L'ultimo fascicolo di
Catholica (autunno 2012, n° 117) - rivista francese di riflessione politica e religiosa - è come sempre molto interessante e tra poco sarà disponibile anche sul Web.
Esso reca il titolo generale «
Il conflitto irrisolto », che è quello dell'Editoriale di Bernard Dumont, dedicato all'intenzione pragmatica del Vaticano II e alle difficoltà che ne sono nate. In questo periodo in cui la Chiesa celebra il cinquantenario dell'apertura del Concilio, la rivista dedica al tema anche altri articoli. Il prossimo che pubblicherò sarà «
Il punto morto delle Ermeneutiche » di Laurent Jestin. Successivamente, cercherò di fare una sintesi del tutto, che possa essere un ulteriore punto di partenza per elaborare le dinamiche, le riflessioni e le possibili conclusioni che questi pensieri ci aiutano a trarre.
Intanto, di seguito, potete trovare il testo, che di proposito ho voluto far precedere, perché vi si riallaccia, da quello del fascicolo precedente : "
Apertura su un cinquantenario".
Il conflitto irrisolto
Ben lungi dalle aspettative dell'apertura del concilio Vaticano II, cinquant'anni fa, lo scarto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo è oggi acuto.
Già allora la situazione era preoccupante. Si entrava nell'era del consumismo di massa, con tutte le conseguenze morali che ciò lasciava presagire e che già si riscontravano concretamente. Nel 1962 usciva The Affluent society, di John Kenneth Galbraith, celebrazione dell'abbondanza materiale e programma di espansione capitalista. The Gutemberg Galaxy, di Marshall Mac Luhan, fa emergere che il nuovo potere dei media ha introdotto un salto qualitativo. Il comunismo persegue le sue azioni malefiche attraverso il mondo e rivaleggia nella corsa agli armamenti con la superpotenza rivale...
Infine all'interno della Chiesa circolano le « false opinioni che minacciano di sovvertire i fondamenti della dottrina cattolica » (Pio XII,
Humani generis, 1950). Ci si accorgerà ben presto che questi ultimi pericoli non erano illusori, e si verificano in tutti i campi della vita ecclesiale, nelle dottrine come nelle prassi « modernizzatrici » dell'Azione cattolica, dei sindacati, partiti politici, università considerate cattoliche, ormai in via di rapida secolarizzazione. Di tutto ciò ognuno era consapevole nel 1962, così come si sapeva con cognizione di causa che questo stato di cose in effetti veniva da molto lontano nel passato.
Se gli iniziali interventi di Giovanni XXIII sorvolarono rapidamente su questi lati negativi, i testi nei quali sono sfociali i lunghi dibattiti conciliari in alcune parti presentano tratti più realistici. Paolo VI, nel suo discorso di conclusione (
7 dicembre 1965), li ha riassunti in un ritratto sorprendente dell'uomo della modernità, chiuso su se-stesso e « tutto occupato di sé, [...] che si fa soltanto centro d’ogni interesse, ma osa dirsi principio e ragione d’ogni realtà ». Di conseguenza, Paolo VI affermava, « la religione del Dio che si è fatto uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) dell'uomo che si fa Dio ». Quanto al testo conciliare più celebrato per la sua « apertura »,
Gaudium et spes, esso inizia con un quadro preliminare piuttosto cupo della « condizione umana nel mondo d'oggi ». Denuncia l'ateismo istituzionale (pur senza nominare direttamente il comunismo) e lo scientismo, esprime il timore che le nuove tecniche militari provochino « una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati », conclude infine sullo « stato di degradazione dell'umanità » (n. 79).
La missione attribuita al concilio era offrire risposte adeguate alle angosce nate da questa situazione, ma anche discernere le aspirazioni positive e dar loro una risposta in una formulazione appropriata. Tale era la ragion d'essere del carattere essenzialmente pratico di questo concilio, indicato con l'aggettivo « pastorale » ufficialmente attribuitogli. Giovanni XXIII era stato chiarissimo a questo riguardo : non si trattava di « discutere di alcuni capitoli fondamentali della dottrina della Chiesa, e dunque di ripetere con maggiore ampiezza ciò che Padri e teologi antichi e moderni hanno già detto », bensì di operare un aggiornamento (è uno dei significati della parola
aggiornamento ripetuta così di frequente), un adattamento pedagogico : « È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che dev'esser fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo da rispondere alle esigenze del nostro tempo. (
Discorso d'apertura). La traduzione letterale della versione italiana comporta una variante : « [...] sia studiata ed esposta seguendo la ricerca e la presentazione usate dal pensiero moderno », formulazione ambigua, che può intendersi nel senso di una attenzione rivolta alla capacità di comprensione degli uditori oppure di un allineamento alla forme culturali dominanti dell'Occidente [N.d.T.:
Questa citazione si riferisce ad un'altra versione del testo, rispetto a quella pubblicata sul sito Vatican.va, sul quale appare la versione corrispondente a quella francese, vedi link sopra, peraltro confermata dal testo latino presente sul sito Vaticano. Non volendo, ci troviamo di fronte ad un dilemma: dello stesso discorso circolano due versioni diverse: questa riporta la versione citata dal Prof Dumont. Non faccio commenti, ma se si confrontano le due versioni e non solo per il punto in questione, la cosa è piuttosto intrigante].
Ma un'ambiguità simile circonda la parola « exigence » nella versione francese. L’operazione era tanto più importante in quanto ci si trovava in presenza di un generale sconvolgimento del mondo di fronte al quale conveniva riflettere con tanta più forza quanto gli atteggiamenti adottati dopo il XIX secolo nei confronti della modernità si erano conclusi con successivi fallimenti sempre più evidenti, anche perché il discorso della Chiesa non era mai giunto ad esser formulato in termini immediatamente accessibili ai suoi destinatari.
Perché questa intenzione pastorale non ha mai dato frutti? Perché tanti sforzi dispiegati non hanno permesso di trovare i mezzi per elaborare un modello rinnovato di comprensione della modernità, e dare un impulso decisivo ad una rinascita della cultura cristiana tale da imporre rispetto ? Ci si contenterà qui di considerare due punti : l’opzione iniziale che ha dato la sua tonalità ai lavori conciliari, e la difficoltà di comprendere l'ostinazione con cui la linea posta all'inizio non è stata modificata a dispetto della sua inefficacia.
* * *
La peculiarità del Vaticano II non risiede tanto nella sua « pastoralità », cioè nella preoccupazione pratica che gli era assegnata, quanto nel modo in cui questa si è concretizzata e nel contenuto delle decisioni che ne sono scaturite, oggi dai fatti giudicate un fallimento. Dopo tutto, questo concilio avrebbe potuto essere « pastorale » in maniera completamente diversa. E il modo in cui lo fu è stato tributario di un certo numero di dati quanto il lungo processo che è seguito.
Il primo di questi dati è una decisione di ottimismo. Questa via, generalmente imputata al concilio nel suo insieme, è stata imposta da Giovanni XXIII. La bolla d'indizione
Humanae salutis, l'atto giuridico di convocazione del concilio (25 dicembre 1961), evoca certo in maniera molto precisa le « guerre omicide che, oggi, si succedono senza interruzione » – si pensi a ciò che accadeva allora in Algeria, in Viet Nam, in Angola, ecc. –, ma se ne trae una interpretazione positiva che lascerà tracce in seguito : « [...] ciò spinge gli uomini a interrogarsi, a riconoscere più facilmente i propri limiti, ad aspirare alla pace, ad apprezzare il valore dei beni spirituali ; e ciò accelera il processo [...] che conduce sempre più gli individui, le classi sociali e le stesse nazioni ad unirsi amichevolmente, ad aiutarsi, a completarsi ed a perfezionarsi reciprocamente ».
Questa convinzione del passaggio ad un accesso collettivo alla saggezza ha per corollario nello stesso testo una prima critica nei confronti di coloro che lo mettessero in dubbio e che « non vedono che tenebre che circondano il nostro mondo ». Solo sei mesi più tardi, l'affermazione diventerà più dura. Giovanni XXIII qualificherà come « profeti di sventura » coloro « che sono soliti dire che la nostra epoca è profondamente peggiorata in rapporto con i secoli passati » ; e situerà i rimproveri che loro rivolge su un terreno di principio, affermando che « essi si comportano come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita […] », presupponendo e confermando così l’idea molto poco realista che si assisteva ad un ribaltamento positivo verso una nuova era di pacificazione (
Discorso d’apertura del concilio, 11 ottobre 1962).
Non si è mai esattamente saputo chi riguardasse questa critica, forse essa era soltanto preventiva, in ogni caso veniva annunciata una linea d'altronde coerente con la definizione degli obiettivi assegnati all'assemblea che si apriva, consistenti non nel combattere i principi che sono alla radice dei mali contemporanei, e i sistemi che ne risultano ( il marxismo, il liberalismo, ecc.), ma a « usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore ». La giustificazione di questa scelta, molto nuova nella prassi ecclesiale che aveva sempre mescolato le due cose, è data nello stesso discorso d'apertura : gli errori, vi si legge, s’oppongono gli uni agli altri « svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole.», ben più, i contemporanei « sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle ». Giovanni XXIII dava anche un esempio : « soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. » (ibid.).
L'atteggiamento mentale del « Papa buono » gli è sopravvissuto, ma con Paolo VI, esso è stata rivestito di un'espressione più risoluta dell'attesa di una « nuova Pentecoste » o d’un « Allora il Regno di Cristo sulla terra sarà dilatato da um nuovo salto in avanti » annunciata dal suo utopico predecessore (
8 dicembre 1962). Riprendiamo il d
iscorso di Paolo VI del 7 dicembre 1965, spesso citato, senza dubbio a causa del suo lirismo : « La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso ». È dunque in piena consapevolezza che il concilio è stato spinto in questa direzione : « [...] bisogna riconoscere che questo Concilio, postosi a giudizio dell’uomo, si è soffermato ben più a questa faccia felice dell’uomo, che non a quella infelice. Il suo atteggiamento è stato molto e volutamente ottimista ».
Il resto del discorso insiste su questa scelta deliberata, traducendosi in « Una corrente di affetto e di ammirazione [...] sul mondo umano moderno ». Non si tratta più qui di quella ingenua benevolenza che gli italiani chiamano buonismo, ma di un postulato, di uno sguardo deliberatamente selettivo.
Questa scelta, che non è quella della lucidità ma di un apriorismo che richiama ciò che uno psicologo all'epoca molto di moda, Carl Rogers, chiamava la « considerazione positiva incondizionata », deve essere essa stessa compresa nel suo contesto. Una prima spiegazione a beneficio della semplicità; essa inoltre si fonda su molti indici e anche consensi espliciti. Si è determinato un capovolgimento durante la prima settimana, nell'ottobre 1962, quando cinquantanove dei sessanta schemi preparatori presentati dalla curia romana sono stati respinti. Risultato degli sforzi di un piccolo nucleo di attivisti di tendenza modernista più o meno attestato, abile ad imporsi di fronte a personaggi ecclesiastici che non comprendevano il senso di un'uscita dai ranghi condotta con l'appoggio di qualche vescovo, sotto il benevolo sguardo di un Giovanni XXIII che moltiplicava i gesti di apertura. È un dato di fatto, certamente. Ma non è sufficientemente probante, in quanto Giovanni XXIII aveva preliminarmente fatto la sua scelta in favore del cambiamento.
D’altra parte, ammesso che ci sia stato un « partito » rivoluzionario, gli storici che si sono occupati del tema attestano che esso all'inizio non assunse che la forma elementare di uno spirito comune, diffuso attraverso reti distinte e in relazioni occasionali, e non da una organizzazione costituita in precedenza e dotata di un programma coerente. Inoltre, e ciò è importante, un'aspirazione confusa ad uscire da un'atmosfera burocratica e pignolesca costituiva un punto d'appoggio morale per queste iniziative, specialmente negli ordini religiosi e negli episcopati nazionali. È solamente nel corso delle sessioni successive del concilio che si sono intessuti legami più stretti, tuttavia senza mai sfociare in istanze centralizzate, ma per contro in simbiosi sempre più accentuata col mondo esterno dei media, dei gruppi di pressione e dei laboratori di pensiero.
Era l'epoca delle « rivoluzioni copernicane », dei capovolgimenti d'alleanze, e non soltanto perché certuni fino ad allora tenuti a distanza avevano scelto l'occasione insperata di prendere la loro rivincita sui conservatori che erano loro d'ostacolo. In modo più generale e di durata più vasta, il rapporto tra il mondo cattolico e il « mondo moderno » che costituiva il suo ambiente somigliava ad una lotta per la sopravvivenza, dato che la Chiesa, nella sua assise sociale si trovava in una condizione di trinceramento, nonostante certe congiunture localmente e temporaneamente favorevoli e la permanenza di alcuni territori privilegiati.
Tutti sono d'accordo sul fatto che questa situazione in fin dei conti non potesse durare a lungo. In passato, era stata tentata una strategia di oltrepassamento, sotto la direzione di Leone XIII : si interpretano così la politica del 'Adesione' (1892) e il tentativo di controllo d'un elettorato cattolico concepito come una potente massa di manovra che potesse difendere gli interessi della Chiesa ; e ancora l'azione sociale sistematica, incoraggiata a partire dall'enciclica Rerum novarum (1891), di fronte al posto vuoto lasciato dal liberalismo selvaggio. La stessa strategia sarà prolungata soprattutto sotto Pio XI, in minor grado sotto Pio XII, che ne vedrà l'esaurirsi.
All'inizio degli anni 1960, si può concepire l'ipotesi di un nuovo tentativo, questa volta di inversione, paragonabile a ciò che si produce nel gioco di Go dove bastano poche cose perché da assediato si divenga assediante. All'occorrenza, piuttosto che opporsi al mondo moderno e al suo umanesimo idolatrico, era immaginabile proclamarsi moderni e più umanisti dell'umanesimo contemporaneo : « Anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo. » proclamava Paolo VI nel suo discorso del 7 dicembre 1965. Quella che si può considerare una prima offensiva di comunicazione, sarà seguita da ben altre nel corso del periodo postconciliare, ma perfino col carisma personale di Giovanni Paolo II, non raggiungerà affatto il suo scopo. Una delle ragioni di questo fallimento è di ordine tecnico : fin dall'inizio, il concilio si è lasciato investire dai media ; entrando in maniera beota in una struttura strettamente legata alle finalità della modernità, felici di trovare una facile tribuna per la diffusione delle loro idee o semplicemente per apparire, numerosi esperti, vescovi e porta-parola hanno posto il concilio in posizione di dipendenza nei confronti del « magistero » egemonico detenuto dai forgiatori della pubblica opinione. Il concilio è divenuto stabilmente l'evento conciliare. In definitiva, il ribaltamento della situazione non si è prodotto, nonostante il pesante tributo pagato alla cultura dominante dannosamente lusingata.
* * *
Come può accadere che nonostante le smentite della realtà, sia sempre difficile immaginare di rimettere un causa una politica la cui inefficacia, cinquant'anni dopo, è patente ?
Sembra che si possa avanzare due ipotesi, che hanno in comune una stessa nozione di costrizione.
La prima concerne il fatto, già affrontato, di un inserimento della Chiesa nella sfera mediatica, fortuito, impreparato, rapidamente soffocante e mai sottoposto a revisione, anche se al riguardo abbondano gli strumenti di analisi disponibili. Prima ancora di pensare la posizione della Chiesa postconciliare in termini di partecipazione allo spazio pubblico - oggi all'ordine del giorno sotto la prospettiva particolare della laicità – tale partecipazione di fatto era realizzata. La conseguenza principale di questa novità storica non è stata, se non in maniera collaterale, un allargamento della presenza pubblica della Chiesa nella vita sociale, tenuto conto del fatto che ogni intervento in campo mediatico ha per contropartita immediata il vederlo « tradotto » in termini riduttivi, facilmente deformati fino al totale sovvertimento (il caso di Ratisbona, nel 2006, poi la trattazione del caso Williamson, nel 2009, sono sotto gli occhi di tutti). Lungo tutto il periodo del post-concilio, in tal modo la Chiesa è stata sottoposta alla puntigliosa censura dei poteri che gestiscono lo strumento mediatico,
accompagnata da minacce ad ogni minimo scarto, reale o immaginario, dalla linea ufficiale. Questa situazione di cattività è dovuta fin dall'inizio ad una mancanza di conoscenza della struttura del potere nella società democratica, di cui il modesto Decreto sui mezzi di comunicazione sociale
Inter mirifica, il testo più corto e certamente più scarso prodotto dal concilio, testimonia eloquentemente. Ora i media fanno parte integrante del sistema di potere della tarda modernità e l'ignoranza delle sue regole e delle sue finalità interne non fa che riflettere quella dell'insieme più vasto di cui non è che un ingranaggio. Poiché in seno alla Chiesa non manca un indiscutibile spirito di qualità e competenza, sembra che almeno in parte quel poco d'interesse nutrito per queste realtà risulti come l'ottimismo di cinquant'anni fa da un atto di volontà.
L'altra costrizione è legata alle logiche teoriche elaborate durante lo stesso processo conciliare. L’intenzione di allora era di partire dalle aspirazioni dell'uomo contemporaneo per dar loro una sorta di completamento cristiano. Si è visto che il modello preso in considerazione era un'immagine media dell'Occidentale modernizzato, ripiegato sul suo egoismo, affascinato dalla tecnica e proclamante la sua autosufficienza, che aveva delle « esigenze di libertà » ed una maggior consapevolezza della sua intrinseca dignità – oggi si direbbe delle sue « fierezze » – (cf. in particolare la
Dichiarazione Dignitatis humanae). Si trattava di un'idea riduttiva, tanto a livello sociale – la rappresentazione riguardava soprattutto i quadri motori della modernizzazione – che a livello geografico, in un'epoca in cui l'occidentalizzazione del mondo non aveva raggiunto le proporzioni attuali. E tuttavia è a partire da questo modello - che il sistema dei media ha largamente contribuito a valorizzare - che si è costituita una concezione antropologica sullo zoccolo preesistente del personalismo cattolico elaborato nel periodo ante-guerra, e nella continuità delle correnti teologiche precedentemente respinte. E il discorso ideologico che è emerso simultaneamente sulla « Chiesa dei poveri » non ha controbilanciato questa visione, servendo, di fatto, nelle circostanze di agitazione rivoluzionaria dell'epoca, a confortare un sentimentalismo progressista da cui scaturirono più tardi le teologie della liberazione.
* * *
È impossibile separare questione politica e questione religiosa, trasformazioni del discorso
ad extra ed elaborazioni teoriche
ad intra, benché la chiave risieda nel desiderio primario di superare il conflitto col mondo della modernità, un conflitto indissociabilmente teologico, filosofico e politico. Nello stesso tempo, è difficile negare il fatto che le produzioni più strettamente rivolte alla vita interna della Chiesa – la sua autodefinizione in
Lumen gentium, i testi sulla formazione sacerdotale, l'episcopato, la Rivelazione... – siano stati pensati
in situ, ed a maggior ragione tutte quelle che riguardano le relazioni con
gli altri, che si tratti d'ecumenismo di libertà religiosa, di partecipazione alla « costruzione del mondo » in comune con i non-credenti, e così di seguito. Non è che una conseguenza naturale dell'opzione pastorale iniziale.
Occorre aggiungere il fatto che il lungo periodo postconciliare, se ha conosciuto sfumature, ha dogmatizzato il corpus costituito tra 1962 e 1965 – mentre il suo carattere pastorale implicherebbe logicamente di fare periodicamente il punto sulla sua fondatezza, tenendo conto dei cambiamenti di circostanze. È vero che in certi casi questa dimensione essenzialmente pratica è stata oltrepassata per presentarsi come progresso dottrinale, che apre la porta a interminabili interrogativi sulla portata di alcuni testi, la loro continuità o la loro rottura con l'insegnamento acquisito. Parallelamente lo sguardo unilateralmente positivo sul mondo ha lasciato il posto ad un'autocelebrazione periodica, mentre la censura esteriore si mostra sempre più opprimente. Ciò facendo, per uno strano paradosso, cinquant'anni dopo, torniamo alla situazione di conflitto senza fine alla quale il concilio voleva sfuggire. È dunque difficile, in queste condizioni, immaginare la possibilità di risparmiarsi un riesame.
Bernard Dumont
Catholica N. 117 — Autunno 2012 - Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio