Nella nostra traduzione da
Via mediaevalis un interessante articolo sul mistero della fede nell'unione tra cuore e mente, oltre i dati sensoriali, valida in ogni tempo, riconoscibile nel viaggio spirituale di Dante. Precedenti
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Dante e la sua mente inquisitiva
La Divina Commedia affronta una questione che, nella nostra cultura, è ancora più urgente di quanto non lo fosse nella cultura medievale: perché crediamo in cose che non possiamo vedere?
Dopo due post sulla spiritualità in lingua inglese e nordeuropea nell’alto e nel tardo Medioevo, è tempo di spostarsi a sud. Più precisamente, in Toscana, dove Dante Alighieri ha composto una delle opere letterarie più famose e venerate della storia.
La Divina Commedia è un capolavoro di una genialità così straordinaria che sembra confermare le parole di elogio che Amleto ha pronunciato in lode della natura umana:
Che opera d’arte è l’uomo! Quanto è nobile la sua ragione! Quanto infinito è nelle sue facoltà! Nella sua forma e nei suoi movimenti, quanto è espressivo e ammirevole! In azione, sembra un angelo! Nella sua perspicacia, quanto è simile a un dio!
Strofa dopo strofa, canto dopo canto, Dante canta un viaggio spirituale che fonde poesia, narrativa, psicologia e filosofia in una visione cosmica e avvincente dell’esperienza umana. Estremamente artistica e allo stesso tempo acutamente intellettuale, la Divina Commedia ci trasporta a rari momenti di risonante unione tra cuore e mente. Leggerla significa vedere l’ampiezza e la profondità della bellezza che è alla portata dell’uomo; studiarla è il lavoro di una vita.
La società moderna ha diffuso vari cliché sulla religione nel Medioevo, secondo i quali fede cieca e superstizione erano la norma, i dubbiosi erano perseguitati, i dissenzienti venivano bruciati sul rogo, Galileo fu imprigionato per aver creduto nella scienza (in realtà ciò avvenne durante il Rinascimento), e così via. Tali idee sono un miscuglio confuso di verità, malintesi e distorsioni, che non ho intenzione di chiarire. Voglio, tuttavia, condividere ciò che Dante ha da insegnarci sul mistero della fede e, più specificamente, sulla fede in ciò che non possiamo vedere o toccare.
Gli esseri umani si fidano per natura e istintivamente delle loro percezioni sensoriali. Ciò che si trova al di fuori del regno sensoriale è più sfuggente, e anche dopo migliaia di anni di storia in cui religioni di ogni tipo sono state una componente strutturale chiave della società umana, non è sempre facile aver fede. L’“esame” di Dante sulla fede all’interno della Divina Commedia ci mostra che la cultura medievale poteva essere molto sensibile alle domande e ai dubbi che oggi sono visti come tratti distintivi della spiritualità moderna.
L’esame avviene nel
Paradiso,
canto 24. Dante è in cielo e dialoga con San Pietro, che chiede al poeta in modo piuttosto intimidatorio: “Parla, buon cristiano, fatti conoscere chiaramente: / che cos’è la fede?”. Una domanda curiosa da porre a un uomo che ha già viaggiato attraverso l’Inferno, il Purgatorio e parte del Paradiso celeste, con i suoi cinque sensi immersi in realtà soprannaturali nascoste a tutti gli altri. Ma è proprio questo il punto: ha visto tante cose da quando è disceso con Virgilio negli inferi, ma come può sapere che sono reali? E se fosse tutto un sogno? E se si trovasse tutto nella sua immaginazione? E ovviamente
si trova tutto nella sua immaginazione: Dante sta scrivendo una poesia, non una cronaca di eventi reali. Dove finisce la sua poesia — o la poesia personale di fede di chiunque altro — e dove inizia la realtà spirituale?
L'esame del
canto 24 è alquanto paradossale. La discussione sulla fede è formale, quasi legalistica, e si ispira allo stile della filosofia scolastica. Dante utilizza un vocabolario specializzato —
silogizzar (“formare o usare un sillogismo”) e
silogismo (“sillogismo”) — per creare un’aria di distaccata razionalità, e dichiara di essersi preparato a questo interrogatorio “armandosi di tutto il mio ragionamento”. Eppure sa, come hanno saputo tanti altri credenti, che la fede non si può mai ridurre alla ragione! Sa che quando sorgono dubbi e paure, l’argomentazione razionale è spesso come la pioggia che cade da un tetto: semplicemente non riesce a penetrare in quell’alcova segreta della natura umana in cui dimora la nostra afflitta spiritualità.
Il carattere formale della discussione funge anche da contrappunto alla gravità inquietante delle questioni in gioco. Sotto la superficie di questo scambio accademico tra Dante e San Pietro ci sono domande che scuotono le fondamenta del mondo medievale: come può un essere umano sapere con certezza che Dio esiste? Che l’anima esiste? Che la dottrina cristiana è davvero la via della salvezza? Che la Bibbia è veramente la parola di Dio?
Il ragionamento di Dante è generalmente valido ma non convince e, quasi per accentuarne l’inadeguatezza, San Pietro lo accusa addirittura di commettere un errore logico! Il problema inizia quando Dante difende l’autorità della Bibbia adducendo miracoli biblici:
La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude.
San Pietro lo mette subito in guardia sul suo ragionamento circolare:
Dì, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura.
Dante si riprende dopo questo passo falso, ma la sua argomentazione logica non sembra mai essere la forza vitale di questo canto. Ciò che di lui apprezzo è soprattutto il suo spirito di indagine. Chiaramente un cristiano impegnato, Dante — come la cultura medievale che lo circondava e lo formava — non aveva paura di porre domande difficili sul mondo che si trovava oltre il suo orizzonte sensoriale. E non aveva paura di porre domande difficili su se stesso.
La mente inquisitiva di Dante ci mostra un antidoto alle credenze che diventano stantie o meccaniche. T. S. Eliot diceva che “la parola chiave per Dante” era, soprattutto, amore.
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna.
(Paradiso, Canto 33)
Come molti altri elementi della Divina Commedia, le domande che mettono alla prova la fede di Dante sono un preludio a un amore più grande. Tali domande non implicano che tutta la fede sia arbitraria o personale, ma implicano che anche la fede dogmatica o pubblica dovrebbe essere profondamente personale. E non sono un invito a dubbi tetri o a uno scetticismo corrosivo; Dante non aveva la minima intenzione di rinnegare alcuna dottrina essenziale della sua religione. Dovrebbero invece portare unità al sé esteriore e al sé interiore. Dovrebbero essere un percorso verso la completezza e il rinnovamento del cuore.
Dante ci dà un’immagine di questa totalità mentre il canto 24 si avvia verso la sua conclusione; il suo tono cambia — diventa più spirituale, meno accademico — e la sua magnifica poesia guida i nostri pensieri verso la luce di Dio e la luce interiore:
Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con disio.
…
Quest’è ’l principio, quest’è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla.
Robert Keim, 24 luglio 2024
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
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l'impegno di Chiesa e Post-concilio anche per le traduzioni
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