Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. La metafora di Ungaretti – il poeta sulle trincee del Carso che sperimentava la morte ogni momento – si attaglia alla nostra condizione di paura, indifferenza, confusione. Guerra, epidemia, cultura della cancellazione, una relazione con la fine e il male dalla quale è stata sradicata la speranza della trascendenza. Viviamo in un campo minato in cui prevale la freudiana todestrieb, la pulsione di morte e distruzione, espressa attraverso comportamenti come l’aggressività, la coazione a ripetere e l’autodistruzione. Per restare alle citazioni ungarettiane, sorprende che circoli una diffusa allegria di naufraghi che corrono verso l’abisso cantando.
Bisogna tentare di invertire la rotta, seguendo il poeta: “e subito riprende il viaggio/ come / dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare.”
Non sappiamo se possediamo le virtù dei lupi di mare, ma ci sentiamo superstiti di un naufragio gigantesco. Abbiamo l’impressione che dall’orizzonte svanisca la vita. L’Occidente degli ultimi uomini di Zarathustra, che strizzano l’occhio e credono di avere inventato la felicità, corre verso la fine destituendo ogni principio su cui si è retta la sua civiltà per millenni. Sul trono dei nuovi diritti – assoluti, inderogabili, irrevocabili – l’aborto libero, l’eutanasia, i desideri, la fluidità dei sessi e delle preferenze, la negazione dell’ordine naturale. Natura nemica, derubricata ad ambiente o a biologia perché antecedente all’Homo Deus creatore di se stesso.