La trattazione che segue, di Paolo Pasqualucci, è come sempre interessante e apre con chiarezza orizzonti non eludibili, spesso inesplorati, nel panorama ecclesiale. La introduco con una premessa che cerco di condensare il più possibile. Un precedente sul tema dello stesso Autore qui.
Paolo Pasqualucci :
Cerchiamo di far chiarezza sulla nozione di Tradizione Cattolica
La Tradizione non interpreta soltanto, ma contiene in sé stessa la Rivelazione, esattamente come e quanto la Scrittura. La Verità rivelata, pur inverata nell’oggi di ogni generazione, appartiene all’eternità. Altrimenti cosa trasmette la Chiesa a questa generazione e a quelle che verranno: solo un’esperienza soggettiva di stampo storicista di conio conciliare? Invece, le è proprio esercitare una funzione sempre in vigore, il cui atto è definito attraverso l'oggetto, ovvero attraverso le verità rivelate e tramandate. Ma ora è cambiato il cardine su cui si fonda la Fede, spostato dall'oggetto-Rivelazione al soggetto-Chiesa pellegrina nel tempo e trasferito attraverso la prassi – la famigerata pastorale – dall'ordine della conoscenza a quello dell'esperienza. È il frutto della dislocazione della divina Monotriade, come illustra 'sapientemente' Romano Amerio:
« Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. [...] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato al vissuto, della verità alla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade ». Intuibile il sovvertimento della realtà che ne deriva e che è la cifra del nostro tempo.
(Maria Guarini, La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II, Ed. DEUI, Rieti, 2012, pag. 119).
Paolo Pasqualucci :
Cerchiamo di far chiarezza sulla nozione di Tradizione Cattolica
Sommario : Un concetto di tradizione del tutto anomalo – L’innovazione apportata dal Concilio – La nozione di “tradizione vivente” impossibile come “luogo teologico” – L’idea di tradizione – Il concetto cattolico di tradizione – La tradizione cattolica è innanzitutto custodia del Deposito della Fede – Il concetto di tradizione di san Paolo, esso stesso parte della Rivelazione – Infelice interpretazione della tradizione da parte del cardinale Müller – Tradizione divina e tradizione ecclesiastica – In passato i mutamenti liturgici erano rari, esteriori e piuttosto modesti – Contro la Tradizione della Chiesa, la ‘Sacrosanctum Concilium’ ha voluto riformare l’intera liturgia secondo lo spirito del mondo.‘Chiesa e Postconcilio’ ha opportunamente pubblicato, il 27 agosto 2024, il cap. XVII della Lettera aperta ai cattolici perplessi di Mons. Marcel Lefebvre [qui], libro apparso in francese nel 1985 e nel 1987 in traduzione italiana. Il capitolo è dedicato alla nozione della vera tradizione cattolica, costituita dal “deposito della fede trasmesso dal magistero di secolo in secolo”, deposito di origine divina, atemporale ed irriformabile. In nome del vero concetto cattolico della Tradizione, mons. Lefebvre illustra anche “la vera obbedienza”, nel cap. XVIII del libro. Essa implica che il credente non può seguire i suoi Pastori quando malauguratamente vogliano imporre novità ostili o contrarie al Deposito della Fede e quindi alla Tradizione della Chiesa. In nome del Vaticano II indubbiamente si è fabbricata una nuova religione “liberale e modernista, seminatrice di discordia”, ha sottolineato mons. Lefebvre. Un vero cattolico ha il dovere di rifiutarla. Il suo dovere è quello di restar fedele alla vera Tradizione della Chiesa, cominciando dalla plurisecolare S. Messa di rito romano antico.
Ma a partire dall’infesto Concilio anche il concetto stesso di tradizione è stato mutato, assumendo un contenuto nuovo e, possiamo dire, anomalo. Pertanto, è quanto mai necessario cercare di chiarirsi le idee.
Anomalo, perché? Perché concepisce la tradizione unicamente come “dinamismo”, “aggiornamento”, realtà “vivente” che deve rispondere alle esigenze del proprio tempo ponendosi “in ascolto” di esse per organizzare “il futuro”. A volte si usa anche l’espressione classica di “sviluppo organico” della tradizione, tuttavia sempre inteso quale “sviluppo” che è adattamento a una realtà anche profana e continuamente mutevole. Queste espressioni si ritrovano, come ognun sa, nel linguaggio di papa Francesco e dei teologi oggi in voga.
Tipico in questo senso un passaggio della Lettera Apostolica del 16 luglio 2021, con la quale il papa ha voluto accompagnare il motu proprio Traditionis custodes, che limita severamente la possibilità di celebrare la Messa di rito antico, contro lo spirito e il dettato del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, del 2007 :
“Se è vero che il cammino della Chiesa va compreso nel dinamismo della Tradizione, ‘che trae origine dagli Apostoli e che progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo’ (DV 8), di questo dinamismo il Concilio Vaticano II costituisce la tappa più recente, nella quale l’episcopato cattolico si è posto in ascolto per discernere il cammino che lo Spirito indicava alla Chiesa. Dubitare del Concilio significa dubitare delle intenzioni stesse dei Padri, i quali hanno esercitato la loro potestà collegiale in modo solenne cum Petro et sub Petro nel concilio ecumenico, e, in ultima analisi, dubitare dello stesso Spirito Santo che guida la Chiesa”(1).Un concetto di tradizione del tutto anomalo.
Prescindiamo qui dal replicare dettagliatamente all’affermazione che il Vaticano II avrebbe esercitato un “magistero solenne”, ragion per cui i suoi insegnamenti dovrebbero considerarsi sorretti dallo Spirito Santo e quindi infallibili - argomento inaccettabile dal momento che il Concilio si è dichiarato espressamente “pastorale” e non ha voluto definire alcun dogma né condannare alcun errore: non ha voluto insomma servirsi del carisma dell’infallibilità (2).
Il concetto di tradizione usato da Papa Francesco appare superficiale, unilaterale, anomalo, in sostanza falso. Infatti, il problema di ogni tradizione è quello di conciliare il mantenimento nelle generazioni di un complesso di valori e comportamenti sentiti come essenziali e immodificabili per una società e un popolo, un’istituzione, nonostante i mutamenti che le condizioni storiche e sociali possano via via esigere. In sostanza: la tradizione deve saper conciliare l’immutabilità dei valori e principi che incarna con uno “sviluppo organico” degli stessi: gli eventuali adattamenti devono esser tali da non alterare il patrimonio spirituale della tradizione.
Non è pertanto in armonia con la natura della cosa voler vedere la tradizione s o l o dal lato del suo “dinamismo”, della sua capacità di adattamento a mutate condizioni storiche e sociali, come se il movimento continuo, quello che Romano Amerio chiamava “il mobilismo” esasperato della mentalità occidentale contemporanea, costituisse l’essenza stessa della tradizione(3). Immagine quest’ultima ancora più fuorviante se applicata alla tradizione cattolica, che si basa su un concetto del tutto opposto, di origine paolina e quindi scritturale, quello del mantenimento inalterato del Deposito della Fede, sacrario di verità rivelate da Dio sulla fede e i costumi, mediante Gesù Cristo Figlio di Dio e gli Apostoli da Lui scelti.
L’innovazione apportata dal Concilio
Papa Francesco giustifica la sua visione della tradizione richiamandosi all’art. 8 della Dei Verbum. Quest’articolo, dedicato alla “sacra tradizione”, contiene, infatti, un significativo riferimento al carattere “vivente” della “tradizione apostolica”, dipoi sempre utilizzato, tale riferimento, per giustificare tutte le rivoluzionarie riforme applicate alla Chiesa in nome del Vaticano II.
La “tradizione apostolica”, ha sottolineato mons. Brunero Gherardini, non viene intesa dal Vaticano II alla maniera tramandata, che individua in essa la trasmissione di immutabili verità di fede divina: essa è rappresentata come “tradizione vivente”. Quest’ultimo termine colpisce per la sua “genericità”, il suo “uso promiscuo”, la sua “mancanza di specificità”; capace, quindi, di “aprire le porte ad ogni innovazione”.(4) Il termine è usato più volte come aggettivo: i vescovi devono conservare l’Evangelo sempre integro e vivo (DV 7); lo Spirito Santo fa risuonare la viva voce dell’Evangelo nella Chiesa (DV 8); è il Magistero vivo della Chiesa che interpreta autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa (DV 10). Ma questo carattere “vivo” o “vivente” non viene mai definito, del resto secondo lo stile tipico del Vaticano II. Questa elasticità, che lascia al concetto tutta la sua nebulosità, viene usata oggi, continuava mons. Gherardini, “per avallare ogni prevista innovazione come un naturale sviluppo di verità ufficialmente trasmesse e recepite, anche nel caso che con queste non abbia nulla in comune e sia tutt’altro che un germoglio nuovo del vecchio tronco”(5).
Di per sé l’aggettivo vivente, riferito alla Tradizione della Chiesa, è perfettamente legittimo, se se ne chiarisce bene il significato, avendo cura di mantenerlo nei giusti binari, che sono quelli del giusto modo di concepire il “progresso c.d. dogmatico”, concepito in senso “estrinseco”, tale cioè da non mutare il dogma aggiungendovi cose nuove ma limitato a “riproporre la Tradizione apostolica in modo da sviscerarla, analizzarla, esplicitarla”(6). Si tratta di capir meglio e approfondire giammai di innovare. Come si è sempre detto: limitarsi a proporre nove, in modo nuovo, giammai nova, cose nuove.
Non per nulla, nel Proemio della (rivoluzionaria) dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (una libertà sempre condannata dal Magistero anteriore), si affermava che “questo Concilio Vaticano rimedita [scrutatur] la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi in costante armonia con quelli già posseduti [ex quibus nova semper cum veteribus congruentia profert]” (DH 1). Nova, cose nuove ha, dunque, consapevolmente proposto il Concilio ma, ovviamente, “in armonia costante” con le “cose antiche”. Quanto, però, in armonia? Le “cose nuove” non sono proposte come dogmi di fede, ragion per cui il semplice fedele, dopo averle accolte con il rispetto dovuto, può tuttavia sottoporle legittimamente al confronto documentato e ponderato con la dottrina costante della Chiesa.
È pertanto del tutto legittimo chiedersi se il significato che la DV vuol dare all’aggettivo “vivente”, riferito alla tradizione, sia “in armonia” con la dottrina di sempre. L’aggettivo va letto in relazione al concetto di verità che compare nella Dei Verbum: la verità come ricerca, come progredire indeterminato della coscienza nel suo adattarsi all’evolversi della vita – una nozione soggettivistica del vero, tipica della filosofia moderna e contemporanea, elaborata in particolare dal filosofo francese Maurice Blondel (1861-1949), il quale riteneva di poterla applicare anche alle verità di fede, uno dei padri spirituali della Nouvelle théologie.
La frase chiave, per capire il nuovo e anomalo concetto di tradizione, è costituita, a mio avviso, dal seguente passo di DV 8.2: “Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio [Ecclesia scilicet, volventibus saeculis, ad plenitudinem divinae veritatis iurgiter tendit, donec in ipsa consummentur verba Dei]”. Questa frase non può che stupire. La Chiesa non possiede già “la pienezza della verità divina” nel Deposito della Fede, nelle verità di fede immutabili che presiedono alla religione e alla morale da essa professate? A che cosa potrà essa “tendere”, allora? Tenderà a difendere e nello stesso tempo a realizzare nella prassi le verità di fede nel modo migliore, ma non potrà tendere “alla pienezza della verità divina”, come se ancora non la possedesse. Ciò non è come dire che la Chiesa non ha una vera autorità per insegnare, se essa è ancora alla ricerca della “verità divina” nella sua “pienezza”? E che la Rivelazione non si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo, come si è sempre ritenuto?
Tra l’altro, questa frase non contraddice in modo addirittura plateale quanto affermato dall’art. 3 del decreto Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, ossia che “la pienezza della grazia e della verità” è stata “affidata [concredita] alla Chiesa Cattolica” mentre le Comunità acattoliche, pur essendo come tali “strumenti di salvezza” [sic] non godono di quella pienezza? Prescindiamo qui dall’inadeguatezza di questa nozione della “pienezza” ad esprimere il dogma che fuori della Chiesa non c’è salvezza (salvo i casi individuali di battesimo di desiderio esplicito o implicito - DS 3866-3873). Resta il fatto che in UR 3 il Concilio afferma che la “pienezza della verità” è stata affidata alla Chiesa cattolica, la quale ne è evidentemente in pieno possesso, ma in DV 8 il Concilio stesso si smentisce, affermando, invece, che la Chiesa “tende incessantemente alla pienezza della verità divina”. Allora, la possiede o non, questa “pienezza”? Se la “pienezza della verità” è stata affidata alla Chiesa Cattolica”, essa non può “tendervi incessantemente”: non si “tende” senza posa a ciò che già si possiede, essendoci stato affidato (nel Deposito della Fede, appunto). E se, all’opposto, vi si tende, allora questa “pienezza” non ci è stata “affidata”. La contraddizione mi sembra incontestabile e non aggirabile. Nuova Pentecoste, dunque, il Vaticano II, che si contraddice in modo manifesto e su punti essenziali della dottrina?
Ma torniamo a bomba ed osserviamo il contesto nel quale è inserita la frase di DV 8.2 criticata. L’articolo sta illustrando la “tradizione di origine apostolica”, che è “espressa in modo speciale nei libri ispirati”(DV 8.1) e che “doveva esse conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi”(DV 8.1). Esponendo quello che appare il progresso estrinseco nella conoscenza di essa, l’articolo cita il Vaticano I, che a sua volta ripropone il tradizionale canone ermeneutico del Lerinense, e prosegue (citando il Vangelo) inneggiando alla riflessione, allo studio, all’intelligenza dei credenti che meditano “in cuor loro” le verità di fede che studiano, grazie anche alla predicazione dei vescovi, che li illumina. Dopo di che, il paragrafo si chiude con la frase citata, sul tendere incessante alla pienezza della verità divina, frase che rappresenta un’evidente stonatura.
Subito dopo il testo recita: “Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione [huius Traditionis vivificam testificantur praesentiam], le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega”. La Chiesa che “tende incessantemente alla pienezza della verità divina” sarebbe dunque quella che attua la “vivificante presenza della Tradizione”..
Dalla conclusione cui giunge l’intero paragrafo, quale concetto si deduce, allora, della “tradizione di origine apostolica” che apre il paragrafo stesso? Che questa tradizione non garantisce e non insegna una verità sicuramente posseduta nel Deposito bensì “tende incessantemente alla pienezza della verità divina”, che evidentemente ancora non possiede. Ha dunque ragione mons. Gherardini ad affermare che la nozione di “tradizione apostolica” utilizzata dalla DV non è quella classica (o, se si preferisce, quella ortodossa, coerente con il dogma della fede). Si tratta di una nozione del tutto nuova e che rende incerto e in ogni caso ambiguo il concetto stesso di “tradizione apostolica”, dal momento che lo identifica con un’aspirazione incessante ad una “verità divina” non ancora posseduta ma solo, evidentemente, desiderata.
La nozione di “tradizione vivente” impossibile come “luogo teologico”.
Da notare che, nel 1976, Paolo VI rimproverò a mons. Lefebvre – sospeso da lui in quello stesso anno a divinis poiché si era rifiutato di obbedire all’illecita ingiunzione dell’Ordinario locale di chiudere il seminario di Écône – di non voler aderire “alla Chiesa viva”, quella della Tradizione vivente, in nome di un concetto della Tradizione a dire del papa falso. Bisognava ammettere, scriveva, “que la Tradition n’est pas une donnée figée ou morte, un fait en quelque sorte statique qui bloquerait, à un moment déterminé de l’histoire, la vie de cet organisme actif qu’est l’Èglise”. Osservazioni giuste, in astratto, ma inapplicabili nel caso concreto cioè alle riforme rivoluzionarie promosse e imposte dallo stesso Paolo VI in nome del Concilio, che avevano buttato all’aria la Chiesa. Fu subito notato da autorevoli intellettuali cattolici come Jean Madiran, che Paolo VI non distingueva fra tradizione divina immutabile e le tradizioni ecclesiastiche ad essa connesse, le quali possono cambiare(7). I mutamenti radicali provocati in nome del Concilio, a cominciare dall’incredibile riforma liturgica, contraddicevano la “tradizione divina immutabile” che si esprimeva nella liturgia, in sostanza la costituzione divina della Chiesa, non semplicemente quella ecclesiastica: non si trattava di ottusa fedeltà ad un passato che doveva scomparire. Il carattere profondamente eversore della riforma liturgica montiniana, è ancor più evidente oggi, nell’accentuarsi continuo della crisi di fede della Chiesa:
“Il drastico cambiamento del millenario rito della Messa attuato da papa Paolo VI ha senza dubbio attenuato il carattere essenzialmente sacrificale, cristocentrico e latreutico della Messa, spostandolo più nel senso di un banchetto fraterno e di un incontro di preghiera incentrato sulla comunità, che dal punto di vista fenomenico è più simile ai servizi di preghiera protestanti”. Così di recente mons. Athanasius Schneider sull’imbastardimento protestante della Messa cattolica, un fatto inaudito provocato proprio da quel Paolo VI che vedeva nella Tradizione soprattutto un impaccio del quale bisognava liberarsi.(8)
Uguale rimprovero fu indirizzato a mons. Lefebvre da Giovanni Paolo II quando lo dichiarò scomunicato latae sententiae per aver ordinato i quattro vescovi senza mandato pontificio, a fine giugno del 1988. A fondamento di quest’atto, secondo il Papa “scismatico”, c’era una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. “Incompleta, perché non tiene conto del carattere vivo della Tradizione [quandoquidem non satis respicit indolem vivam eiusdem Traditionis] “che – come ha insegnato chiaramente il Concilio Vaticano II – trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo etc [segue la citazione dell’art. 8 della DV]”. Contraddittoria sarebbe poi stata l’azione disubbidiente di mons. Lefebvre perché “non si può rimanere fedeli alla Tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell’apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell’unità nella sua Chiesa”(9).
Giovanni Paolo II non credeva evidentemente alla buona fede di mons. Lefebvre, che non conferì ai quattro vescovi da lui consacrati potere di giurisdizione, non volle mai edificare una “Chiesa parallela”, sempre dichiarò di aver agito in stato di necessità per salvare appunto la Tradizione della Chiesa con il mantenimento del Seminario e della Messa tradizionali, messi in pericolo dall’atteggiamento ambiguo dello stesso papa, che non si decideva ad indicare una data per la nomina di almeno un vescovo tratto dai sacerdoti della stessa Fsspx, quale successore di mons. Lefebvre, ormai anziano e malato (sarebbe morto meno di tre anni dopo).
La critica di Giovanni Paolo II a mons. Lefebvre è stata analizzata a sua volta criticamente da mons. Gherardini. “Dunque, qui il papa stesso parlò di scisma e riportò tutto al comun denominatore della Tradizione vivente. Il giudizio non poteva essere più pesante. Né con esso si concorse a far un po’ di chiarezza”. Innanzitutto, bisogna chiarire che la Tradizione cui si ispirava mons. Lefebvre nella sua opera volta a ripristinare “la formazione sacerdotale” appunto tradizionale, esprimeva l’adesione incondizionata “a tutta la dottrina e la prassi liturgica in vigore prima del Vaticano II”: era nient’altro che adesione alla plurisecolare Tradizione della Chiesa, comportante il simultaneo rifiuto “alle innovazioni introdotte dal Vaticano II o in nome di esso e giustificate dal loro inquadramento nella tradizione c.d. vivente. Pertanto, quando papa Giovanni Paolo II contrappone alla tradizione vivente “la nozione incompleta e contraddittoria di tradizione” della Fsspx, non condanna come anticonciliare soltanto la Fraternità ma anche la Tradizione cui essa s’ispira. Il che è già grave. Non meno dello “scisma” lamentato e condannato”(10). La contraddizione in cui cadde Giovanni Paolo II è evidente: adottare questa ambigua e indeterminata nozione di “tradizione vivente” implicava condannare tutta l’autentica Tradizione della Chiesa, cui si ispirava per l’appunto l’opera restauratrice di mons. Lefebvre in Isvizzera e mons. Antonio Castro Mayer in Brasile.
L’idea di tradizione.
Per la mentalità dominante oggi nella Gerarchia cattolica, il contenuto della tradizione sarebbe dunque costituito soprattutto dal suo “dinamismo”, dalla sua capacità di “adattarsi” alle esigenze del proprio tempo, di “dialogare” con esso per creare insieme “il futuro”. Ma una tradizione che sia sempre in movimento, che esprima un dinamismo continuo, una capacità ininterrotta e “creativa” di trasformarsi secondo le esigenze del momento e in nome di un “futuro” quanto mai vago, non è più una tradizione. Diventa essa stessa movimento proteso verso l’indefinito e vi si dissolve.
Bisogna quindi riaffermare il giusto concetto della tradizione.
Quest’idea, nel suo concetto, esprime la necessità di mantenere determinati principi, valori e costumi, tramandandoli intatti nel corso delle generazioni, quale patrimonio spirituale fondamentale di un popolo e di una società. Pertanto, insegnati, applicati e fatti rispettare come valori costituenti una concezione del mondo che deve improntare di sè il modo di vivere quotidiano di un popolo. La tradizione si sostanzia, infatti, nel costume collettivo, sotto la protezione delle leggi: essa dovrebbe tradursi in un comportamento spontaneo, assurgere a seconda natura.
Qui non si lascia spazio all’opinione libera del soggetto su cosa sia il valore: il valore mantenuto dalla tradizione è proprio quello che si impone per il fatto stesso di fondare la tradizione e di appartenerle, al di là di quello che possano pensarne i singoli individui, che anzi devono riconoscerlo ed ottemperarvi. I valori espressi dalla tradizione costituiscono la verità della tradizione stessa. Però essi sono sentiti nello stesso tempo come degni di appartenere alla tradizione per il fatto di esser veri, poiché si ritiene che in essi si esprima una verità di carattere religioso e morale o solo religioso o solo morale o morale e politico o solo politico od infine solo di costume: una verità comunque oggettiva, che appartiene alla cosa in quanto tale, indipendentemente dal flusso e riflusso delle opinioni e degli eventi.
La verità che si sente nei valori della tradizione equivale alla loro conformità all’idea della giustizia: i valori della tradizione sono giusti, questa è la loro verità, ed è giusto osservarli e conservarli. Da un lato, sono giusti per il solo fatto di appartenere alla tradizione. Dall’altro, in quanto giusti costituiscono la tradizione. Nel primo caso abbiamo un’osservanza passiva della tradizione, la quale, con il passare delle generazioni e il mutare delle condizioni storiche, tende spesso a scadere nella mera abitudine, diventando così pura adesione esteriore, conformismo. Quando l’osservanza passiva prevale sulla partecipazione attiva e convinta alla tradizione, quest’ultima si è ormai spenta nei cuori.
Si deve quindi ammettere la possibilità di uno sviluppo o progresso della tradizione che sia però il più possibile “organico”, vale a dire spontaneo, graduale, ponderato, non imposto arbitrariamente dall’alto o dall’esterno, coerente con i princìpi. Uno sviluppo così concepito vale soprattutto per la religione e in particolare per la liturgia. Nel concetto di sviluppo “organico” applicato alla liturgia c’è l’idea che nella liturgia vi sono parti che non possono mutare e parti che invece lo possono, essendo il loro mutamento ininfluente sulla sostanza e qualità del rito. Lo sviluppo “organico” di una tradizione come quella cattolica pone delicati problemi quando tale tradizione deve confrontarsi con un mondo sempre più secolarizzato e nemico del soprannaturale, quale è diventato il nostro. La condanna del modernismo da parte di san Pio X e del neo-modernismo da parte di Pio XII, respingeva per l’appunto il tentativo di “aggiornare” la tradizione cattolica in modo radicale alle filosofie, alle metodologie, alle ideologie e persino ai costumi del Secolo. Il tentativo è tuttavia riuscito con il pastoral Concilio Vaticano II, nel quale, come si è visto, l’idea stessa di tradizione cattolica è stata alterata, improntandola al soggettivismo tipico delle secolari visioni del mondo.
Il concetto cattolico di tradizione.
Al concetto di tradizione sopra definito, che possiamo considerare fondato sulla recta ratio e sul senso comune, il cattolicesimo cosa aggiunge? Quali sono i caratteri in base ai quali possiamo parlare di “tradizione cattolica” come di qualcosa di specifico, che la distingue da tutte le altre? Infatti, la tradizione cattolica n o n è come le altre. La caratteristica della tradizione cattolica è quella di mantenere e vivere le verità e i valori contenuti nella dottrina e nella pastorale della Chiesa cattolica, che li “trasmette” ovvero mantiene ed insegna come verità di origine divina e quindi assolute. La tradizione cattolica è cattolica proprio perché mantiene la pretesa di “trasmettere” (tràdere) la Verità rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, il Messia annunziato nelle profezie dell’Antico Testamento, Dio fatto uomo. Ma una verità di origine divina e quindi assoluta non può evidentemente esser caratterizzata da un continuo “dinamismo”, come se potesse esser di continuo adattata al mutare dei tempi. Non per nulla il Signore ha detto: “Il cielo e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno”(Mt 24, 35). Quando Egli ha dichiarato esser il matrimonio monogamico ed indissolubile, ciò significa che il matrimonio (unione di vita formale stabile tra l’uomo e la donna per costruire una famiglia mettendo al mondo ed educando figli) deve considerarsi indissolubile e monogamico ieri, oggi, domani e per sempre. Qui non c’è “dinamismo” che tenga né “progresso organico” male inteso che possa portare a mutare l’essenza del matrimonio, la cui natura, definita in modo chiarissimo dal Signore, deve considerarsi fissata in eterno.
La tradizione cattolica risulta pertanto nel mantenimento di verità rivelate da Dio tramite Gesù Cristo per ciò che riguarda la fede e i costumi (Gv 8, 26), mantenute nei secoli grazie al Magistero della Chiesa cattolica, però sino al Concilio Vaticano II escluso, a causa delle novità ambigue e persino in odor di eresia penetrate in alcuni suoi testi.
La tradizione cattolica è innanzitutto custodia del Deposito della Fede.
Questa è la tipica concezione cattolica della tradizione, elaborata da san Paolo. L’idea del “deposito” è quella di una merce, un bene, una verità da custodire immutata nella sua essenza. Nel nostro caso, immutata perché di origine divina. Di origine divina perché rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo in persona, Figlio di Dio, consustanziale al Padre, Seconda Persona della S.ma Trinità, durante la sua vita terrena incarnatosi nell’ebreo Gesù di Nazareth, consustanziale a noi per l’umanità, in tutto simile a noi tranne che nel peccato (Eb 4, 15). La rivelazione continuò con il Cristo risorto e ad opera degli Apostoli con l’ispirazione dello Spirito Santo, da Lui inviato, così come il Padre l’aveva visibilmente inviato a Lui quando fu battezzato da san Giovanni Battista, prima di iniziare la sua missione di conversione e salvezza delle anime (Mt 3, 13-17).
Appartengono all’immutabile Sacro Deposito, che il Papa ha il dovere di custodire, tutte le verità rivelate sulla fede e i costumi costituenti il dogma della fede, definite come tali o appartenenti all’infallibilità del Magistero ordinario del Papa e dei vescovi sparsi sul globo terrestre. Per ciò che riguarda i costumi vi appartiene in primis il matrimonio, che, come si è appena ricordato, il Verbo incarnato ha dichiarato monogamico ed indissolubile.
Il “deposito delle verità di fede”, concernenti la fede stessa e i costumi, implica dunque il custodire e il mantenere. E questi due atti, al fine di trasmettere le immutabili verità di fede con la predicazione e l’esempio, innanzitutto da parte dei chierici ma anche nel loro piccolo dai semplici fedeli, per convertire gli uomini all’insegnamento di Cristo, strapparli al peccato e condurli alla vita eterna. Il “dinamismo” ha pertanto una portata del tutto secondaria nel vero concetto della Tradizione cattolica. Esso, come risulta dalla famosa frase di san Vincenzo di Lerino, riguarda solamente la possibilità di approfondire meglio le verità di fede, con lo studio e la riflessione, per meglio capirle ed esporle, giammai per adattarle ai valori profani o mutarle, interpretandole al di fuori della tradizione ermeneutica stabilita nei secoli dalla Chiesa (come ho già ricordato: noviter sed non nova) (11) .
Il vero progresso della tradizione non è frutto di un indifferenziato “dinamismo”, per di più “in ascolto” delle esigenze del mondo profano, bensì di uno “sviluppo organico”, che è in genere lento e graduale, spontaneo e meditato. La fede nella “presenza reale del Cristo nell’Eucarestia mediante la conversione della sostanza del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue” c’è sempre stata nella Chiesa sin dagli inizi, pur non riuscendo per secoli a trovare un termine che spiegasse al meglio questo straordinario mistero. Infine, il termine soddisfacente fu trovato nel XII secolo, nella parola “transsubstantiatio”, interpretata secondo le categorie aristoteliche del rapporto tra sostanza ed accidenti, codificata come definizione dogmatica dal Concilio di Trento (Sessione XIII, c. 2). Questo è stato un caso classico di approfondimento e migliore esposizione del dogma, senza creare concezioni nuove e diverse, possibile causa di confusione dottrinale(12).
Ma quando furono definiti nuovi dogmi, non furono accusati i papi di aver prevaricato nei confronti del Sacro Deposito? Lo stesso dogma della transustanziazione non fu vilipeso da Lutero come un’invasione indebita di “aristotelismo” nella dottrina della Chiesa? Lutero si sbagliava: si trovò in quel concetto di origine aristotelica la forma migliore per esprimere una fede che durava sin dagli inizi del cristianesimo. Pio IX l’8 dicembre 1854 proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione e nel 1870 fece proclamare dal Vaticano I quello dell’infallibilità del papa quando definisce in modo solenne uti singulus una verità sulla fede o sui costumi o condanna solennemente gli errori. Pio XII proclamò l’1 novembre 1950 il dogma dell’Assunzione di Maria, “corpore et anima ad caelestem gloriam assumpta” (DS 2333/3903). Non dimostrano questi nuovi dogmi che alla Chiesa mancava ancora la “pienezza” della “verità divina”?
Ma forse questi nuovi dogmi hanno aggiunto qualcosa che mancava effettivamente al Sacro Deposito, colmato delle lacune? L’infallibilità del papa quando pronuncia uti singulus ex cathedra è sempre esistita nei secoli, realtà indefettibile del magistero petrino che Pio IX, ad un certo punto, ha voluto fosse formalmente riconosciuta. Quando il papa definiva solennemente una questione di fede invocando la sua “autorità apostolica”, la questione si considerava chiusa per sempre. Un esempio: Benedetto XII con la Bolla Benedictus Deus del 20 dicembre 1334, definì in perpetuo la questione del momento della visione beatifica da parte delle anime degli Eletti, stabilendo in accordo con la dottrina comune che essa doveva ritenersi immediata, dopo il giudizio individuale susseguente alla morte. Non dovevano queste anime aspettare il Giudizio Universale, come aveva sostenuto il suo predecessore Giovanni XXII, scatenando violente polemiche e ritrattandosi solo poco prima di morire. Perché in perpetuo? Perché quel papa dichiarava di parlare in base alla sua autorità apostolica, che gli consentiva di definire per l’appunto uti singulus le questioni di fede in modo valido in perpetuo per tutti i fedeli: “Hac in perpetuum valitura Constitutione auctoritate Apostolica diffinimus…”(DS 530/1000). Non si diceva ben prima del Vaticano I, da secoli: “Roma locuta, causa finita est”: “Una volta che Roma si sia pronunciata, la questione è chiusa”? La questione della visione beatifica ha tentato di riaprirla seicento anni dopo Henri de Lubac, SI, teologo notoriamente eterodosso, in relazione al suo bislacco concetto (ripreso tuttavia dai papi “postconciliari”) della salvezza collettiva quale “condizione” di quella individuale.
La proclamazione del dogma dell’infallibilità pertanto non introduceva alcun elemento nuovo ed estraneo nel Deposito. A loro volta, i due dogmi mariani sono stati la risposta a richieste in tal senso avanzate da molto tempo da ecclesiastici e fedeli, il che dimostra che la fede nell’Immacolata Concezione e nell’Assunzione esisteva in pratica da sempre. Anche qui nessuna aggiunta in senso sostanziale, ma solo la conferma della fede tradizionale.
Il concetto di tradizione di san Paolo, esso stesso parte della Rivelazione.
L’approfondimento delle verità divinamente rivelate mira anch’esso al mantenimento intatto del Deposito e ad un miglior mantenimento, quando sentito come necessario. Il Deposito deve esser conservato nella sua purezza perché deve esser trasmesso immutato ai fedeli per la loro edificazione e salvezza. Come scrisse san Paolo nel celebre passaggio: “accepi quod et tradidi”, ossia: “ricevetti ciò che ho anche trasmesso”:
“Vi richiamo ora, o fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato, che voi avete ricevuto, nel quale avete perseverato, e per il quale voi siete pure salvi, se lo ritenete così come ve l’ho predicato, a meno che non abbiate creduto senza frutto. Vi ho infatti trasmesso, in primo luogo, quello che io stesso ho ricevuto [Tradidi enim vobis in primis quod et accepi], cioè che Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, che fu sepolto, che risusci0tò, secondo le Scritture, il terzo giorno; che apparve a Pietro e poi ai Dodici…”(13).
L’esortazione e l’ammonimento ai fedeli, di perseverare senza alterazioni di sorta nell’insegnamento ricevuto, vengono da lui ripetuti nella seconda Lettera ai Tessalonicensi:
“Orsù, dunque, o fratelli, state saldi e conservate gli insegnamenti come li avete ricevuti da noi a viva voce e nella nostra Lettera [Itaque fratres state: et tenete traditiones, quas didicistis, sive per sermonem, sive per epistolam nostram] (2 Tess 2, 15).
L’esortazione a “star saldi”, ricevuta inizialmaente a voce, in modo da conservare con assoluta fedeltà il Deposito delle verità di fede, vale a maggior ragione per i sacerdoti di Cristo, come risulta dalle istruzioni e dai comandi dello stesso san Paolo a Timoteo, da lui consacrato vescovo.
“Prendi per modello le sane dottrine, che tu hai ricevuto da me, nella fede e nella carità che è in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito delle verità rivelate coll’aiuto dello Spirito Santo, che abita in noi [Bonum depositum {parathéken} custodi per Spiritum Sanctum, qui habitat in nobis]” (2 Tim 1, 13-14).
San Paolo, sempre divinamente ispirato, insegnava con autorità assoluta, di chi non ammette discussioni, allo stesso modo degli altri Apostoli. A lui si deve l’immagine della retta dottrina come “deposito della fede” da mantenere inviolato(14). Egli ha anche affermato di aver ricevuto direttamente dal Signore gli insegnamenti che impartiva, costituenti il Deposito. Di suo non vi ha messo nulla: le rarissime volte nelle quali insegna a titolo personale, lo dichiara espressamente. Nei suoi primi anni da convertito al cristianesimo, dopo l’apparizione sfolgorante di Nostro Signore sulla via di Damasco mentre era in missione per perseguitare i cristiani locali, Saul il fariseo fu istruito nella fede dagli Apostoli e preparato nel loro ambiente alla sua missione fra i Gentili. Ricevette dunque le verità della nostra fede attraverso la mediazione degli Apostoli. Ciononostante, ebbe anche ispirazione diretta dal Signore, una volta iniziata la sua opera pubblica di salvezza.
“Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quanto vi ho insegnato, cioè che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e, dopo aver rese le grazie, lo spezzò e disse…” (1 Cr 11, 23).Fatto ribadito nella Lettera ai Galati:
“Vi dichiaro apertamente, o fratelli, che il Vangelo da me predicato non viene dall’uomo perché io non l’ho affatto ricevuto né imparato da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo…”(Gal 1, 11-12).
Nell’analizzare il passo di 1 Cr 11, 23, mons. Gherardini ha messo efficacemente in rilievo il carattere assoluto ed immutabile del “ricevere e trasmettere” apostolico, dovuto, tale carattere, dalla fonte divina stessa, Gesù Cristo Nostro Signore.
L’Apostolo delle Genti sta rimproverando severamente i fedeli di Corinto perché vi sono divisioni tra di loro e si verificano comportamenti indecorosi durante l’Eucaristia, che veniva amministrata per forza di cose clandestinamente e spesso in case private. “Quando dunque vi radunate, quello che voi fate non è un mangiar la cena del Signore: perché ciascuno, appena vi mettete a tavola, s’affretta a consumare le proprie provviste, sicché mentre uno patisce la fame, l’altro si ubriaca. Ma non avete la vostra casa per mangiare e bere? O volete disprezzare la Chiesa di Dio, e far arrossire quelli che non han nulla?” (1 Cr 11, 20-22). La celebrazione dell’Eucaristia non si era ancora consolidata nelle sue forme proprie anche a causa della mancanza del luogo sacro per destinazione, la chiesa come edificio destinato al culto pubblico. Si registravano abusi, guarda caso puntualmente riapparsi (e in modo assai più grave) dopo che la riforma liturgica montiniana, succube dell’errore detto archeologismo, ha voluto restaurare, senza alcuna vera necessità, certe prassi liturgiche dei primi tempi del cristianesimo o credute tali(15).
Per far cessare gli abusi e riportare l’ordine, sottolinea mons. Gherardini, nella sua Epistola, “Paolo ricorda con profondo senso della Tradizione l’atto istitutivo del mistero eucaristico: ‘Dal Signore ho ricevuto [parélabon, aoristo secondo indicativo] ciò che ho anche trasmesso [parédoka, aoristo primo]’. Le due forme verbali indicano un passato con effetti nel presente: il ricevere-ritrasmettere sarà il comportamento di sempre. Una decisione, questa, che non dipende da qualche uomo di Chiesa, nemmeno da Paolo il quale, come apostolo a tutti gli effetti, avrebbe potuto ben prenderla. La decisione fu del Signore [“ho ricevuto dal Signore quanto vi ho insegnato”] che stabilì con essa la legge del passaggio ininterrotto e immutato d’ogni elemento della dottrina rivelata, da una situazione a un’altra, da un’epoca a quelle successive, nella continuità del contenuto trasmesso”(16).
Infelice interpretazione della tradizione da parte del cardinale Müller.
Il carattere assoluto ed inderogabile del ricevere, mantenere, trasmettere e ri-trasmettere – ove il nome indicante l’atto (la traditio) si è esteso al contenuto di ciò che è trasmesso – è tale da provocare l’anatema nei confronti di chi osi diffondere un insegnamento che differisca dal Sacro Deposito, di fatto attentando ad esso: “Ma quando noi stessi o un Angelo disceso dal cielo vi annunziassimo un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia scomunicato! Sì, ve l’abbiamo già detto ma ve lo ripeto ancora: se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia scomunicato!”(Gal 1, 8-9). E siamo avvisati a non lasciarci sedurre dalla qualità della fonte dalla quale può provenire la falsa dottrina: può infatti essere assai notevole, presentarsi in forme seducenti ed insinuanti, addirittura travestita da Angelo di Luce (2 Cr 11, 14).
Si noterà che mons. Gherardini riconduce il paolino “ricevere e trasmettere” alla sua fonte propria, che è sovrannaturale, costituita per l’appunto dal Signore in persona, diretto ispiratore dell’Apostolo delle Genti. Se noi rileggiamo la conferenza che il cardinale Gerhard Müller ha tenuto in Roma il 24 giugno del 2015 ad un convegno organizzato per ricordare il motu proprio Summorum Pontificum, intitolata: La Tradizione come principio proprio della teologia cattolica, ci accorgiamo, invece, che l’illustre relatore, fedele seguace del metodo perseguito dal suo maestro Benedetto XVI, si preoccupava soprattutto di mettere in evidenza le radici ebraiche del concetto paolino.
“Nelle sue affermazioni sulla ricezione e la trasmissione della Tradizione, san Paolo si colloca interamente all’interno della terminologia rabbinica. Con i verbi paralambáno e paradídomi, usati da san Paolo, la parádosis neotestamentaria segue i termini tecnici della comunità ebraica di lingua greca, laddove parla del processo fondamentale della ricezione (qibbel) e trasmissione (masar) di una tradizione. I proverbi dei Padri, una parte della mishna del Rabbino, descrivono la via della Rivelazione con questi termini: ‘Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea’(17).
Sappiamo che Paolo prima della conversione era uno zelante fariseo: del tutto normale che usasse una “terminologia rabbinica” per indicare il procedimento della tradizione. Ma da questo reinserimento di Paolo nella tradizione ebraica il cardinale Müller trae delle conseguenze che pongono in secondo piano (per non dire che oscurano) la cosa più importante, vale a dire l’origine sovrannaturale della Tradizione cristiana. Continua egli infatti:
“In questa rappresentazione della Tradizione come ‘fiume dell’insegnamento che non finisce mai’, è racchiusa anche un’altra dimensione: la trasmissione dell’insegnamento, la Tradizione, è un processo che si svolge da persona a persona. Allo stesso modo in cui l’insegnamento di Mosè “confluì” a Giosuè e agli anziani, il Vangelo, così afferma Dei Verbum (art.7), viene “conservato sempre vivo e integro”, perché gli apostoli hanno lasciato ai loro successori il loro magisterium. Il principio della Tradizione e il principio della successione vanno di pari passo. La fede non è informazione astratta ma viene guidata da persone. Commentando questo passo della Costituzione sulla Divina Rivelazione, Joseph Ratzinger coniò la concisa formula: “La sequela è la forma della Tradizione, la Tradizione è il contenuto della sequela”(18).
La “sequela” è dunque la “forma della tradizione”. Non sarò certo io a contestarlo. Ma questo concetto della tradizione come “sequela” ininterrotta di trasmettitori umani, sino a che punto si può applicare alla nozione di traditio applicata da san Paolo? Infatti, egli non dice di aver ricevuto ciò che insegna dagli Apostoli, che a loro volta l’avevano ricevuto da Cristo: afferma di averlo ricevuto direttamente dal Signore. San Paolo si pone fuori dalla sequela nel momento in cui attribuisce un’origine sovrannaturale diretta ai suoi insegnamenti. Ora, siffatta origine viene mantenuta dal cardinale Müller? A me sembra vada perduta.
Infatti, che conseguenze trae il cardinale da questa nozione della “sequela” come elemento essenziale della tradizione? Che il teologo deve realizzare nella sua propria vita “quella forma di vita della Tradizione che significa “sequela di Gesù””, altrimenti “il solo ricorso alla Tradizione degenera, trasformandosi in tradizionalismo morto, nostalgia estetica oppure in un rigido fissarsi su ciò che è abituale”(19). Dalla “sequela” che garantisce il contenuto del messaggio trasmesso siamo passati alla “sequela” che identifica la vita del teologo come esistenzialmente corretta, in quanto seguace di Gesù. La connessione viene spiegata dal Nostro in questo modo: “I grandi rivelatori biblici, da Abramo a Mosè e fino a Gesù, hanno sempre insistito sull’urgenza dell’esodo personale e comunitario, sull’abbandonare e farsi raccogliere, sul partire verso il divenire di un popolo, di cui ancora non si sa quale volto avesse”(20). Parole oscure, tra le quali tuttavia brilla l’allineamento di Nostro Signore ai “grandi rivelatori biblici”, sullo stesso piano di Abramo e Mosè! Ma non è Egli il Figlio di Dio, consustanziale al Padre per la divinità? La rivelazione della quale si è fatto portatore dobbiamo metterla sullo stesso piano del messaggio di Abramo e di Mosè? L’arcano rappresentato dall’espressione “esodo personale”, tipica del resto di Ratzinger, viene svelato nella pagina successiva: “La plausibilità dell’argomento cristiano in favore della Tradizione dipende soprattutto dall’autenticità della forma di vita di coloro che tramandano, che non si limitano a difendere un principio dall’esterno, ma sottomettono se stessi e il loro stile di vita all’esigenza della dedizione, dell’abbandono, della negazione di sé e della conversione interiore ed esteriore”(21).
Una vita santa in Cristo è certamente un ottimo biglietto da visita anche per un teologo e favorisce di sicuro “la plausibilità” della Tradizione. Ma non ha a che vedere con la sua natura, con la natura specificamente cristiana della tradizione appunto cristiana, che è tale perché di origine divina, direttamente da Nostro Signore, come appunto ci testimonia ed insegna san Paolo. Ora, quest’origine divina diretta, indipendente da ogni “sequela” solo umana e dallo stile di vita dei teologi, sembra scomparire dal discorso del cardinale. Il che significa, a mio modesto avviso, dare della Tradizione della Chiesa un’interpretazione alquanto riduttiva, insufficiente.
La conferenza del cardinale Müller si proponeva di celebrare il motu proprio Summorum Pontificum. Pertanto, accennava anche al rapporto fra tradizione e liturgia. “La confessione [della fede] all’interno della celebrazione della comunità d’Israele è il luogo primordiale della memoria e della Tradizione. E questo vale per la liturgia cristiana […] Essa vuole – come afferma la Summorum Pontificum – rafforzare tanti popoli nella virtù di religione, “fecondando la loro pietà”. La giusta celebrazione della liturgia nella forma di una “festa”, per quanto piccola e misera possa essere, non ci conduce fuori dal mondo, ma ci colloca nella realtà della presenza di Dio, che è la realtà vera che ci indica da dove noi, come popolo di Dio, veniamo, e quale sia la vocazione dei nostri fratelli”(22).
La liturgia cattolica ossia la Santa Messa come “festa”, dunque. È scomparso qualsiasi riferimento al suo carattere di Sacrificio espiatorio e propiziatorio, quello che ci sottrae all’ira divina e ci fa accettare il nostro pentimento per i nostri peccati, sostituito da concetti ai quali, a ben vedere, non si saprebbe che contenuto dare. Che significa, infatti, affermare che la liturgia e quindi la Messa “ci colloca nella realtà della presenza di Dio, la quale ci indica da dove veniamo come popolo di Dio e quale sia la vocazione dei nostri fratelli”?
Ma la “sequela” che sarebbe la tradizione cattolica, conclude il cardinale, è stata voluta da Gesù “come sequela comunitaria, come ekklesía”. Pertanto, “camminare e credere insieme a questa Chiesa è tutt’oggi la pietra di paragone della Tradizione autentica”. Parole sacrosante, tuttavia (aggiungo) sempre sul presupposto che “questa Chiesa” o meglio questa Gerarchia si dimostri fedele al Sacro Deposito, cosa che per la “Chiesa conciliare” (definizione del cardinale Benelli) non si può certamente affermare. Il rifiuto del riconoscimento della Chiesa contemporanea non è in ogni caso accettabile, secondo il cardinale, anche se lo si fa per un “motivo sublime” mirando cioè “alla preservazione della Tradizione”. Il rischio è “non solo la separazione formale ma anche l’eresia”. E questo “è il dramma dei piccoli gruppi del nostro tempo”. Se il cardinale pensava qui alla Fsspx, per la quale non ha notoriamente mai avuto troppa simpatia, bisognare ribadire che essa non è “separata formalmente” né è incorsa nell’eresia dal momento che non rifiuta la Chiesa contemporanea quanto certi insegnamenti sbagliati che le sue Autorità ufficiali continuano a proporre, dal Concilio in poi. La Summorum Pontificum rappresentava, secondo il cardinale, la giusta soluzione, poiché manteneva l’unità della liturgia e quindi della Chiesa. “Fedele alla massima lex orandi-lex credendi-lex vivendi essa vuole dare il suo contributo per mantenere la Chiesa in questa Tradizione vivente, conducendola alla sua forma perfetta”(23).
Ma poi papa Francesco ha fatto letteralmente polpette del Summorum Pontificum, come ben sappiamo, dichiarando che “l’unità della Chiesa” la manteneva solo l’obbedienza al Novus Ordo e cominciando a limitare fortemente la possibilità di celebrare l’Ordo Vetus. Che dire allora del concetto di “tradizione vivente”? Quella che per il cardinale Müller era una realizzazione “perfetta” della supposta “tradizione vivente” (una dimostrazione impareggiabile del carattere “vivente” della Tradizione col mantenere le due forme di culto) è ora una cosa morta mentre prevale un’impostazione liturgica ufficiale addirittura opposta a quella elaborata da Benedetto XVI. E ambedue le impostazioni si richiamano alla nozione di “tradizione vivente” confezionata dal Concilio.
Tradizione divina e tradizione ecclesiastica.
Per esser completa questa pur sintetica esposizione deve accennare anche agli altri aspetti del concetto di tradizione cattolica. Vi sono delle distinzioni che vanno ribadite soprattutto dopo che sembrano scomparse nel mare magnum della cosiddetta, ambigua “tradizione vivente”. Ritorno ai testi di mons. Gherardini.
“Nel concetto di Tradizione, pertanto, rientra la verità divinamente rivelata, riguardante le cose da credere e/o da compiere, quali, sin dal tempo subapostolico, vengono ininterrottamente trasmesse e precisate da Padri Concili Pontefici e da quel “sensus fidei” che, all’interno della Chiesa, passa attraverso il filtro del suo insegnamento. Sotto questo profilo oggettivo, dunque, la Tradizione si distingue in divina ed umana. Quella divina – detta anche divino-apostolica – abbraccia verità, istituzioni liturgico-cultuali e forme disciplinari, alle quali, in quanto risalenti a Cristo ed agli apostoli, è doveroso aderire per “fede divina”. Quella umana si suddistingue in umano-apostolica ed umano-ecclesiastica, secondo che trasmetta contenuti provenienti dagli apostoli, testimoni diretti e propagatori ufficiali della rivelazione cristiana, o dall’autorità papale e vescovile in quanto legittima espressione del Magistero e della giurisdizione ecclesiastica; ad essa si deve soltanto la c.d. “fede ecclesiastica”(24).
“Nel concetto di Tradizione, pertanto, rientra la verità divinamente rivelata, riguardante le cose da credere e/o da compiere, quali, sin dal tempo subapostolico, vengono ininterrottamente trasmesse e precisate da Padri Concili Pontefici e da quel “sensus fidei” che, all’interno della Chiesa, passa attraverso il filtro del suo insegnamento. Sotto questo profilo oggettivo, dunque, la Tradizione si distingue in divina ed umana. Quella divina – detta anche divino-apostolica – abbraccia verità, istituzioni liturgico-cultuali e forme disciplinari, alle quali, in quanto risalenti a Cristo ed agli apostoli, è doveroso aderire per “fede divina”. Quella umana si suddistingue in umano-apostolica ed umano-ecclesiastica, secondo che trasmetta contenuti provenienti dagli apostoli, testimoni diretti e propagatori ufficiali della rivelazione cristiana, o dall’autorità papale e vescovile in quanto legittima espressione del Magistero e della giurisdizione ecclesiastica; ad essa si deve soltanto la c.d. “fede ecclesiastica”(24).
La Tradizione non dipende solo da una trasmissione orale delle sue verità. “Sia di quella divino-apostolica, sia di quella umano-ecclesiastica, la trasmissione è di per sè orale; ma nulla vieta che, in processo di tempo, l’una e l’altra possan ricever una forma scritta, così come, nonostante gli scritti, va sempre riconosciuta la possibilità che alcuni dati della rivelazione divina sian trasmessi solamente dalla viva voce della Chiesa, sotto l’illuminazione e la guida dello Spirito Santo il quale, come “Spirito della verità”, e quindi garanzia e ragione formale della Tradizione stessa, “guida la Chiesa al possesso della verità tutt’intera” (Gv 16, 13) (25).
La distinzione tra i due tipi di tradizione (tra loro sempre connessi) si può rendere anche con i concetti di costituzione divina e costituzione ecclesiastica della Chiesa. Tutto ciò che appartiene alla “costituzione divina” viene considerato immutabile mentre in quella “ecclesiastica” mutamenti, in linea di principio, sono ammessi.
I mutamenti intervenuti in passato o arricchivano il Deposito approfondendo la fede tramandata senza introdurvi novità (vedi supra) oppure hanno riguardato soprattutto questioni politiche, economiche, istituzionali, cioè il complesso della costituzione ecclesiastica. Faccio alcuni esempi.
Il prestito ad interesse, proibito per secoli perché considerato usura, fu dal XVI secolo ammesso, a tassi moderati, inizialmente per aiutare le vittime degli usurai. L’estensione territoriale del dominio temporale del Papato, inevitabilmente soggetta a variazioni dipendenti dalle mutevoli vicende della storia (l’esistenza stessa di uno Stato della Chiesa, pur essendo sempre stata considerata necessaria dai papi (almeno dal VI secolo) per garantir loro la necessaria libertà d’azione, non essendo stata dichiarata dogma di fede – lo stesso Pio IX vi si rifiutò espressamente – appartiene alla costituzione ecclesiastica). L’istituzione nell’XI secolo del Collegio dei Cardinali quale organo del tutto nuovo, deputato, oltre ad assistere il papa nel governo della Chiesa universale, all’elezione del Romano Pontefice da uno di loro al fine di sottrarre per quanto possibile l’elezione stessa alle interferenze dei poteri civili - collegio che non appartiene alla tradizione di origine divina della Chiesa e che pertanto potrebbe esser legittimamente abolito dal Papa senza attentare al Sacro Deposito. La tradizione di elevare a volte al cardinalato soggetti che non erano nemmeno sacerdoti, come ad esempio il famoso Giulio Mazzarino (1602-1661), da modesto diplomatico civile al servizio del papa diventato addirittura primo ministro del re di Francia, sottile politico e abilissimo diplomatico ma privo di effettiva vocazione religiosa – non andò oltre una più o meno imposta tonsura. Tradizione poi lasciata cadere a causa dei risvolti negativi che a volte comportava.
In passato i mutamenti liturgici erano, rari, esteriori e piuttosto modesti.
Si potrebbe obbiettare che i papi hanno apportato o comunque approvato mutamenti anche alla liturgia, nel corso dei secoli. E la liturgia, in quanto lex orandi non è strettamente connessa alla lex credendi ovvero al dogma della fede? I cambiamenti intervenuti nella liturgia non possono classificarsi come appartenenti alla sola tradizione ecclesiastica della Chiesa.
Risposta: se si guarda ai fatti, si vede che, nel corso dei secoli, gli interventi dei papi nella liturgia sono stati minimi ed in genere del tutto esteriori. Non hanno affatto inciso sulla qualità del rito, sulla sua “sostanza intemporale e sul suo sviluppo organico” (Gamber), insomma sulla natura dogmaticamente corretta del rito stesso.
Cito da un importante saggio del già citato mons. Gamber.“La Chiesa Universale ammette l’esistenza di più riti autonomi. In Occidente, a parte il Romano [antico], abbiamo il Mozarabico e l’Ambrosiano (il Rito Gallicano è da secoli estinto). In Oriente, fra altri, il Rito Bizantino, l’Armeno, il Copto, il Siro-maronita. Poiché ciascuno di questi riti ha avuto uno sviluppo indipendente, esso presenta caratteristiche sue proprie. Singole parti di uno di essi non possono pertanto essere mutuate da un altro Rito. Non si può, ad esempio, usare nella Liturgia Romana una Anafora (= Prece Liturgica) orientale o parte di essa (cosa che accade invece oggi nel nuovo rito della Messa [il montiniano Novus Ordo]); oppure, al contrario, usare il Canone Romano in una delle Liturgie Orientali […]
S’impone a questo punto il quesito se il Rito “moderno” sia un rito nuovo, oppure un ulteriore sviluppo organico del Rito Romano tradizionale. La risposta risulta dal punto seguente:
S’impone a questo punto il quesito se il Rito “moderno” sia un rito nuovo, oppure un ulteriore sviluppo organico del Rito Romano tradizionale. La risposta risulta dal punto seguente:
Ogni rito costituisce una unità cresciuta organicamente. Modificazioni di alcune sue parti sostanziali significano pertanto la distruzione dell’intero rito. È quanto avvenne all’epoca della Riforma, quando Martin Lutero eliminò il Canone e collegò il racconto della Istituzione direttamente alla Comunione. Non occorre dimostrare che, così facendo, egli distrusse la Messa Romana, pur conservando alcune forme esteriori e, agli inizi, persino la foggia dei paramenti sacri e il canto corale. Ma in seguito, abolito l’antico Rito, nelle comunità evangeliche si è passati a sempre nuove riforme nel campo liturgico.
Il ritorno a forme più primitive non comporta necessariamente un cambiamento del rito, ed è perciò, entro certi limiti, ammissibile.
Così, non si ebbe frattura alcuna nel Rito Romano tradizionale quando san Pio X reintrodusse il canto gregoriano restaurato nelle sue forme originarie, o quando restituì la loro primitiva importanza alle Messe delle Domeniche “per annum” nei confronti delle feste minori dei Santi. Nemmeno il ripristino, sotto Pio XII, dell’antica Liturgia Romana della Notte di Pasqua comportò un cambiamento del Canone, e le pur notevoli innovazioni delle rubriche, sotto Giovanni XXIII, furono tanto poco una vera e propria modificazione del Rito quanto l’Ordo Missae del 1965, rimasto in vigore solo per quattro anni [perché sostituito a sorpresa dal sopraggiunto e affrettato Novus Ordo in vernacolo di Paolo VI]” (26).
Ma i novatori, difensori dell’attuale liturgia, hanno accusato coloro che sono rimasti fedeli alla Messa antica di non essersi accorti che questa Messa fu elaborata per ordine del Concilio di Trento, tanto da esser chiamata per secoli “Messa Tridentina” o “Messale di san Pio V”. Si trattò di una nuova Messa, imposta dai Papi del tempo, perché allora scandalizzarsi se il Papa, quattro secoli dopo, decise di promulgare un nuovo rito?
L’argomento, ripetuto più volte, è del tutto falso. Come siano andate veramente le cose, lo spiega sempre il prof. Gamber.
“Non esiste in senso stretto una Messa Tridentina, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae in seguito al Concilio di Trento. Il Messale che san Pio V fece approvare non fu in realtà nient’altro che il Messale della Curia, in uso a Roma da molti secoli e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’Occidente: un Messale, tuttavia, che non era mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale. Le modifiche apportate da san Pio V al Messale della Curia si rivelano talmente modeste da poter esser scorte soltanto dallo specialista”(27).
Mons. Gamber rilevava un’altra scorrettezza dei novatori, quella di non distinguere l’Ordo Missae dai Propri delle Messe per i singoli giorni e le singole festività, insinuando l’idea che i mutamenti nei Propri lo fossero anche dell’Ordo.
“Ebbene, fino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, mentre dal Concilio di Trento in poi hanno cominciato a introdurre in maggior misura, per nuove festività, anche nuovi Propri. Da tali novità, però, la Messa “Tridentina” non è mai stata abrogata (esattamente come le aggiunte al Codice Civile, per esempio, non abrogano questo come tale).
Noi parliamo, dunque, piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus modernus. Come abbiamo mostrato, il Rito Romano risale, in parte considerevole, almeno al sec. IV. Il Canone della Messa, salvo piccole modifiche effettuate sotto san Gregorio Magno (590-604), già sotto Gelasio I (492-496) risultava nella forma che ha conservato fino ai nostri giorni. L’unico punto su cui tutti i papi dal sec. V in poi, hanno sempre insistito è stata l’estensione alla Chiesa Universale di questo Canone Romano, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro. Nella composizione di altre parti dell’Ordo Missae, così come nella scelta dei Propri delle Messe, essi hanno rispettato le usanze delle Chiese locali […] Nel Medioevo, quasi ogni Chiesa locale, o almeno quasi ogni diocesi, utilizzava un proprio Messale, quando non aveva spontaneamente adottato il Messale della Curia. Nessun Papa interferì mai in tali decisioni”(28).
Differenziate erano soprattutto le preghiere “private” del sacerdote, quelle che l’officiante recitava a bassa voce mentre le parti cantate erano nella Chiesa Latina sostanzialmente uguali dappertutto(29).
Di fronte al caos creato dai Protestanti eretici anche nella liturgia, il Concilio di Trento “decretò la pubblicazione di un Messale perfezionato ed uniforme per tutti. Che cosa fece san Pio V? Egli prese, come già detto, il Messale della Curia in uso a Roma e in molti altri luoghi e lo perfezionò, riducendo, tra l’altro, il numero delle Feste dei Santi. Ma non impose l’obbligo di questo Messale a tutta la Chiesa: rispettò bensì tradizioni locali risalenti a soli duecento anni addietro. Tanto bastava per esser dispensati dall’obbligo dell’adozione del Missale Romanum. Il fatto che la maggioranza delle diocesi abbia ben presto adottato questo Messale è dovuto ad altre cause. Da Roma non venne esercitata alcuna pressione, e ciò in un’epoca in cui, contrariamente a quanto avviene oggigiorno, non si parlava né di pluralismo né di tolleranza”(30)
Fu Pio XII, conclude mons. Gamber, il primo pontefice ad introdurre un cambiamento nel Messale tradizionale “con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa. Riportare la cerimonia del Sabato Santo alla notte di Pasqua sarebbe stato possibile anche senza grandi modifiche. A lui seguì Giovanni XXIII, con il nuovo ordinamento delle rubriche. Anche in queste occasioni, comunque, il Canone della Messa restò intatto, non venne minimamente alterato, ma dopo questi precedenti, è vero, furono aperte le porte a un ordinamento della Liturgia Romana radicalmente nuovo. Noi l’abbiamo vissuto e ora ci troviamo davanti alle rovine, non già della “Messa Tridentina” bensì dell’antico Rito Romano, che in un lungo periodo di tempo si era sviluppato fino alla piena maturazione. Possiamo ammettere che non fosse tutto perfetto, ma con appena alcuni miglioramenti lo si sarebbe potuto facilmente adattare al tempo nostro”(31).
Contro la Tradizione della Chiesa, la ‘Sacrosantum Concilium’ ha voluto riformare l’intera liturgia secondo lo spirito del mondo.
Diagnosi ineccepibile, con una sola precisazione da fare, a mio modesto avviso. La “rovina” dell’antico Rito Romano non dipese tanto dai mutamenti apportati da Pio XII e da Giovanni XXIII quanto dal Concilio – vale a dire dalla costituzione conciliare “dogmatica” Sacrosanctum Concilium che volle riformare l’intera liturgia alla luce di uno spirito nuovo, inteso all’incontro con le esigenze dei Protestanti eretici e più in generale con lo spirito del mondo moderno. Quella costituzione ha posto le premesse dalle quali, come notava da ultimo mons. Schneider, è poi scaturita una Nuova Messa così affine ai “conviti” dei Protestanti.
Basti pensare alla definizione (non dogmatica) della Messa come semplice “convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci viene dato il pegno della gloria futura” (SC artt. 47, 106), nella quale si tace completamente del carattere espiatorio e propiziatorio del Sacrificio nonché della transustanziazione, mai nominata in tutta la costituzione. E al susseguente art. 48 nel quale, inserendo in modo alterato un passaggio della Mediator Dei di Pio XII, la famosa enciclica (del 1947) dedicata appunto alla liturgia contro gli errori che già circolavano, si introduce la novità, contraria a tutta la tradizione liturgica della Chiesa e dottrinalmente erronea, della concelebrazione dei fedeli assieme al sacerdote officiante: “…rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui…” (SC 48). Nella Mediator Dei Pio XII spiegava accuratamente che l’offerta dei fedeli doveva intendersi come si era sempre intesa: solo in voto, puramente simbolica, spirituale. La capitale distinzione ora veniva a cadere delineando una nuova concezione della Messa come atto collettivo, cui doveva sempre partecipare il popolo, con il sacerdote diminuito a “presidente dell’assemblea liturgica”(SC 33.2) e la conseguente svalutazione della c.d. Messa “privata”, tradizionalmente celebrata dal sacerdote da solo o con il solo chierichetto, senza i fedeli (SC 27) (32).
Le colpe della Sacrosanctum Concilium non sono solo queste. Essa ha introdotto l’inculturazione del rito e la sperimentazione liturgica (SC 37-40): due principi sempre respinti in passato, nel modo più assoluto, a causa del loro carattere eversore. Adattamenti e sperimentazioni da effettuarsi ovviamente con il controllo finale della Santa Sede ma con ampia iniziativa riconosciuta alle Conferenze Episcopali Nazionali, di fronte ai cui elaborati la Santa Sede doveva limitarsi spesso a “prendere atto”, anche per l’impossibilità di valutare le situazioni locali. Di fatto, questa normativa ha permesso l’esplodere di quella anarchica creatività liturgica anche da parte dei singoli sacerdoti, che è una delle cause pervicaci dell’attuale crisi della liturgia scaturita dalle riforme ispirate dal Concilio. Ma anche la stessa Santa Sede dà il cattivo esempio, con le partecipazioni di papi e cardinali a riti di altre religioni o quando un papa come l’attuale promuove riti “amazzonici” o degli aborigeni australiani e canadesi, pervasi di reminiscenze pagane.
Non posso qui, in chiusura di questo mio intervento, inoltrarmi in un’analisi capillare della Sacrosanctum Concilium, con i suoi 130 articoli e la mezza pagina di Appendice dedicata alla possibile “Riforma del calendario”. Mi limito ad aggiungere che, come ripetono all’infinito i suoi difensori, è vero che essa non ha auspicato un nuovo ordinamento della Messa e ha conservato il latino e il Gregoriano. Tuttavia ha concesso l’uso del vernacolo in numerosi campi (SC 36, 54, 63, 76, 101). Ha dichiarato esservi nella liturgia “una parte immutabile perché di istituzione divina e parti suscettibili di cambiamento” (SC 21.1), senza però precisare mai quale fosse la parte immutabile (questa lacuna ha permesso di modificare in tre punti il Canone nella Consacrazione del Calice nella Messa Novus Ordo, mutando il significato della Consacrazione stessa, ora proiettato sull’attesa della Parusìa di Nostro Signore, assai più che sulla natura propiziatoria del Sacrificio) – pur prestandovi formalmente omaggio, ha ridotto l’importanza del “culto privato”, quello giornaliero della devozione personale, cercando di ancorarlo al culto pubblico, cioè al momento liturgico collettivo, distorcendo così in senso protestante la devozione privata dei cattolici. È infatti noto che i Protestanti non recitano preghiere personali in privato né recitano il Santo Rosario né accettano gli Esercizi Spirituali (SC 11, 12, 13): la “vita devota” dei fedeli doveva ora svolgersi soprattutto nell’ambito della liturgia e quest’impostazione (vivamente deprecata da Pio XII) ha in pratica portato, come sappiamo, alla scomparsa della “vita devota”. Colpisce infine, in questa costituzione, l’esortazione a riformare tutto con la massima fretta, come se i Novatori avessero Satana in persona alle calcagna – la massima fretta a rivedere tutti i riti, tutti i libri liturgici, tutta la devozione privata sia laica che ecclesiastica e perfino l’architettura sacra al fine di elaborare forme nuove più semplici, più chiare, più brevi, più facili a comprendersi (“senza bisogno di molte spiegazioni” - SC 34) da parte delle plebi considerate religiosamente analfabete (SC 21, 22, 34, 50, 59.2, 69, 72, 72, 77, 79, 90.2, 117). Imponendo tale inaudita semplificazione generale si provocava di fatto l’abbassamento del rito rendendolo (in teoria) più popolare, in realtà degradandolo. A simile logica corrispondeva anche l’ampia immissione di letture dell’Antico Testamento nei riti nuovi (SC 24, 35, 51), contro tutta la Tradizione della Chiesa, dato il carattere notoriamente difficile, in molte sue parti, dell’Antico Testamento, un vero e proprio universo spirituale che, in ogni caso, va affrontato con una accurata e specifica preparazione(33).
Tra l’altro si nota qui, a mio avviso, un’altra contraddizione. L’articolo SC 4 afferma che i riti, “ove sia necessario, siano riveduti integralmente con prudenza nello spirito della sana tradizione e venga loro dato nuovo vigore”. SC 23 ripete il concetto: le “innovazioni” siano fatte solo quando necessarie e “le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle esistenti”. Ma questo invito ad un cosiddetto “legittimo progresso” liturgico da attuarsi con “nuove forme” da elaborare in modo “prudente” ed “organico”, cosa che richiede tempo, studio, riflessione, come si concilia con il contemporaneo invito a riformare tutto “quanto prima” e all’insegna di una “semplificazione” che è l’esatto contrario di uno sviluppo “prudente” ed “organico”?
Il Concilio non ha mai spiegato bene perché occorresse una “riforma generale” di tutta la liturgia (SC 21), e in realtà dell’intero ordinamento della Chiesa visibile: dal papato all’episcopato, al sacerdozio, alla liturgia, alla vita contemplativa, alle missioni, al diritto canonico, alla cultura ed educazione cristiana, al rapporto con le religioni non cristiane, al matrimonio, e chi più ne ha più ne metta. Le spiegazioni offerte negli articoli 1 e 2 della SC sono generiche e non prive di una certa retorica ecclesiastica.
Si notava da tempo una diminuzione nel fervore religioso del popolo cattolico, tuttavia ancora buono. Ma era quello il modo di affrontare la sfida portata dal mondo contemporaneo alla nostra santa religione, cambiando tutto in modo da venir incontro allo spirito del Secolo, ateo o miscredente o scettico; incontro alla “religione dell’uomo che si fa Dio”, come ammise Paolo VI il 7 dicembre 1965 nel discorso di chiusura dell’infausta Assise? Non era quello il modo, lo possiamo ribadire con fin troppa facilità oggi, dopo quasi sessant’anni di impressionante decadenza della Chiesa, serpeggiante prima del Concilio con il diffondersi sotterraneo della perversa Nouvelle théologie neo-modernista (negativa anche per i costumi del clero) ed esplosa nel pastorale Concilio, iniziatosi, dopo la reiezione illegale del Concilio “preparato” dalla Curia in modo fedele alla Tradizione, all’insegna delle errate “profezie” del “papa buono”, improntate a un fallace ottimismo e a una falsa “misericordia”, che annunciavano l’incipiente Assise addirittura come una Nuova Pentecoste per noi fedeli e per l’umanità.
Noi fedeli laici, da tanto tempo in sostanza abbandonati a noi stessi, per la nostra salvezza cerchiamo comunque di mettere in pratica, per quanto possibile, l’ammonimento del Signore: “Guardatevi dai falsi profeti; questi tali vengono a voi travestiti da pecore ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li conoscerete. Si coglie forse l’uva sui pruni o fichi sui rovi? Così ogni albero buono dà buoni frutti, ma ogni albero cattivo dà frutti cattivi” (Mt 7, 15-17).
Paolo Pasqualucci, 15 settembre 2024___________________________
1. www.vatican.va/content/francesco/letters/2021/documents/20210716-lettera-vescovi-liturgia.html, p. 3/7. DV 8 sta per Dei Verbum art. 8, la costituzione conciliare “sulla divina rivelazione”. Sottolineature mie. Nelle citazioni le parole fra parentesi quadre sono mie, salvo espressa indicazione in contrario. Questa costituzione fu etichettata come “dogmatica” dal Concilio stesso, al pari della costituzione Lumen gentium sulla Chiesa, ma entrambe non hanno definito alcun dogma né condannato solennemente alcun errore. Tale qualifica appare pertanto enigmatica e in definitiva incomprensibile. Al Vaticano II furono approvati quattro costituzioni, nove decreti, tre dichiarazioni. Per il testo latino del Concilio: (Curante Florentio Romita), Concilii Oecumenici Vaticani II. Constitutiones - Decreta – Declarationes, Desclée ad Socii, Romae, 1967. Per la traduzione italiana: I documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni – Decreti – Dichiarazioni, Edizioni Paoline, 1980. Le traduzioni sono quelle apparse su L’Osservatore Romano. Infine: per i testi sacri, La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Ediz. Paoline, di prima e dopo il Concilio. Per gli originali, Nestle- Aland e Merk.
2. Vedi le Notificazioni in appendice alla costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa, contenenti la Nota esplicativa previa [qui].Nonostante fosse “previa”, tale importante Nota fu apposta alla fine del documento a causa delle sempre agitate e disordinate vicende del Vaticano II. 3. Romano Amerio, Iota Unum, cap. XVII.
4. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2009, p. 125-126. Si tratta del cap. V: La Tradizione nel Vaticano II, pp. 109-139. Sul punto, vedi anche: Maria Guarini, La questione liturgica. Il rito Romano usus Antiquior e il Novus Ordo Missae dal Concilio Vaticano II all’epoca dei “due Papi”, con Presentazione di Brunero Gherardini, Solfanelli, Chiesti, 2017, p. 15, nota n. 3: “La cosiddetta “tradizione vivente” è oggi intesa tale in senso storicista e quindi mutevole a seconda dei tempi e non “vivente”, nel senso di portatrice della fecondità di Colui che la anima e che la Chiesa è chiamata a inverare e trasmettere nel tempo, nell’oggi di ogni generazione”. Sul concetto di tradizione cattolica, utili spunti di riflessione offre Roberto de Mattei, Apologia della Tradizione. Poscritto a ‘Il Concilio Vaticano II’. Una storia mai scritta’, Lindau, Torino, 2011, in particolare la seconda parte, La ‘regula fidei’ della Chiesa nelle epoche di crisi della fede.
5. Gherardini, op. cit., p. 132. Per i vari riferimenti dell’aggettivo “vivo”, ibidem, p. 130.
6. Op. cit., pp. 132-133. Nella sua ampia monografia sul concetto della Tradizione cattolica, un’opera a mio avviso fondamentale sul tema, mons. Gherardini ricordava le origini (non eterodosse) del concetto di “tradizione vivente”, riconducibili alla teologia tedesca ottocentesca, con le sue nervature romantiche. Vedi: Brunero Gherardini, “Quod et tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, volume di 399 pp [qui], apparso come numero speciale della prestigiosa rivista ‘Divinitas’, LIII, Nova Series, N. 1-2-3, 2010, spec. capp. III e VII (pp. 216-240 per il paragrafo dedicato alla nozione di “tradizione vivente”).
7. Sul punto, la fonte è: Bernard Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre, une vie, Clovis, 2002, pp. 520-521. Rimproveri di questo tipo furono rivolti anche in séguito a mons. Lefebvre.
8. S.E. mons. Athanasius Schneider in conversazione con Diane Montagna, Christus vincit. Il trionfo di Cristo sulle tenebre del nostro tempo, Fede & Cultura, Verona, 2020, tr. it. di Stefano Chiappalone, p. 187.
9. Si tratta della Lettera Apostolica in forma di motu proprio ‘Ecclesia Dei’, del 2 luglio 1988, riportata in www.vatican.va, sotto la voce specifica.
10. Brunero Gherardini, “Quod et tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa, cit., pp. 209-210.
11. “Crescat igitur oportet et multum vehementerque proficiat tam singulorum quam omnium, tam unius hominis quam totius ecclesiae, aetatum ac saeculorum gradibus, intelligentia, scientia, sapientia, sed in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu, eademque sententia” (Enchiridium Patristicum, Herder, 198125, n. 2174).
12. Sul punto: Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. Michel Gautier, t. II, § 179, Éditions Salvator, Mulhouse, 1951.
13. 1 Cr 15, 1-5. Significativamente, sulla lapide della sua tomba, mons. Marcel Lefebvre ha voluto che fossero incise proprio queste parole, indicanti concisamente il significato della sua vita di Vescovo cattolico, rimasto sempre fedele alla dottrina tradizionale della Chiesa, che aveva ricevuto nella sua formazione sacerdotale: “Tradidi quod et accepi” (Tissier de Mallerais, op. cit., p. 645).
14. Sul significato nient’affatto solo allegorico di quest’immagine del “deposito della fede”, vedi di nuovo il Lerinense: “Depositum custodi. Quid est depositum? Id est quod tibi creditum est, non quod a te inventum; quod accepisti, non quod escogitasti; rem non ingenii sed doctrinae; non usurpationis privatae sed publicae traditionis; rem ad te perductam, non a te prolatam; in qua non auctor debes esse sed custos, non institutor sed sectator, non ducens sed sequens. Depositum, inquit, custodi; catholicae fidei talentum inviolatum illibatumque conserva” (Enchiridion Patristicum, cit., n. 2173).
15. Dico “credute tali” poiché certe ricostruzioni degli usi liturgici della Chiesa degli inizi si sono rivelate del tutto errate. L’eminente liturgista tedesco mons. Klaus Gamber (1919-1989) ha dimostrato che l’altare versus populum non è mai esistito nella Chiesa dei primi secoli. Si è trattato di un’innovazione di Lutero: la sua riesumazione nel Novus Ordo rappresenta un’irruzione del luteranesimo nella nostra liturgia. Vedi: K. Gamber, La celebrazione “versus populum”, tr. it. di Fabio Marino, riveduta e corretta, pubblicata da ultimo in: Francesco Agnoli – Klaus Gamber, La liturgia tradizionale. Le ragioni del Motu Proprio sulla Messa in latino, Fede & Cultura, 2007, pp. 42-52, nell’Appendice contenente tre articoli di mons. Gamber e la Lettera della Congregazione per il Culto Divino del 17 ottobre 2006 nella quale si esortava la Gerarchia a sostituire l’uso dello scorretto “per tutti” con il corretto “per molti” nella Consacrazione del Calice (si esortava, non si ordinava).
16. Brunero Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Lindau, Torino, 2011, p. 66. Parentesi nel testo originale. Quest’opera rielabora la prima parte della già citata monografia sulla Tradizione pubblicata originariamente da mons. Gherardini come numero speciale della prestigiosa rivista Divinitas, al tempo da lui diretta, estintasi dopo la sua morte: “Quod et tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa. Ricordo, inoltre, che del pari fondamentale sul concetto della Tradizione cattolica resta sempre il famoso testo De traditione divina del cardinale austriaco Giovan Battista Franzelin (1816-1886), del quale esiste una eccellente traduzione francese relativamente recente: La Tradition, traduction annotée du texte latin de 1870, par l’Abbé Jean-Michel Gleize, de la Fraternité Saint Pie X, professeur au Séminaire d’Écône, Courrier de Rome, s.d.
17. Gerhardt card. Müller, La Tradizione come principio proprio della teologia cattolica, p. 8/15, in www.vatican.va, alla voce corrispettiva.
18. Op. cit., ivi.
19. Ivi.
20. Op. cit., pp. 8-9/15.
21. Op. cit., p. 9/15.
22. Op. cit., p. 10.
23. Op. cit., p. 12/15.
24. Gherardini, Concilio ecumenico Vaticano II, un discorso da fare, cit., p. 114.
25. Op. cit., ivi.
26. Mons. Klaus Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici – Problematica, supplemento al n. 53-54 del Notiziario di ‘Una Voce’, giugno-dicembre 1980, pp. 24-26. Gli inserimenti tra parentesi quadre sono miei, qui come altrove. Il testo di questa piccola monografia di 74 pagine è veramente prezioso per orientarsi nella perdurante crisi liturgica.
27. Op. cit., pp. 19-20. Alla nota n. 13 l’Autore specifica che questo Messale “fu elaborato nel XIII secolo dai Francescani, entrò poi sotto papa Clemente V nell’uso della Curia Romana e portò quindi il titolo ‘Missale secundum consuetudinem Romanae Curiae’” (op. cit., p. 66).
28. Op. cit., pp. 20-21.
29. Op. cit. p. 21.
20. Op. cit., ivi.
31. Op. cit., p. 22.
32. Sul punto: Maria Guarini, La questione liturgica. cit., cap. VII: Scostamento della ‘Sacrosanctum Concilium’ dalla ‘Mediator Dei’, pp. 50-56. L’alterazione è consistita nel togliere l’avverbio quodammodo, “in certo modo”, presente nel testo di Pio XII: “…essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote ma, in certo modo, anche insieme con lui…”. Bisogna dire “in certo modo” perché si tratta appunto di una partecipazione puramente spirituale all’offerta fatta dal sacerdote officiante. Invece SC 48: “…offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi…” [Si può leggere per intero qui].
33. Sull’abbassamento e la degradazione del rito e sulla vergogna del dare in pasto la Bibbia a letture che ricordano la riprovevole “popolarizzazione del Sacro Testo messa in opera da protestanti e giansenisti”, vedi le sempre attuali critiche di Romano Amerio, nel cap. XXXVIII di Iota Unum, dedicato alla riforma liturgica.
12. Sul punto: Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. Michel Gautier, t. II, § 179, Éditions Salvator, Mulhouse, 1951.
13. 1 Cr 15, 1-5. Significativamente, sulla lapide della sua tomba, mons. Marcel Lefebvre ha voluto che fossero incise proprio queste parole, indicanti concisamente il significato della sua vita di Vescovo cattolico, rimasto sempre fedele alla dottrina tradizionale della Chiesa, che aveva ricevuto nella sua formazione sacerdotale: “Tradidi quod et accepi” (Tissier de Mallerais, op. cit., p. 645).
14. Sul significato nient’affatto solo allegorico di quest’immagine del “deposito della fede”, vedi di nuovo il Lerinense: “Depositum custodi. Quid est depositum? Id est quod tibi creditum est, non quod a te inventum; quod accepisti, non quod escogitasti; rem non ingenii sed doctrinae; non usurpationis privatae sed publicae traditionis; rem ad te perductam, non a te prolatam; in qua non auctor debes esse sed custos, non institutor sed sectator, non ducens sed sequens. Depositum, inquit, custodi; catholicae fidei talentum inviolatum illibatumque conserva” (Enchiridion Patristicum, cit., n. 2173).
15. Dico “credute tali” poiché certe ricostruzioni degli usi liturgici della Chiesa degli inizi si sono rivelate del tutto errate. L’eminente liturgista tedesco mons. Klaus Gamber (1919-1989) ha dimostrato che l’altare versus populum non è mai esistito nella Chiesa dei primi secoli. Si è trattato di un’innovazione di Lutero: la sua riesumazione nel Novus Ordo rappresenta un’irruzione del luteranesimo nella nostra liturgia. Vedi: K. Gamber, La celebrazione “versus populum”, tr. it. di Fabio Marino, riveduta e corretta, pubblicata da ultimo in: Francesco Agnoli – Klaus Gamber, La liturgia tradizionale. Le ragioni del Motu Proprio sulla Messa in latino, Fede & Cultura, 2007, pp. 42-52, nell’Appendice contenente tre articoli di mons. Gamber e la Lettera della Congregazione per il Culto Divino del 17 ottobre 2006 nella quale si esortava la Gerarchia a sostituire l’uso dello scorretto “per tutti” con il corretto “per molti” nella Consacrazione del Calice (si esortava, non si ordinava).
16. Brunero Gherardini, Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Lindau, Torino, 2011, p. 66. Parentesi nel testo originale. Quest’opera rielabora la prima parte della già citata monografia sulla Tradizione pubblicata originariamente da mons. Gherardini come numero speciale della prestigiosa rivista Divinitas, al tempo da lui diretta, estintasi dopo la sua morte: “Quod et tradidi vobis”. La tradizione vita e giovinezza della Chiesa. Ricordo, inoltre, che del pari fondamentale sul concetto della Tradizione cattolica resta sempre il famoso testo De traditione divina del cardinale austriaco Giovan Battista Franzelin (1816-1886), del quale esiste una eccellente traduzione francese relativamente recente: La Tradition, traduction annotée du texte latin de 1870, par l’Abbé Jean-Michel Gleize, de la Fraternité Saint Pie X, professeur au Séminaire d’Écône, Courrier de Rome, s.d.
17. Gerhardt card. Müller, La Tradizione come principio proprio della teologia cattolica, p. 8/15, in www.vatican.va, alla voce corrispettiva.
18. Op. cit., ivi.
19. Ivi.
20. Op. cit., pp. 8-9/15.
21. Op. cit., p. 9/15.
22. Op. cit., p. 10.
23. Op. cit., p. 12/15.
24. Gherardini, Concilio ecumenico Vaticano II, un discorso da fare, cit., p. 114.
25. Op. cit., ivi.
26. Mons. Klaus Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni storici – Problematica, supplemento al n. 53-54 del Notiziario di ‘Una Voce’, giugno-dicembre 1980, pp. 24-26. Gli inserimenti tra parentesi quadre sono miei, qui come altrove. Il testo di questa piccola monografia di 74 pagine è veramente prezioso per orientarsi nella perdurante crisi liturgica.
27. Op. cit., pp. 19-20. Alla nota n. 13 l’Autore specifica che questo Messale “fu elaborato nel XIII secolo dai Francescani, entrò poi sotto papa Clemente V nell’uso della Curia Romana e portò quindi il titolo ‘Missale secundum consuetudinem Romanae Curiae’” (op. cit., p. 66).
28. Op. cit., pp. 20-21.
29. Op. cit. p. 21.
20. Op. cit., ivi.
31. Op. cit., p. 22.
32. Sul punto: Maria Guarini, La questione liturgica. cit., cap. VII: Scostamento della ‘Sacrosanctum Concilium’ dalla ‘Mediator Dei’, pp. 50-56. L’alterazione è consistita nel togliere l’avverbio quodammodo, “in certo modo”, presente nel testo di Pio XII: “…essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote ma, in certo modo, anche insieme con lui…”. Bisogna dire “in certo modo” perché si tratta appunto di una partecipazione puramente spirituale all’offerta fatta dal sacerdote officiante. Invece SC 48: “…offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi…” [Si può leggere per intero qui].
33. Sull’abbassamento e la degradazione del rito e sulla vergogna del dare in pasto la Bibbia a letture che ricordano la riprovevole “popolarizzazione del Sacro Testo messa in opera da protestanti e giansenisti”, vedi le sempre attuali critiche di Romano Amerio, nel cap. XXXVIII di Iota Unum, dedicato alla riforma liturgica.
13 commenti:
17settembre SANT’ILDEGARDA DI BINGEN, Vergine, Dottore della Chiesa
« … L’insegnamento della santa monaca benedettina si pone come una guida per l’homo viator. Il suo messaggio appare straordinariamente attuale nel mondo contemporaneo, particolarmente sensibile all’insieme dei valori proposti e vissuti da lei. Pensiamo, ad esempio, alla capacità carismatica e speculativa di Ildegarda, che si presenta come un vivace incentivo alla ricerca teologica; alla sua riflessione sul mistero di Cristo, considerato nella sua bellezza; al dialogo della Chiesa e della teologia con la cultura, la scienza e l’arte contemporanea; all’ideale di vita consacrata, come possibilità di umana realizzazione; alla valorizzazione della liturgia, come celebrazione della vita; all’idea di riforma della Chiesa, non come sterile cambiamento delle strutture, ma come conversione del cuore; alla sua sensibilità per la natura, le cui leggi sono da tutelare non da violare. …
Perciò l’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarda di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale. La sua capacità di parlare a coloro che sono lontani dalla fede e dalla Chiesa rendono Ildegarda una testimone credibile della nuova evangelizzazione. … »
(#BenedettoXVI, Lettera apostolica, 07/10/2012)
Nascono problemi di adesione quando, come alcuni dicono, che il Magistero autentico, pur se non infallibile, è comunque inerrabile, così che di fatto lo si deve recepire come immune da errore, promuovendolo ad un livello che non gli è proprio, e identificando nei fatti il religioso ossequio con l'adesione di fede, non consentendo critica alcuna.
Si ha cioè il paradosso di un Magistero che nel Vatic. II si volle pastorale, e non Dogmatico, dunque non infallibile, che alla fine trasforma in infallibile ogni virgola.
Chapeau! Uno scritto di grande qualità teologica e di ferma chiarezza divulgativa..
Oggi, dopo tante riflessioni (peraltro unilaterali per mancanza di un pubblico dibattito), i fatti che negano la Tradizione emergono sempre più prepotentemente.
Primo fra tutti il relativismo, poi la perdita della Fede, l'avversione per la S. Messa in latino, e tanti sabotaggi da far impallidire e, non da ultimo, una poderosa ingiustizia sociale insieme a scelte incivili e amorali che si allargano a macchia d'olio.
Dal concilio vaticano 2, la Tradizione è sì “vivente” perché si è ASSOGGETTATA (in modo quindi passivo) al mondo fisico che la circonda e in questo, i fautori e gli enunciatori di quel “vivente” hanno esattamente messo in atto l’ azione implicita contenuta nella frase. Che poi è ulteriormente chiarita dai fatti… altrimenti perché mai Giovanni Paolo II, avrebbe accusato Lefebvre di avere una visione contraddittoria della Tradizione? Accusando Lefebvre a sua volta ineludibilmente, avrebbe accusato lo stesso Papa Leone XIII, in quanto la Rerum Novarum è la chiara applicazione di quella Tradizione della Chiesa al passo con i tempi. Con la differenza che essere "al passo con i tempi " non è "aggiornamento " passivo, ma capacità di commisurare l'annuncio fedele del Deposito della fede non adulterato dal famigerato "cambiamento di paradigmi".
Imaginons que Jorge Mario Bergoglio, un de ces quatre matins, décide, après une nuit d'insomnie, de faire raser la basilique de Saint-Pierre-de-Rome (qu'il déteste, comme chacun sait) et de la remplacer par une bâtisse de style futuriste, genre "grange à foin" ("a barn" en anglais), ou par quelque autre machin biscornu comme les affectionnent les architectes contemporains.
La question qui se poserait immédiatement serait celle-ci : en a-t-il seulement le droit ?
A quoi le même Bergoglio ne manquerait pas de répondre, dans le style qu'il affectionne : « Évidemment que j'en ai le droit ! Au Vatican, qui c'est qui commande ? »
Les réactions, toutefois, ne tarderaient pas à se multiplier, même dans les secteurs les plus éloignés de la vie de l'Église, la plupart d'entre elles se ramenant à la constatation que si, oui, le pape a juridiquement (ou canoniquement) le droit de tout casser, s'il le désire, dans le domaine qui est le sien, il ne serait cependant pas sûr qu'une telle entreprise — la démolition de Saint-Pierre-de-Rome — fût d'une grande opportunité, ni témoignât, en l'état actuel des choses, d'un grand bon sens et pût être acceptée facilement par l'opinion publique.
Outre le fait que l'actuelle basilique soit l'œuvre d'un des plus grands génies de l'humanité et qu'elle ait coûté des sommes d'argent considérables (dont la collecte, parfois discutable, n'a pas été, comme on sait, sans influencer le cours de l'histoire…), elle a acquis, ne serait-ce que pour toutes ces raisons et pour d'autres, justement, le droit à l'admiration non seulement des catholiques dans leur ensemble mais aussi de tout le monde civilisé. Par-delà les rites liturgiques avec lesquels elle fut initialement bénite, le temps et la piété des fidèles se sont ainsi chargés, en quelque sorte, de la consacrer. Elle est devenue, comme disent les guides touristiques, un des "ex-libris", de la Ville Éternelle. Or la prudence suggère, pour la tranquilité des peuples, de ne pas toucher aux "ex-libris".
(Continue.)
Mais pourquoi, me demandera-t-on, ce discours sur Saint-Pierre-de-Rome ?
Eh bien parce qu'il existe un parallèle entre l'hypothétique démolition de cette basilique et celle, bien effective celle-là, du "grand édifice de la liturgie catholique", en cours depuis maintenant soixante ans — eh oui, pareille construction, déjà vieille de près de deux millénaires, ne se démolit pas du jour au lendemain.
Je ne vais pas reprendre ici les éléments de l'excellente exposition que vient de faire à son sujet Paolo Pasqualucci. Je me contenterai de dire que si l'on peut, à la rigueur, trouver des arguments légaux autorisant la destruction de la liturgie traditionnelle, il me paraît en revanche impossible de la légitimer par autre chose que par un abus de pouvoir forcené qui ne veut tenir compte de rien ni de personne. C'est là le péché irrémissible de Paul VI et de ses successeurs (à l'exception, dans une certaine mesure, de Benoît XVI). Jamais le peuple catholique n'a demandé pareille réforme. Elle lui a été imposée avec la plus grande brutalité, sans aucune charité. Pour plusieurs générations de prêtres et de religieux ce fut un choc insurmontable. Beaucoup en sont morts. C'est donc par un coup de force permanent que l'actuelle hiérarchie cherche à imposer définitivement la ruine de l'ancienne liturgie, expression parfaite de la doctrine traditionnelle de l'Église, comme l'a encore reconnu récemment le cardinal Roche, actuel préfet du dicastère pour le Culte divin.
A cette absence de bon sens des révolutionnaires qui, à la faveur du concile, se sont emparés des commandes de l'Église, à leur hubris de démolition, à leur orgueil en un mot, où il est facile de discerner l'influence directe et permanente de l'Adversaire, le catholique fidèle n'a d'autre choix que de dire NON.
"Nell'ultimo giorno, quando l'esame finale avrà luogo, non ci sarà alcuna domanda sul testo di Aristotele, gli aforismi di Ippocrate, o i paragrafi di Giustiniano. La carità sarà l'intero sillabo...la carità è ciò con cui nessun uomo e perduto, e ciò senza la quale nessun uomo è salvato."
(San Roberto Bellarmino, nel suo giorno di festa)
Caro PP,
Ho dato al testo una lettura veloce, mantiene il livello di eccellenza dei suoi testi. Dio lo tenga così e lo benedica.
Recentemente ho scoperto un lavoro della rivista La Civiltà Cattolica, scritta da p. Giuseppe Filograssi, S.J., dal titolo "La tradizione divinno apostolica e il magistero". Il Lavoro è diviso in tre parti:
Prima parte
Il concetto di tradizione divino apostolica
L'assistenza dello Spirito Santo
In che senso il magistero coincide con la tradizione
https://pascendidominicigregis.blogspot.com/2024/05/la-civilta-cattolica-la-tradizione.html
Seconda parte:
La tradizione e i sussidi secondari di trasmissione
Immutabilità del domma
Progresso del domma
Modalità e cause dello sviluppo del domma
Conclusione
https://pascendidominicigregis.blogspot.com/2024/06/p-giuseppe-filograssi-sj-la-tradizione.html
Manda ancora la pubblicazione della terza parte. Nella prima parte al parlare "In che senso il magistero coincide con la tradizione" il P. Filograssi, parla di un'opinione sbagliata che identifica la tradizione appena con il magistero attuale, vedi:
"Altro giudizio si deve portare di quell'opinione, che identifica la tradizione col magistero della Chiesa, ma soltanto con l'attuale e, per giunta, indipendentemente dalla trasmissione della rivelazione nelle età trascorse.
I documenti del passato non gioverebbero a darci la dimostrazione positiva che la verità oggi annunziata dalla Chiesa risponde a quella che già prima si era costantemente predicata. I documenti attesterebbero soltanto i vari stadi per cui quella verità è passata, nel processo evolutivo di età in età. Questo modo di vedere si allontana dalla dottrina cattolica, la quale riconosce una linea continua di movimento in progresso dagli apostoli sino a noi, e i documenti del passato giudica connessi con la presente fede della Chiesa, come sue manifestazioni, più o meno chiare, più o meno espresse. Tale è il metodo seguito nella Munificentissimus Deus : si parte dall'odierna credenza universale nell'assunzione di Maria, per scoprirne poi e individuarne gli indizi, i vestigi, le testimonianze esplicite attraverso i secoli".
Questa identificazione del magistero appena con l'attuale, non è proprio il nostro principale problema dal Concilio fino ad oggi?
Ringrazio per i generosi apprezzamenti.
Caro Gederson, il prolbema da lei posto coglie senz'altro un punto essenziale. Anche mons. Gherardini ne era ben consapevole, di questa "identificazione del magistero appena con l'attuale".
E del fatto che il magistero tendesse ad assorbire il concetto di tradizione, dato che il supposto carattere "vivente" di quest'ultima lo realizzava il magistero. In tal modo non era il magistero l'espressione della tradizione bensì la tradizione espressione del magistero: un rovesciamento contrario alla visione cattolica e al concetto stesso di tradizione, gravido di pessime conseguenze.
Infatti, sempre in nome del "dinamismo" della tradizione papa Francesco continua ad inoltrarsi sempe più sulla via dell'eresia aperta: violazione del I Comandamento, se tutte le religioni sono da considerarsi sullo stesso piano ed anzi questa loro multiformità sarebbe "un dono di Dio", ha pure detto. E violazione del VI con le continue "aperture" contrarie alla morale cristiana.
pp
Caro PP,
I generosi apprezzamenti sono meritati: i tuoi testi sono sempre luminosi. Che Dio lo preservi e lo benedica.
La tesi di Mons. Gherardini è il disegno da nostra infelice realtà. Il problema principale del Concilio è proprio il concetto di tradizione e il suo rapporto con il magistero e le S. Scritture.
L'assorbimento della Tradizione da parte del magistero propone, in linea di principio, un'identificazione totale tra il magistero e la fonte della rivelazione che è la Tradizione Divino Apostolica. Il problema è che il magistero non è fonte di rivelazione, nè può essere, perchè la rivelazione si è finita con la morte di San Giovanni, l’ultimo apostolo. Così, una tale identificazione non sarebbe possibile, principalmente con uno magistero che dal Concilio fino ad oggi viene smentindo la propria rivelazione fatta agli Apostoli. Il problema è che considerano che la rivelazione non se è finita con la morte di San Giovanni, considerano che continua nella storia. In questo caso l’identificazione è propria con la missione degli Apostoli di annunciare la rivelazione. In questo caso pensano che sono non sucessori, ma uguale agli Apostoli, come se loro (Apostoli) fossero semplicemente i primi tra pari. Sfortunatamente, questa è la concezione della rivelazione della Nouvelle Théologie. Soprattutto dal cardinale Ratzinger, come si vede:
”Se la Rivelazione nella teologia neoscolastica era stata intesa essenzialmente come trasmissione divina di misteri, che restano inaccessibili all'intelletto umano, oggi la Rivelazione viene considerata una manifestazione di sé da parte di Dio in un'azione storica e la storia della salvezza viene vista come elemento centrale della Rivelazione. Mio compito era quello di cercare di scoprire come Bonaventura avesse inteso la Rivelazione e se per lui esistesse qualcosa di simile a un'idea di "storia della salvezza"".
In un’altro libro lui afferma con tutti le parole, contro e commentando il Decreto Lamentabili, che la rivelazione continua na storia, non se è finita con la morte dell’ultimo apostolo. Però, non è Dio che rivela i Comandamenti e dopo ci rivela che non ci sono più Comandamenti, peccati e nemmeno una rivelazione...
L'esercizio del magistero conciliare, come lo scopo stesso del Concilio, in quanto cerca di conciliare l'inconciliabile ha un forte sapore di Kabbalah.
Un caro saluto dal Brasile,
Gederson
Caro Gederson,
Concordo con la sua precisa analisi. Ci sono anche le responsabilità di Ratzinger, non piccole. Inserendo la Rivelazione nella "storia della salvezza" la si intende in modo evolutivo. Il concetto
di "storia della salvezza" se non erro è di origine protestante e non è semplicemente descrittivo.
Se non erro, fa del contenuto stesso della Rivelazione un prodotto della storia: è la salvezza intesa come "storia" ossia "storicamente".
Lasciamo stare le possibili influenze hegeliane su questa concezione, che mi convincono sino ad un certo punto. Bisognerebbe riprendere un punto della Dichiarazione comune tra cattolici e luterani sulla Giustificazione, approvata da G P II e dall'allora cardinale Ratzinger, nella quale si diceva (cito a memoria) che sia la Chiesa che i luterani avrebbero modificato le loro concezioni, venendosi incontro, ragion per cui superato sarebbe anche il dogmatismo del Concilio di Trento sullo stesso tema.
Dovrei ripescare il passo, al momento sono stanco. Secondo me si tratta di un'affermazione allucinante, eretica all'estremo, in senso materiale. Comunque sia, il dogma viene in tal modo messo in prospettiva storica ossia concepito evoluzionisticamente, come una verità che si può storicamente adattare alle mutate esigenze della vita. Dietro a questa visione non cattolica più che Hegel ci vedo Blondel, La filosofia della vita tedesca di fine Ottocento (l'Erlebnis di Dilthey), Heidegger (la verità come "disvelamento" dell'Essere nell'esistenza sempre determinata dal proprio tempo). Ci vedo un irrazionalismo che di hegeliano non ha nulla.
Ma soprattutto ci vedo il tradimento della fede, utilizzando le labili categorie del pensiero contemporaneo. E quindi: neo-modernismo.
pp
Semplicemente: la Tradizione è come una regola matematica che non muta. Ora quella regola insegnanti diversi la spiegano in maniera diversa, ma tutte le diverse spiegazioni devono concludersi con la comprensione della regola data e variamente esemplificata da Tizio, Caio e Sempronio. E così a catena nello spazio e nel tempo.
La comprensione della regola è personale e personali sono gli sviluppi, le connessioni che derivano per ognuno dalla regola di partenza. Non è che la regola muta, mutano le persone che hanno assimilato o no la regola secondo la loro unicità, i loro tempi, le loro capacità.
In tutta questa lunga questione, a mio parere, si è infilata una svista un abbaglio:
1) mancata comprensione della Tradizione;
2) non avendo capito la regola molti l'hanno sistemata a modo loro;
3) il 'modo loro ' l'hanno scambiato per rivelazione divina;
4) questa loro 'rivelazione divina' nei fatti ha sostituito poi Dio con l'io che ha generato il dio faicometipare, oggi seguitissimo.
m.a.
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