Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 8 luglio 2025

Colligite Fragmenta: IV Domenica dopo Pentecoste

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre nutriente e illuminante, che ci consente di approfondire, durante l'ottava, i doni spirituali della domenica precedente qui.

Colligite Fragmenta: IV Domenica dopo Pentecoste

Continuiamo il nostro percorso di approfondimento dei testi della Santa Messa domenicale, soffermandoci oggi sulle letture della IV Domenica dopo Pentecoste nel Vetus Ordo del Rito Romano.

L’Epistola ai Romani e il Vangelo di Luca convergono nel delineare un vivido ritratto della nostra condizione presente e della gloria a cui siamo chiamati. La Colletta implora Dio di guidare e placare il corso della Chiesa e del mondo. Se li consideriamo insieme, i fili conduttori si fanno evidenti: il nostro gemere sotto il peso del Peccato Originale, il desiderio della liberazione dell’intera creazione, l’umile riconoscimento della nostra indegnità, e l’invito a una devotio attiva, che mantenga salda la Chiesa nel mare agitato della storia.

La prima lettura, Romani 8,18-23, introduce il tema con un contrasto tra le sofferenze presenti e la gloria futura. San Paolo afferma:
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità – non per sua volontà, ma per volontà di Colui che l’ha sottomessa – nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà gloriosa dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre come nelle doglie del parto fino ad oggi; e non solo essa, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Paolo non nega le sofferenze, le riconosce come effetto del Peccato Originale, dell’Avversario e dei suoi agenti. Tuttavia insiste: la gloria che ci attende è talmente superiore da rendere irrisorie le tribolazioni attuali. È questa la radice profonda della speranza. Il testo greco sottolinea come la creazione (ktísis) stessa viva l’apokaradokía, una “attesa ardente, ansiosa”. Non si tratta di un’energia impersonale, ma del desiderio consapevole di una creazione senziente che tende alla apokálypsis, alla rivelazione dei figli di Dio. La creazione geme con noi (systenázei), partorisce con noi (synodínein) il nuovo ordine del mondo. Il prefisso “syn-”, questa comunanza tra creato e umanità, evidenzia la solidarietà di tutto ciò che Dio ha fatto, nella speranza della libertà.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica conferma questa lettura parlando delle conseguenze del Peccato Originale:
L’armonia nella quale i nostri progenitori si trovavano grazie alla giustizia originale è spezzata… L’armonia con il creato è infranta: il mondo visibile è divenuto estraneo e ostile all’uomo. A causa dell’uomo, la creazione è sottomessa “alla schiavitù della corruzione” (CCC 400).
Si ricordi anche Giovanni 12,31: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori”, e Giovanni 14,30: “Il principe di questo mondo viene. Ma non ha alcun potere su di me”. In Efesini 2,2 Paolo parla del “principe delle potenze dell’aria”, lo stesso spirito all’opera nei figli della disobbedienza. L’intera creazione, dunque, non solo soffre: desidera essere liberata da questa schiavitù.

La visione si conclude con la promessa della restaurazione finale:
L’universo visibile è dunque destinato a essere trasformato, “perché il mondo stesso, restaurato al suo stato originario, senza più ostacoli, sia al servizio dei giusti”, partecipando alla glorificazione del Cristo risorto (CCC 1047).
Se da un lato il brano paolino evoca un gemito cosmico, il Vangelo lo completa con l’episodio della pesca miracolosa. Non è un caso che questa pericope sia proposta nei pressi della festa dei Santi Pietro e Paolo, il “dies natalis” del loro martirio, il 29 giugno. La Chiesa ci invita a contemplare la trasformazione di Pietro: dalla fatica sterile nella notte all’abbondanza offerta da Cristo, fino alla resa umile e totale.

Luca racconta come Pietro, dopo aver faticato invano per tutta la notte, obbedisca alla parola del Signore:
Sulla tua parola getterò le reti (Lc 5,5).
Da quell’atto di obbedienza scaturisce un’abbondanza tale da rompere le reti, chiamare i compagni in aiuto, e infine portare Pietro a prostrarsi:
Si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: “Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore” (v.8).
Il verbo greco prospípto – ‘prostrarsi in avanti’ – esprime la resa totale di Pietro nel riconoscimento della sua indegnità. Ed è proprio lì, in ginocchio, che inizia la sua vera vocazione. L’incontro rispecchia la tensione del capitolo ottavo dei Romani: da una parte la vanità dello sforzo umano privo di grazia, dall’altra l’abbondanza promessa a chi si affida a Dio.

Il Vangelo rivela anche un’altra dimensione: la perseveranza e l’aiuto reciproco. Pietro e i futuri apostoli avevano vissuto una notte oscura di lavoro sterile. Se avessero desistito, non avrebbero incontrato il Signore. E una volta compiuto il miracolo, chiamano i compagni: i doni divini esigono spesso collaborazione. Da qui emerge un principio spirituale più profondo: le opere buone, anche se esteriormente identiche, differiscono nel merito a seconda della disposizione del cuore. Come ricordava Benedetto XVI in Deus caritas est, la Chiesa non è un’organizzazione umanitaria: la sua missione è la salvezza delle anime. Le opere fatte con orgoglio o indifferenza, pur se utili, sono sterili spiritualmente. Il Vangelo ci chiama dunque all’umiltà, alla gratitudine, alla carità autentica.

Dall’Epistola e dal Vangelo, passiamo alla Colletta, che racchiude entrambi i temi: l’anelito all’ordine divino e la pace che nasce dalla devotio. La preghiera, immutata dagli antichi sacramentari, recita:
Da nobis, quaesumus, Domine,
ut et mundi cursus pacifico nobis tuo ordine dirigatur:
et Ecclesia tua tranquilla devotione laetetur.
Alcuni termini illuminano il significato profondo: cursus indica il ‘corso’, la ‘traiettoria’; dirigo, il ‘dirigere con intenzione’; ordo, ‘l’ordine metodico’; pacificus, ‘colui che fa la pace’; laetetur è da intendersi come passivo: ‘che sia rallegrata’.

Traduzione letterale:
Concedici, Ti preghiamo, o Signore,
che anche il corso del mondo sia da Te orientato con un ordine pacifico,
e che la Tua Chiesa si rallegri nella tranquilla devozione.
Anche in questa traduzione letterale si avverte una risonanza poetica. I termini evocano immagini marine e militari: una nave sul mare, guidata dal suo Capitano, che ne dirige rotta e calma. La Chiesa è quella nave, la devozione è il vento che gonfia le vele. Il Capitano è il Signore, che ha placato la tempesta e ha comandato a Pietro di camminare sulle acque. Quando tutto è in ordine, la devotio ci porta avanti.

Ma che cos’è, davvero, la devozione? Secondo San Tommaso d’Aquino:
La causa interna della devozione è la meditazione. Essa è un atto della volontà con cui l’uomo si dona prontamente al servizio di Dio. Ogni atto della volontà nasce da un’idea concepita dall’intelletto; e poiché l’oggetto della volontà è un bene conosciuto, la meditazione è la causa della devozione, perché mediante essa l’uomo concepisce il desiderio di donarsi a Dio (Summa Theologiae, II-II, q.82, a.3).
La devotio, dunque, non è un sentimento ma una virtù attiva: la decisione consapevole di offrirsi a Dio, qui e ora. Il gesuita Louis Bourdaloue la chiamava “devozione al dovere”. Essa àncora la nave anche durante la tempesta. Se rimaniamo fedeli alle responsabilità del nostro stato di vita, Dio provvederà ogni grazia necessaria. La Colletta, allora, non chiede passività, ma fedeltà e fermezza.

Tornando al gemito cosmico evocato da Paolo, si può persino immaginare che le particelle più minuscole — quark, leptoni, bosoni — aspirino al loro fine ultimo. In quest’ordine cosmico, gli angeli guidano tutto ciò che si muove, e benché alcuni siano decaduti, la Provvidenza resta sovrana. Questo gemito universale è invito alla speranza. Scrive Dom Guéranger ne L’Anno Liturgico:
Gli uomini che non riconoscono altra legge se non quella della carne possono anche essere sordi e indifferenti alla Rivelazione; ma la materia continuerà a condannare il loro materialismo. La natura… continuerà a predicare il soprannaturale con le sue mille voci… e la creazione… proclamerà ancor più forte, proprio perché soffre, che il re decaduto che era destinata a servire ha un destino che supera ogni cosa finita.
Questa meditazione si accorda al richiamo evangelico all’umiltà. Come Pietro, dobbiamo riconoscere la nostra insufficienza e affidarci alla misericordia del Signore. Come gli Apostoli, dobbiamo perseverare, fiduciosi che Dio riempirà le nostre reti vuote. Come la creazione, dobbiamo gemere nell’attesa della rivelazione dei figli di Dio. Come la Chiesa nella Colletta, dobbiamo affidare il nostro cammino al Capitano, confidando nel suo piano di pace.

Dall’oscurità dello sforzo vano senza grazia all’abbondanza soprannaturale dei doni divini, dalla schiavitù della corruzione alla libertà gloriosa dei figli di Dio, i testi della Messa di questa domenica ci attirano in un desiderio pieno di speranza e in una devozione risoluta. Ci invitano a fissare lo sguardo sul porto finale: il Volto di Dio, “E ’n la [Cui] volontade è nostra pace” (Paradiso, III, 85).

Le letture e le preghiere della IV Domenica dopo Pentecoste ci ricordano che la creazione intera geme nell’attesa della redenzione, che l’umile resa conduce all’abbondanza divina, e che la nostra devozione è al tempo stesso vela e timone per raggiungere il porto sicuro della gloria di Dio. Come insegna il Catechismo:
Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirarlo a sé (CCC 27).
Infine, la nostra pace, la nostra tranquillità, potrebbero ben dipendere da una buona confessione.

Che la nostra devotio tranquilla sia il vento che ci conduce a casa.

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

2 commenti:

Anonimo ha detto...

OT di gravità inaudita :

Parigi: uomo arrestato dopo aver gridato “Allah akbar” sull'altare della basilica del Sacro Cuore

https://www.lefigaro.fr/faits-divers/paris-un-homme-interpelle-apres-avoir-crie-allah-akbar-sur-l-autel-de-la-basilique-du-sacre-coeur-20250708

Cit. Andrea Sandri ha detto...

Bisogna purtroppo dire che, se Leone XIV non prenderà posizione, con detti e fatti, sul triste affaire Traditionis Custodes e sui sinistri personaggi che l'hanno fomentato, si aprirà un'altra voragine. Non può non essersene reso conto.