Il 9 marzo di due anni fa moriva Mario Palmaro. Lo ricordo con tenerezza e amicizia, come si ricordano le persone care.
Ogni volta che scrivo le povere cose che leggete o che intervengo in pubblico, mi chiedo che cosa scriverebbe o direbbe lui. Mi accade anche quando devo dare un giudizio su un fatto, su un avvenimento, su un comportamento. Spesso, negli ultimi anni della sua vita, gli ho chiesto consigli, perché sentivo il suo assoluto disinteresse e la sua bontà d’animo.
Era un vero amico, che ho conosciuto all’inizio del 2012, durante un convegno. Fu felice di conoscermi. Qualche mese dopo, mi scrisse queste righe: «Caro Danilo, volevo dirti che seguo da “lontano” ciò che di bello, di vero e di buono stai facendo, e che ti ammiro e stimo molto. Sei un grande dono della Provvidenza. Come forse saprai, mi sono ammalato per un tumore in fase avanzata e sto vivendo questa prova con tutti i limiti umani che puoi immaginare. Mi permetto di chiederti una preghiera, perché sono convinto che sei molto vicino a Gesù, e ben più di me. Un caro saluto, Mario».
Piansi lacrime copiose quando lessi queste parole. Perché non le meritavo e perché mi commuoveva quella delicatezza e quell’umiltà. L’umiltà dei grandi Maestri, degli uomini che sono vicino a Dio. Un grande insegnamento per me e per la mia vita di povero peccatore.
Mario era in questo mondo, ma non era di questo mondo. Non era servo di nessuno. Si sentiva e viveva come servo inutile di Dio. Per questa ragione amava la Verità tutta intera. Perché amava Dio. Senza mezze misure e senza calcoli, abiurando gli interessi personali, come devono fare i veri cristiani. È stato amato da Dio, che lavora i Suoi figli nella sofferenza, fino all’ultima stilla di sangue che a loro rimane, per renderli consapevoli della Sua scelta, perché la Grazia li invada fino ad ogni singola cellula e perché aderiscano totalmente alla Sua volontà.
Non tutti sono degni di questo. Mario, sì. Perché il suo percorso d’immortalità, il suo stare per sempre accanto a Dio, si è perfezionato e crogiolato nell’alveo della sofferenza, nel suo stare inginocchiato davanti alla Croce, come deve fare un buon cristiano. Grazie alla Croce, aveva la forza di affermare, durante la sua malattia: «uno si ammala gravemente e scopre che la vita è bellissima e che c'è un mucchio di gente che ti vuole bene e prega incessantemente per te. Ogni giorno è una pena, ma anche la possibilità che accada qualcosa di insperato e di bellissimo».
Qualcosa di bellissimo è accaduto, carissimo Mario: il lascito della tua delicatezza e del tuo farti umile di fronte agli altri, che ti portava a dire: «Mi spiace di far soffrire gli altri con la mia vicenda, però penso che Dio tenga conto di ogni lacrima che versiamo e che nemmeno una goccia sfugga alla sua contabilità. Io penso che l’uomo che piange è l’uomo che viene salvato. Forse lo dico per tornaconto, perché in questi mesi mi capita ogni tanto di piangere, è più forte di me. Anche io alle volte penso che sia ingiusto quello che mi succede. Penso che i miei figli e mia moglie avrebbero ancora bisogno di me. Ma poi mi dico che secondo la nostra fede, una volta che sarò morto e andrò a raggiungere i miei genitori (spero, non sono sicuro, perché il giudizio di Cristo nessuno può prevederlo) potrò aiutare ancora di più che non stando in questa vita, da povero peccatore. Però prepararsi a morire e a soffrire è dura, io son molto debole, non sono quello che magari sembro. Se avessi una fede salda nella resurrezione non soffrirei così tanto. Chi vive accanto a me sa tutti i miei difetti e i miei limiti. È più difficile conservare la grazia facendo una conferenza che aiutando mio figlio a fare una versione di greco. È più facile parlare dell’importanza della preghiera, che pregare».
Ricordo quando mi raccontò la telefonata del Papa, che volle sincerarsi delle sue condizioni di salute. Lo fece con ritegno e con pudore, rimarcando come l’avesse ringraziato per il suo interessamento, ma che quel gesto non cambiava le sue opinioni sul pontificato. Cosa che al Papa riferì con rispetto, ma anche con fermezza e dignità. Una grande lezione.
La sua coerenza, la sua misura, la sua preparazione culturale, il suo rigore, la sua rettitudine morale, il suo amore per la Verità, il suo vivere una Libertà non condizionabile da niente e da nessuno, la sua nobiltà d’animo, il suo coraggio, il suo impegno a portare nel mondo la conoscenza e la consapevolezza della Regalità Sociale di Cristo, il suo amore commovente per il prossimo – anche per coloro che tentavano di isolarlo, mostrandogli livore – costituiscono un segno certo del suo percorso terreno di santificazione personale. Mario ha incarnato la virtù teologale della carità, descritta da San Paolo (1 Cor 13): «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!». La sua attività apologetica e, quindi, apostolica, è stata questo: una manifestazione sfolgorante della carità.
Danilo Quinto - http://daniloquinto.tumblr.com/
2 commenti:
Ecco Palmaro poteva essere il giusto leader di un vero partito cattolico. Trivarne di persone rette e coerenti come lui. Un vero esempio per tutti noi.
CI VOGLIONO IN GALERA
Il Corriere della Sera informa che degli attivisti Lgbt vogliono mandare in galera per "omofobia" il direttore de La Croce nonché candidato sindaco di Roma del Popolo della Famiglia, Mario Adinolfi, attraverso un esposto presentato alla procura della Repubblica di Genova incentrato su una interpretazione estensiva della legge Mancino che riguarda razzismo e antisemitismo. Lo stesso Adinolfi replica: "Gli attivisti di Gaylex non citano quali sarebbero le mie frasi incriminabili per omofobia, che infatti non esistono come non esiste il reato. Se ne trovano una mi costituisco, altrimenti querelerò immediatamente quei signori e gli organi di stampa che ne riporteranno le false e calunniose e totalmente inventate accuse. Questi metodi di intimidazione sono inaccettabili e vergognosi. Ma, sia chiaro, io continuerò a testimoniare la verità pure da solo ai compagni di cella". Ad attivare la denuncia di Gaylex è Michele Giarratano, compagno del senatore Lo Giudice. Probabilmente i due hanno trovato indigeribile la campagna di questo giornale e del suo direttore tendente a svelare l'imbroglio della stepchild adoption, che serviva a mascherare la legittimazione della pratica dell'utero in affitto, a cui Giarratano e Lo Giudice hanno fatto ricorso negli Stati Uniti. La modalità per cui un senatore della Repubblica, coperto da immunità parlamentare, manda avanti il suo giovane fidanzatino per intimidire un avversario politico su una legge in discussione in cui è in conflitto di interessi, è rivelatrice di una mentalità costruita nello strano incrocio tra prepotenza e viltà.
Posta un commento