’unanimità da quel Concilio quale testo esemplare contro le eresie cristologiche, si affermava che “Il diavolo, infatti, si gloriava che l’uomo, ingannato dalla sua frode, avesse perduto i doni divini [Nam quia gloriabatur diabolus I homine sua fraude deceptus I diuinis caruisse muneribus]”(Decisioni dei Concili Ecum., cit., p. 155; S. Leonis Magni Tomus ad Flavianum episc. constantinopolitanum (Ep. XXVIII) etc., recens. C. Silva Tarouca SI, Romae, 1932, p. 25). Il santo Pontefice ribadiva la fede tradizionale della Chiesa sul punto. 16. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, tr. it. cit., I, p. 71.
17. Fernando Bogónes Herreras, “Cristo, el hombre nuevo”. Analisis de Gaudium et spes 22, ‘Estudio Agustiniano’, Sept 2017, 52 (1-3) 297-319; p. 310. Estratto disponibile su internet.
18. Govanni Paolo II, Redemptor hominis (1979), Edizioni San Paolo, Alba, 1979, p. 24. L’intero articolo si trova alle pagine 24-26 di quest’edizione. Per l’originale: AAS 71 (1979), p. 283 ss.
19. Op.cit., p. 25.
20. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II etc, I, pp. 79-80. Vedi anche, più ampiamente il vol. II di quest’opera, i paragrafi dedicati all’analisi dei parr. 9 e 10 della RH: “Dimensione divina del mistero della Redenzione” e “Dimensione umana del mistero della Redenzione”, pp. 98-115.
21. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, tr. it. cit., II vol., p. 102.
22. Op. cit., p. 102; p. 111.
23. Redemptor hominis, p.25.
24. Op. cit., ivi.
25. Op. cit., pp. 25-26. “Haec cura in hominem intenditur, quatenus realis eius existentia, unica neque iterabilis, respicitur, in qua integra permanet imago et similitudo Dei ipsius […] Homo, quem Deus ita ‘voluit’, quem ab aeternitate ‘elegit’, vocavit, ad gratiam et gloriam destinavit, ipse est ‘omnis’ homo, homo quam maxime con-cretus, quam maxime realis; hic enim est homo plenitudine mysterii ornatus, cuius in Iesu Christo est particeps effectus; quo quidem mysterium singuli homines e quadragies milies centenis milibus huius terrae nostrae inco-larum participant, ex quo sub corde matris concipiuntur” (RH, 13).
26. Dörmann, La teologia di Govanni Paolo II, cit., p. 73.
27. Dörmann, op. cit., pp. 73-74. Giova riproporre la definizione della Giustificazione data dal Tridentino: “Essa non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, attraverso l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da ingiusto diviene giusto e da nemico amico, così da essere erede, secondo la speranza della vita eterna [Tt 3, 7] (DS 799/1528 – Decisioni dei Concili Ecu-menici, cit., p 541). Oggi, dopo la Dichiarazione congiunta tra cattolici e luterani sulla Giustificazione (1999), con la quale la Gerarchia attuale ha attuato un compromesso dottrinale con il luteranesimo, non è affatto sicuro che la citata definizione tridentina abbia per la presente Gerarchia ancora una valore assoluto, immodificabile, come è proprio del dogma.
28. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, p. 27. La citazione finale proviene da GS 10, richiamato in nota nel testo. Corsivi miei. 29. La critica di Amerio a GS 24 si trova nel cap. XXX di Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 19862, p. 401 ss.
30. Dörmann, tr. it. cit., I, p. 74.
31 Dörmann, op. cit., pp. 74-75.
32 Op. cit., ivi. Corsivi miei.
33 Op.cit., p. 78.
34 Op. cit., ivi.
35 Vedi: Summa Theologiae, III, q. IV, a. 5. San Tommaso riporta l’eresia come combattuta da san Giovanni Damasceno, morto nel 749: “Filius Dei non assumpsit humanam naturam quae in specie consideratur: neque enim omnes hypostases eius assumpsit”: “Il Figlio di Dio non assunse la natura umana che consideriamo nella specie [umana] e pertanto nemmeno [assunse] tutte le persone degli uomini”. Sul punto: ‘sì sì no no’, XXXV, 1 (2009), pp.7-8.
36 Redemptor hominis, tr. it. cit., p. 10, art. 6. L’esortazione era nel senso di aver fiducia nella possibilità di real-izzare “l’unità universale dei cristiani”, sulla quale molti erano al tempo scettici. Per Giovanni Paolo II, notori-amente, l’opera dello Spirito Santo appariva proprio nelle novità rappresentate dall’ecumenismo e dalla libertà religiosa professati dal Concilio.
37 Redemptor hominis, tr. it. cit., p. 29, art. 15.
38 Op. cit., p. 35, art. 16.
39 Op. cit., pp. 35-36, art. 16.
40 Op. cit., tr. it. cit., p. 17, art. 10.
41 Dörmann, op. cit., vol. II, pp. 110-111.
42 Dörmann, op. cit., ivi.
43 RH, tr. it. cit., p. 42, par. 18.
44 Op. cit., ivi.
45 Dörmann, tr. it. cit., vol. II, p. 173.
46 Dörmann, op. cit., p 174.
47 Op. cit., ivi. Corsivi miei.
48 Redemptor hominis, tr. it. cit., p. 45, par. 18.
49 Op. cit., pp. 44-45
50 Op. cit., p. 45. Corsivi miei.
51 Una critica assai accurata dell’ecumenismo di Giovanni Paolo II si trova in un saggio a cura della Fsspx, pubblicato per I venticinque anni del suo pontificato: Fraternità sacerdotale San Pio X, Dall’ecumenismo all’apostasia silenziosa. Venticinque anni di pontificato, Menzingen, 2004, pp. 53. Il saggio, tradotto nelle principali lingue, fu inviato a tutti I cardinali e a moltissismi vescovi, cadendo praticamente nel vuoto. Sul nesso tra redenzione universale, errato concetto di Chiesa ed ecumenismo: op. cit., cap. II, pp. 23-33. 52 Dörmann, op. cit., vol. II, pp. 176-177.
53 Redemptor hominis, tr. it. cit., p. 53, art. 20.
54 Op. cit., pp. 53-54.
55 Op. cit., p. 54.

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