Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 30 ottobre 2022

La proprietà privata garanzia di solidità sociale

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La proprietà privata garanzia di solidità sociale

La Chiesa insegna che «la natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l’esistenza dell’umana società e con la sua vera civiltà», il contrario del mondo «fluido» che si sta progettando
Non vi fu epoca della storia o civiltà che non abbia riconosciuto, pur nella ricchissima varietà delle tradizioni giuridiche, il diritto di proprietà. Sino al sorgere delle idee socialiste nessuna organizzazione politica intese mai negare la proprietà privata, ciò semplicemente perché il principio di proprietà appare da sempre come cosa di ovvio buon senso, indubitabile, certissimamente radicata nella giustizia naturale. Vi furono, certo, alcune esperienze eterodosse che misero in questione la legittimità morale della proprietà, penso alla gnosi catara o all’eresia dei “fraticelli”, ma mai con una reale capacità di farsi civiltà giuridica. E sempre tali dottrine furono duramente condannate e combattute dalla Chiesa.
Solo con il socialismo ottocentesco si delinea il progetto politico di una abolizione della proprietà privata, prima in forme utopistiche, poi “scientificamente” con il materialismo storico-dialettico di Karl Marx. Resta paradigmatica di questa opposizione radicale al principio di proprietà la nota sentenza di Proudhon: «La proprietà è furto».

L’intervento di papa Pecci
Proprio per rispondere a queste nuove dottrine socialiste papa Leone XIII darà vita a quel corpus dottrinale di morale sociale poi chiamato da papa Pio XII Dottrina sociale della Chiesa. Non certamente secondaria, nell’insegnamento sociale di papa Pecci, la riaffermazione «che conforme a natura è la proprietà privata. […] A ragione pertanto il genere umano […] con l’occhio alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni, e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente confacente alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano dalla stessa legge naturale la propria autorità ed efficacia, confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui» (Rerum novarum). Leone XIII dice così la proprietà privata di diritto naturale, confermata dalla stessa legge divina positiva e universalmente riconosciuta dal diritto civile dei popoli.

Beni per tutti grazie alla proprietà
Principio fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa è la destinazione universale dei beni (cfr. Concilio Vaticano II, cost. Gaudium et spes, 69; Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, Compendio della DSC, 171-184) ovvero l’affermazione certa che il Creato è stato voluto da Dio a beneficio di tutti gli uomini così che ogni persona umana possa trarre dai beni della terra sostentamento. Tale principio non contrasta affatto con il diritto naturale alla proprietà privata, anzi è attraverso la proprietà privata che si realizza il principio dell’universale destinazione dei beni. Lo ha felicemente ricordato papa Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno dove riporta il comune insegnamento dei teologi, i quali «hanno sempre unanimemente affermato che il diritto del dominio privato viene largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia perché gli individui possano provvedere a sé e alla famiglia, sia perché, grazie a tale istituto, i beni del Creatore essendo destinati a tutta l’umana famiglia, servano veramente a questo fine» (Quadragesimo anno).
I beni del Creato, destinati da Dio agli uomini, sono dominati dall’uomo attraverso il lavoro con il quale il mondo è via via modellato dall’azione umana, le risorse rese disponibili, la terra coltivata, le diverse materie prime estratte e utilizzate per l’industria umana. È il lavoro il fondamento della proprietà privata, è attraverso di esso che l’uomo acquista il dominio sui beni. Ciò corrisponde a stretta giustizia, perché è giusto che il frutto del lavoro si aggiudichi a chi ha lavorato e non ad altri. Anche l’occupazione originaria delle terre può essere ricondotta a ciò, infatti ciò che era di nessuno diviene proprietà di chi la recinge e la dissoda, la coltiva e la custodisce.

Lavoro e libertà
La proprietà sul frutto del proprio lavoro non è graziosa concessione dello Stato, ma diritto naturale inviolabile che non conosce scadenza, ecco perché la Chiesa ha da sempre riconosciuto, non solo il diritto di proprietà generato dal valore del lavoro, ma anche il diritto di vendere/comprare, di donare/ricevere in dono, di lasciare in eredità/ereditare: «Senza dubbio l’ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni. […] la natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l’esistenza dell’umana società e con la sua vera civiltà e, in grado eminente, con l’esistenza e con lo sviluppo della famiglia. Un tale vincolo appare più che apertamente. Non deve forse la proprietà privata assicurare al padre di famiglia la sana libertà, di cui ha bisogno, per poter adempiere i doveri assegnatigli dal Creatore?” (Pio XII, Radiomessaggio 1 giugno 1941 per il cinquantenario della Rerum novarum).
Il legame tra proprietà privata e famiglia è evidente, così come quello tra proprietà privata e libertà concreta. La proprietà privata è garanzia di quelle libertà concrete che solo chi non dipende per il vivere dalla generosità altrui (ad esempio dello Stato) può realmente esercitare. La proprietà non è così solo fondata sulla natura intelligente e libera dell’uomo che imprime il proprio dominio sui beni creati attraverso il lavoro, ma è essa stessa strumento provvidenziale per consentire all’uomo di esercitare concretamente la propria intelligenza e libertà.
La proprietà privata familiare è poi garanzia per la società domestica di quella autonomia e libertà che l’ordine naturale le attribuisce ma che sempre più l’ipertrofia statale minaccia. Se la famiglia dispone di beni propri sufficienti a garantire le proprie finalità sarà certamente più forte e solida, saprà certamente conservare ed esercitare più facilmente i propri diritti e la propria libertà.
Ecco perché la Chiesa da sempre sostiene e incoraggia la piccola proprietà immobiliare (casa e terra), il risparmio privato, le imprese familiari. Più famiglia e proprietà sono tra loro connesse più saranno solide e capaci di dare frutti. È proprio ciò che, invece, oggi si ostacola: l’autonomia e la solidità della famiglia sostenute da casa di proprietà, un po’ di terra per l’uso familiare, risparmi e previdenze private, una attività lavorativa autonoma-imprenditoriale a conduzione familiare.
La proprietà privata, specie se eredità familiare, è anche un potente fattore di stabilità e di radicamento. Ciò spiega perché il mondo “fluido” della postmodernità che si va progettando non preveda la proprietà privata.
S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste Fonte

8 commenti:

Sapienza antica a sempre nuova ha detto...

“Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l'andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione.”
Seneca

Non rinnegare il passato ha detto...

Comprendere il passato non significa soltanto conoscerne le strutture economiche, le grandi trasformazioni politiche e militari. Il vero obiettivo dello storico, o comunque dell'uomo che studia la storia, è quello di cogliere tutte le forme culturali che consentono di "mettersi nei panni" degli uomini di secoli fa. Soltanto in quest'orizzonte metodologico sarà possibile parlare di Storia e non di cronaca.
Come scrive il grande storico olandese Johan Huizinga nel suo libro del 1919, l' "Autunno del Medioevo": «La storia della civiltà ha da fare con i sogni di bellezza e con l'illusione di una nobile vita come con le cifre della popolazione e delle imposte. Uno storico futuro, che studiasse la società di oggi in base all'aumento delle banche e del traffico, potrebbe dire al termine dei suoi studi: io mi sono accorto pochissimo dell'esistenza della musica; e quindi in quell'epoca essa deve aver avuto poca importanza per la civiltà.»
Nell'evitare un tale pregiudizio, possiamo chiedere come venisse vissuta la vita nel Medioevo.
Leggiamo ancora nell'opera citata: «Quando il mondo era più giovane di cinque secoli, tutti gli eventi della vita avevano forme ben più marcate che non abbiano ora. Fra dolore e gioia, fra calamità e felicità, il divario appariva più grande; ogni stato d'animo aveva ancora quel grado di immediatezza e di assolutezza che la gioia e il dolore hanno anch'oggi per lo spirito infantile. I grandi avvenimenti: la nascita, il matrimonio, la morte, partecipavano, per mezzo del sacramento, allo splendore del mistero divino; ma anche i casi meno importanti, un viaggio, un lavoro, una visita, erano tutti accompagnati da mille benedizioni, cerimonie, formule, usi.»
Questa assolutezza dello spirito e questa esistenza scandita da riti e da misteri sembra ormai perduta, sostituita da un mondo molto più "razionale" e maturo, ma forse, per ciò stesso, molto meno propenso a vivere la meraviglia e il mistero come esperienza quotidiana che doni senso alle cose.

Anonimo ha detto...

“La scuola dell’inclusione esclude chiunque la pensi diversamente.
La scuola della non discriminazione obbligatoria, discrimina.
La scuola che in teoria a dovrebbe favorire il pensiero critico, se la prende con i pochi che lo esercitano”.
Così ho detto ieri, durante questo dialogo-intervista con il brillantissimo Andrea Rognoni (anch'egli docente), su Radio LIbertà.

La scuola del Merito - correttamente inteso - si oppone alla scuola dell'"Inclusione", parola totem e grande supercazzola fucsia sinistroide del sistema orgiastico-mercantile nel quale viviamo.
Martino Mora

Vittoria Rosso-Soros in Brasile ha detto...

E intanto, in Brasile, un'altra vittoria della sinistra sorosiana, che esulta: Lula è il nuovo Presidente, sia pure per pochissimi voti. Purtroppo, a parte qualche modesto intralcio qua e là, alla fine i mondialisti riescono sempre a spuntarla. La società moderna è imbevuta delle loro idee come un savoiardo nell'alkermes.

Anonimo ha detto...

“Il senso della realtà, e delle parole, dovrebbe bastare per accorgersi di un’altra ovvietà: dove finisce il merito, c’è il demerito. O, declinazione meno morale e più socioeconomica: l’opposto del merito è il privilegio. Il perduto senso del reale, sostituito da una ideologia nominalistica, ha invece prodotto il ribaltamento dei fatti: si pretende di considerare il merito un privilegio, col risultato di favorire il suo contrario”.
(M. Crippa, da Il Foglio, 29 ottobre 2022)

Non mi interessa la titolazione dei ministeri ne’ difendere questo governo.
Mi interessa il senso della realtà e delle parole.

Anonimo ha detto...

Ma come stanno incavolati Lerner, Vauro, Cremaschi, Telese, Lasorella, Toscani, Littizzetto, Saviano, Murgia, Bompiani.....non ci possono pensare. Non sono abituati a ministri che fanno quel che promettono...non sono abituati al rispetto dell'ordine e della legalità

Anonimo ha detto...


I mondialisti vincono in Brasile perché la società moderna è imbevuta delle loro idee..

Visto che Lula ha vinto per pochissimi voti, tanto imbevuta la società brasiliana delle loro idee non deve essere.
Bolsonaro non ha ancora concesso la vittoria del suo avversario.
Lula è già stato in galera per corruzione.
Bolsonaro aveva contro i consueti media mainstream che, anche in Europa, lo presentano scorrettamente come leader della "estrema destra".
In Italia comunque i mondialisti hanno perso allo stesso modo dei gufi che davano per inevitabile e scontata la loro vittora.
Meloni sta procedendo speditamente e bene, forte di una squadra di governo che appare ferrata. I soliti Media sono in angosce perché le donne sono sottorappresentate, dicono, nel suo governo. Come numero. E lo sono, dicono, anche nel sottogoverno appena approvato, solo 13 su più di trenta.
Si tratta di ottusità femminista della peggior specie. Bisogna mettere una donna tanto per metterla, per rispettare una quota prestabilita, senza sapere se è capace o no. Meloni mi sembra abbia sempre criticato il sistema delle quote rosa, una cosa insulsa. L'importante è che le donne nel governo siano in gamba non quante siano.

Anonimo ha detto...

Ne basta una di valore.