Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 30 giugno 2013

Che n'è del Primato di Pietro?

Veniamo ai fatti, a partire dall'inizio in sordina - per chi non fosse addentro alla rivoluzione conciliare  -, per finire all'atto scoperto del 29 giugno 2013, nella Santa Messa e imposizione del pallio ai nuovi Metropoliti. [precedenti riflessioni] - [qui] - [qui] - [e qui]
... 3. Confermare nell’unità. Qui mi soffermo sul gesto che abbiamo compiuto. Il Pallio è simbolo di comunione con il Successore di Pietro, «principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione» (Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa  Lumen gentium, 18). E la vostra presenza oggi, cari Confratelli, è il segno che la comunione della Chiesa non significa uniformità. Il Vaticano II, riferendosi alla struttura gerarchica della Chiesa afferma che il Signore «costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro» (ibid., 19). Confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato. Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato. E continua, il Concilio: «questo Collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio» (ibid., 22). Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio. E questo deve spingere a superare sempre ogni conflitto che ferisce il corpo della Chiesa. Uniti nelle differenze: non c’è un’altra strada cattolica per unirci. Questo è lo spirito cattolico, lo spirito cristiano: unirsi nelle differenze. Questa è la strada di Gesù! Il Pallio, se è segno della comunione con il Vescovo di Roma, con la Chiesa universale, con il Sinodo dei Vescovi, è anche un impegno per ciascuno di voi ad essere strumenti di comunione. [Privilegia il termine "Sinodo" in luogo di "Collegio"] (*)
Per comprendere questa enfasi sulla collegialità - trasformata addirittura in sinodalità - dobbiamo partire dai documenti conciliari, nei quali è facile trovare anche solo spigolando, disseminati a volte in maniera apparentemente 'casuale', elementi dissonanti e non condivisibili perché in rottura con la Tradizione; rottura a volte palese, a volte in nuce e riconoscibile solo dagli effetti che ora sono sotto i nostri occhi. Rottura che spesso contrasta con le affermazioni di principio iniziali, che risultano vanificate dalle eccezioni che, nella successiva applicazione operata dai solerti conciliari all'opera nella Chiesa ai più alti livelli, sono diventate la regola.

Prima di riportare di seguito, nei "Prodromi", uno stralcio della riflessione che ho già fatto sulla collegialità, legandone le insidie a quelle della cosiddetta chiesa-comunione, riepilogo brevemente gli atti che ne mostrano la graduale ma sempre più incisiva applicazione, della quale oggi assistiamo ad una pietra miliare dagli effetti certamente dirompenti: sembra un'accelerazione della costituzione di una Chiesa "altra" da quella che la Tradizione bimillenaria ci ha consegnato.
  1. 21 novembre 1964: nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, la collegialità è introdotta al n.22. Nel documento il termine "collegio" ricorre 28 volte, quello collegialità 1; nel Vangelo nessuna. La famosa Nota Explicativa praevia - redatta su indicazione del card. Ottaviani nell'intento di correggere le incongruenze che erano state prontamente rilevate - è stata regolarmente ignorata e dunque disattesa.

  2. Paolo VI depone la Tiara. Vi rimando dai link a questo documento ed a questo successivo nei quali la lettura dei fatti, che ora sembrano aver raggiunto un nuovo culmine, andava dipanandosi.

    Ne stralcio qui: La Tiara o Triregno, indossata dai Papi al momento dell'incoronazione fin quando non fu deposta da Paolo VI, reca tre corone a significare le tre potestà: coelestium, terrestrium, et infernorum. Veniva imposta dal proto-diacono, proferendo a voce alta e vibrata le famose parole: Accipe Tiaram tribus coronis ornatam, et scias Te esse Patrem Principum et Regum, Rectorem Orbis, in terra Vicarium Salvatoris N. J. C. cui est honor et gloria in saecula saeculorum (Ricevi la Tiara ornata di tre corone, e sappi che Tu sei Padre dei Principi e dei Re, Reggitore del mondo, Vicario in terra del Salvator Nostro Gesù Cristo, cui è onore e gloria nei secoli dei secoli). Detta alle origini semplicemente Regno, risulta consegnata da Costantino a Papa Silvestro, a significare la signoria della Chiesa alla fine delle persecuzioni cui erano stati fino allora sottoposti i cristiani. La seconda corona fu aggiunta da Bonifacio VIII e la terza da Benedetto XII.
    La deposizione della Tiara da parte di Paolo VI, fu attuata solo nella prassi e mai codificata se non con un cambiamento, sempre di prassi, sancito da Giovanni Paolo II.
    Sono a conoscenza di un dato storico proveniente da una testimonianza dell'allora protodiacono, card. Di Jorio. Quando Paolo VI manifestò l'intenzione di deporre la Tiara, non gli fu possibile farlo con una cerimonia come avrebbe voluto perché i cardinali-diaconi gli dissero: « Noi gliel'abbiamo imposta, noi non gliela leveremo ». E dunque egli entrò in Basilica portandola in mano e andò a deporla sotto l'Altare della Confessione... Ma oggi, di fatto la Tiara non c'è più, se non nei simboli custoditi dalle pietre e dalle vestigia storiche che ci tramandano il respiro di una fede millenaria.

  3. Giovanni Paolo II trasforma la collegialità in legge, inserendola nel nuovo Codice di Diritto Canonico (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983)

  4. Benedetto XVI attua la collegialità in maniera soft, ma efficace, con una certa desistenza dal governo a favore di una maggiore responsabilizzazione dei vescovi. Come atto conclusivo, 'depone' la giurisdizione. [vedi qui] - [e qui] Che senso può avere che non abbia voluto modificare lo stemma?

  5. 13 marzo 2013: Francesco depone tutti i simboli; 13 aprile 2013: "Consiglio della corona"/29 giugno 2013: rende operante la collegialità e apre indiscriminatamente ad eretici e scismatici
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I prodromi

Il 21 novembre 1964, per la chiusura del terzo periodo del Concilio ecumenico, Paolo VI afferma: « la Chiesa non si compone soltanto della sua struttura gerarchica, della sacra liturgia, dei sacramenti, dei suoi organismi » e cita la mistica unione con Cristo; ma poi, secondo una nuova visuale, traccia sostanzialmente il passaggio da una Chiesa, vista come gerarchica, come società perfetta, a una Chiesa vista come comunione di fratelli. Da una Chiesa vista come sempre tesa a difendere i suoi spazi e i suoi diritti, a una Chiesa che vuole essere solo lievito nella pasta. Lievito all’interno delle sue strutture, lievito all’interno delle altre religioni. Da una Chiesa vista come chiusa in se stessa preoccupata della sua conservazione – ma così era realmente? –  a una Chiesa come comunità aperta al mondo, popolo di Dio in cammino. Un principio che gli sembrò doversi esplicare in quanto fin allora implicito nell’ecclesiologia cattolica fu quello della collegialità, divenuto uno dei maggiori criteri di riforma della Chiesa.

Il problema nasce dalla contraddizione tra la democratizzazione che scaturisce da questa nuova visione di Chiesa e la sua costituzione divina. Viene inadeguatamente applicato alla Chiesa il principio che regola le comunità civili, ignorando la differenza tra esse e Chiesa di Cristo: le comunità civili prima si pongono in essere e poi si danno e formano il proprio governo. In ciò esercitano la loro libertà, mentre in esse stesse si fonda originariamente e fontalmente ogni giurisdizione comunicata alle autorità sociali. Al contrario, la Chiesa non si è data da se stessa né ha formato da sé stessa il suo governo, ma è stata fondata in toto da Cristo il cui disegno preesiste all’esistenza stessa dei fedeli. La Chiesa è dunque una società sui generis in cui il capo è anteriore alle membra e l’autorità viene prima della comunità.[1]

Quindi una dottrina che ponga la sua base nel popolo di Dio democraticamente concepito e nel sentimento e nell’opinione del popolo di Dio, è antitetica a quella della Chiesa dove l’autorità non è chiamata ma chiama, e dove tutti i membri sono servi di Cristo, obbligati al precetto divino.

Sui poteri del Pontefice e sul suo rapportarsi alla collegialità dunque molto influisce l’ambiguità della Lumen Gentium  alla quale Paolo VI, messo sull'avviso dai Padri del Coetus Internationalis Patrum, cercò di rimediare con la Nota Praevia stesa sotto la supervisione del Cardinal Ottaviani. E tuttavia tale nota, con molta coerenza progressista posta in calce alla Costituzione, viene sistematicamente "saltata" essendo, appunto, "praevia"...

La Chiesa è per sua natura gerarchica. E il Papa (CIC, can.331), in virtù della sua funzione di Vicario di Cristo, ha nella Chiesa un potere ordinario supremo, pieno, immediato e universale, che può sempre esercitare liberamente. Il potere gli deriva dalla sua funzione e non da una sorta di presidenza del collegio episcopale. Del resto, il can. 1404 recita: Prima Sedes a nemine iudicatur.

La dottrina del Vaticano I e del Vaticano II nella Nota praevia definisce il Papa principio e fondamento dell’unità della Chiesa, giacché è conformandosi a lui che i vescovi si conformano tra di loro. Non è possibile poggino la loro autorità su un principio immediato che sarebbe comune alla loro potestà e a quella papale. Ora con l’istituzione delle Conferenze episcopali e con gli organismi Sinodali la Chiesa è un corpo policentrico a vari livelli nazionali o provincie locali. Conseguenza immediata è un allentamento del vincolo di unità che si manifesta con ingenti dissensi su punti gravissimi.

La nuova ecclesiologia conciliare sancita da Lumen Gentium si armonizza con la “Pastor æternus” circa la giurisdizione universale del Romano Pontefice (n.18), però azzarda un avventuroso allargamento di questa mediante la dottrina della collegialità vescovile come organo di governo accanto e analogo a quello del Sommo Pontefice (nn.19, 22). Nonostante la “Nota esplicativa previa”, mons. Gherardini osserva che « dottrina della Chiesa è quanto la sua Tradizione, dagli Apostoli sino ad oggi, presenta e propone come tale: la collegialità non ne fa parte ».

Lumen Gentium, al n.19 dichiara: « Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio…»

Non mancano perplessità, nelle posizioni più tradizioniste, se si pensa che il termine “collegio” per designare l'episcopato non ricorre né nella Sacra Scrittura né nella Tradizione della Chiesa antica. Apostoli vuol dire ‘mandati’: il Signore li manda due a due non in "collegio"... C’è anche da osservare che il “collegio” si fonda su una potestà giuridica e morale, mentre si diviene vescovi per via sacramentale, ovvero mediante un quid che è nel contempo fisico e mistico come lo è l'unità della Chiesa.

La collegialità, per effetto della creazione di strutture sovra diocesane come le Conferenze Episcopali, rischia di diminuire non solo l'autorità del pontefice ma anche quella dei singoli vescovi nelle loro diocesi. Inoltre non è peregrina l'osservazione che se i vescovi, per diritto divino, costituiscono un vero e permanente collegio in senso stretto, con a capo il romano pontefice, ne deriva come prima e non unica conseguenza che la chiesa in modo abituale dovrebbe essere governata dal Papa con il collegio episcopale. In altre parole, il governo della Chiesa, per diritto divino, non sarebbe monarchico e personale, ma collegiale. È Giovanni Paolo II che ha inserito la collegialità nel nuovo Codice di Diritto Canonico trasformandola così in legge (Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983).

In effetti si manifesta una duplice inconciliabilità nel principio del rapporto tra Primato e collegialità. Basti pensare alla tesi dell’unico soggetto (collegio dei vescovi e romano pontefice) e i dati del magistero che, pur senza posizioni dichiarative parlano di due distinti soggetti (LG 22). All’interno stesso di questa suddivisione, la stessa inconciliabilità si coglie tra le esigenze metafisiche dell’autorità nella vita sociale e la realtà ecclesiale compresa alla luce della rivelazione cristiana.

Lumen Gentium, al n. 22 evidenzia una tensione che, ultimamente, manifesta la difficoltà di « collocare all'interno di una concezione collegiale  del ministero episcopale che scaturisce da un'ampia prospettiva storico-salvifica della Chiesa come communio la dottrina del Vaticano I, la quale si distingue per una visione della Chiesa apologetica, giuridica  e astorica ed inoltre concentrata sul Papa »[2].

La Chiesa in tutte le epoche risente di -ismi di vario genere, dai quali la sua, che è anche la nostra, storia terrena non è mai esente. Ma assolutizzare certi aspetti per giustificare la rivoluzione Copernicana operata dal concilio è stata un’operazione prevenuta e ideologica. Di certo era necessario aggiornare ciò che era rinnovabile e meglio organizzabile, non rifondare la Chiesa.

Si pretende dunque che la visione Chiesa-comunione sia la scoperta del Vaticano II e vada a sostituirsi a quella di società perfetta ed oggi appare dominante come se più vicina alle assonanze bibliche  specificamente neotestamentarie, come se potesse finalmente sintetizzare alla perfezione tutto il rapporto con Dio fino al concilio non esattamente compreso. Ma il rischio più grande è quello di ricondurre tutto ad un'interpretazione puramente psico-sociologica, ai bisogni e alle attese umane. Acquista valore la Chiesa locale, come se l’universalità della Chiesa e tutto il suo mistero prima del concilio non le appartenesse a pieno titolo.

Possibile che nessuno abbia mai detto a costoro che la Chiesa, fin dal suo nascere ad opera del Salvatore, se non fosse stata e rimasta “comunione” dei Suoi in Lui, non sarebbe mai stata LA Chiesa?
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1. Romano Amerio. Iota unum, Lindau 2009, 470
2. H. Rikhof, Il vaticano II e la "collegialità episcopale", 26

(*) Nota Magister sul suo Blog Settimo cielo: " ...Non è la prima volta che papa Jorge Mario Bergoglio fa capire d’essere intenzionato a rafforzare il ruolo del sinodo dei vescovi.
Ma questa volta si è espresso oralmente in una forma che – se messa per iscritto in anticipo – avrebbe fatto alzare il sopracciglio a qualche revisore della congregazione per la dottrina della fede. Perché un sinodo dei vescovi, istituto parziale e transeunte, non è la stessa cosa del collegio episcopale universale, costitutivo da sempre e per sempre della struttura della Chiesa". [...]

sabato 29 giugno 2013

La discontinuità: cioè la devirilizzazione della Liturgia e del sacerdozio nel Novus Ordo Missae

Stavo traducendo il testo che segue, ripreso da Rorate Caeli in quanto interessantissimo; ma mi sono appena accorta che ha già fatto un grande lavoro Esistenzialmente periferico. E dunque ne approfitto e lo pubblico anche qui, con molta gratitudine, con alcune integrazioni iniziali:

1. C'è un grande articolo di don Richard G. Cipolla sulla "devirilizzazione" della liturgia Novus Ordo: che non ho il tempo di tradurre, ma di cui prendo appunti qui sotto.

Ciò a cui il cardinale si riferiva risiede nel nucleo stesso della forma Novus Ordo della Messa romana e nei scottanti e profondi problemi che hanno afflitto la Chiesa a partire dall'imposizione del Novus Ordo Missae nel 1970. Si potrebbe essere tentati di cristallizzare la constatazione del card Heenan come femminilizzazione della liturgia. Ma questo termine sarebbe inadeguato e alla fine ingannevole dato che esiste un aspetto mariano autentico della Liturgia che è senza dubbio femminile. La liturgia porta la Parola di Dio, la liturgia offre il Corpo della Parola all'Adorazione e lo dà come Cibo.

venerdì 28 giugno 2013

Una Chiesa lacerata

Questo è quanto ho scritto sul Blog di Raffaella che riporta la lettura veramente dura e di totale chiusura di Cantuale Antonianum della Dichiarazione della FSSPX, redatta in occasione del 25° anniversario delle ordinazioni da parte di Mons. Lefebvre. Mi verrebbe da confutare punto per punto la stroncatura di Cantuale; ma, credetemi, in questo momento prevale l'estenuazione per la totale inutilità delle parole spese finora e da nessuno ascoltate e la sofferenza per questa dicotomia che rischia di divenire, Dio non voglia, incolmabile. E dunque, anche qui, mi limito a queste poche righe essenziali, perché la vicenda e la situazione è quanto mai dolorosa e anche pregiudizievole per la Tradizione e per la Chiesa tutta. Penso che non ci resti che la preghiera e l'attesa. Da rilevare, che dai comunicati sia della Fraternità che della S. Sede la questione non è stata considerata comunque chiusa.
Io non aderisco alla FSSPX, ma amo la Tradizione "evolutiva"(1), che è "viva" - oltretutto non preconciliare soltanto, ma con tutti gli ineludibili 'distinguo' - e non "vivente" in senso storicistico : cioè mutevole secondo i tempi; cosa che Cantuale non coglie affatto nella sua 'lettura' preconcetta della dolorosa vicenda.
Oltretutto, chi ha seguito da vicino l'evolversi della situazione, conosce che non c'è stato nessuno "schiaffo" al Papa, ma che la regolarizzazione canonica è mancata all'ultimo minuto, proprio il giorno della firma, per una inattesa stretta di freni del Card. Levada (leggi Curia ostica tanto nei confronti della FSSPX quanto di Benedetto) che ha posto un nuova inedita condizione inaccettabile. 
A me spiace che la Fraternità non abbia potuto cogliere quella opportunità perché oggi il fossato sembra ancora più grande, soprattutto se si leggono le varie sottolineature di Cantuale che si capisce come colgano le sfumature più ostiche e da un punto di vista davvero preconcetto.
Soffro, come tanti, soprattutto per la dicotomia che si è creata nella Chiesa anche e purtroppo a prescindere dalla FSSPX e non mi resta che la preghiera e una fiduciosa (nel Signore) attesa.
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1. "Evolutiva", nel senso di autentico aggiornamento, che riguarda le contingenze e non certo le essenze. Mons. Gherardini parla, più propriamente, di sana “ermeneutica teologica evolutiva”.

L'episodio evangelico dell'incontro tra Cristo e la samaritana dall'esegesi antica alle letture moderne e contemporanee

Questo articolo è dedicato a Rocco. Lui sa il perché. Ma gli prometto che non è che me la cavo così.

Colei che fu creduta
di Lucetta Scaraffia

L'incontro di Gesù con la samaritana (Giovanni, 4, 5-42) è senza dubbio uno degli episodi più significativi dei vangeli per la ricca presenza di elementi simbolici: dal pozzo di Giacobbe, che rappresenta l'Antico Testamento, al simbolismo dell'acqua e alla definizione di fede come adorazione del Padre “in spirito e verità”. Proprio per questo i grandi commentatori della tradizione, nelle loro fini speculazioni esegetiche su questi elementi, hanno tralasciato la riflessione sulla grandezza del messaggio d'amore contenuto nell'episodio, soprattutto per il fatto che la samaritana era una donna, e per di più una donna che non apparteneva al popolo ebraico. E che quindi Gesù, offrendo questi preziosi insegnamenti proprio a lei, segnalava un nuovo ruolo per le donne.

Ma il fatto che si trattasse proprio di una donna non sembrava degno di interesse. Al massimo, sulle orme di Agostino, i commentatori si spingono a considerarla figura della Chiesa, così come egli ha scritto: «È significativo il fatto che questa donna, che rappresentava la Chiesa, provenisse da un popolo straniero per i giudei: la Chiesa infatti sarebbe sorta dai gentili, che per i giudei erano stranieri». E ancora: «Ella infatti era una figura, non la verità: prefigurava la verità che lei stessa diventò; poiché credette in colui che voleva farne la figura di noi».

25° anniversario delle Consacrazioni Episcopali (30 giugno 1988 – 27 giugno 2013)

Fonte DICI - Dichiarazione nella ricorrenza del 25° anniversario delle Consacrazioni Episcopali (30 giugno 1988 – 27 giugno 2013)

1- Nella ricorrenza del 25° anniversario delle Consacrazioni Episcopali, i vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X intendono esprimere solennemente la loro gratitudine a Mons. Marcel Lefebvre e a Mons. Antonio De Castro Mayer per l’atto eroico che hanno avuto il coraggio di porre, il 30 giugno 1988. In particolare vogliono manifestare la loro filiale riconoscenza verso il venerato fondatore il quale, dopo tanti anni al servizio della Chiesa e del Sommo Pontefice, non ha esitato a subire l’ingiusta accusa di disobbedienza per la difesa della fede e del sacerdozio cattolico.

2- Nella lettera che ci indirizzò prima delle consacrazioni, scriveva: “Vi scongiuro di rimanere attaccati alla sede di Pietro, alla Chiesa romana, madre e maestra di tutte le Chiese, nella fede cattolica integrale, espressa nei simboli della fede, nel Catechismo del Concilio di Trento, conformemente a quanto vi è stato insegnato in seminario. Rimanete fedeli nel trasmettere questa fede perché venga il regno di Nostro Signore.” È proprio questa frase che esprime le ragioni profonde dell’atto che si accingeva a compiere. “Perché venga il regno di Nostro Signore”, Adveniat regnum tuum.

giovedì 27 giugno 2013

Card. Malcolm Ranjith. La Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa

La Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa
del Card. Malcolm Ranjith

"La Liturgia è più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente"

Intervento tenuto dal Cardinale Malcolm Ranjith al Convegno "Sacra Liturgia 2013, culmen et fons vitæ et missionis ecclesiæ" a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, il 25 giugno 2013.

Miei cari amici,

Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale 'Sacramentum Caritatis' (22 febbraio 2007) così parla della Liturgia: “Nella Liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione ... modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore” (Sacramentum Caritatis, n.35), mostrandoci la vera natura della vita liturgica cristiana che egli chiama “veritatis splendor” e “l’affacciarsi del Cielo sulla Terra” (Sacramentum Caritatis, n.35).

La bellezza della Liturgia, quindi, risiede non primariamente in ciò che facciamo noi o quanto interessante e soddisfacente essa sia per noi, bensì in quanto veniamo attratti intimamente in qualcosa di profondamente divino e liberante. La Liturgia è allora più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente. È la vittoria pasquale di Cristo celebrata nel cielo e sulla terra. A questo punto, farei un excursus biblico per mostrare quanto la missione della Chiesa, continuazione di quella di Israele, è intimamente legata alla celebrazione della sua Liturgia.

Sacra Liturgia (25-28 giugno 2013) - Discorso introduttivo di Mons.Dominique Rey

Sono costretta a tradurre dal francese, perché il sito dedicato alla Conferenza è evidentemente più che altro una 'vetrina', dal momento che bisogna ricorrere ad altre fonti per trovare questo testo e degli altri non ho trovato ancora alcuna traccia. Unica felice eccezione, appena scoperta è la relazione del cardinale Ranjith, certamente secondo le attese una delle più significative, che pubblico subito dopo questa.

Mi chiedo se la posizione di "Roma" è quella sostanzialmente espressa da Mons. Rey. Cioè, il NO non è più criticabile? Se così fosse, non è che il perpetuarsi della 'strana' contraddizione, riconoscibile nei diversi atteggiamenti di Benedetto XVI: da un lato la critica in molti suoi scritti della distruzione del "vecchio edificio" e della sua sostituzione con uno nuovo "fabbricato a tavolino", nella consapevolezza che la liturgia richiede uno sviluppo organico e nel conseguente intento di ritrovare la sacralità e l'Orientamento al Signore perduti; tant'è che ha restituito legittimità all'antico Rito definito "mai abrogato" e propugnato la necessità della « riforma della riforma ». Questa oggi, a quanto pare, viene presa in mano da biritualisti non chiaramente qualificabili come rispettosi della tradizione autentica. Dall'altro lato Benedetto XVI chiedeva tuttavia, nella lettera di accompagnamento del Summorum pontificum, indirizzata ai vescovi, « il riconoscimento del valore e della santità » del nuovo rito, che non aveva esitato a criticare egli stesso e che ha continuato a celebrare in esclusiva, sia pure con alcuni correttivi.

Dunque nulla sembra cambiato, nulla accenna a cambiare in questa deprecabile e deleteria dicotomia, che non può generare che confusione e disorientamento. Per avere le idee più chiare, occorrerà conoscere ed esaminare i pensieri espressi da tutti gli altri relatori. Speriamo che il compito ci sia facilitato dalla loro diffusione anche in italiano.

Sacra Liturgia (25-28 giugno 2013)
Discorso introduttivo di Mons.Dominique Rey - 25 giugno 2013

Signori cardinali,
Signori,
Cari amici,

È per me una grande gioia accogliervi in questa Pontificia Università della Santa Croce per Sacra Liturgia 2013. Più di 35 paesi sono qui rappresentati. Un benvenuto a tutti !

In realtà il  nostro lavoro è già cominciato con la solenne celebrazione dei Vespri nella Basilica di Sant'Apollinare. L'abbiamo fatto a ragion veduta, perché prima di dibattere sulla santa liturgia,  dobbiamo immergerci nella vita liturgica della Chiesa. La realtà della liturgia nella quale siamo introdotti nel momento del nostro battesimo, precede ogni studio della liturgia. Essere liturgico viene dopo, parlare di liturgia è successivo.

E tuttavia è importante parlare e studiare la liturgia! Qui, nell'aula magna, ascolteremo numerosi esperti e responsabili in questo campo. Sono particolarmente riconoscente nei confronti delle loro Eminenze i cardinali Ranjith et Burke, e verso i miei fratelli vescovi, che dedicano il loro tempo ad ammestrarci. Tengo anche a ringraziare i cardinali Cañizares e Brandmüller che celebreranno la messa e predicheranno per noi. Ringrazio tutti i nostri relatori, in particolare coloro che sono venuti da molto lontano per comunicarci il loro sapere e la loro acutezza di pensiero.

Fatica, tradizione, redenzione. Redimere tempus.

Non è un testo confessionale. Ma ha il respiro della verità. E coglie aspetti e derive della realtà della nostra civiltà Occidentale che hanno le loro ripercussioni (o forse anche la loro origine) nella realtà ecclesiale. Lo riprendo perché alimenta la nostra riflessione e rivela molte ragioni del nostro impegno e della nostra 'fatica' - ma Il mio giogo è soave, il mio peso leggero, dice il Signore (Mt 11,29-30) - in questo percorso di ricerca approfondimento, assimilazione, condivisione dei tesori della nostra Fede che la Chiesa custodisce e dispensa in una vena aurea inesauribile che ha attraversato due millenni di storia appassionante e sofferta. Condivisione che diventa trasmissione => tradere =>Tradizione. Oltretutto serve a riconoscere e a non lasciarsi condizionare da quegli ormai anche autorevoli flatus vocis che - nel disprezzo della teologia, della cultura, dell'amore per la Bellezza finalizzati Ad Maiorem Dei Gloriam che coincide con l'autentica maturazione e pienezza in umanità secondo il disegno di Dio - forse neppure si accorgono di fare della improvvisazione, del sentimentalismo e della superficialità i vessilli della nostra epoca.

«La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare;
chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica
(T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale del 1917)

Fatica. Torno a scrivere dopo mesi, per riflettere su un elemento dell’educazione, la fatica.

Potrei parlare della fatica di educare, di seguire e far crescere, di crescere noi stessi genitori insieme ai nostri figli, la fatica di essere vigili, di alzarsi di notte, seguire di giorno, rispondere sempre, dare possibilità, creare spazi, stimoli, interessi. La fatica di conciliare vite a volte esigenti, impegni lavorativi, con i bisogni di giovani umani bisognosi di ogni cosa.

Ma questa è una fatica che sta sotto gli occhi di tutti, a volte idolatrata, a volte scansata, certamente una parte nota e visibile del ruolo di genitori ed educatori.

mercoledì 26 giugno 2013

Sembra che il papa abbia bisogno di riflettere, attraverso i suoi consiglieri, sui problemi della famiglia

Scrive un nostro lettore: Siccome ogni giorno ha la sua pena, leggo oggi un intervento di Tornielli su Vatican Insider relativo al gruppo degli otto cardinali. Ad un certo punto Tornielli scrive:
"Ma gli otto cardinali guarderanno oltre alla Curia e alla sua pur necessaria riforma. Metteranno infatti anche a fuoco proposte riguardanti più in generale la vita della Chiesa, seguendo le indicazioni di Francesco. Se si rileggono con attenzione alcuni dei più recenti interventi del Papa, si possono trovare alcuni di questi temi. Ricevendo i membri della segreteria del Sinodo, Bergoglio ha ad esempio posto l'accento sulla necessità di riflettere sui problemi della famiglia, sul fatto che oggi tante persone non si sposano, convivono e il matrimonio diventa «provvisorio».
Cosa vorrà dire ciò? Che si dovrà rafforzare l'azione a difesa del matrimonio o che invece la Chiesa si deve "aprire" anche verso altre forme di convivenza??

In ogni caso questo dato sembra riguardare soltanto la 'pastorale familiare' intra-ecclesiale e non i grandi temi che stanno attraversando le società e i popoli e aggiungo. Forse la dottrina millenaria e il Magistero di molti suoi predecessori non hanno già sufficienti e precise, inalienabili indicazioni al riguardo? Su cosa c'è ancora bisogno di "riflettere"? Certo, i problemi assumono aspetti sempre mutevoli e incalzanti. Ora hanno raggiunto il livello di guardia anche sotto l'aspetto antropologico, oltre che spirituale (e di certo i due ambiti non sono slegati); ma la soluzione è una sola e la Chiesa la custodisce e dovrebbe dispensarla ab intra e ad extra, Urbi et Orbi e senza indugi. Ed è una sfida storica, oltre che metafisica.

Aggiungo ancora che il Papa ha detto, tra l'altro, ai vescovi italiani (ma ovviamente l'indicazione non vale solo per loro) : “Voi avete tanti compiti. Primo, la Chiesa in Italia, il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche. È un compito vostro!". L'indicazione resta valida per ogni Conferenza Episcopale e per ogni vescovo in ambito locale; ma l'azione dei vescovi è appunto limitata alle rispettive giurisdizioni. E dunque, le direttive di massima, l'azione concertata della Chiesa, deve provenire dal Papa, e non può mancare, soprattutto sulle questioni su cui si sta dibattendo oggi, persino in un regime di "collegialità". E, poi, non dimentichiamo che il papa, ai vescovi, ricorda il dialogo; ma lui non deve dialogare deve insegnare: deve esercitare il munus docendi magisteriale che gli appartiene. E ciò (oltre al dialogo) vale anche per i vescovi, in comunione con il Papa, ma non a scapito del primato, che appartiene al Successore di Pietro.

Il cardinal Burke a Seregno: sul Catechismo di San Pio X e Omelia

Lezione del Cardinale Raymond Leo Burke
al Circolo "J.H. Newman" di Seregno
La sua Omelia alla Santa Messa tridentina

S. Em.za il Card. Burke sul Catechismo di San Pio X
di Cristina Siccardi
Il card. Burke celebra il Sabato sitientes
a S.Nicola in Carcere - aprile 2011
«San Pio X ha visto chiaramente come l’ignoranza religiosa portava non soltanto le singole anime ma anche la società stessa ad un declino, ad una mancanza di pensiero ponderato sulle più gravi questioni», così ha spiegato il Cardinale Raymond Leo Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, al convegno sul tema Il catechismo di San Pio X nel centenario della pubblicazione, organizzato dal Circolo Culturale John Henry Newman, lo scorso 24 maggio a Seregno (MB).

Nella sua straordinaria e illuminante lezione, introdotta dal Presidente del Circolo, Andrea Sandri, il Cardinale Burke ha affermato che san Pio X (1835-1914): «identifica l’ignoranza della dottrina cristiana quale la causa primaria del declino della fede e perciò indica che la sana catechesi è d’importanza primaria nella restaurazione della fede. Non è difficile percepire quanto attuali siano le osservazioni e le conclusioni di san Pio X. Esse sono veramente rinvenibili nei motivi che hanno condotto Papa Benedetto XVI ad indire l’Anno della Fede».

martedì 25 giugno 2013

Ancor più dell'intercomunione? Verremo messi di fronte a fatti compiuti e nessuno dirà nulla?

Zurigo, 25 giugno 2013 (Apic) - Sabato 29 giugno [un tempo grande solennità in San Pietro!] il Padre Cappuccino Willi Anderau  e il gesuita Josef Bruhin celebreranno con due pastori e un pope ortodosso una eucaristia ecumenica (!?) nella Cappella dei Lazzaristi di Gfenn, nei pressi di Düdendorf (ZH). Secondo il diritto canonico, non è ammessa la celebrazione comune dell'eucaristia da parte di ministri di confessioni diverse. 

Don Ariel Levi di Gualdo sui primi 100 giorni di Papa Francesco

Don Ariel S. Levi di Gualdo interpreta “l’enigma” di Papa Francesco alla luce della fiaba del “pifferaio magico”.  
Don Ariel come interpreta i primi cento giorni di questo pontificato?
Per il momento vedo solo un Sommo Pontefice che ha conquistato la simpatia del popolo da un estremo all’altro della terra, inclusi molti di coloro che non conoscono neppure le prime cinque parole del Padre Nostro ma che affollano come mai accaduto prima la Piazza di San Pietro. Speriamo che questa sia l’occasione propizia per essere penetrati dalla grazia di Dio, imparando non solo le prime cinque, ma tutte le parole della preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato.

Sotto il precedente pontificato la stampa internazionale parlava ogni giorno di tutti i peggiori mali della Chiesa, veri o presunti. Poi, improvvisamente, dopo il conclave del marzo 2013, pare sia cominciata una dolce luna di miele. Tutti i maggiori problemi sembrano essere scomparsi, o almeno non se ne parla più. Dal momento che questa luna di miele non è ancora finita, sebbene siano già trascorsi i primi cento giorni, non si può fare un’analisi, perché non ne abbiamo elementi, pertanto bisogna attendere ancora.

lunedì 24 giugno 2013

Ennesima prostrazione davanti ai "Fratelli maggiori"

Veniamo subito al dunque. Oggi in Vaticano: 
“Un cristiano non può essere antisemita!”: è la frase forte pronunciata da Papa Francesco nel corso dell’udienza in Vaticano ai membri del “Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose” (International Jewish Committee on Interreligious Consultations). Nel suo discorso, il Pontefice ha evidenziato la lunga relazione di amicizia tra cristiani ed ebrei ed ha incoraggiato a proseguire sulla strada intrapresa. 
Il testo integrale potete leggerlo sul sito di  Radio Vaticana che, per l'occasione, potremmo rinominare Radio-Gerusalemme, condito com'è dei soliti refrain che tuttavia non ci stanchiamo di riportare e di controbattere:
  1. il punto di riferimento centrale nella Dichiarazione conciliare Nostra Aetate [invito a leggere la magistrale trattazione di Mons. Gherardini]
  2. il Concilio ricorda l’insegnamento di San Paolo, secondo cui 'i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili'
    [Il card. Ratzinger - nel tentativo di dare un fondamento più consistente alla teoria di Giovanni Paolo II dell’«Antica Alleanza mai revocata» (Magonza, 1981) - a suo tempo tirò fuori una sottigliezza particolare, affermando: « Quindi il Patto o il Testamento stipulato da Dio con Mosè (1330 a. C.) è transitorio e non eterno, mentre l’Alleanza stipulata con Abramo (1900 a. C.) è permanente ed eterna! Perciò l’Antica Alleanza con Abramo sussiste ancora, non è mai cessata ». (J Ratzinger, in "Molte religioni un'unica alleanza", Ed. San Paolo 2007)
    Secondo questa visuale, poiché berìt, reso con Alleanza in latino, significa solo volontà divina e non comporta la corrispondenza umana, Dio ha mantenuto l’Alleanza con Israele, anche se questo è stato infedele. Perciò l’Antica Alleanza con Abramo sussiste ancora, non è mai cessata, e dunque gli ebrei, come discendenti di Abramo sarebbero ancora titolari di quell'Alleanza irrevocabile. In più, se San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi «pone in netta antitesi l’Alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè», le cose vanno diversamente tra Abramo e Cristo. Infatti, «nel nono capitolo della lettera ai Romani» San Paolo utilizza non più il termine Patto o Testamento, ma Alleanza al plurale e «l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’arcobaleno, la circoncisione». E tuttavia, Ebrei 13,20 parla dell'Alleanza eterna. A prescindere dal fatto che l'appartenenza a Cristo non è più secondo la carne in base ad un'alleanza etnica (il famoso trinomio Dio-popolo-terra) ma teologale (Gv Prologo, 12-14), i Padri affermavano che Abramo «fu giustificato perché ha creduto nel Cristo venturo».
    Del resto la spiegazione è data in maniera limpida nel brano del Vangelo, dove Gesù stesso dice espressamente: «Abramo esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò», (Gv, 8, 56) suggellando perfino il discorso con l'affermazione «Prima che Abramo fosse, Io sono". (Gv 8,58) ed è superfluo sottolineare la valenza dirompente di quell'«Io sono»!
    Dunque, se l'Alleanza Nuova ed Eterna è in Cristo che è Dio, a che pro star lì a tirar fuori sottigliezze di tipo rabbinico?
    L'universalità della missione dell'Antica Alleanza è stata assorbita nella cattolicità dell'Alleanza Nuova ed Eterna sancita nel Sangue di Cristo. Il termine sostituzione, dà molto fastidio ed è per questo che è stato espunto dal lessico ecclesiale; ma ne esiste un altro per indicare questa realtà così com'è?]
  3. il ricordo dell'esperienza come arcivescovo di Buenos Aires con confronti, dialoghi con gli ebrei sulla “rispettiva identità religiosa”, sulle “modalità per tenere vivo il senso di Dio in un mondo per molti tratti secolarizzato”
    [Come se la SS. Trinità rivelata e presente in Gesù Signore non facesse la differenza!]
  4. la ferma ovvia condanna degli odi, delle persecuzioni, e di tutte le manifestazioni di antisemitismo. [Come se i cristiani ne fossero immuni e gli ebrei ne avessero l'esclusiva] Con la motivazione "Per le nostre radici comuni, un cristiano non può essere antisemita!"
    [Un cristiano non può essere antisemita, nel senso di 'razzista', perché cristiano, non per le radici comuni, visto che c'è chi è stato innestato nell'Olivo buono e chi ha deviato dalla 'Radice', come detto sopra e vedi anche nota 2). E questa è storia ed è anche Vangelo e teologia.(1)
    Non dimentichiamo poi anche che la Shoah - che è sempre in sottofondo ad ogni rivendicazione ebraica - è un fatto storico, che non può assurgere a 'luogo teologico', tanto da condizionare l'appartenenza alla Chiesa di chi eventualmente, senza sminuirne l'orrore, rifiuta di accettarne una sorta di dogmaticità.
    ]
  5. Si cita il profeta Geremia: 'Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza' (Ger 29,11)”. 
    [Come se la Pace vera non fosse già venuta con Cristo («vi lascio la pace, vi dò la mia pace...» Gv 14,27-31a) e come se in pienezza non sussistesse solo in Lui! Noi la chiediamo a Cristo Signore e la troviamo in e da Lui, mentre gli ebrei la chiedono ad un messia sconosciuto e « altro » da Lui... Se si ignora o tralascia questo si fa un discorso monco e dunque non veritiero.]
Siamo alle solite. Si confonde l'antisemitismo(2) con l'antigiudaismo evangelico, che non è un essere-contro. È un'altra cosa. È un puro e semplice nonché autentico prendere atto di una differenza accompagnato dal coraggio di avere la schiena dritta di affermarla. E non è una differenza da nulla: consiste nell'accogliere o non accogliere il Signore Gesù il Figlio di Dio, il Verbo Incarnato, il Messia già venuto. Non abbiamo da aspettare insieme nessun messia venturo. L'appartenenza etnica basata sul trinomio Dio-terra-popolo è diventata teologale nel Signore morto e risorto per noi. Abbiamo in comune le radici della Torah autentica, che il Signore ha portato a compimento e dunque ha oltrepassato in un nuovo orizzonte; ma l'ebraismo rabbinico-talmudico e il cristianesimo non sono nemmeno due rami diversi della stessa pianta, come ama dire Rav. Di Segni. L'ebraismo talmudico, è una germinazione 'spuria', mentre il cristianesimo è il virgulto nuovo nato dalla radice di Jesse. Oggi, invece, assistiamo all'ennesima rappresentazione della prosternazione della Chiesa alla Sinagoga.

Possiamo tutt'al più e realisticamente condividere in termini di civiltà e ragionevolezza - che ai cristiani appartengono a pieno titolo - un comune impegno a livello culturale, civico e politico per l'affermazione di valori a rischio, compresi quelli non negoziabili, qualora condivisi; ma le fedi e le radici, per favore non le confondiamo. Altrimenti abbiamo tutto il diritto di sospettare che il vero obiettivo sia il livellamento di tutte le fedi nel Nuovo Ordine Mondiale, verso cui da più fronti e versanti sembreremmo inesorabilmente - e chi l'ha detto e perché poi? - incamminati.

È dannoso diffondere equivoche possibilità su diversi tipi di integrazione (quali poi?), altrimenti si produce solo omologazione e perdita di identità da parte nostra; il che equivale a rinnegare Chi il Signore è e ciò che Egli ha fatto e opera per noi fino alla fine dei tempi. Il problema è che l'affermazione della differenza, che non esclude il rispetto e che dovrebbe essere ovvia per chiunque, viene arbitrariamente e strumentalmente etichettata come istigazione all'odio.

Ci troviamo persino di fronte a un documento della Pontificia Commissione Biblica intitolato “Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana” (2001), che suggerisce che l’attesa messianica ebraica non è vana.
[...]Ma la constatazione di una discontinuità tra l'uno e l'altro Testamento e di un superamento delle prospettive antiche non deve portare a una spiritualizzazione unilaterale. Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i cieli nuovi e la terra nuova. L'attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell'attesa. La differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi.[...]
È vero che anche noi viviamo nell'attesa; ma si dimentica un elemento non secondario: la nostra attesa è di Colui che è già venuto e siamo pienamente immersi nella dimensione escatologica della nostra fede perché, anche se essa vive il « già e non ancora » di una dinamica cristificante, tutto in Cristo è già compiuto ed Egli, il Primogenito dell'umanità Redenta, siede già alla destra del Padre.

In ogni caso, se dell'affermazione citata possiamo condividere la conclusione attribuendole coordinate esatte (non tanto i tratti di Cristo, quanto Lui in Persona, Vivo e Vero), mi pare decisamente contraddittorio affermare che «l'attesa messianica ebraica non è vana», perché gli ebrei non attendono il Cristo di nuovo venturo nella gloria che noi attendiamo: lo hanno già rifiutato e continuano a rifiutarlo. Dunque, che senso ha un'affermazione del genere? Essa andava molto di moda in un certo ambiente e in quegli anni (all'epoca della nostra aetate) e purtroppo è una moda che sembra consolidarsi e diventare qualcosa di più ; ma cattolicamente, se l'identità cattolica (non di etichetta) ancora esiste, è un'affermazione arbitraria...

Purtroppo non sono inezie, sono macigni ed è per questo che siamo qui; ma non possiamo far altro che denunciare, difendere e pregare.
Non abbiamo il triplice Munus che appartiene ai pastori, molti dei quali se non si sono addormentati, sono orientati in un'altra direzione... Il nostro ruolo è quello dei mozzi in vedetta, delle sentinelle e quel che vediamo vale innanzitutto per noi stessi e poi per coloro a cui lanciamo l'allarme e vogliono raccoglierlo. Il resto è nelle mani del Signore.
La fedeltà del Signore alla Sua Chiesa e alle Sue promesse è l’ultima parola, È la sola certezza che sgombra il campo da ogni pessimismo. E aiuta anche ad accettare talvolta di non capire, perseverando all’ombra delle Sue ali nel calvario della Chiesa.
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1. Sembra che la teologia non sia molto considerata né apprezzata dal nuovo papa, a giudicare da quanto ha detto ai nunzi apostolici : « Nel delicato compito di realizzare l’indagine per le nomine episcopali siate attenti che i candidati siano Pastori vicini alla gente: questo è il primo criterio. Pastori vicini alla gente. « È un gran teologo, una grande testa: che vada all’Università, dove farà tanto bene! Pastori! Ne abbiamo bisogno! Che siano, padri e fratelli, siano miti, pazienti e misericordiosi; che amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita, che non abbiano una psicologia da “Principi” ». [Come se un buon teologo, capace di dare profondità ai suoi insegnamenti, non possa essere anche un buon pastore! Come si fa comunque a scindere la teologia dalla pastoralità: prassi ateoretica come la sua? E con quali strumenti pensa di esercitare il compito di "confermare nella fede"? Sempre più sconcertante].
2. (Già detto, ma giova ripetere) Sgombriamo il campo da ogni equivoco escludendo ogni rapporto tra l'antisemitismo inteso come odio razziale che non si identifica solo con quello nazista e l'antigiudaismo cristiano, che ha carattere esclusivamente religioso e riguarda una contrapposizione teologica sul riconoscimento del Messia nella persona di Gesù e non fomenta alcun odio né disprezzo, segna una semplice differenza identitaria dal punto di vista religioso. Il cristianesimo si innesta sulle stesse radici; ma si sviluppa in un diverso orizzonte escatologico. Quando si parla di giudaismo in riferimento al cristianesimo, bisogna intendere il giudaismo puro, con esclusione di quello spurio, che condanna e maledice i notzrì (cioè i cristiani). Questo ha inizio con l'esilio in Babilonia e sfocia, a partire dall’Assemblea di Yavne dopo la distruzione di Gerusalemme, nel giudaismo talmudico o rabbinico, che si è sviluppato contemporaneamente al cristianesimo in una netta differenziazione reciproca. Il cristianesimo, più che una 'forma' di giudaismo, ne è il compimento, nella Persona di Cristo, nei 'tempi ultimi' e nella Creazione Nuova da Lui inaugurata. E non è pertinente giocare sull'amalgama diffamatorio cristiano= antisemita facendone un miscuglio al passaggio anti-giudaico= anti-semita. In particolare, poi, in riferimento al nazismo, si ignora completamente che, se Hitler giunse al potere in una Germania originariamente cristiana, occorre fare una netta distinzione tra il cristianesimo dei protestanti e il cattolicesimo. Riguardo poi a fenomeni di antisemitismo, perché non fare un opportuno parallelismo tra il comportamento degli attuali fondamentalisti islamici e quello dei protestanti degli anni 30, invece di vedere l'antisemitismo tra i cattolici?

L'emblema di una bianca sedia vuota

Che dire delle parole pubblicate di seguito? Stile, profondità, spessore umano e spirituale e - perché no? - cultura e amore alla Bellezza in tutte le sue manifestazioni, capacità di comunicarlo e darne le ragioni, che porta l'umano a raggiungere la sua pienezza in Cristo Signore. Non è per fare un confronto, che comunque si impone da sé, ma per registrare dei dati. Il più significativo, emergente dall'immagine a lato: un gran senso di vuoto, colmabile soltanto con l'aiuto della preghiera e dalla speranza di non dover continuare a registrare il conformismo dell'anticonformismo che porta solo confusione e disorientamento. Non c'è bisogno di commentare frasi dette o non dette. Non ci interessa. L'episodio ormai è tra quelli messi agli atti di una cronaca incalzante, piena di messaggi, molti in  codice (gran brutto vezzo!), molti fin troppo espliciti. Ma è emblematico di una realtà non più eludibile e dura da documentare e da vivere.
Auxilium christianorum, ora pro nobis!

Così scrive oggi Magister:
Il suo improvviso rifiuto di ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven offerta per l'Anno della fede è il suggello di un inizio di pontificato difficile da decifrare. Il successo mediatico di cui gode ha un motivo e un costo: il suo silenzio sulle questioni politiche cruciali dell'aborto, dell'eutanasia, del matrimonio omosessuale.

Un anno fa, dopo aver ascoltato alla Scala di Milano proprio la Nona Sinfonia di Beethoven, papa Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, aveva così concluso:
Dopo questo concerto molti andranno all’adorazione eucaristica, al Dio che si è messo nelle nostre sofferenze e continua a farlo. Al Dio che soffre con noi e per noi e così ha reso gli uomini e le donne capaci di condividere la sofferenza dell’altro e di trasformarla in amore. Proprio a ciò ci sentiamo chiamati da questo concerto.
Mentre, il 17 ottobre 2009, in occasione di un concerto nell'Aula Paolo VI:
[...] La musica fa parte di tutte le culture e, potremmo dire, accompagna ogni esperienza umana, dal dolore al piacere, dall’odio all’amore, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita. Vediamo come, nel corso dei secoli e dei millenni, la musica è sempre stata utilizzata per dare forma a quello che non si riesce a fare con le parole, perché suscita emozioni altrimenti difficili da comunicare. Non è pertanto un caso se ogni civiltà ha dato importanza e valore alla musica nelle sue varie forme ed espressioni.
La musica, la grande musica, distende lo spirito, suscita sentimenti profondi ed invita quasi naturalmente ad elevare la mente e il cuore a Dio in ogni situazione, sia gioiosa che triste, dell’esistenza umana. La musica può diventare preghiera. Grazie ancora a coloro che hanno organizzato questa bella serata. Tutti, cari amici, vi benedico di cuore. 

domenica 23 giugno 2013

“Bergoglio prepara una Curia collegiale". L'ipotesi del costituzionalista Clementi

Da "Vatican Insider" avevo ripreso e poi accantonato una intervista del costituzionalista Francesco Clementi. La propongo oggi, nonostante sia un testo 'datato' - nel senso che risale a circa un mese fa - ma non per questo superato, dal momento che la questione è in itinere e i suoi tempi ci rimandano ad un primo round nel prossimo mese di ottobre. La visuale, ovviamente, è di matrice "progressista". Tuttavia sembra sia in questa ottica che si muove anche il nuovo papa. Mancano verifiche più sostanziali; ma di quelle formali ce ne sono molte.
Riallacciandomi alla tesi di don Gleize, di cui al precedente articolo: Si può parlare di una « Roma di tendenza neo-modernista », sottolineo questa affermazione, che mi pare non riguardi solo la "riforma delle persone", ma prefiguri : « [una soluzione] considerata pure la forma di governo della Chiesa, cioè l’assetto monarchico, assai rapida, ossia il cambiamento della Curia negli uomini e, forse, pure nella struttura ». Un "assetto monarchico", costitutivo, che sta assumendo aspetti sempre più quello di "governo democratico", il cui primo atto potrebbe essere proprio la nomina del cosiddetto "consiglio della corona", qualifica oltretutto beffarda, quando di corona non c'è rimasto un bel nulla, neppure quella di un principe rinascimentale... Ovvio che si parla di riforma della Curia, ma mi pare che stiamo assistendo anche alla riforma del Papato.

Città del Vaticano - "Con gli otto cardinali del consiglio, Francesco cambierà radicalmente la Curia". Ad ipotizzare a "Vatican Insider" la riforma di papa Bergoglio è il costituzionalista Francesco Clementi, docente di diritto  pubblico comparato all’università di Perugia e firma prestigiosa della rivista Il Mulino

Professore, lei al funzionamento della Santa Sede ha dedicato numerosi saggi. Papa Francesco ha convocato per ottobre il nuovo consiglio degli otto cardinali. È più un "direttorio" o collegio consultivo?
"La scelta del Pontefice evidentemente mira ad un cambiamento che, tuttavia, pare assumere in sé – anche nella fissazione pubblica di un tempo definito – una modalità progressiva, che non può far escludere nulla. Per cui, quello che oggi a me appare consultivo, domani potrebbe solidificarsi dando modo, come sempre è avvenuto nella Chiesa, di cambiare senza rotture, a maggior ragione se l’obiettivo finale è quello di revisionare la Costituzione Apostolica "Pastor Bonus" sulla Curia Romana".

Corpo celeste

Premessa

Certe volte un film non è importante per la sua trama ma per le immagini che mostra. Corpo celeste è uno di questi casi: si può addirittura considerare la sua trama solo un pretesto per esprimere, con molte immagini e poche parole, cose che risulterebbe davvero arduo raccontare.

Corpo celeste lo propongo alla vostra attenzione per ciò che si prova nel vederlo, non per ciò che racconta. Non è un film di intrattenimento, non è una lezioncina con una morale, non è un'apologia, non è la storiella di una ragazzina spaesata alle prese col corso di cresima, ma è un film che fa riflettere per ciò che mostra a poco a poco, minuto dopo minuto (i pochi fotogrammi di questa pagina non rendono l'idea): un cristianesimo incapace di dare ragione di sé e che, al pari del mondo, premia solo la stupidità.

Per me è stato un pugno nello stomaco, per l'agghiacciante somiglianza con gli ambienti parrocchiali e le figure sacerdotali che da qualche decennio frequentiamo io, i miei familiari, i miei amici. I singoli dettagli (come l'assurdo volatile di bronzo sull'ambone, come la croce di tubi al neon, come i cartelloni) faranno esclamare ai catto-ottimisti "sì, bof, ma dai, va bèh": ma quel che invece è impietoso è il quadro d'insieme, dove tutti quei dettagli "insignificanti" e "secondari" si sommano e rendono evidenti le ragioni della nostra preoccupazione sullo stato della Chiesa.

sabato 22 giugno 2013

Don J. Gleize. Si può parlare di una « Roma di tendenza neo-modernista » ?

Si può parlare di una « Roma di tendenza neo-modernista » ?
don Jean-Michel Gleize - Giugno 2013
Il Courrier de Rome n°365 di maggio 2013 pubblica la traduzione francese di un'intervista che don Jean-Michel Gleize ha rilasciato alla rivista del Distretto degli Stati Uniti, The Angelus. Questa intervista permette al professore di ecclesiologia del Seminario San Pio X di Ecône di precisare alcuni punti del suo studio «Si può parlare di una Chiesa conciliare».
[Rinvio alla lettura anche di questo testo]
Recentemente lei ha proposto una spiegazione secondo cui l'espressione « Chiesa conciliare » non significherebbe una istituzione distinta dalla Chiesa Cattolica, ma piuttosto una « tendenza » in seno ad essa. La logica conseguenza di questa teoria sarebbe dunque che il movimento tradizionalista dovrebbe tornare nella struttura ufficiale della Chiesa al fine di combattere, dall'interno, la « tendenza » conciliare e così far trionfare la Tradizione ?

Le chiedo a mia volta : cosa si intende per « struttura ufficiale » ? Logicamente, questa espressione fa la distinzione con una struttura che non sarebbe ufficiale : dov'è questa, secondo lei ? Da parte mia, credo che ci sia la Chiesa e la sua struttura visibile ; e nella struttura della Chiesa, c'è il buono e cattivo spirito, e che questo si sia impadronito degli spiriti dei dirigenti, infiltrandosi col pretesto del governo della gerarchia. Se c'è una struttura ufficiale alla quale noi non apparteniamo e nella quale bisognerebbe tornare, sia che si tratti della Chiesa cattolica e noi siamo scismatici, e in quanto tali fuori dalla Chiesa visibile e vogliamo rimanerlo ; sia che si tratti di una gerarchia visibile altra da quella della Chiesa cattolica e noi siamo la Chiesa cattolica in quando distinta dalla Chiesa conciliare; ma allora dov'è il nostro papa ? Il nostro Papa è il vescovo di Roma e chi è vescovo di Roma secondo noi?

Si sentono spesso le autorità della Fraternità dire che occorre « aiutare la Chiesa cattolica a riappropriarsi della sua tradizione ». Non crede che questo genere di dichiarazioni possa lasciare i fedeli perplessi? Perché la Chiesa Cattolica, senza la sua Tradizione, non potrebbe esistere ; essa non sarebbe più la Chiesa Cattolica.

Se lei pensa che la Chiesa è una persona, la sua domanda ha senso. Ma la Chiesa non è una persona come lei e me ; è una società e dunque le cose non sono così semplici. « Aiutare la Chiesa a riappropriarsi della sua Tradizione » è un'espressione in cui il tutto è preso per la parte, cioè per gli uomini che nella Chiesa sono infettati dal cattivo spirito. Questa immagine retorica è legittima e un uomo di buona volontà non vi si trae in inganno. Nel passato, i papi hanno parlato di « riformare la Chiesa ». Ora, la Chiesa in quanto tale non è da riformare. Dunque, i papi intendevano parlare non della Chiesa in quanto tale ma di alcune persone nella Chiesa. 

Ma lei crede davvero che si possa parlare di « tendenza », per qualificare il modernismo che imperversa nella Chiesa, da quando le idee liberali e massoniche del Vaticano II si trovano per così dire istituzionalizzate da riforme che coprono tutti gli aspetti della vita ecclesiale : Liturgia, Catechismo, Rituale, Bibbia, Tribunali ecclesiastici, Insegnamento superiore, Magistero, e, soprattutto, il Diritto Canonico ?

Dice bene « per così dire »... È la prova (per lo meno inconscia) che qui ancora le cose non sono semplici. Non dimentichi, comunque, che non sono io il primo che parlo di « tendenze » per qualificare la situazione attuale della Chiesa occupata dal modernismo. Ricordi la Dichiarazione del 1974, di cui Mons. Lefebvre ha voluto fare la Charta della Fraternità : Mons. Lefebvre parla esattamente di una « Roma di tendenza neo-modernista, neo-protestante, che si è manifestata chiaramente nel concilio Vaticano II e dopo il Concilio in tutte le riforme che ne sono scaturite ». Mons. Lefebvre non vuol dire che ci sono due Rome o due Chiese diametralmente opposte come lo sarebbero due corpi mistici o due società. Egli intende dire che c'è Roma e la Chiesa, l’unico Corpo mistico di Cristo la cui testa visibile è il Papa, vescovo di Roma e vicario di Cristo. Ma ci sono anche tendenze cattive che si sono introdotte in questa Chiesa, a causa delle false idee che imperversano nello spirito di coloro che detengono il potere a Roma. Argomento ripreso dall'articolo del febbraio scorso del Courrier de Rome. Sì le riforme sono cattive ; ma hanno l'effetto di veicolare tendenze (che restano allo stato di tendenza) nelle cose riformate : dunque queste obbediscono a cattive tendenze che in esse più o meno si incrostano nella vita della Chiesa, senza che si possa dire che sempre e ovunque ci siano nuove istituzioni, completamente estranee alla Chiesa. In tutti gli esempi che lei evoca, si pone l'interrogativo su ciò che uomini di Chiesa hanno realizzato. Ma una cosa è il potere di cui si sono serviti (in maniera molto abusiva) per imporre queste novità, altra cosa è la gerarchia visibile della quale occupano i posti. Le idee liberali e massoniche del Vaticano II sono state istituzionalizzate, ma precisamente, sono idee nuove, che possono lanciare nuove tendenze. Esse non sono un'istituzione come può essere una intera Chiesa distinta.

Senza dubbio, ma queste tendenze non sono cattoliche ! Esse fanno perdere la fede alle persone e le separano dalla Chiesa. Non siamo noi che abbiamo lasciato la Chiesa cattolica, sono loro, anche se sono riusciti a prendere le redini della struttura ufficiale. Dunque ci troviamo di fronte a una struttura, ad una istituzione, diversa della Chiesa cattolica. Se così non fosse, noi ne saremmo membri !

Se seguo fino in fondo la sua logica, devo dunque concludere che la Chiesa conciliare esisterebbe come una setta scismatica, formalmente altra dalla Chiesa cattolica. Quindi: tutti i suoi membri sarebbero almeno materialmente scismatici, ivi compresi tutti coloro che si sono allineati ; essi sarebbero fuori dalla Chiesa ; non si potrebbero loro dare i sacramenti prima che avessero pubblicamente abiurato ; i papi conciliari sarebbero antipapi ; se noi siamo la Chiesa Cattolica, o non abbiamo papa e allora dov'è la nostra visibilità ? Oppure ne abbiamo uno e allora qual è, è il vescovo di Roma ?

Per quanto riguarda il ruolo del papa in tutto questo, bisogna convenire che qui c'è un  mistero, un mistero d'iniquità. 

Senza dubbio, ma il mistero è una verità che oltrepassa la ragione ; che la Chiesa sia abitualmente privata del suo capo è assurdo e contrario alle promesse d'indefettibilità. Una delle ragioni sulle quali si è potuto appoggiare il fondatore della Fraternità San Pio X per rifiutare l'ipotesi sedevacantista era che « la questione della visibilità della Chiesa è troppo necessaria alla sua esistenza perché Dio possa dimenticarla per decenni ; il ragionamento di coloro che affermano l'inesistenza del papa mette la Chiesa in una situazione inestricabile » (Conferenza a Ecône, 5 ottobre 1978). Di fatto, il suo ragionamento equivale più o meno al sedevacantismo. Ciò non è nuovo ; ma è un vecchio errore già condannato dal fondatore della Fraternità San Pio X. Perdoni se la deludo, ma non mi arrischierei mai a voler esser più saggio di Salomone !… I quarant'anni di episcopato di Mons. Lefebvre, questo conta, se non agli occhi degli uomini, per lo meno a quelli di Dio. Mons. Lefebvre è stato un grand'uomo, perché è stato un uomo di Chiesa.

Commento
L’argomentazione logica di don Gleize che s'appoggia sul principio di non-contraddizione, s’inscrive nella linea degli studi apologetici tradizionali. Ci si potrà anche riferire a Iota unum di Romano Amerio, il cui sotto titolo « Storia delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo » rinvia alla Storia delle variazioni delle Chiese protestanti di Bossuet. Ecco due estratti dalla Prefazione dell'opera di Bossuet che permettono di cogliere la pertinenza e l'efficacia di questa argomentazione sempre attuale:

- Sullo studio dei cambiamenti nel credo protestante : « Non è stato fatto alcun cambiamento tra i protestanti che non segni un inconveniente nella loro dottrina e che non ne sia l'effetto inevitabile : le loro variazioni, come quelle degli ariani, dimostrano ciò ch'essi hanno voluto espungere, ciò che hanno voluto aggiungere, ciò che hanno voluto mascherare nel loro credere »

- Perciò in ordine alla visibilità della Chiesa prima della Riforma, i protestanti hanno proposto differenti stati della Chiesa « dicendo che la Chiesa non è sempre stata nello splendore, ma che in ogni tempo ci fosse almeno qualche piccola assemblea nella quale la verità si faceva intendere. Alla fine, quando ci si è resi conto che questa non poteva mostrarsi nella storia né piccola né grande, né oscura né strepitosa del 'credo' protestante, si è presentato molto a proposito il rifugio della Chiesa invisibile ».
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Fonte : The Angelus/Courrier de RomeDICI n°276 del 7 giugno 2013
(Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio)

venerdì 21 giugno 2013

“Fidem servavi”. Prima enciclica scritta da due papi: quello in carica, Francesco e l'emerito, Benedetto XVI

Su Blitz quodidiano di oggi. Ovviamente il documento  - anche se "a quattro mani" e può dirsi scritto da due papi nel senso che Papa Benedetto lo avrebbe terminato del tutto (o quasi) prima dell'abdicazione - non potrà che portare la firma e  dunque l'avallo dal papa regnante.

CITTÀ DEL VATICANO – Sarà la prima enciclica scritta da due papi: Fidem servavi, “Ho conservato la fede”. È l’enciclica che Benedetto XVI aveva quasi finito di completare e che Papa Francesco, con poche aggiunte e correzioni, farà propria. Il papa argentino è entusiasta del lavoro fatto dal suo predecessore, come ha spiegato ai fedeli in pubblica udienza: “Dicono che sia scritta a quattro mani, ma Benedetto me l’ha consegnata. È un documento forte e io scriverò solo che ho ricevuto questo grande lavoro. Spiegherò che lui l’ha fatto e io l’ho portato avanti”.

Fidem servavi dovrebbe essere pubblicata quest’autunno. Scrive Franca Giansoldati sul Messaggero:
“In questo modo Francesco, durante le ferie estive che trascorrerà nella Casa di Santa Marta, avrebbe tutto il tempo per lavorare all’introduzione e valutare se apportarvi o meno aggiunte in calce riguardanti la nuova evangelizzazione. Ratzinger aveva iniziato ad abbozzare l’enciclica nel 2012, riprendendo le 14 catechesi preparate per l’Anno della Fede. A novembre l’aveva già terminata ma invece che pubblicarla decise di chiuderla in un cassetto perché pensava alle dimissioni che avrebbe palesato l’11 febbraio. La scelta di Bergoglio di accogliere in toto il lavoro del precessore indica la volontà di continuare sulla medesima linea dottrinale, come se non vi fosse un prima e un dopo nella grande battaglia della difesa della fede”.
L’enciclica prende il suo titolo da una frase di San Paolo, che, ormai vecchio, cercava di convincere il suo discepolo Timoteo di aver combattuto la giusta battaglia: “Ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.

Il cardinal Dolan ai musulmani: "Non perdete la vostra fede!"

Riprendo la notizia da Rorate Caeli.
Siamo costretti a registrare l'ennesima dichiarazione - ma come definirla se non apostasia? - di un prelato cattolico, che se ben ricordate era uno dei più quotati papabili. Il trito 'dialogo' a tutti i costi, unidirezionale, che oltre a rappresentare una contraddizione, si risolve paradossalmente in un monologo, che genera disprezzo da parte dell'interlocutore e non arriva da nessuna parte.
Ricordo di aver letto che, in una delle frequenti circostanze conviviali come quella in cui è ritratto, egli raccontava - a mo' di barzelletta - che durante una recente udienza Papa Benedetto gli aveva rivolto una frase in latino che, ovviamente, il cardinale non aveva assolutamente capito... Scherziamo: il latino? Sia mai!
Rorate pubblica anche il video, e un link con riferimenti alle citazioni più dirette del Cardinale (il cui portavoce "chiarisce" ancora una volta quello che Sua Eminenza davvero ha inteso).

Il Cardinale Timothy Dolan, Arcivescovo di New York e capo della Conferenza Episcopale Statunitense, questa settimana ha detto a un gruppo di infedeli che non dovrebbero convertirsi alla Chiesa Una, Vera, Cattolica e Apostolica e salvare le loro anime.

In una recente visita ad una moschea, ha detto ai musulmani presenti che la loro situazione era simile a quella di immigrati cattolici 150 anni fa, e che essi si trovano ad affrontare la stessa sfida di "come diventare fedeli, responsabili, patriottici americani  senza perdere la loro fede ".

Sua Eminenza ha continuato dicendo come i musulmani prendono seriamente la loro "fede" nel Dio uno e vero, come fanno i cattolici, perché condividiamo lo stesso Dio [vedi precisazioni al riguardo].

Non posso non ripetere qui la dichiarazione - di tutt'altro segno - di Mons. Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei nei giorni scorsi, in Vaticano :
« Io credo anche che il dialogo con i musulmani ora debba cambiare. Ho una lunga esperienza. Talvolta si utilizzava il Corano, i dati dell’Islam per condurre un dialogo islamo-cristiano. Oggi, essi, si aspettano da noi che presentiamo la nostra fede com'è, senza compromessi, e senza cercare di renderla, diciamo, un po' più compatibile con i loro concetti. Dunque, dire, per me, come cristiano, come credo che Cristo è il Figlio di Dio ! E non utilizzare versetti coranici o parole della tradizione musulmana ».

Discorso di Francesco all'Assemblea delle Opere per l'Aiuto delle Chiese Orientali (ROACO)

Ricordatevi nelle vostre preghiere la Chiesa in Siria,
che ora ha Dio per pastore, invece di me

(Ignazio di Antiochia, ai Romani)
Abbiamo parlato qui della situazione della Chiesa in Medio Oriente e delle dichiarazioni del Patriarca di Babilonia dei Caldei sul dialogo islamo-cristiano. Ieri il Papa, nella Sala del Concistoro ha incontrato, insieme ad alcuni Pastori delle Chiese Orientali i membri delle Agenzie che compongono la ROACO e ha rivolto loro in discorso nel quale, parlando di "grande tribolazione" ha colto la gravità e la drammaticità della situazione dei nostri fratelli in quella terra. Purtroppo a questa situazione non sono estranei i paesi occidentali perché ormai appare chiaro che la strada verso Teheran passa per Damasco. Auxilium christianorum, ora pro nobis!

Cari Amici,

1.Benvenuti, tutti! Vi accolgo con gioia per rendere grazie al Signore, insieme ai fratelli e alle sorelle d’Oriente, qui rappresentati da alcuni loro Pastori e da voi Superiori e Collaboratori della Congregazione per le Chiese Orientali e membri delle Agenzie che compongono la ROACO.
Sono grato a Dio per la fedeltà a Cristo, al Vangelo e alla Chiesa, di cui gli Orientali cattolici hanno dato prova lungo i secoli, affrontando ogni fatica per il nome cristiano, “conservando la fede” (cfr 2 Tm 4,6-8). Sono loro vicino con riconoscenza. Estendo il mio grazie a ciascuno di voi, e alle Chiese di cui siete espressione, per quanto operate a loro favore e ricambio il cordiale saluto che mi ha rivolto il Cardinale Prefetto. Come i miei Predecessori, desidero incoraggiarvi e sostenervi nell’esercizio della carità,che è il solo motivo di vanto per i discepoli di Gesù. Questa carità scaturisce dall’amore di Dio in Cristo: la Croce ne è il vertice, segno luminoso della misericordia e della carità di Dio verso tutti, che è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr Rm 5,5).

La forza tranquilla della Messa Tradizionale

Una recente puntualizzazione di Paix Liturgique by TradiNews (lettera n. 392 del 18 giugno 2013) :

Una sorda inquietudine serpeggia tra gli avversari dichiarati della messa tradizionale : il cambiamento di pontificato sembra non aver cambiato nulla nella sua avanzata.

In Germania, è il cardinal Lehmann, arcivescovo di Colonia che, in margine al Congresso eucaristico nazionale tedesco, ha espresso alla rivista Kölner Stadt-Anzeiger la sua apprensione di fronte alla crescita del numero di messe tradizionali : secondo lui, quest'infatuazione non può spiegarsi che con ragioni elitarie ed estetiche. 

In Francia, è Mons. Pierre Raffin, vescovo di Metz ancora per qualche giorno, che ha preso posizione. Nel corso del colloquio organizzato a Parigi per i 70 anni del Servizio Nazionale di Pastorale Liturgica e Sacramentale (SNPLS), originariamente CPL (Centro di Pastorale Liturgica), ha chiesto « che in occasione dei 50 anni della Sacrosanctum Concilium [la costituzione del Vaticano II sulla liturgia], papa Francesco esprima chiaramente il suo attaccamento alla riforma liturgica del Vaticano II ». Secondo lui, il Motu Proprio Summorum Pontificum l'ha in effetti « indebolita ». E in aggiunta : « Vorrei che papa Francesco elimini ogni sospetto riguardante l'eredità liturgica del Vaticano II », perché sempre secondo lui « l’argomentazione secondo la quale il Messale del 1570 non sarebbe mai stato giuridicamente abrogato è difficile da sostenere quando si legge tranquillamente la costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI » (La Croix, 29 maggio 2013).