Un'iniziativa meritoria per la conoscenza e la diffusione del Gregoriano, così bistrattato dalla riforma liturgica. Invito i lettori che fossero interessati a rintracciare nel blog, dal motore di ricerca, i numerosi articoli sull'argomento.
Sul sito www.chiesa vengono da tempo offerti all'ascolto i canti propri della liturgia romana nelle esecuzioni dei "Cantori Gregoriani" diretti dal Maestro Fulvio Rampi.(*)
Oggi ricorre la quarta domenica di Quaresima, detta “Dominica Laetare”. Cogliamo dunque l'occasione per condividere queste briciole luminose delle intramontabili ricchezze del Rito Romano Antico anche per quanto riguarda la sua musica sacra.
Viene dunque proposto il communio della domenica "Laetare" in una nuovissima esecuzione offerta all'ascolto dai "Cantori Gregoriani", accompagnato da un articolo del Maestro Rampi come guida all'ascolto.
TRADUZIONE
Il Signore ha fatto del fango con lo sputo
e l'ha spalmato sui miei occhi;
e sono andato
e mi sono lavato
e ci ho visto
e ho creduto in Dio.
(Giovanni 9, 6-11)
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita.
Il Signore ha fatto del fango…
Per gustare la dolcezza del Signore
e ammirare i suo santuario.
Il Signore ha fatto del fango…
(Salmo 27, 4)
ASCOLTO (possibile da qui )
GUIDA ALL'ASCOLTO
Il contesto liturgico che avvolge questo breve communio evangelico è del tutto speciale. “Laetare Ierusalem”, rallegrati Gerusalemme: esordisce così l’introito della quarta domenica di Quaresima, detta appunto “Dominica Laetare”. Il parallelo con la terza domenica di Avvento, la “Dominica Gaudete”, è evidente. Si tratta di due feste accomunate dalla anomalia della gioia, che la liturgia colloca in modo provocatorio al centro dei tempi forti a carattere penitenziale dell’Avvento e della Quaresima.
Questo sorprendente invito alla letizia è nei segni visibili della liturgia – che cambia eccezionalmente il colore dei paramenti del celebrante da viola a rosa – ed è anche nella veste sonora decisamente più ricca che il canto gregoriano riserva in modo particolare agli introiti delle due domeniche.
Se il testo paolino del “Gaudete” (Filippesi.4, 4-6) pregusta la gioia del Natale, il testo di Isaia del “Laetare” (60, 10-11) orienta il percorso quaresimale verso la Pasqua.
All’esuberanza testuale e musicale dell’introito, il “proprium missae” della quarta domenica di Quaresima unisce una significativa e diretta allusione pasquale. Lo fa con una piccola formula di accento, che caratterizza le melodie-tipo dei cantici della Veglia di Pasqua: questa cellula melodica, già incontrata nell’introito “Invocabit me” (sull’accento del verbo “glorificàbo”) della prima domenica di Quaresima, compare anche in due brani assegnati anticamente in modo esclusivo a questa quarta domenica.
Il primo di essi è il tractus “Qui confidunt”, costruito precisamente sulla melodia-tipo dei cantici pasquali.
Il secondo contesto che vede la presenza della stessa formula è l’incipit dell’antifona “Ierusalem quae aedificatur”, destinata in origine a communio di questa messa festiva.
L’ideale ponte fra la prima domenica e la Pasqua, costruito su questo tassello formulare, viene dotato di un pilastro centrale proprio in questa quarta domenica. L’invito a rallegrarsi, che l’introito traduce nel modo che si è detto, trova sostanza espressiva in questo richiamo pasquale che risuona più volte nella stessa celebrazione quaresimale.
Questa coerenza risulta un po’ adombrata nell’attuale ordinamento liturgico a ciclo triennale. Nell’anno A, infatti, è prevista la sostituzione dell’originale communio con l’antifona “Lutum fecit”. La lettura evangelica giovannea dell’episodio della guarigione del cieco nato – prevista per questa domenica – ha motivato l’utilizzo del suddetto communio, che i codici gregoriani destinavano alla feria IV della quarta settimana di Quaresima, pochi giorni più avanti.
Il testo di questa breve antifona si compone sostanzialmente di due frasi, di fattura molto diversa fra loro, che sintetizzano l’episodio miracoloso. Diversamente dagli altri communio quaresimali associati a episodi evangelici (quelli della Samaritana, di Lazzaro, dell'adultera), in questo caso non è Cristo a parlare, ma è il cieco nato che racconta la sua guarigione.
La prima frase, in estrema semplicità stilistica e senza alcuna enfatizzazione, espone oggettivamente i fatti. Non vi è ancora nulla di straordinario: Gesù ha fatto del fango con la saliva e lo ha spalmato sugli occhi malati. L’unica punta espressiva è ravvisabile nella sottolineatura dell’aggettivo conclusivo “meos”, i “miei” occhi: la sillaba tonica, in questo caso, è formata da un neuma discendente di tre note (climacus) che, nell’ambito di questa prima frase formata da sillabe con una o due note, costituisce il punto di massima densità sonora. Oltretutto, la prima di queste tre note – come si evince dalle notazioni in campo aperto che contornano la notazione quadrata – è l’unica dotata di valore allargato in tutta la prima frase. In ogni caso, l’andamento ritmico complessivo fino a questa prima cadenza è assolutamente ordinario e le naturali accentuazioni testuali sono assecondate dalla regolare elevazione melodica in corrispondenza della sillaba tonica di ciascuna parola.
Se la prima frase racconta il fatto, la seconda frase proclama l’evento. Non cambia lo stile musicale, mantenuto in rigorosa semplicità, ma cambia radicalmente il criterio di composizione testuale.
All’iniziale andamento ordinario del racconto, viene repentinamente contrapposta la scarna centonizzazione di quattro verbi consecutivi, accomunati dalla reiterazione della congiunzione “et”, utilizzata come artificio retorico di grande forza persuasiva:“et abii et lavi et vidi et credidi Deo”; e sono andato e mi sono lavato e ci ho visto e ho creduto in Dio.
La potente ed efficace sintesi sul piano testuale trova conferma e ulteriore precisazione di senso nel fraseggio musicale suggerito dalle fonti manoscritte in campo aperto. Gli antichi neumi rendono innanzitutto evidente il crescendo espressivo che coinvolge i primi tre verbi: le rispettive sillabe di accento sono dotate progressivamente di suoni a valore ampio, fino all’attestazione del miracolo (“et vidi”), tradotta ritmicamente con la doppia sottolineatura dei due suoni discendenti sulla sillaba di accento (clivis a valori larghi con ulteriore aggiunta sangallese della “t” di “tenete”, lettera che invita a “trattenere” la corrispondente sillaba a causa della sua importanza).
Ma la vera sorpresa si realizza proprio a partire da questo contesto, ovvero da questa apparente cadenza che, in modo solenne, conduce la melodia al re grave. Tale procedimento, pur segnalando una meta accentuativa di grande rilievo, non configura affatto una conclusione definitiva, perché l’energica ripresa sull’ultimo “et”, proietta il fraseggio di questo ennesimo “climax” della monodia gregoriana verso il vero punto culminante: “et credidi Deo”, e ho creduto in Dio.
I neumi indicano con chiarezza – anche attraverso l’intenzionale assenza della liquescenza sull’ultimo “et” – la proclamazione urgente e perentoria di questo inciso finale: è l’atto di fede che chiude l’antifona e che le conferisce pieno significato.
È così, in effetti, anche dal punto di vista della complessiva costruzione modale. Il brano è sostenuto da un procedimento melodico in “tritus plagale” (sesto modo); ed è proprio l’ultimo decisivo inciso che, dopo l’apparente cadenza al grave, riporta il brano alla sua vera modalità di appartenenza. Una modalità che trova ampio spazio segnatamente nel tempo pasquale e che, in questo contesto quaresimale, racconta un segno miracoloso che si fa itinerario di fede e che, raccontato in quel modo, risuona come anticipo e promessa di un pieno compimento futuro. (Fulvio Rampi)
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(*) Fulvio Rampi è gregorianista di fama internazionale. È nato e vive a Cremona. Insegna canto gregoriano al Conservatorio musicale "G. Verdi" di Torino. Ha fondato nel 1986 il coro “Cantori Gregoriani”, un ensemble professionistico a voci virili, del quale è direttore stabile. Con tale gruppo ha svolto attività concertistica in vari paesi del mondo, ha inciso per importanti case discografiche e ha effettuato numerose registrazioni radiofoniche e televisive. Nel 2010 ha costituito il Coro Sicardo, con un vasto repertorio di polifonia classica e contemporanea. Tra le sue pubblicazioni spicca "Del canto gregoriano", Rugginenti Editore, Milano, 2006.
Tutti i brani di canto gregoriano eseguiti per www.chiesa dal Maestro Fulvio Rampi e dal suo coro possono essere riascoltati in qualsiasi momento e sono reperibili in questa pagina web:
20 commenti:
Il NO si può celebrare dignitosamente, anche se pochi lo fanno. Come sappiamo la maggioranza delle s. Messe, a parte certi spettacoli squallidi, sono di una triste mediocrità.
Il problema principale del NO è la consacrazione:
- nel VO, come definì S. Ambrogio per primo, la consacrazione avviene con le sacre parole, che divengono "azione";
- nel rito ortodosso la trasmutazione degli elementi avviene con l'epiclesi e perciò le sacre parole fanno parte di una narrazione (addirittura nell'anafora di Addai e Mari non ci sono).
Entrambe le formule sono valide.
Nel NO le sacre parole sono una narrazione e non c'è epiclesi consacratoria, perciò il rischio di una celebrazione invalida, ove mancasse l'intenzione esplicita di ottenere la transubstanziazione del pane e del vino, è concreta ed il rito, come affermava il "monaco" protestante Roger Schutz, al quale BXVI diede la comunione (!) nell'aprile del 2005, può essere usato anche per la "cena del Signore", come fra l'altro è definita la s. Messa nella "Institutio genralis" del NO.
Come si vede, un sacerdote, che voglia celebrare in modo cattolico col NO, deve andare quasi "contro" le rubriche ed integrare quanto manca con una ferma intenzione di "fare quello che comanda la Chiesa".
Anacleto,
vedo che torni sull'epiclesi e su questa mi costringi a ripetermi, poi dirò a proposito del NO...
Nel canone Romano, non esiste una epiclesi (invocazione allo Spirito Santo) esplicita come nei riti orientali. Tuttavia non è che essa non ci sia, ma è presente nell'Invocazione sulle oblate (nell'invocazione "quam oblationem... ut nobis corpus..." e anche nelle successive invocazioni "supra quem..." e "supplices...".
Anzi, la prima riguarda le oblate, la seconda i communicantes e dunque mette in risalto la duplice trasformazione = transustanziazione strettamente relazionata e interdipendente: quella sacramentale delle oblate e quella ecclesiale che ne è conseguenza.
Mi pare che il discorso su oblate e communicantes lo faccia lo stesso S. Ambrogio.
Ci sarebbe da scendere in ulteriori dettagli in un'analisi più approfondita di queste formule sublimi; ma non è questo il luogo...
Aggiungo che tutta la vita di Gesù è un costante dialogo col Padre e dunque anche il momento supremo che ci ha consegnato : è Cristo Gesù, il Figlio, il Verbo Incarnato, la Seconda Persona della S.S. Trinità che pronuncia quelle parole della consacrazione e le pronuncia rivolto al Padre, alzando gli occhi al cielo (com'è detto esplicitamente nella formula).
Come dubitare dunque che quelle parole pronunziate dal Signore della vita non siano Spirito e Vita esse stesse e dunque lo Spirito, che discende dal Padre e dal Figlio, come può non aver parte in quest'evento?
In Cristo Signore è presente tutta la Trinità Padre Figlio e Spirito Santo... Tutto il resto sono sottigliezze di conio rabbinico che non ci riguardano.
Piuttosto dici bene nell'affermare che la formula consacratoria del NO ha il grave vulnus di aver trasformato il momento solenne e inalienabile dell'Actio di Cristo in narrazione... Il che è desumibile anche dall'uso del participio passato "versato" al posto del futuro "effundetur" ="che sarà versato", riferito al Sangue già transustanziato da Gesù durante l' Ultima Cena, che non è solo un convivio (Cena Pasquale ebraica), ma trasporta direttamente sul Calvario, il luogo del Sacrificio del vero Agnello. E' questo il Novum, l'inedito, che dobbiamo custodire e vivere... e che rende possibile il ricatto e la risurrezione nobis e per i molti che faranno "questo" in Sua memoria....
E qui rientra il discorso sul sacerdote che abbia l'intenzione di "fare quello che comanda la Chiesa", che non può esser diverso da ciò che le ha comandato e consegnato il Signore.
Ci sono messe celebrate male, ma anche altre celebrate più che dignitosamente.....sui canti ci sarebbe da ridire, ma passim ; l'unica cosa bella che hanno lasciato, bontà loro, su tv 2000 diventata per tanti altri versi inguardabile, è la trasmissione 'La domenica con', il sabato alle 17.30, dove, assieme alle parole all'Angelus di Papa Benedetto, dopo la lettura del Vangelo, si possono ascoltare musiche divinamente belle, ieri è toccato a Palestrina e Scarlatti, ci sono cori bellissimi, Rampi e Mura ed altri poi spiegano bene il tutto......speriamo non la tolgano, è l'unica cosa bella e guardabile.....Lupus et Agnus
Questa me l'ero persa..
..Il Papa ha confermato nei loro incarichi una serie di ecclesiastici, tra cui in particolare il prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata il cardinale Joao Braz de Avril....
http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vaticano-vatican-vaticano-33079/
Purtroppo gli abusi liturgici sono resi possibili dall'eccesiologia e teologia diverse che esprime e veicola il rito riformato e che i sacerdoti delle nuove generazioni assimilano in pieno se non hanno la grazia di venire in contatto col Rito antico senza i pregiudizi e l'avversione imperanti.
Mentre il gregoriano è la veste liturgica sonora che non può esser indossata, se non con tagli e/o aggiustamenti che ne fanno perdere le parti più belle, su qualcosa di diverso travestito o fatto passare da sosia ma che a ben vedere si rivela "altro".
(addirittura nell'anafora di Addai e Mari non ci sono).
Entrambe le formule sono valide.
L'anafora di Addai e Mari, PRESA ED USATA COSì COME **è SCRITTA** non è valida/efficace, checchè ne abbia detto/scritto GPII.
I Preti caldei che la usano, la INTEGRANO la con le parole dell'Istituzione. Ed hanno sempre insegnato che, in antico, tali parole ne hanno sempre fatto parte, solo che, in onore ed ossequio alla disciplina dell'Arcano, VIENIVAno insegnate oralmente (esempio di insegnamento tramandato per via ACROAMATICA) e non messe per iscritto. C'è tutto un numero di "Sì, sì, no, no" dedicato a tale argomento.
RIC,
credo che la notizia che ti meraviglia segni il colpo di grazia alla sorte dei francescani dell'Immacolata.
L'unica cosa che possiamo sperare e per cui pregare riguarda soluzioni alternative praticabili per i molti tra loro di sana formazione e intenzione.
Ma tutto si sta consumando nel più totale silenzio, denso di incognite ma anche di timori, nel clima tirannico che si è instaurato.
È la ragione per cui non diffondo alcune notizie che ho. Non mi interessano gli scoop, quel che è importante è astenersi dal favorire possibili ulteriori danni.
Piuttosto bisogna intensificare la preghiera perché ciò che è accaduto a loro è indice di mala tempora per tutta la tradizione.
http://www.riscossacristiana.it/francescani-dellimmacolata-ci-scrivono-genitori-di-consacrato/
https://www.facebook.com/groups/460589750712022/
Certamente gli scoop non servono. Ma ho paura anche del silenzio che e' nuovamente caduto sulla vicenda dei FI. Nessuno ne parla piu', tutto viene fagocitato da una normalizzazione che non fa prigionieri ma solo vittime. E a volte lo scoramento diluisce anche la fiducia nella preghiera..
È vero RIC.
Ma resistiamo e andiamo avanti. Non possiamo far altro, continuando a non tacere su ciò su cui "non possiamo" e dunque "non dobbiamo" tacere.
Mic, notevole ciò che scrivi sull'epiclesi. Non ci avevo mai pensato.
Non ci avevo pensato nemmeno io, Anonimo, prima di misurarmi con alcune affermazioni e nello scoprire, documentandomi, che quel che pensavo lo aveva sostenuto S. Ambrogio. :)
Ne sono felice perché forse può significare che non penso sempre critiche (sterili) e stupidate. E di questo non ho che da ringraziare il Signore.
Grazie, rafminimi, per la tua precisazione su Addai e Mari.
Ne avevamo parlato a suo tempo. E ora hai ben condensato i termini essenziali della questione.
Per Anacleto.
Confermo quanto detto da Mic sull'epiclesi esplicita mancante nel Canone Romano, o piuttosto implicita (Quam oblationem... benedictam, adscriptam, ratam, rationabilem, acceptabilemque...). Vorrei aggiungere che la ragione sottostante alla mancata invocazione dello Spirito Santo a Roma, è la consapevolezza che il Sacerdote agisce in Persona Christi, per cui quello che dice in prima persona nella narrazione dell'istituzione è come uscisse dalla bocca di Cristo, espressione diretta dello Spirito Santo, che rende superflua ogni altra invocazione (parola di Cristo = soffio dello Spirito). In Oriente tale consapevolezza è piuttosto assente o indebolita, per cui il celebrante si sente in dovere di invocare lo Spirito Santo. Non è che la Chiesa romana manchi di pneumologia, semplicemente la sua teologia segue strade diverse, ma non opposte, come qualcuno crede, o vorrebbe far credere.
Caro Michele, mi confermi che avevo ben assimilato ed infine è divenuta in me esplicita, la consapevolezza della Chiesa romana, che è la mia Chiesa.
Uno o più Anonimi (ma datevi un nick!) hanno inserito link interessanti sui FI. Riprenderò il testo di Riscossa cristiana, proprio per non dimenticare, come esorta RIC.
per il solo fatto che ha abbandonato il gregoriano, la messa conciliare e' un abuso liturgico.
Se ci si aggiunge tutto il resto, il VO non puo' mai essere detto dignitosametne perché anche se esteriormente ci si sforza di renderla corretta ... é e resta bacata nell'essenza.
Segnalazione:
https://www.youtube.com/watch?v=ziEbiaiTFCc
Si tratta di una messa "Sancta Parens" cantata con molta pietà e senza alcuna sdolcinatezza. Se ne dovrebbe prendere esempio!
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