Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

domenica 3 gennaio 2016

Guido Ferro Canale. Il m.p. Mitis iudex Dominus Iesus: note a prima lettura

Ringrazio di cuore Guido Ferro Canale, che ho avuto occasione di ascoltare in diretta il 28 novembre scorso nel corso del Convegno di Roma - Divino Amore promosso da Radio Spada e dalla Confederazione Civiltà Cattolica: Dal divorzio al gender. Famiglie centrifugate e identità liquida: una dissoluzione dalle origine remote [qui].
Il testo della relazione che l'Autore ha messo a nostra disposizione è arricchito da aggiornamenti dell'ultimissima ora, a seguito del “rescritto” del 7 dicembre 2015. 
La soluzione pratica di accelerazione dei processi di dichiarazione di nullità, escogitata da papa Francesco per riammettere alla comunione i divorziati risposati, appare tutt'altro che solida e presenta punti critici. Sembra introdurre di fatto un clima di favor nullitatis ed ha già suscitato critiche severe e conosciuto tentennanti aggiustamenti. La riforma che ne scaturisce merita un'attenzione non disinvolta perché rischia concretamente di creare effetti collaterali imprevisti, col risultato che non tutto funzioni secondo le aspettative sia ad intra che ad extra. In questo caso per l'impatto delle sentenze di nullità pronunciate dai Tribunali ecclesiastici rispetto al riconoscimento da parte di quelli civili.
La trattazione è tecnica ma chiara e limpida e consente un'analisi articolata e rigorosa a tutto campo con lo sguardo allargato al confronto con i commenti più accreditati a livello internazionale.
L'ampio stralcio pubblicato di seguito, da non perdere, ci offre preziosi elementi di comprensione e approfondimento.

Il m.p. Mitis iudex Dominus Iesus: note a prima lettura
di Guido Ferro Canale
L'esposizione orale al convegno, il 28 novembre 2015, non ha potuto, per ovvi limiti di tempo, affrontare in dettaglio tutti gli argomenti; era, in effetti, un condensato del presente testo scritto, che, frattanto, è stato rielaborato e munito di note. Si è reso necessario, inoltre, un aggiornamento dell'ultimissima ora, per tener conto del “rescritto” del 7 dicembre 2015, il cui intento dichiarato consiste nel “completare” la riforma in vista della sua entrata in vigore[1], ma che, in realtà, apporta innovazioni molto significative, tali da alterare l'impianto complessivo del processo matrimoniale canonico; alcune mie considerazioni più urgenti sono già state pubblicate sul sito di Sandro Magister. Invece, la prima parte del testo (§2), non inclusa nell'esposizione orale, è già apparsa, in una stesura leggermente diversa, come articolo sul blog di Radio Spada.  
1 - Premessa; 2 - Antefatto: la “riforma occulta”; 3 - La riforma bergogliana; 3.1 - Considerazioni generali; 3.2 - Per giudici fisicamente vicini: gli interventi sulla competenza; 3.2.1 – L'organizzazione giudiziaria; 3.2.2 – I criteri di competenza territoriale; 3.3 - Vicinanza morale dei giudici; 3.3.1 – La investigatio pastoralis; 3.3.2 – Processi di nullità solo per separati e divorziati?; 3.4 - Disciplina processuale; 3.4.1 -  La struttura del nuovo processus brevior; 3.4.2 - Il nuovo ruolo delle dichiarazioni delle parti; 3.4.3 - Abolizione della doppia conforme necessaria; 3.4.4 – Le impugnazioni. In particolare, la nova causae propositio; 4 – Conclusioni

1 - Premessa

Jorge Mario Bergoglio, con due Lettere Apostoliche “gemelle”, in forma di motu proprio, firmate il 15 agosto 2015 (ma la pubblicazione data all'8 settembre e l'entrata in vigore è stabilita per l'8 dicembre), è intervenuto sulla disciplina dei giudizi di nullità matrimoniale del CIC e del CCEO; qui intendo soffermarmi soltanto sulla riforma che riguarda la Chiesa latina, il m.p. Mitis Iudex Dominus Iesus, che sostituisce integralmente i cann. 1671-91 CIC, ossia le disposizioni speciali che regolano i giudizi di nullità matrimoniale. Preciso fin d'ora che, contrariamente a quanto si legge - purtroppo non solo nelle prime sintesi giornalistiche - esso non interviene sulla disciplina sostanziale del Matrimonio e, dunque, non introduce nuovi motivi di nullità; si occupa soltanto di modificare il modo in cui la Chiesa latina accerta la sussistenza dei motivi già codificati. Ciò non toglie, beninteso, che si tratti comunque di una riforma complessa che incide su una materia di grande importanza; proprio per questo, mi sono ripromesso di tentarne un'analisi dettagliata e complessiva.
Ed essa, a mio avviso, deve prendere le mosse da un intervento riformatore molto incisivo, che ha preceduto il Mitis Iudex di un paio di anni: una vera “riforma occulta” dei processi di nullità.

2 - Antefatto: la “riforma occulta”

Potrà sembrare che, parlando di “riforma occulta”, io voglia indulgere al colore giornalistico, dato che ciò cui mi riferisco, dopotutto, non è segreto.
…Più o meno.
Il grande pubblico non ne sa nulla. Il Bollettino della Sala Stampa - che io sappia - non ne ha parlato mai. Neppur ne ho udita menzione nelle molte discussioni sulle riforme possibili, auspicabili o nefaste dei giudizi di nullità matrimoniale[2].
Inoltre, le circostanze in cui è avvenuta questa “riforma occulta” sono quantomeno singolari.
L'11 febbraio 2013, lo stesso giorno della rinunzia al Pontificato, Benedetto XVI, con Rescriptum ex Audientia sottoscritto dal Segretario di Stato, Card. Bertone, ha accordato al Decano della Rota Romana alcune “facoltà speciali” - cinque in tutto - che consentono al Tribunale Apostolico di procedere in deroga al diritto vigente. Per la precisione:

I. Le sentenze rotali che dichiarano la nullità del matrimonio siano esecutive, senza che occorra una seconda decisione conforme.
II. Dinanzi alla Rota Romana non è possibile proporre ricorso per la N.C.P. [nova causae propositio], dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico.
III. Non si dà appello contro le decisioni rotali in materia di nullità di sentenze o di decreti.
IV. Il Decano della Rota Romana ha la potestà di dispensare per grave causa dalle Norme Rotali in materia processuale.
V. Siano avvertiti gli Avvocati Rotali circa il grave obbligo di curare con sollecitudine lo svolgimento delle cause loro affidate, sia di fiducia che d’ufficio, così che il processo davanti alla Rota Romana non ecceda la durata di un anno e mezzo.”.

Il rescritto prevede una durata triennale; ma in realtà, poiché le facoltà speciali si considerano un caso di potestà delegata e cessano quando viene meno l'autorità del delegante, esso è spirato già il 28 febbraio, con la vacanza della Sede Apostolica.

Sebbene sia possibile una successiva conferma da parte del Pontefice neo-eletto, è quantomeno singolare che il Papa accordi l'11 una facoltà che sa benissimo - dato il suo annuncio della mattina - che spirerà il 28. E altresì che egli metta il successore, da eleggersi a stretto giro, nell'imbarazzo di dover decidere su due piedi se confermare o meno disposizioni di sommo rilievo. Dopotutto, un tratto di penna sarebbe bastato a trasformare il rescritto in un m.p. ad experimentum, quindi in legge speciale, immune da questi inconvenienti e, magari, da mandarsi in vigore l'indomani, previa pubblicazione su “L'Osservatore Romano”, come si è fatto in altri casi ritenuti urgenti. Invece, il rescritto disponeva la propria pubblicazione in AAS, che però, salvo mio errore, non è ancora avvenuta; poiché non si tratta di una legge, l'adempimento non è necessario alla sua entrata in vigore, ma l'omissione desta comunque una certa sorpresa.

Ma le stranezze non sono ancora finite: il provvedimento in parola, infatti, è stato divulgato dal Decano della Rota proprio in periodo di Sede vacante[3], cioè quando era inefficace. Eppure, a quanto pare, è stato applicato dal momento dell'annuncio in poi (il Tribunale Apostolico non cessa di operare in tempo di Sede vacante); e non si ha notizia ufficiale di una successiva conferma da parte di Bergoglio, la cui efficacia sanante, comunque, non sarebbe affatto scontata. Come minimo, il Decano non ha agito esattamente nel modo più opportuno... o più rispettoso della legalità.

Le ragioni di perplessità non diminuiscono affatto se, dal piano formale, passiamo al contenuto.
Nulla quaestio per il quinto punto, che in effetti non è neppure una facoltà; circa il quarto, la dispensa dalle norme processuali spetta, generalmente, alla Segnatura, ma sembra che il Decano abbia inteso derogare alla peculiare organizzazione “per Turni” della Rota e istituire una sorta di “sezione stralcio” per smaltire l'arretrato (e non sarebbe stato praticabile un intervento della Segnatura per dispensare dalle Norme speciali della Rota in ogni singolo caso); il terzo punto, ossia l'esclusione dell'appello per le pronunzie in materia di nullità, non equivale a privazione di garanzie, perché comunque il vizio lamentato può riproporsi in Segnatura, con la querela nullitatis, come di fatto – almeno in caso di diniego di nova causae propositio - avveniva sistematicamente una volta esperito detto appello, che, quindi, non riusciva neanche a fungere da “filtro”.

Ma il discorso si fa ben diverso, preoccupato e preoccupante per le prime due facoltà[4], tanto che, al termine del suo articolato commento al rescritto, Mons. Llobell - uno dei massimi studiosi del processo canonico – ha auspicato che si trattasse solo di misure temporanee, dettate dall'esigenza di sgravare la Rota dall'arretrato[5], dopodiché “le due prime facoltà speciali potrebbero decadere, evitando eccezioni al diritto comune che possono affievolire il rispetto della natura meramente dichiarativa delle cause di nullità del matrimonio, al servizio della legge naturale dell’indissolubilità, proclamata da Cristo e accolta dal Vangelo senza mezzi termini. Invece, le altre tre facoltà speciali, magari con un’altra sistemazione formale e sostanziale, potrebbero entrare a far parte stabilmente dell’ordinamento canonico.”[6].

Ebbene, per conoscere la sorte delle facoltà III-IV-V, si dovrà attendere la riforma delle Norme speciali della Rota, opportunamente ordinata in chiusura del m.p. Mitis Iudex[7]; però, quanto alle prime due, già si può dire che l'auspicio dell'insigne canonista dell'Opus Dei è stato accolto solo a metà, poiché il divieto di nova causae propositio non è passato nella nuova legge universale[8], ma il superamento della doppia conforme sì (cfr. infra, § 3.4.1).

Valgono, dunque, anche per il Mitis Iudex i rilievi critici che, a suo tempo, l'illustre processualista ha mosso contro l'analoga previsione del rescritto: poiché le sentenze pro vinculo restano assoggettate alla doppia conforme, mentre per la nullità bastava un'unica pronuncia favorevole, si ingenera una “disparità di effetti [che] potrebbe far sì che qualcuno giungesse a pensare che questa facoltà speciale si traduca in un favor nullitatis. In verità, si tratterebbe soltanto della dimensione processuale del favor nullitatis (limitatamente al diritto di appello). Tuttavia, ciò potrebbe promuovere un clima favorevole alle dichiarazioni di nullità matrimoniale anche sotto il profilo del giudizio di merito sia presso la stessa Rota Romana, sia presso i tribunali locali. Infatti, la prima facoltà potrebbe sembrare identificare la salus animarum con la dichiarazione di nullità del matrimonio e la celeritas iudiciorum. Invece, la salus animarum nelle cause di nullità matrimoniale deve essere identificata piuttosto con l’accertamento della verità sul proprio status.” (sottolineature aggiunte)[9].

Nel caso del rescritto, tale rischio è decisamente amplificato dall'ultima facoltà che resta da esaminare, in forza della quale l'unica sentenza pro nullitate (o una doppia conforme in tal senso, resa da giudici inferiori) diventa, di fatto, inattaccabile, vietandosi la riapertura del processo tramite nova causae propositio, in presenza di nuovo matrimonio canonico di una delle parti[10]. Altrimenti detto: si danno argomenti gravi, capaci di far risorgere il dubbio che il primo vincolo fosse valido, e quindi invalido il secondo, anche se contratto in perfetta buona fede data la pronunzia dei giudici ecclesiastici; eppure, questo dubbio dev'essere accantonato per il semplice fatto che esiste un secondo matrimonio coram Ecclesia, sebbene, all'evidenza, la validità di tale atto e vincolo dipenda dalla nullità del primo, quindi dalla soluzione del dubbio in parola!

Peraltro, la facoltà II del rescritto, per inaudita che sembri, non è piovuta dal cielo: corrisponde agli auspici formulati a più riprese, già oltre vent'anni fa, da Carmelo de Diego-Lora, che sosteneva che il bene che, in astratto, sarebbe potuto derivare dal nuovo accertamento sul primo vincolo dovesse cedere alle esigenze di stabilità delle decisioni e pace delle coscienze, dato che, dopotutto, la riapertura del caso equivaleva a sconvolgere tutto un assetto di vita... quando poi, magari, si sarebbe deciso nuovamente pro nullitate[11].

Non vi è il minimo dubbio che esista un problema di tranquillità della coscienza dei fedeli, che devono poter fare affidamento sulle pronunce dei Tribunali ecclesiastici e non restare in ansia tutta la vita riguardo al proprio stato; si può anche concedere che, spesso, chi sollecita la nova causae propositio non è animato tanto da zelo per la verità, quanto da desiderio di nuocere alla controparte e/o alla sua nuova unione (legittima o meno che sia davanti a Dio). Ma non credo che la soluzione possa essere quella proposta e, purtroppo, adottata nel rescritto: si faccia di tutto per assicurare la completezza delle istruttorie, si allarghi la trattazione anche a dubbi venuti in mente al giudice e non alle parti, si puniscano con sanzioni spirituali e, perché no?, pecuniarie i ricorsi per nuova proposizione che appaiano pretestuosi o ispirati a pura volontà di nuocere; queste saranno misure sacrosante. Però, ritengo che, in questo caso, almeno per analogia venga in rilievo il principio per cui, in materia sacramentale, non ci si può attenere all'opinione probabile, nemmeno alla più probabile, ma solo alla più sicura. Un ricorso ammissibile per nova causae propositio, per definizione, non può che far sorgere un dubbio probabile[12], in cui da una parte militano gli argomenti gravi con esso addotti, dall'altra le ragioni che sorreggono la doppia conforme; l'unico modo per risolverlo, ricostituendo così la certezza morale, è riaprire il processo, sede istituzionale di ricerca della verità. Il nuovo matrimonio, la buona fede delle parti o del terzo che con una di loro abbia contratto le nuove nozze, etc., potranno rilevare, e molto, per le misure disciplinari a carico di giudici o avvocati, per la loro condanna al risarcimento dei danni in favore degli innocenti, all'occorrenza anche per l'inflizione pubblica di pene canoniche (cfr. can. 1457); ma non possono mai, per loro natura, far raggiungere la certezza morale su validità o invalidità delle prime nozze[13].

Peraltro, non è inutile aggiungere che, in origine, il principio di rivedibilità di ogni momento – e quindi non passaggio in giudicato – è stato introdotto proprio per porre rimedio alle decisioni pro nullitate, ogniqualvolta constassero l'errore e l'inganno alla Chiesa; ma non si può rifarsi all'argomento storico per affermare che, se le parti sono in buona fede e dunque non vi è inganno alla Chiesa[14], la pronuncia erronea va lasciata in piedi[15]: la riapertura del processo matrimoniale non costituisce un'ingiustizia in sé; all'indubbio pregiudizio che essa arreca, quantomeno in punto tranquillità di coscienza, si dovrà ovviare contenendo al minimo indispensabile la durata del giudizio, evitando lo scandalo, punendo i colpevoli, se necessario anche con le pubbliche scuse della Chiesa, se in Suo nome essi hanno agito; però la ratio peccati vitandi esige comunque che si riapra il caso[16].

A questo punto, vien fatto di chiedersi se sia stato opportuno un intervento di questa portata – e anche, si licet, tanto azzardato sotto il profilo dottrinale – tramite semplice rescritto d'udienza e allo spirare di un Pontificato. In effetti, e più in generale, la prassi di adottare provvedimenti anche molto importanti con rescritto ex Audientia SS.mi presta il fianco a diverse critiche: tra le altre, ha poco senso che sia un Cardinale ad attestare quanto udito dalle auguste labbra, quando già ora, in simili occasioni, il Papa firma un foglio d'udienza che attesta l'approvazione delle richieste e che è il vero documento dell'approvazione pontificia[17]. Rispetto al suo contenuto, o alla cui assenza, mi pare che debbano cedere tutte le altre attestazioni, inclusa quella cardinalizia (sebbene, almeno sotto il vecchio Codice, facesse fede in foro esterno: cfr. can. 239 CIC 17). L'esigenza di pubblicare questo documento, in luogo del rescritto, sembra tanto più pressante nel caso in esame, dato che il Bollettino della Sala Stampa non menziona alcuna udienza al Segretario di Stato in data 11 febbraio 2013 (non ho avuto modo di controllare L'Osservatore Romano); soprattutto chi reputasse incredibile che Benedetto XVI – non certo uno sprovveduto in materia teologica e neppure notoriamente avvezzo a decisioni precipitose o avventate – abbia effettivamente accordato questo genere di facoltà, oltretutto in un momento così particolare, potrebbe anche sospettare un falso, favorito proprio dall'imminente vacanza della Sede (una volta che il Papa non è più Papa, mette male che venga a sapere e più ancora che smentisca)[18]. Ora, siccome solo la pubblicazione del foglio di udienza potrebbe dirimere il dubbio, non sarebbe forse il caso – in generale – di eliminar l'occasione prossima di peccato?[19]

3 - La riforma bergogliana.

3.1 - Considerazioni generali


In questo m.p., rispetto al passato recente, rilevo anzitutto una novità di carattere stilistico: Paolo VI ha promulgato la sua riforma processuale con l'anodino incipit Causas matrimoniales (1971); in seguito, diffuse carenze di preparazione giuridica negli operatori dei Tribunali (avvocati, parti pubbliche, giudici) - non di rado affetti anche da una mentalità pro nullitate, quantomeno nei termini del “male minore”, “mettere le cose a posto” etc. - hanno portato all'Istruzione per la retta applicazione della disciplina processuale del nuovo CIC, Dignitas connubii (DC, anno 2005): esordio ben più significativo, il cui messaggio è chiarissimo. Con Bergoglio, l'incipit si dilata e sembra esprimere una tensione dialettica tra “autorità” e “servizio”, data la polarità semantica Mitis... Iesus / Iudex... Dominus (sottolineata anche dal chiasmo). Si tratta, a mio avviso, della stessa tensione che percorre tutto il testo normativo e rende tanto difficile comprendere se, in ultima analisi, prevalga la fedeltà ai princìpi o s'imponga la falsa misericordia. Di sicuro e purtroppo, il messaggio recepito dall'opinione pubblica va nel secondo senso; ma la voluntas legis è altra cosa rispetto al clima mediatico[20].

Il m.p. Mitis Iudex si compone di: una parte introduttiva; sette articoli, che sostituiscono integralmente i canoni del CIC sulle cause matrimoniali; la disciplina transitoria; sanctio pontificia, clausola abrogativa e firma; infine, una Ratio procedendi in causis ad matrimonii nullitatem declarandam (d'ora innanzi RP) la cui esatta natura e qualificazione giuridica ha già suscitato più di un interrogativo.

A quest'ultimo riguardo, concordo con Mons. Llobell nel ritenere che la sua collocazione dopo la firma del Pontefice non basta, di per sé, a negarle rango di legge[21], dato che il testo che precede la menziona espressamente: “Praesentibus adnectitur ratio procedendi, quam duximus ad rectam accuratamque renovatae legis applicationem necessariam, studiose ad fovendum bonum fidelium servanda”; tuttavia, proprio atteso il tenore del testo appena citato, mi pare che si tratti – non di legge, ma - di un decreto generale esecutivo (cfr. can. 31), emanato direttamente dal Romano Pontefice, che senz'altro gode della necessaria potestà esecutiva[22]; del resto, la riforma non è stata preparata da un Dicastero, che avrebbe potuto pubblicare il decreto, ma da una mera Commissione di studio. Si potrebbe anche pensare, in verità, ad un decreto generale legislativo (can. 29); ma quest'ipotesi sembra meno conforme alla ratio applicativa esplicitamente assegnata a RP[23]. Quindi, secondo la tesi che propugno, la Ratio ha forza obbligatoria, ma non può, a pena di nullità, contraddire le leggi in vigore (cfr. cann. 32-3). Riguardo, invece, al suo rapporto con DC, altra questione dibattuta, reputo di poter affermare che sia di tendenziale sostituzione: RP 6 afferma che “praesens ratio non intendit summam totius processus minute exponere, sed praecipuas legis innovationes potissimum illustrare et ubi oporteat complere”, quindi le sue norme si limiteranno, in genere, alle innovazioni, mentre su tutto il resto dovrebbe seguitare ad applicarsi DC[24].

Per quanto concerne, invece, i singoli temi, va detto che i primissimi commenti, giornalistici e no, si sono concentrati soprattutto su abolizione della doppia conforme e nuovo processo abbreviato; quest'approccio, però, rischia di non mettere bene a fuoco un intervento normativo organico e complesso[25]. In particolare, mi sembra che siano state un po' trascurate, fin qui, le indicazioni sulla mens legislatoris offerte dalla parte introduttiva del m.p.: da un lato, vi è un forte accento sull'indissolubilità, che parrebbe preoccupato anche di smentire possibili letture nel senso della nullità facile[26]; dall'altro, i mali cui porre rimedio sono individuati nell'eccessiva lontananza, fisica o morale, dei giudici dai fedeli e nella durata dei processi, che scoraggerebbero la proposizione di cause di nullità anche in casi che meriterebbero il vaglio giudiziale.

In proposito, desidero precisare la mia profonda convinzione che effettivamente esista un'elevata “cifra oscura” di matrimoni nulli, che non giungono al vaglio dei Tribunali ecclesiastici. Anzi, mi permetto di dire, sarebbe strano il contrario: la quasi totalità dei fedeli ignora completamente quali siano i possibili motivi di nullità, quindi difficilmente può pensare al proprio matrimonio come nullo[27]; se poi prende in considerazione l'ipotesi, almeno per “mettersi a posto” con la Chiesa[28], in genere non ha la minima idea di come muoversi e, anzi, è paralizzato da timori relativi ai costi del processo[29]. Condivido, insomma, le preoccupazioni che hanno indotto il legislatore a intervenire.

Ma altra questione – de qua vero hic agendum – è verificare se le affermazioni di principio possano trovare un riscontro pratico sicuro, in sede di applicazione della legge; se le novità siano effettivamente idonee a risolvere i problemi considerati; quali possano essere i loro effetti collaterali, fausti o no. Vengo quindi a trattare, nell'ordine: vicinanza fisica dei Tribunali; vicinanza morale; nuova disciplina del processo matrimoniale e processus brevior; valutazione complessiva della riforma.

3.2 - Per giudici fisicamente vicini: gli interventi sulla competenza
3.2.1 – L'organizzazione giudiziaria
I Tribunali ecclesiastici esistenti sono circa un migliaio[30], numero largamente inferiore a quello delle Diocesi: la prassi di istituirli a livello interdiocesano è ormai generale e risponde sia all'accennata carenza di personale preparato (la Segnatura tratta numerose richieste di dispensa dai titoli accademici necessari per la nomina a giudice o difensore del vincolo), sia ad un carico di lavoro troppo basso per giustificare la sopravvivenza di un ufficio giudiziario in ogni Diocesi[31].

Rispetto a questo stato di cose ormai consolidato, il m.p. innova con decisione, puntando a moltiplicare gli uffici giudiziari, ma senza quasi occuparsi del reclutamento del personale[32]; la sua strategia per accrescere il numero dei processi di nullità e ridurre la “cifra oscura” passa, in particolare, attraverso il recupero di un ruolo diretto per ciascun Vescovo diocesano (oltreché per i Metropoliti in grado di appello)[33].

Occorre precisare che, finora, i Tribunali interdiocesani, se istituiti con competenza specifica per le cause matrimoniali (come in Italia), rendevano assolutamente incompetente qualsiasi altro giudice, tranne la S. Sede (cfr. can. 1440; DC 9), e ai singoli Vescovi, giudici naturali dei propri fedeli, restavano soltanto le cause di separazione personale dei coniugi manente vinculo, rarissime, almeno alle nostre latitudini. Adesso, invece, il nuovo can. 1673 - oltre a segnalarsi per l'affermazione di principio, in sé ineccepibile, secondo cui ciascun Vescovo, nella propria Diocesi, è giudice delle cause di nullità – supera tale principio e ammette, al § 2, la designazione, da parte dei Vescovi, di più fori concorrenti (“...ad aliud dioecesanum vel interdioecesanum vicinius tribunal”)[34]. L'idea soggiacente sembrerebbe far giudicare ai Tribunali diocesani le cause secondo il nuovo processus brevior e agli interdiocesani le altre; almeno in prima battuta e finché tutti i Vescovi non si sentano in grado di ristabilire Tribunali diocesani ad universas causas, esito che la legge favorisce, consentendo esplicitamente ad ogni Vescovo di recedere dai Tribunali interdiocesani, istituiti a norma del can. 1423 (RP 8 §2).

A questo proposito, si è sviluppata una querelle interpretativa inerente la peculiare situazione italiana: i nostri Tribunali interdiocesani, infatti, non sono stati istituiti d'intesa tra i Vescovi interessati, secondo le attuali previsioni del can. 1423, ma con legge pontificia speciale, il m.p. Qua cura di Pio XI; rispondendo ad un dubbio in proposito, il Pontificio Consiglio per l'Interpretazione dei Testi Legislativi ha dichiarato che i Vescovi italiani non possono recedere da tali Tribunali, perché il m.p. di Pio XI resta pienamente in vigore. Qualcuno, nei primi affrettati commenti, si è spinto a desumerne addirittura l'inapplicabilità del Mitis Iudex all'Italia[35], almeno quanto al nuovo processus brevior; Mons. Pinto, asserendosi investito di mandato speciale del Pontefice, ha rilasciato una dichiarazione secondo cui la mens legislatoris è in favore del recesso, ma egli non fa riferimento esplicito all'Italia, quindi di fatto lascia intatta la risposta del Dicastero competente[36]; da parte sua, Mons. Llobell, osservando che il Mitis Iudex abroga le disposizioni contrarie “etiam specialissima mentione dignis”, ritiene che questa clausola soddisfi ai requisiti del can. 20 e prevalga, perciò, sul m.p. Qua cura. L'insigne processualista, tuttavia, muove da un presupposto a mio giudizio errato: ritiene che solo recedendo dai Tribunali interdiocesani i Vescovi d'Italia potrebbe (ri)costituire quelli diocesani, che il Mitis Iudex esige, dato che ad essi affida la competenza sul processus brevior. Temo che egli non avverta il mutamento normativo che consente, ora, la coesistenza, per una stessa Diocesi, del Tribunale diocesano con l'interdiocesano, entrambi competenti per le cause matrimoniali; sicché, a mio giudizio, il m.p. Qua cura incontra deroga, ex can. 20, nella parte in cui stabiliva la competenza esclusiva dei TER, ma non nell'obbligatorietà della loro istituzione. Tale lettura, d'altronde, sembra anche la più conforme al criterio letterale, giacché il recesso del Vescovo è circoscritto ai Tribunali interdiocesani costituiti a norma del can. 1423; ne segue l'interpretazione a contrario, che esclude quelli istituiti per legge speciale, perché
  1. di “recesso” si può parlare rispetto ad un'intesa – come quella del can. 1423, appunto – non certo all'esecuzione di legge superiore, 
  2. diversamente, la precisazione “a norma del can. 1423” sarebbe inutile e verrebbe sostanzialmente abrogata in via interpretativa, 
  3. non è verosimile che una Commissione composta quasi esclusivamente di italiani si sia scordata l'esistenza del m.p. Qua cura.
Perciò ritengo che il Vescovo diocesano possa, anche in Italia, ricostituire il proprio Tribunale, per alcune cause oppure per tutte quante; ma che solo nel caso di assoggettamento al nuovo processus brevior sia esclusa la competenza dei Tribunali interdiocesani a decidere – non anche a raccogliere le prove: cfr. RP 19 - mentre, per le altre cause, si dia la loro competenza concorrente con il diocesano[37].

Tuttavia, mentre mi accingevo a licenziare le bozze, è sopravvenuto il rescritto pontificio del 7 dicembre 2015, il cui punto 1) recita: «Le leggi di riforma del processo matrimoniale succitate abrogano o derogano ogni legge o norma contraria finora vigente, generale, particolare o speciale, eventualmente anche approvata in forma specifica (come ad es. il Motu Proprio Qua cura, dato dal mio Antecessore Pio XI in tempi ben diversi dai presenti).». Quindi, da un lato, la dichiarazione di Mons. Pinto non è parsa sufficiente; dall'altro, a questo punto ci si deve chiedere se il Qua cura sia abrogato e, quindi, se i Tribunali interdiocesani possano ancora operare. Tanto più che, se il rescritto venisse letto insieme con la dichiarazione stessa, si potrebbe sostenere che spetti ai Vescovi erigerli o almeno confermarne la competenza. Ritengo, tuttavia, che in realtà restino ferme le conclusioni del paragrafo che precede: intanto, non avrebbe senso abrogare il Qua cura solo per veder ricostituiti/confermati i Tribunali interdiocesani attuali in men che non si dica; poi, l'impianto complessivo del Mitis Iudex è strutturato per un'applicazione flessibile e graduale; infine, ma non da ultimo, il testo dice «abrogano o derogano», quindi, fuori dei casi di vera e propria incompatibilità, deve intendersi compiuta la scelta meno incisiva, la deroga (cfr. can. 21).

Altra questione relativa all'organizzazione giudiziaria in genere è se i Vescovi siano tenuti a decidere personalmente le cause di processus brevior, o se sia possibile la delega. Peters propende per la negativa, poiché la delega della potestà giudiziale è ammessa solo per gli atti preparatori della sentenza (can. 135 §3)[39]; e, in effetti, la situazione ritenuta normale dal m.p. vede il Vescovo intervenire soltanto per decidere (o rimettere la causa alle forme ordinarie di trattazione), mentre tutta l'attività precedente è affidata ad altri. Tuttavia, il giudice proprio – come il Vescovo - è ammesso a delegare l'intera potestà[40]; anzi, per regola generale (can. 1419), il Vescovo la esercita “per se vel per alios”, senza alcun obbligo di giudicare personalmente. Obbligo che neanche il Mitis Iudex introduce, dato il suo tenore esortativo[41].

È importante notare che i giudici diocesani, una volta nominati, sono investiti di tutte le cause che il Vescovo non si sia esplicitamente riservato: non siamo nell'ambito della delega propriamente detta, ma di competenze che per legge sono annesse ad un incarico. Possiamo ammettere senza difficoltà che il Mitis Iudex, riguardo al processus brevior e per ragioni di salvaguardia della dottrina, deroghi all'opposto principio per cui non è conveniente che il Vescovo (o altro giudice proprio) eserciti personalmente la potestà giudiziale (DC 22 §2)[42]; e si potrà anche ritenere che tali cause siano automaticamente riservate al Vescovo; ma non che egli non possa esercitare la delega caso per caso, come può fare quando egli stesso si è riservato alcune cause. Anzi, siccome la pronuncia della sentenza pro nullitate esige la certezza morale (cfr. can. 1687 §1), il Vescovo che preveda che - per eccesso di impegni, scarsa competenza in diritto canonico o altra causa grave, non agevole a superarsi - abitualmente non sarà in grado di raggiungerla è tenuto a far decidere le cause al Tribunale (diocesano o interdiocesano)[43].

In conclusione, quindi, per ogni Diocesi vi saranno, secondo i casi, fino a tre giudici: Vescovo, Tribunale diocesano e interdiocesano.
3.2.2 – I criteri di competenza territoriale
Il m.p. interviene anche sull'individuazione della Diocesi competente. E pure in questo caso (vecchio can. 1673, ora 1672) prevede una pluralità di soluzioni, quindi di possibili giudici, e dichiara espressamente la loro equipollenza, “servato pro posse principio proximitatis inter iudicem et partes” (RP 7 §1).

Per regola generale, chi vuole intraprendere una causa deve rivolgersi al giudice (Vescovo o Tribunale interdiocesano) del luogo dove vive la controparte (actor sequitur forum partis conventae); nelle cause matrimoniali, esistono altri tre fori possibili, quello del luogo di celebrazione, quello dell'attore e il luogo dove si dovrà raccogliere la maggior parte delle prove (forum plerarumque probationum). Finora, a questi ultimi due si poteva ricorrere soltanto con il consenso del Vicario giudiziale della parte convenuta, udito il parere di questa; per il foro dell'attore, occorreva anche che entrambe le parti vivessero nel territorio della stessa Conferenza Episcopale; adesso, tali requisiti cadono, anzi RP 7 §1 esclude che, tra le diverse possibilità offerte dalla legge, si dia un criterio preferenziale cogente.

La riforma vuole, indubbiamente, agevolare al massimo chi intende proporre la causa di nullità. E bisogna ammettere che l'impossibilità di rivolgersi direttamente al Tribunale ecclesiastico del luogo dove vive gli può aver creato, fin qui, problemi piuttosto concreti: in teoria, ogni fedele può agire e difendersi da sé nelle cause matrimoniali; ma, in genere, non avendo la più pallida idea di come procedere e neppure di dove trovarsi un avvocato adatto, si reca al Tribunale ecclesiastico più vicino e si imbatte nei Patroni stabili, che operano presso ciascun Tribunale proprio per aiutare le parti a introdurre tali giudizi o a difendersi in essi; quindi, fa una gran differenza averli sotto casa o chissà dove (tanto più che, rispetto al 1983, i fenomeni migratori si sono decisamente accresciuti). Anche perché, eccezion fatta per gli avvocati rotali propriamente detti, che possono esercitare ubique terrarum, il patrocinio, in foro canonico, è riservato agli iscritti nell'albo del Tribunale in cui si introduce la causa (cfr. DC 105, 112)[44].

Questo, però, significa che agevolare il ricorso al forum actoris rischia di pregiudicare la parte convenuta – non quanto alla conoscibilità del processo, che anzi è rafforzata dal nuovo can. 1676 §2[45], ma - nelle sue concrete possibilità di difesa, personale o tramite patrono: era la ratio sottesa alle cautele previste dal CIC 1983[46]. Ora che si è scelto di abolirle, ai possibili problemi si vorrebbe, probabilmente, ovviare tramite la cooperazione fra i Tribunali (RP 7 §2, can. 1418): il Giudice adito potrà far assumere le prove, o notificare gli atti, da un altro Tribunale, se questo agevola la partecipazione diretta delle parti al giudizio “minimo cum impendio”. Non si tratta di norma apprestata specificamente a tutela del convenuto; potrà essere utilmente impiegata in tal senso, ma toccherà alla prassi individuarne l'ambito di applicazione.

Vi è ancora una seconda novità da considerare. Se, con le norme in vigore fino all'8 dicembre 2015, il foro del convenuto poteva corrispondere, indifferentemente, al domicilio o al quasi-domicilio, quello dell'attore, invece, si radicava solo presso il domicilio[47]; disparità di trattamento che, almeno a mio avviso, si giustificava non tanto per esigenze di tutela del convenuto – cui già provvedevano le restrizioni al forum actoris – ma in funzione, per così dire, antielusiva, cioè volta ad impedire all'attore (eventualmente con il consenso di controparte, o almeno approfittando della sua indifferenza alla causa) di introdurre la causa presso un Tribunale che, nelle sue previsioni, l'avrebbe decisa in senso a lui più favorevole di altri[48]. Per questo, l'estensione del forum actoris al quasi-domicilio mi sembra il primo, grave problema posto dalla riforma: le cautele previste da DC 11 per il controllo sull'effettività della permanenza continua non possono bastare a scongiurare il pericolo di abusi[49]; e d'altronde, il semplice fatto che il Codice già vieti agli avvocati di introdurre le cause là dove prevedono un esito più favorevole (cfr. can. 1488 §2) mostra a sufficienza che l'eventualità non è affatto accademica[50].

Ma l'estensione dei criteri di competenza e il loro carattere equipollente pongono un problema specifico per il nuovo processus brevior: se esso verrà istruito dal Tribunale interdioesano, chi sarà il Vescovo chiamato a decidere? RP 19 richiama, genericamente, il can. 1673; quid se i criteri individuassero più di un Vescovo tra quelli che afferiscono al Tribunale in questione? La direttiva della prossimità è troppo vaga per offrire una soluzione e la tesi di Moneta – accordi caso per caso tra l'istruttore della causa e il Vescovo chiamato a decidere[51] – adombra una sorta di inedito forum shopping da parte dei giudici, assolutamente non consono al principio di predeterminazione della competenza a giudicare.

3.3 - Vicinanza morale dei giudici

[...]
3.3.1 – La investigatio pastoralis
Già il CIC 1983 ha previsto la figura del Patrono stabile nei Tribunali (can. 1490) e DC 113 l'istituzione del “consulente” sulla possibilità e sui modi di introdurre la propria causa di nullità. Ora, invece, si è scelto di creare una “rete” di strutture parrocchiali e diocesane (RP 2), con un ruolo particolare per i Parroci e gli addetti ai corsi prematrimoniali (RP 3), per il compimento di una “investigatio praeiudicialis seu pastoralis”, volta ad appurare se vi sia una possibilità concreta di introdurre il giudizio di nullità e a raccogliere gli elementi utili, a verificare se entrambi i coniugi consentano a chiedere la nullità stessa e, infine, a presentare l'atto introduttivo della causa, il libello (RP 4 e 5)[53].

Qui, però, si nota un primo problema: se l'investigatio deve mettere capo ad un atto processuale, almeno ad un certo punto saranno necessarie specifiche competenze giuridiche; ma le persone deputate a compierla sono idonee se le possiedono “licet non exclusive” (RP 3). E subito deve formularsi un caveat: quest'indagine potrà o anche dovrà comportare contatti con i possibili testimoni e altre attività preparatorie della causa, ma mai una vera e propria assunzione di prove fuori del giudizio, o da parte di soggetti diversi dal giudice (cfr. can. 1529)[54]. Ovviamente, se si deve scrivere un libello, occorre “mettere insieme” una versione dei fatti, il che implica anche colloqui con i possibili futuri testi, dato che i loro nomi vanno indicati nell'atto e che andranno specificate (ivi o in seguito) le circostanze su cui saranno chiamati a deporre; ma tutto questo non può sostituire la vera acquisizione probatoria e deve restare nell'ambito della preparazione del processo, che è lo scopo proprio dell'investigatio[55].

A dire il vero, però, gli scopi che il legislatore sembra assegnarle sono molto più ampi[56]. Da un lato, si tratta di far avvertire al fedele che la Chiesa si cura della sua condizione e delle conseguenti crisi di coscienza; per questa via, ottenere che egli si confidi e permetta di raccogliere gli elementi necessari ad un eventuale processo; ma, siccome non si può certo prevedere ex ante se emergeranno motivi di nullità, né tantomeno se saranno accolti, occorre anche fare in modo che la risposta negativa del giudice ecclesiastico non allontani nuovamente il fedele stesso. Si impone, dunque, un delicato bilanciamento tra la necessità di non suscitare false speranze, il dovere di ribadire e far comprendere la vera natura dei giudizi di nullità, la completezza dell'indagine e l'esigenza di stimolare la collaborazione della/e parte/i; per tacere del fatto che la vicinanza morale, spirituale o personale è qualcosa di ben diverso dal consenso al peccato, dalla certezza morale sulla sussistenza della nullità e anche dall'attività tecnica dell'avvocato.

Davvero è possibile che una sola persona riesca a fare tutto questo? E che cumuli le diverse competenze – giuridiche, psicologiche, di sensibilità umana, formazione spirituale... - nonché le sensibilità necessarie?[57]
Se poi si pensa ad un lavoro di équipe, come renderlo compatibile con l'esigenza di suscitare, per prima cosa, nell'interessato/a quella particolarissima fiducia che spinge a raccontare fatti molto personali?
Il problema mi sembra pressante e non credo proprio che la redazione dei Vademecum previsti da RP 3 potrà risolverlo in qualche modo[58].
3.3.2 – Processi di nullità solo per separati e divorziati?
Se, rispetto alla investigatio, sembrano darsi soprattutto difficoltà pratico-operative, non così per la fase introduttiva del giudizio e, in particolare, per il nuovo testo del can. 1675.
Esso sostituisce il precedente can. 1676, che faceva obbligo al giudice, prima di ammettere il libello (ed eventualmente anche in corso di causa, ove avesse ragione di sperare in un esito favorevole), di tentar  di convincere le parti a ripristinare la convivenza coniugale e a convalidare, se del caso, il matrimonio, sanando cioè i possibili vizi del consenso. Con ogni probabilità, nell'ottica “semplificatrice” della Commissione di riforma, è parso che si trattasse di una norma superflua, dato che, in genere, al giudizio di nullità si giunge quando l'unione è collassata ormai da lunga pezza e a tutto pensano i coniugi meno che a ristabilirla o convalidarla; quindi, i conditores hanno creduto opportuno trasformare il vecchio can. 1676 quasi nel suo contrario, non più un tentativo di riconciliazione obbligatorio, ma un obbligo di informarsi sull'inconciliabilità. Ossia, come dice il nuovo can. 1675, “Iudex, antequam causam acceptet, certior fieri debet matrimonium irreparabiliter pessum ivisse, ita ut coniugalis convictus restitui nequeat”. Il che sembra sottintendere: se, invece, emergesse che il matrimonio non è fallito, o non lo è in modo irrimediabile, si potrebbe svolgere, stavolta utilmente, il tentativo di riconciliazione ai sensi del can. 1446 §2[59].

E tuttavia, a quest'innovazione apparentemente innocua è sotteso un profondo mutamento di prospettiva: il legislatore, ora, considera il giudizio di nullità non più come semplice accertamento sulla validità del vincolo, ma anche come “rimedio” al fallimento di un'unione coniugale[60]. Tanto è vero che la investigatio praeiudicialis è rivolta proprio a separati o divorziati che dubitano o sono certi della nullità del proprio matrimonio (RP 3); RP preambolo assegna ai Tribunali in materia matrimoniale il compito di rispondere ai fedeli che chiedono la verità sull'esistenza del vincolo “sui collapsi matrimonii”; ecc.[61]

A questo punto, ci si può chiedere se questo fallimento del rapporto interpersonale sia solo un elemento accessorio la cui presenza viene data per scontata, oppure qualcosa di più. Dopotutto, prima ancora di valutare l'ammissibilità del libello, il giudice deve appurare se l'unione sia fallita e se lo sia senza rimedio; il che fa pensare ad un requisito indispensabile per l'introduzione della causa. Ma ciò potrebbe spiegarsi solo affermando che il dubbio sulla validità di matrimoni non falliti sia escluso dalle competenze giudiziali (cfr. can. 1505 §2). Oppure che diventi obbligatorio il ricorso agli istituti statali della separazione o del divorzio, come sembra che sia già la prassi almeno in alcune parti del mondo[62].

Fortunatamente, la proposizione “antequam causam acceptet” non si può leggere come “non acceptet nisi”. E, a parte ogni rilievo sul fatto che la Chiesa non può abdicare alla propria competenza esclusiva a giudicar della validità di un Sacramento, né condizionarne l'esercizio ad elementi estrinseci, i casi di rigetto del libello sono tassativi (can. 1505) e, addirittura, il silenzio del giudice sulla sua ammissibilità è equiparato ad una pronunzia affermativa (can. 1506); mancando una formulazione esplicita di segno opposto (e tenuto conto anche dei cann. 10 e 18)[63], dovrebbe ritenersi obbligatoria soltanto l'informazione sul fallimento, non anche il fallimento stesso[64].
Ma, sebbene questa sia l'interpretazione più corretta, il condizionale è d'obbligo.

Nondimeno, sarebbe forse stato preferibile limitarsi a sopprimere il vecchio can. 1676 o affermare, in positivo, che il tentativo di riconciliazione va esperito solo se appaia possibile il suo buon esito. Invece, per com'è formulato il nuovo dettato normativo – per giunta in un contesto che rende più severi i requisiti di ammissibilità del libello – sembra che il fallimento dell'unione sia un elemento la cui acquisizione al giudizio è indispensabile. Magari proprio per valutare se il libello si presenti dotato di qualche fondamento, come prescritto dal successivo can. 1676 §1. E, per questa via, l'interpretazione testé respinta verrebbe rimessa in gioco.

Contro ogni possibile dubbio, va precisato che “Il matrimonio nullo non è il matrimonio fallito. La nullità è dichiarazione della non esistenza del matrimonio. Il matrimonio fallito non è di per sé nullo.”[85]. In una causa dove si alleghi, ad es., il grave difetto di discrezione di giudizio, da parte di un coniuge o di entrambi, un fallimento del rapporto, specialmente se sopravvenuto a breve distanza dalle nozze, potrà tornare utile quale elemento a conferma; ma di per sé non rileva ai fini della decisione. Del resto, riservare il processo di nullità ai soli casi di fallimento irreparabile finirebbe per rivelarsi antipastorale, penalizzando quanti non sono passati a nuove unioni rispetto a chi - fino a prova contraria - è un pubblico concubino... ma, proprio per questo può addurre una ragione abbastanza macroscopica dell'impossibilità materiale, o almeno morale, di ripristinare la convivenza con il primo coniuge (per la Chiesa, l'unico, fino a sopraggiunta prova della nullità).

Tuttavia, il rescritto pontificio del 7 dicembre ha mutato nuovamente i termini della questione. Esso afferma – in maniera implicita, ma chiara: cfr. infra, §3.4.4 - che, in presenza di una sentenza di nullità seguita da nuovo matrimonio canonico, non basta che sopravvenga un dubbio probabile pro vinculo, ma occorre la “manifesta ingiustizia” della precedente pronunzia. In altri termini, la Chiesa rinuncia ad accertare la verità sul primo vincolo, tenendo comunque fermo il secondo.

Rimando al paragrafo già indicato per ulteriori ragguagli, ma è chiara fin d'ora la rilevanza ai fini interpretativi. Se, prima, si poteva affermare che, in presenza di un dubbio probabile, esistesse per definizione una ratio peccati vitandi che giustifica l'esercizio della giurisdizione ecclesiastica[66], ora a ciò si oppone l'esistenza di un altro rapporto, non fallito[67]. E allora, non potrà dirsi, specularmente, che oltre al dubbio probabile occorre il fallimento irreparabile di un rapporto e che, mancando quest'ultimo elemento, il dubbio non è materia di cognizione giudiziale, ma solo di azione pastorale?

È vero che, di fatto, ben difficilmente si arriva a introdurre il giudizio di nullità se il matrimonio non è fallito[68]; ma il problema di fondo non è puramente teorico, come spero di aver mostrato. A rigore, il rescritto non dovrebbe comunque imporre una lettura restrittiva del diritto di azione, mancando previsioni espresse; ma non potrei dirmi sorpreso se questa si affermasse egualmente[69].

3.4 - Disciplina processuale

Un raffronto della normativa vecchia e nuova in ogni singolo punto richiederebbe troppo spazio e un bagaglio eccessivo di considerazioni tecniche; cercherò, quindi, di limitarmi alle novità dotate di qualche rilievo per una valutazione globale della riforma in esame.
3.4.1 - La struttura del nuovo processus brevior
Tutte le cause di nullità matrimoniale, sia che si intenda introdurle con il rito ordinario sia che si chieda la trattazione secondo il processus brevior, iniziano con la presentazione del libello e la sua ammissione da parte del giudice. La riforma, tuttavia, accentra presso il Vicario giudiziale, che si suppone particolarmente qualificato, sia il vaglio di ammissibilità sia quello sul rito da seguirsi; il primo, inoltre, è reso più severo, perché, secondo la disciplina generale sul processo (prima applicate anche ai giudizi di nullità), il giudice può rigettare il libello solo se gli appare palesemente privo di fondamento, al punto che non vi sia possibilità di veder emergere tale fondamento neppure dalla versione di controparte o dalle prove (can. 1505 §2 n. 4)[70]; ora, invece, il nuovo can. 1676 §1 richiede, fin dall'inizio, una positiva probabilità morale di fondatezza della domanda (questa mi sembra la sola lettura possibile della condizione “Vicarius iudicialis si aestimet eum aliquo fundamento niti”)[71]. Il che si spiega considerando che l'investigatio praeiudicialis dovrebbe consentire la redazione di libelli più completi di quanto non prescriva il can. 1504.

[...]

Inoltre, occorre che i fatti dedotti in giudizio soddisfino un doppio requisito congiunto[84]: semplicità dell'istruttoria e carattere “manifesto” della nullità (“accuratiorem disquisitionem aut investigationem non exigant, et nullitatem manifestam reddant”).

[...]

Sgombriamo subito il campo da un equivoco che talvolta si è manifestato: non si tratta di nuovi motivi di nullità, ma solo di un elenco esemplificativo delle circostanze fattuali e personali che consentono la trattazione secondo il processus brevior. Il tenore del testo è inequivoco in tal senso[85].

Ci si può chiedere, però, se non ci troviamo di fronte ad una serie di presunzioni legali sulla sussistenza di motivi di nullità, dato che questa dev'essere manifesta[86]. Ma la risposta è negativa: resta vigente il principio opposto del favor matrimonii, per cui si presume la validità del matrimonio; onde la Segnatura Apostolica, a suo tempo, ha stroncato l'impiego di elenchi di presumptions of fact destinate ad un'applicazione automatica e generalizzata, richiamando l'attenzione sul fatto che è bensì ammissibile la prova della nullità per presunzioni, ma soltanto con ragionamenti costruiti sul caso concreto e non a priori[87]. Altrimenti detto: il favor matrimonii è regola generale di giudizio, che cede di fronte alle circostanze delle singole fattispecie (diversamente, si tratterebbe di presunzione assoluta e il matrimonio non sarebbe affatto impugnabile), ma non ad altre regole generali. Nel caso concreto si può costruire una presunzione semplice, che può fondare la prova, e possono darsi anche circostanze tali da rendere manifesta la nullità; invece, non sono ammesse presunzioni legali di segno contrario al favor, il cui effetto, peraltro, non sarebbe dimostrare la nullità, ma invertire l'onere della prova e addossare al difensore del vincolo il compito di provare la validità (cfr. can. 1585)[88].

Si potrebbe pensare, allora, che RP 14 §1 sia un elenco di indizi intorno a cui costruire presunzioni semplici; ma, sebbene nulla vieti di strutturare il libello come ragionamento presuntivo, occorre ricordare che la presunzione semplice è un mezzo di prova, che mira a far raggiungere la certezza morale, mentre in RP 14 §1 si parla di qualcosa d'altro e di meno: se si trattasse di prova per presunzioni, sarebbe inutile il processo, non sarebbe necessario acquisire testimonianze e documenti (cfr. can. 1683 §2) e si potrebbe pronunciar direttamente la sentenza. Invece, l'elenco rileva solo sul piano processuale, per consentire la trattazione con il processus brevior; e, all'uopo, occorre che il libello prospetti un capo di nullità che appare prima facie fondato, ma che, comunque, resta un'ipotesi da verificare in giudizio[89]. Si richiede, dunque, qualcosa di più del dubbio probabile pro nullitate, necessario all'ammissione del libello stesso; e precisamente che al Vicario giudiziale – attese quelle circostanze, letti quei documenti, supposto un esito favorevole delle prove orali - la tesi pro vinculo sembri improbabile[90]. Non per nulla RP 12 ci ricorda che la certezza morale non è data dalla semplice probabilità, neanche dalla maggior probabilità rispetto all'opinione contraria o da un criterio di “prevalenza” nelle prove o negli indizi; ma esige che si escluda qualsiasi ragionevole dubbio, lasciando, al massimo, una mera possibilità astratta del contrario. Il processo e l'istruttoria sono funzionali, appunto, a colmare lo iato che pur separa questa fondatezza prognostica dalla vera certezza morale[91].

Però, sussiste chiaramente il rischio di confondere l'improbabilità rebus sic stantibus con l'improbabilità tout court, di ritenere – in un giudizio speculare, per così dire, al can.  1505 §2 n. 4 – che gli elementi pro vinculo non potranno emergere neppure nel corso del processo. Ciò equivarrebbe ad una certezza morale pro nullitate e renderebbe il seguito dell'iter una mera formalità[92].

Proprio per il clima antigiuridico e facilone che si respira, nonché per le obiettive difficoltà di interpretazione, la scelta di redigere un elenco come quello di RP 14 §1 sembra molto infelice[93]: il valore paradigmatico che il legislatore parrebbe aver attribuito a quelle circostanze rischia seriamente di indurre pericolosi slittamenti interpretativi[94], non troppo diversi dagli automatismi verificatisi con le presumptions of fact (soprattutto le varie circostanze dolosamente nascoste potrebbero ampliare eccessivamente i confini dell'errore sulla qualità)[95]. Contro tale rischio, occorre ribadire che solo nel caso concreto si può valutare se effettivamente il libello presenti una domanda di nullità che appare fondata prima facie (s'intende, se le prove da assumere la confermeranno)[96]; appunto per questo RP 14 §1 non elenca tutte le circostanze possibili.

D'altronde, non è neanche detto che il fatto di rientrare nell'elenco assicuri in automatico l'accesso a tale rito[97]. A tacer d'altro, se si addurrà una circostanza di quelle ivi enumerate, essa dovrà essere coerente con il capo di nullità invocato[98]: la persistenza in una relazione extraconiugale in epoca molto vicina alle nozze può, senza dubbio, costituire un forte indizio di nullità per esclusione del bonum fidei, l'impegno alla fedeltà, ma servirebbe già molto meno se si invocasse l'esclusa indissolubilità (bonum Sacramenti) e nulla direbbe a proposito dell'intento di avere o non avere figli (bonum prolis). Questa considerazione consente di ricondurre ad una certa razionalità le previsioni di RP 14 §1 e, a mio avviso, supera la critica di Peters, secondo cui “traditional grounds of nullity have been mixed in among things that could be evidence for other grounds of nullity, and further mixed with things that are not grounds for nullity and often are not even evidence of grounds for nullity”[99]. Tuttavia, egli ha perfettamente ragione quando afferma che l'elenco minaccia di creare crisi di coscienza: si pensi a tutti coloro che si sono sposati per una gravidanza inattesa; e che dire, poi, se uno dei nubendi era sostanzialmente indifferente alla religione, dato che è stato collocato addirittura al primo posto il fidei defectus?[100]

A questo proposito, è bene spendere qualche parola in più.
Nessun altro punto dell'elenco ha suscitato una simile levata di scudi. Si è obiettato, e giustamente, che la validità del matrimonio canonico non è mai dipesa dalla fede religiosa, più o meno profonda, dei singoli contraenti, ma dal consenso sufficiente su quelle che sono le proprietà naturali di ogni vero matrimonio: unicità, fedeltà, indissolubilità, orientamento alla procreazione.

In realtà, però, RP 14 §1 non dice affatto che la mancanza di fede rende nullo il matrimonio, ma parla di “is fidei defectus qui gignere potest simulationem consensus vel errorem voluntatem determinantem”. Sarà la simulazione, o l'errore, a render nullo il matrimonio[101]. E la giurisprudenza rotale è ferma, da tempo, nel sostenere che la mancanza di fede può indurre, certamente, a simulare un consenso che in realtà non si presta, però solo come causa simulandi remota: occorre, infatti, che si giunga ad escludere una delle citate proprietà naturali del matrimonio, oppure alla simulazione assoluta, considerando «l'échange des consentements à l'église comme étant sans aucune valeur»[102]. In questi termini, dunque, il primo punto dell'elenco, se ha valore paradigmatico, lo ha semmai nel senso di confermare la necessità di ragionare sul caso concreto (e non sulla semplice adesione di Tizio alla tal dottrina religiosa o filosofica, anche se – in ipotesi - direttamente contraria ai princìpi naturali sul matrimonio): il Vicario giudiziale, per disporre il processus brevior, dovrà valutare se la mancanza di fede di Tizio, concretamente descritta in tutti i dettagli significativi, possa, in astratto e a priori, ingenerare una simulazione o un errore determinante[103]; se poi ciò sia avvenuto effettivamente in casu dovrà emergere dal processo.

Quindi, la mancanza di fede, in sé, non assicura affatto il processus brevior – meno ancora la sentenza affermativa - ma occorre presentare al giudice una descrizione del caso che renda prima facie plausibile il vizio del consenso. E lo stesso deve dirsi per tutti gli altri casi di RP 14 §1. In effetti, come dice Peters, “a judicial vicar must provide certification that the petition proposed for speedy processing meets certain evidentiary criteria [...] but the judicial vicar is not making a judgment as to nullity when he verifies the presence of certain evidence”[104]. E che la valutazione in gioco sia essenzialmente una prognosi di semplicità dell'istruttoria è confermato anche dal fatto che, sebbene il testo della legge non lo dica, contestualmente alla scelta del rito si devono ammettere le prove, dato che si fissa l'udienza per assumerle (cfr. can. 1685). Ma soprattutto, dal momento che il processus brevior può concludersi con sentenza solo se vi è certezza morale pro nullitate, altrimenti la causa dev'essere rimessa al rito ordinario, si desume che esso è funzionale alla verifica di un'ipotesi di nullità ben precisa e si conferma che il carattere “manifesto” attribuito ex ante alla nullità non esclude affatto che, all'esito delle prove, sussistano dubbi. I quali andranno risolti in giudizio ordinario, essendosi rivelata infondata quella prognosi di agevole formazione della certezza morale che aveva giustificato il ricorso al rito più celere[105].
Così esaurita l'intricata questione, riprendiamo ad esaminare il corso del giudizio semplificato.

Con lo stesso decreto che fissa la formula del dubbio, il Vicario giudiziale nomina l'assessore e l'istruttore (can. 1685), al quale spetta il compito di raccogliere le prove (can. 1686): si tratta, quindi, della figura di giudice che il Codice chiama “uditore”[106]. Tuttavia, questo è l'unico giudice cui il CIC 1983 non richieda titoli accademici in materia giuridica, ma solo il possesso di prudentia e doctrina (cfr. can. 1428 §2):  scelta giustamente criticata, attesa la somma delicatezza dell'attività di raccolta delle prove, nel corso della quale, per giunta, sorge ogni genere di questioni processuali, che proprio all'uditore, di regola, spetta dirimere[107]; nel caso del processus brevior, la critica si impone con forza anche maggiore, considerato che, a valle, il potere decisorio sta nelle mani del Vescovo, che, in genere, sarà a sua volta un non-tecnico[108]. Difficile dare torto a Peters: “In sum, this general lack of awareness of the inescapably complex legal nature of marriage consent shown in these new rules is disturbing.”[109]. Al più, si può vedere un timido correttivo in RP 16, che consente al Vicario giudiziale di assumere egli stesso la veste di istruttore[110].

Le parti, i testimoni e chiunque vi abbia a intervenire vanno citati a comparire all'udienza fissata con il decreto di nomina dell'istruttore, che va tenuta entro trenta giorni (can. 1685; cfr. can. 1661 §1); la citazione avverte altresì le parti della facoltà di indicare, fino a tre giorni prima, le domande da rivolgersi ai testi o alle parti stesse (RP 17)[111]. Infatti, sebbene il Mitis Iudex non lo rammenti espressamente, resta senz'altro in vigore il principio per cui il giudice è tenuto ad interrogare le parti (can. 1530, DC 177) ed esse a rispondere secondo verità e, in linea di principio, sotto giuramento (cann. 1531-2, DC 167). Vi è, semmai, una novità di carattere procedurale: dal momento che le prove debbono essere assunte in un'unica udienza, le parti sono autorizzate ad assistere alle deposizioni altrui, in deroga al generale divieto e sempreché l'istruttore, per ragioni di opportunità, non disponga altrimenti (RP 18 §1; cfr. il nuovo can. 1677 §2)[112]. Si ammette la redazione di un verbale sommario, come nel processo contenzioso orale (RP 18 §2; cfr. can. 1664)[113].

È, quindi, il momento di affrontare un'altra delle novità principali della riforma, il peso probatorio delle dichiarazioni delle parti.
3.4.2 - Il nuovo ruolo delle dichiarazioni delle parti[114]
Intuitivamente, sono “dichiarazioni delle parti” tutte le loro asserzioni concernenti l'oggetto del giudizio; ma, a rigore, le versioni dei fatti esposte negli atti di causa non sono, in sé stesse, una prova, semmai delineano l'oggetto del giudizio e della prova, ossia il thema decidendum e il thema probandum; quindi non si considerano “dichiarazioni” in senso tecnico, il solo che qui interessa. A parte quest'importante limite, però, rilevano tutte le dichiarazioni, rese in giudizio o fuori, per iscritto o a voce, prima che si cominci a coltivare la lite oppure in “tempo sospetto”.

Tradizionalmente, peraltro, la parte, proprio in quanto tale, non è ammessa a testimoniare[115] e quanto essa afferma rileva solo in quanto deponga a suo sfavore, cioè costituisca una confessione (cfr. can. 1535). In questo genere di cause, inoltre, l'Istruzione Provida Mater[116] (art. 117) affermava che la deposizione giudiziale dei coniugi non era idonea a costituire prova contro la validità del matrimonio; in altri termini, alla normale sfiducia verso chi cerchi di ottenere una pronuncia in proprio favore si sommava la convinzione che le parti potessero essere tentate di mentire specialmente per ottenere la nullità. Ma, a questo proposito, giova osservare che la confessione è sempre stata definita come resa contro la propria versione o tesi, non contro il matrimonio, proprio perché può benissimo capitare, e di fatto capita, che l'attore accusi la validità delle nozze e il convenuto la difenda. Eppure, la giurisprudenza rotale, influenzata proprio dalla Provida Mater, ha preso a chiamare “confessioni” tutti gli asserti dei coniugi pro vinculo, tanto che ancora oggi, in un contesto normativo assai mutato, la Dignitas connubii (art. 179) accoglie entrambe le definizioni di “confessione”.

Tuttavia, i giudici si sono resi perfettamente conto che, spesso e volentieri, nelle cause matrimoniali solo le parti sono a conoscenza dei fatti. Anzi, a volte una parte sola, come nei casi di riserva mentale. Per questo non sono mancate – già sotto il regime del CIC 1917 e della Provida Mater - sentenze di Rota che fondavano la pronunzia di nullità sulle dichiarazioni delle parti; anzi, nel 1951 il S. Uffizio non aveva difficoltà a riconoscere, riguardo a siffatti capi di nullità, che “in hoc causarum genere […] res est in interiore animo recondita” e non si poteva che partire dall'asserto dell'interessato, per la cui conferma le presunzioni erano l'argomento migliore (“potissimus locus”)[117].

La riforma del Codice ha rivoluzionato la materia, collocando le dichiarazioni delle parti – tutte, non solo la confessione – al primo posto nell'elenco delle prove[118] e consentendo loro di ottenere efficacia probatoria piena anche se favorevoli a chi le proferisce e/o alla nullità. Questo per svariate ragioni: anzitutto, l'esperienza di una prassi dove le dichiarazioni si erano rivelate fondamentali per accertare la verità, a chiunque giovasse; poi, una maggior considerazione delle parti nella loro dignità di persone, e non di sospettati, bensì di protagoniste del processo come momento di ricerca della verità; e, non da ultimo, il criterio di riforma che prescriveva di evitare, quanto più possibile, i conflitti tra foro interno e foro esterno, ossia, in questo caso, le cc.dd. “nullità di coscienza”, non dimostrabili in Tribunale.

Il can. 1536 §2, così, dispone che, nelle cause che riguardano il bene pubblico (e le matrimoniali vi rientrano), “confessio iudicialis et partium declarationes, quae non sint confessiones, vim probandi habere possunt, a iudice aestimandam una cum ceteris causae adiunctis, at vis plenae probationis ipsis tribui nequit, nisi alia accedant elementa quae eas omnino corroborent.”; e, per i giudizi di nullità del matrimonio, il can. 1679 ante riforma precisa il carattere di questi elementi aggiuntivi, disponendo che “Nisi proationes aliunde plenae habeantur, iudex, ad partium depositiones ad normam can. 1536 aestimandas, testes de ipsarum partium credibilitate, si fieri potest, adhibeat, praeter alia indicia et adminicula.”.

Adesso, a termini del nuovo can. 1678 §1, [...] non è più necessario assumere testimonianze sulla credibilità e il valore di prova piena – eventuale - non è più subordinato all'esistenza di altri elementi a conferma, ma ad una valutazione in globo e all'assenza di dati che smentiscano le dichiarazioni in parola. E si noti: il testo non parla più di partium depositiones, sicché non è escluso, in linea di principio, che assurgano a prova piena anche dichiarazioni stragiudiziali.

Ha probabilmente ragione Mons. Llobell quando afferma che si tratta più di un mutamento di prospettiva che di un'innovazione concreta, dato che, alla fin fine, il criterio fondamentale resta pur sempre quello del can. 1536, ossia la valutazione insieme con tutti gli altri elementi della causa[119]. Però si passa dalla ricerca di conferme alla verifica sull'assenza di smentite; e, anche se la nuova regola vale pure per il giudizio ordinario, in un contesto come il processus brevior sembra foriera di particolari inconvenienti. Dopotutto, ex hypothesi le parti concordano nel chiedere la nullità; quindi, anche se non è detto che il loro accordo si estenda alla precisa versione dei fatti, è molto probabile che le loro dichiarazioni convergano, per giunta in un quadro che, ex ante, già è stato valutato univoco nel senso della nullità. Difficile, a questo punto, non porsi il problema delle loro possibili collusioni in frode alla validità del matrimonio! Tanto più che il can. 1678 §2 consente di attribuire valore di prova piena anche alla deposizione di un unico teste, se “rerum et personarum adiuncta id suadeant”, quindi potrebbe rivelarsi piuttosto facile pilotare l'istruttoria verso una conclusione prestabilita. Insomma, Peters e Gomez Betancur hanno buoni motivi per dirsi particolarmente preoccupati dal rischio di collusioni e manipolazioni; la domanda è se le cautele predisposte dalla disciplina processuale siano sufficienti.
Temo che la risposta non sia interamente positiva.

Credo che si possa sostenere, argomentando ex RP 15, che la partecipazione personale al processo di entrambe le parti sia un requisito essenziale per la celebrazione del giudizio in forma abbreviata, proprio perché consente il loro esame diretto, quindi raccolta e verifica delle dichiarazioni tramite interrogatorio[120]. Può darsi, visto il nuovo testo del can. 1678 §1, che la forma di deposizione non sia più necessaria perché esse assurgano a prova piena, ma resta certamente preferita e considerata il modo normale di acquisizione (cfr. RP 18); e non senza buoni motivi, dato che rende molto più difficile sostenere le menzogne, ai testi come alle parti. Ma, a fronte dell'accresciuto pericolo, sarebbe stato opportuno rafforzare le tutele; invece, a parer mio, esse sono state indebolite dalla prescrizione di un verbale meramente sommario e limitato ai fatti che riguardano la sostanza - id est la validità - del matrimonio (RP 18 §2). Il che sottrae al Vescovo, o a chiunque sia il giudice decidente, materiale prezioso per valutare le deposizioni, soprattutto quelle delle parti. Peters teme che egli finisca per dipendere troppo dalle impressioni dell'uditore; ma è difficile evitarlo, quando la prova è assunta da una persona diversa da chi decide, e il diritto canonico consente da tempo questa possibilità. Il solo possibile contrappeso è costituito (dalla sagacia personale dell'istruttore e) dal difensore del vincolo; ma, come nota sempre Peters, questi ha davvero poco tempo a disposizione per studiare il caso e intervenirvi attivamente[121].

Insomma, la riforma relativa alle dichiarazioni delle parti richiederebbe maggiori cautele giuridiche e una selezione più accurata del personale, specialmente degli istruttori; invece inserisce nel processo l'assessore, che può anche non avere alcuna formazione giuridica, e – dato il carico di lavoro che grava sui difensori del vincolo - diminuisce le loro possibilità concrete di azione.

La conclusione del processus brevior[122] non prevede la stesura di un summarium, un rapporto di sintesi sulle risultanze dell'istruttoria, e neppure la decisione all'esito di discussione orale[123]: il can. 1687 §1 vuole assicurare al Vescovo un contatto immediato con gli atti e le diverse voci dei protagonisti del processo, oltreché con i pareri di istruttore e assessore. La disposizione, in sé stessa, è opportuna; ma la sua efficacia dipende dall'effettiva diversità delle voci in questione, perché, con le parti che suonano all'incirca la stessa musica, un assessore che non si sa bene quali competenze peculiari apporti, un istruttore che potrebbe 
  1. non sapere abbastanza di diritto e
  2. essere condizionato pro nullitate dal decreto che opta per il processus brevior, nonché con un difensore del vincolo coartato dai termini giugulatori della procedura, il rischio di appiattimento generale su una stessa versione, più o meno addomesticata, sembra piuttosto concreto. 
In effetti, paradossalmente, la speranza più concreta è che il processus brevior resti vittima del suo stesso successo, dimodoché il carico di lavoro renda impossibile rispettare i termini di legge e, per questa via, restituisca margini d'azione al difensore del vincolo. Il fatto che RP 12 ribadisca e codifichi la definizione corretta di “certezza morale” è importante, soprattutto perché impone un esito univoco delle risultanze istruttorie per la pronunzia pro nullitate all'esito di processus brevior (e dunque il rinvio alla trattazione ordinaria negli altri casi)[124], ma da solo non basta.

Infine, la pronunzia del Vescovo avviene con sentenza, perché il processus brevior è a tutti gli effetti un procedimento giudiziario, non amministrativo e neppure di volontaria giurisdizione[125].
3.4.3 - Abolizione della doppia conforme necessaria[126]
Tra le innovazioni principali figura senz'altro, nonostante i contrari auspici di Mons. Llobell, il superamento della doppia conforme necessaria; salvo il diritto di proporre appello – e questa sembra una correzione significativa rispetto alla “incipiente, ma assolutamente omogenea, prassi rotale” sul rescritto di Benedetto XVI, rilevata dall'insigne canonista dell'Opus Dei[127] – per sancire lo stato libero dei coniugi basterà una sola sentenza pro nullitate, in qualunque istanza venga emessa, e non si richiederanno più due giudizi distinti conclusi con lo stesso esito (cfr. can. 1679). Tuttavia, l'appello avrà effetto sospensivo[128].

La nuova disciplina non parla affatto delle sentenze pro vinculo[129], ma già in precedenza esse non abbisognavano di conferma in seconda istanza, sicché il Tribunale non era tenuto a trasmettere d'ufficio gli atti al giudice superiore (cfr. vecchio can. 1682 e DC 264, 266; ora tale procedura è stata abrogata). Sicché, il regime delle pronunce di prima istanza è identico quanto a mezzi di impugnazione e conferma non necessaria; tuttavia, quella pro nullitate è idonea, se spirano inutilmente i termini per l'appello, a sancire lo stato libero e consentire le nuove nozze, mentre analoga efficacia non è prevista in modo espresso per la decisione pro vinculo. Per evitare la disparità di trattamento e il conseguente favor nullitatis processuale, da lui già denunziata nelle facoltà speciali, Llobell sostiene che non sia più ammesso l'appello tardivo nelle cause matrimoniali, come invece è avvenuto pacificamente finora[130]; a parte il possibile contrasto con il principio per cui le relative sentenze non passano mai in giudicato (can. 1643) – che poi è la ragione pe cui la prassi rotale ammette, oltre agli appelli tardivi, anche le riassunzioni di procedimenti d'appello archiviati ormai da anni[131] – questa lettura può trovare una conferma nel nuovo can. 1681, che rende la nova causae propositio esperibile contro ogni sentenza esecutiva (mentre il can. 1644 richiede la doppia conforme). Tuttavia, poiché l'esecutività della pro vinculo non appellata non è prevista espressamente dalla legge, sarebbe pienamente conforme al dato testuale una lettura che ammettesse gli appelli tardivi solo in questo caso, così facendo riemergere, per altra via, il favor nullitatis[132].

A parte gli interrogativi su questo punto, cui solo la giurisprudenza potrà dare risposta, la principale obiezione al superamento della doppia conforme si fonda sulla diminuzione delle garanzie contro le nullità facili. Tuttavia, occorre riconoscere francamente che essa, in tal senso, non funzionava affatto: in Italia, ma non solo[133], la percentuale di sentenze riformate in secondo grado si aggirava sullo zero virgola. Sia perché, di solito, il materiale di indagine restava lo stesso; sia perché, ormai (e forse diversamente da quando Benedetto XIV ha introdotto l'istituto), i giudici diocesani, in una stessa nazione, hanno pressapoco tutti la stessa mentalità, la stessa formazione, gli stessi pregi e difetti: la cultura della nullità facile, se prende piede, infesta tanto il primo quanto il secondo grado[134]. Per restituire efficacia all'istituto, sarebbe stata necessaria la nomina romana dei giudici di seconda istanza, o almeno di alcuni; ma, a parte le difficoltà di attuazione pratica, da quarant'anni buoni a questa parte si va nella direzione opposta, cercando di decentrare anche la terza istanza, che spetterebbe alla Rota[135]. Rebus sic stantibus, la doppia conforme era davvero un costo senza guadagno[136] e ci si deve rammaricare, semmai, del citato rischio di favor nullitatis. Ma resta il problema delle nullità facili, che anzi minaccia di acuirsi, se non altro per l'impressione creatasi intorno al Mitis Iudex. E mi sembra grave che esso non preveda misure strutturali di contrasto[137], nonostante l'oggettiva ulteriore occasione di abusi costituita dal processus brevior[138].
3.4.4 – Le impugnazioni. In particolare, la nova causae propositio
Il Mitis Iudex tace del tutto su due mezzi di impugnazione, la querela nullitatis e la restitutio in integrum; introduce alcune novità riguardo all'appello; invece, rispetto alla nova causae propositio, ha vluto confermare l'assetto preesistente, ma, su questo punto, è intervenuto in maniera oltremodo incisiva il rescritto del 7 dicembre.

Le novità relative al procedimento di appello sono presto descritte. Anzitutto, in deroga alla regola per cui il numero dei giudicanti dev'essere lo stesso della prima istanza (can. 1441), si stabilisce la trattazione collegiale, a pena di nullità della pronunzia, se vengono impugnate sentenze dei giudici singoli (can. 1673 §5). Quindi, si disciplina il caso della sentenza resa in esito al processus brevior: essa va impugnata dinanzi al Metropolita o, se pronunziata da questi, davanti al suffraganeus antiquior (da intendersi, secondo il Pontificio Consiglio, come il Vescovo della Diocesi suffraganea più antica)[139]. Il ricorso a tale rito deve ritenersi non ammesso in seconda od ulteriore istanza[140].

Infine, secondo il nuovo can. 1680 §2, il collegio giudicante di appello, ricevuta l'impugnazione e le eventuali osservazioni delle diverse parti, incluso il difensore del vincolo[141], può rigettare in limine “si appellatio mere dilatoria evidenter appareat”: finora (can. 1682 §2) si prevedeva la conferma celere della decisione di primo grado pro nullitate, il che implicava comunque la certezza morale della sua bontà nel merito e, quindi, soddisfaceva il requisito di un doppio giudizio sulla questione; adesso, venuto meno tale requisito, fa premio l'esigenza di evitare un impiego dello strumento processuale non consono alla sua funzione[142]. Tuttavia, non è del tutto chiaro quando l'appello possa reputarsi meramente dilatorio; in ossequio all'interpretazione stretta non meno che alla lettera del testo (cann. 17 e 18), credo che si possa ritener tale quello che, oltre a non prospettare di per sé un dubbio probabile, non consenta neppure di prevedere che questo emergerà in corso di giudizio (cfr. can. 1505 §2 n. 4): solo in questo caso, a mio avviso, il carattere mere dilatorio può dirsi evidente[143].

Per il resto, il legislatore si premura di sottolineare che resta intatto il diritto di appello (cfr. can. 1680 §1), anche nel processus brevior e benché le parti abbiano consentito nella richiesta di nullità[144]; ma certamente si tratterà di un'evenienza rara e il solo probabile appellante resterà il difensore del vincolo. Rispetto al cui appello, peraltro, si ripropongono tutte le difficoltà già viste, più un'altra, non secondaria: egli dovrebbe impugnare una sentenza resa – si suppone – da colui che ha il potere di nominarlo, di rimuoverlo e di non rinnovargli l'incarico alla scadenza[145]. Al pari di quella dei giudici, anche la sua nomina è a tempo determinato, priva di garanzie di stabilità apprezzabili: un grave difetto originario del CIC 1983, che ora si aggrava perché il Vescovo torna, o dovrebbe tornare, all'esercizio diretto della potestà giudiziale.

Se la sentenza resa in seconda istanza sarà difforme dalla precedente, la terza istanza non sarà più obbligatoria, ma resterà consentita a chi voglia appellare[146]. E così pure la quarta e ogni ulteriore grado, fino all'esaurimento dei mezzi di impugnazione o al formarsi di una doppia conforme[147]. Al riguardo, però, considerato che ora, trascorsi i termini per l'appello, diventa esecutiva già la prima sentenza pro nullitate, si superi quell'orientamento – solo parziale in Rota, ma avallato dalla Segnatura[148] – “che considera sempre conformi due sentenze pro nullitate matrimonii, persino per vizi del consenso non imputabili allo stesso coniuge. Tale accomodante impostazione implicava in realtà la dispensa dall’obbligo della doppia sentenza conforme, come indicò Anné in un decreto del 1974 nel quale egli notava che, all’epoca, la dispensa della doppia sentenza conforme era competenza del Papa, non della Rota Romana.”[149].

Una volta formatasi la doppia conforme, per il principio per cui le sentenze nelle cause sullo stato delle persone non passano mai in giudicato (can. 1643), è sempre possibile, senza limiti di tempo, riaprire il processo tramite un apposito mezzo di impugnazione, la nova causae propositio (cfr. cann. 1644 e 1681). All'uopo, è necessario addurre argomenti nuovi e gravi[150]: sono gravi quelli che rendono probabile la riforma della decisione impugnata (DC 292), mentre il requisito della novità, in giurisprudenza, si interpreta con una certa latitudine: [...] Già questa possibilità di critica, seppur stringente, all'avvenuta valutazione delle prove apre ampi spazi di riesame; inoltre, sono stati ammessi come “nuovi argomenti” anche errori giuridici della sentenza impugnata[152] o l'ingiustificato rigetto di istanze istruttorie. E soprattutto, il nuovo esame può essere richiesto anche da chi, in origine, abbia agito per ottenere la nullità e confessi di aver mentito o cospirato con l'altra parte per manovrare le sorti del processo: la ratio peccati e il favor veritatis fanno premio sulla pur ineccepibile considerazione che, in casi del genere, la parte ha ottenuto proprio quel che aveva chiesto e quindi, sul piano formale, non può lamentare alcun pregiudizio[154].

Finora, la nova causae propositio andava proposta al tribunale di grado superiore a quello che ha pronunziato l'ultima sentenza[155], quindi di regola al giudice della terza – od ulteriore – istanza, che nella Chiesa latina è quasi sempre la Rota Romana[156]. La scomparsa della doppia conforme necessaria avrebbe, invece, reso competente, almeno in molti casi, il giudice di seconda istanza; ma il nuovo can. 1681 ha previsto l'obbligo, per le cause matrimoniali, di esperire il ricorso per nuova proposizione “ad tribunal tertii gradus”. L'intento era, forse, mantenere il controllo della Rota su una materia molto delicata[157], su cui, per il resto, non si registravano novità, dato che i requisiti restavano inalterati[158].

Ma la situazione è radicalmente mutata con il rescritto pontificio del 7 dicembre.
Esso, che nel suo complesso sostituisce le facoltà speciali del 2013, al punto 3) dispone: «Dinanzi alla Rota Romana non è ammesso il ricorso per la N.C. P. (Nova Causae Propositio), dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione.».
Si tratta di una versione attenuata della preclusione precedente: l'estensore materiale del testo ha inteso, suppongo, tener conto delle critiche. Tuttavia, mentre le facoltà speciali potevano intendersi come una misura temporanea funzionale allo smaltimento dell'arretrato[159] - e il diritto alla nuova proposizione, essendo esperibile in ogni momento, non si perde per restrizioni ad certum tempus – nella nuova versione il divieto vale a tempo indeterminato. Di fatto, si modifica il Mitis Iudex, nel momento stesso in cui si dettano norme per applicarlo[160]; e si modifica anche la natura della nova causae propositio, se non addirittura quella delle sentenze di nullità matrimoniale.

Ma andiamo con ordine.
Il divieto, formalmente, è limitato alla Rota Romana; ma sarà difficile non estenderlo agli altri giudici di terza istanza, nonostante il contrario disposto del can. 18, perché non sembrano giustificabili né la disparità di trattamento, né la capitis deminutio del Tribunale Apostolico, cui il Papa assegna proprio la funzione di giudice superiore[162]. Tanto più che, in forza del primato pontificio, ogni fedele ha il diritto di deferire la propria causa alla Sede Apostolica (cfr. can. 1417)[162]. Insomma, a meno che il legislatore non ci sorprenda con altre novità, come ad es. l'istituzione di Tribunali stabili decentrati per la terza istanza, sembra proprio che il nuovo can. 1681 debba ritenersi, a tutti gli effetti, modificato dal rescritto, per quanto riguarda i presupposti della nova causae propositio.

Il che rende necessario considerare gli effetti sostanziali della nuova disciplina. D'ora innanzi, se “una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico”, il riesame sarà ammesso solo laddove “consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione.”. La formula coincide – alla lettera, almeno secondo la versione italiana del Codice – con quella che il can. 1645 §1 impiega per descrivere il presupposto dell'altro rimedio straordinario, la restitutio in integrum; e il successivo §2 stabilisce tassativamente quali siano i casi di manifesta ingiustizia. Senonché, la restitutio non si applica alle decisioni sulla nullità – o la validità – di un matrimonio, perché presuppone il giudicato[163]. E, a norma del can. 1643, questo non si forma mai nelle cause sullo stato delle persone. Certamente la pronunce di nullità, una volta esecutive, acquistano una stabilità che la dottrina chiama “quasi-giudicato”, perché possono essere rimesse in discussione solo da argomenti nuovi e gravi, addotti con nova causae propositio; ma ciò che contraddistingue il giudicato, e che non può darsi in questi casi, è il suo “effetto conformativo” sul piano sostanziale, per cui esso, dice l'icastica formula tradizionale, Facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis et falsum mutat in verum. Il can. 1642 è forse ancor più incisivo: “facit ius inter partes”, ossia fissa la res iusta, l'esatta misura e dimensione della giustizia tra loro. La fissa al punto di crearla, se per caso la sentenza fosse erronea: il giudice ha assegnato la proprietà del terreno a Tizio e questo rende Tizio proprietario anche se, in realtà, il diritto spettava a Caio. È evidente, quindi, perché, in cause come queste, il giudicato sia inammissibile a priori: esse devono restare giudizi di mero accertamento e non possono debordare neppure per accidente in decisioni costitutive, che, modificando la realtà del sacro vincolo, avrebbero gli effetti di un divorzio o di un matrimonio decretato dall'alto, senza consenso[164].

Adesso, però, si dice qualcosa di incompatibile con questa logica. Sebbene il can. 1643 resti in vigore, sebbene si continui a parlare di nova causae propositio anziché dichiarar applicabile la restitutio, si afferma che la pro nullitate seguita da nuovo matrimonio canonico può essere impugnata solo se sussiste il presupposto della restitutio. Questo equivale ad accordarle almeno uno degli effetti del can. 1642, l'eccezione di giudicato, che impedisce di riaprire la causa per qualsiasi altra ragione.

Ora, in diritto processuale i mezzi di impugnazione non sono condizionati a eventi incerti e privi di qualsiasi relazione con l'oggetto della causa; che il diritto alla nova propositio si possa perdere – almeno in larga misura – per effetto di una scelta personalissima dell'altro coniuge suscita, quantomeno, forti perplessità. Le quali aumentano se si esamina più da vicino l'ampiezza del vuoto di tutela.

Il can. 1645 §2, che enumera, in modo tassativo, i casi di manifesta ingiustizia della decisione[165]. E il caso della parte che confessi di aver mentito e/o manovrato ingiustamente per ottenere la nullità – limitiamoci a questo - parrebbe non rientrarvi: non sembra che si tratti di dolo in danno dell'altra parte (n. 3), sia perché potrebbe esservi stata collusione di entrambe (o indifferenza dell'altro coniuge all'esito del giudizio canonico) sia perché, dal punto di vista spirituale, l'autore della frode processuale danneggia anzitutto sé stesso; di sicuro, poi, non ci troviamo in presenza di prove scoperte false (n. 1), perché la falsità era nota fin dall'inizio, almeno al ricorrente; e la sua dichiarazione confessoria, anche se redatta per iscritto, non si qualificherebbe certo come un documento “scoperto” dopo la sentenza (n. 2). Inoltre, le prove false debbono essere state assunte ad unico fondamento della decisione; il che lascia scoperti quei casi in cui sono state valutate decisive insieme con altri elementi, dimodoché la riforma della sentenza appaia probabile, ma non certa (appunto questi sono i casi che dovrebbero rientrare nella nova propositio...). Infine, la violazione di una legge non meramente processuale (n. 4) – criterio il cui significato è, peraltro, controverso in dottrina – deve essere evidente e già solo per questo difficilmente potrà configurarsi[166].

Ma il problema va affrontato in termini più generali e prettamente teologici.
Come si è visto poc'anzi, un ricorso ammissibile per nova causae propositio getta, per definizione, un dubbio probabile sulla declaratoria di nullità: la certezza morale che sorreggeva il giudizio è venuta meno ed è tornata probabile la tesi pro vinculo. Un eventuale nuovo matrimonio, in simili circostanze, non dovrebbe costituire un quid da tutelare, ma semmai una ragione in più per definire celermente il giudizio, dato che il coniuge che si è risposato si trova in probabile stato di adulterio (e che anche la sua nuova controparte ha diritto alla chiarezza sul proprio stato, chiarezza che dipende in toto dalla verità sul primo vincolo). In teologia morale, la sentenza comune afferma che, se uno dei coniugi è certo della nullità del matrimonio, non può né chiedere né rendere il debito coniugale, perché agirebbe contro coscienza e commetterebbe adulterio o fornicazione (perfino se la sua certezza fosse erronea); se, invece, versa soltanto in un dubbio probabile, che tale è rimasto nonostante un'indagine diligente, vale il principio “In dubiis, melior est condicio possidentis”: la situazione di fatto, in cui vi è un'altra persona dotata dello status di coniuge, vale a risolvere il dubbio sul terreno pratico e determinare diritti e doveri. Forse l'estensore del rescritto ha ritenuto di poter applicare il medesimo principio in favore del secondo matrimonio... senonché, i medesimi autori formulano un'eccezione proprio riguardo all'impedimentum ligaminis. Se una parte dubita di essere ancora legata da un matrimonio precedente, allora la possessio e il favore del diritto vanno a questo e non all'ultimo, che sta o cade di conseguenza. A prescindere dall'eventuale buona fede di chi si è risposato[167] Per questo il procedimento di morte presunta, che in diritto canonico ha lo scopo precipuo di consentire nuove nozze, richiede la certezza morale del decesso e non si accontenta dell'assenza prolungata (cfr. can. 1707); e, più in generale, il can. 1085 sull'impedimento derivante da vincolo precedente stabilisce che la sua nullità o cessazione debbono constare “legitime et certo”. Non solo nei modi di legge, dunque, ma con certezza morale: il diritto canonico insiste su questo punto fin dal Decreto di Graziano e giunge perfino a dichiarare nulle le nuove nozze se il presunto morto è effettivamente deceduto, ma in data successiva al secondo matrimonio. Va da sé che non vi è differenza tra il dubbio sull'esistenza in vita e quello sulla validità del primo vincolo, quanto agli effetti sul successivo.

A questo punto, torniamo al nostro caso. Uno dei coniugi è certo della validità, oppure nutre almeno un dubbio probabile, che intende sottoporre al giudice. Forse egli stesso si è risposato, ma intende confessare di aver mentito – ipotesi più frequente di quanto si possa credere – o comunque è stato colto da scrupoli che hanno una consistenza oggettiva; forse si è risposata l'altra parte (il rescritto non distingue). Nel primo caso, in pratica gli si sta ordinando di rimanere in un'occasione prossima di peccato, dato che non sussistono neppure i presupposti perché il Vescovo lo autorizzi a separarsi dal nuovo coniuge (cfr. cann. 1151-3); né credo che si potrebbe legittimamente aggirare il divieto di nova causae propositio introducendo un giudizio di nullità relativo al secondo matrimonio, perché la sentenza di nullità sancisce lo stato libero finché non venga attaccata direttamente. Nel secondo caso, si potrebbe pensare che la situazione sia differente, a meno che la pronunzia di nullità non sia effetto della collusione di entrambi i coniugi: si potrebbe essere tentati di invocare, in favore delle parti del nuovo matrimonio, l'adagio Non sunt inquietandi. Ma questo precetto è rivolto al confessore, quando sospetti che 
  1. il penitente pecchi senza avvedersene, 
  2. l'ignoranza sia invincibile, nel senso che il penitente non è neppure sfiorato da un dubbio, 
  3. il confessore nutra il fondato timore che, ricevute le spiegazioni del caso, costui non si emenderebbe e 
  4. non vi sia pericolo di danno comune o scandalo[168]. Mai lo si è applicato fuori del foro della coscienza, mai lo si è invocato per escludere il diritto di agire in giudizio[169]; tantomeno, poi, il diritto di un terzo (quale sarebbe il primo coniuge rispetto al nuovo matrimonio).
Sul piano dell'interpretazione normativa, per ricondurre a razionalità questo stato di cose, si può solo affermare che il favor iuris va alle seconde nozze, perché legittimamente contratte, e che la sentenza di nullità, in tali circostanze, gode della stabilità propria del giudicato (cfr. can. 1642 §1). Ma ciò equivale a negare o la dipendenza del secondo matrimonio dal primo, o l'indissolubilità di questo, che verrebbe “sciolto” dalla sentenza, oppure il persistente rilievo giuridico della sua probabile validità. La già rammentata tendenza a concepire il processo di nullità come rimedio per “situazioni irregolari” farà, a mio avviso, propendere per quest'ultima soluzione... che, oltre a comportar l'esito paradossale di creare nuovi problemi di coscienza, al posto di quelli che si vogliono risolvere, non è compatibile con il dovere di verità intorno al Sacramento, da cui discende il diritto proprio ed esclusivo della Chiesa di conoscere le cause matrimoniali, sancito dalla definizione dogmatica del Concilio di Trento[170].
Vien fatto di chiedersi se ci troviamo di fronte ad una legge intrinsecamente cattiva.

Non intendo esaminare in questa sede un problema così complesso, dove entrerebbe in gioco anche un principio teologico come l'indefettibilità della Chiesa[171]. Ma credo che i giudici rotali dovrebbe rivendicare i poteri a loro attribuiti dall'aequitas canonica e disapplicare il rescritto.

4 - Conclusioni

Un celebre testo di Isidoro di Siviglia, enumerando i requisiti della legge umana, afferma che essa deve essere “possibilis secundum consuetudinem patriae, loco temporisque conveniens”; e S. Tommaso nota che queste qualitates la commisurano all'utilità dell'uomo, in vista della quale essa è promulgata. 

All'apparire del Mitis Iudex, da più parti si è gridato al “divorzio cattolico”. Si tratta di un giudizio che non condivido; e credo di aver spiegato adeguatamente il perché nelle pagine che precedono. Tuttavia, ciascuna delle sue innovazioni, sensata in astratto, è quantomeno inopportuna, spesso pericolosa, nella situazione concreta in cui dovrà operare; e possiamo star certi che promozione della sanatoria di situazioni irregolari, facilità di ricorso al forum actoris, consenso presunto al processus brevior, automatismi e mancanza di tassatività in RP 14 §1, maggior peso delle dichiarazioni delle parti e, soprattutto, assenza di controlli effettivi (grazie anche al superamento della doppia conforme necessaria) si combineranno in una miscela letale per i giudizi di nullità rettamente intesi. Quindi, la riforma – a meno di un improbabilissimo rigore generalizzato nella sua applicazione – arrecherà molti più danni che vantaggi.

Il discorso si fa ancor più severo per quanto concerne la norma 3) del rescritto pontificio: presupponendo, come minimo, un'opinione temeraria in teologia morale, essa mette a repentaglio la coscienza dei fedeli, contrasta con il principio di non passaggio in giudicato delle sentenze pro nullitate e nessuno sforzo interpretativo può evitare che si risolva in un diniego di giustizia da parte del Tribunale del Papa, per ordine del Papa. Per i giudici rotali, ma anche per i fedeli, è tempo di scelte drastiche.
Guido Ferro Canale
____________________________________
   1. Si tratterebbe, per la precisione, di affrontar «l’esigenza di armonizzare la rinnovata procedura nei processi matrimoniali con le Norme proprie della Rota Romana, in attesa della loro riforma.». Rescritto del Santo Padre Francesco sul compimento e l'osservanza della nuova legge del processo matrimoniale, 7 dicembre 2015, pubblicato sul Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede l'11 dicembre 2015. Peraltro, la denominazione di rescritto non sembra appropriata: sebbene tutto lasci supporre una previa richiesta di Mons. Pinto, il documento non ne fa menzione – né parla di un'udienza accordata al richiedente, sebbene news.va lo definisca rescritto “ex audientia” - ed è firmato direttamente dal Papa, non dal richiedente come nella prassi della Curia Romana.
   2. Parlo, ovviamente, delle discussioni che hanno avuto rilievo mediatico; va da sé che i canonisti non hanno mancato di considerare il rescritto e la sua importanza, tant'è vero che, per il prosieguo dell'illustrazione, potrò fare riferimento a J. Llobell, Novità procedurali riguardanti la Rota Romana: le facoltà speciali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 21 ottobre 2013.
   3. «Personalmente ebbi notizia di questo importante rescritto il giorno 5 marzo 2013, quando l’Ecc.mo Decano della Rota convocò quanti si trovavano nella sede del Tribunale Apostolico per renderlo pubblico, lo lesse e dispose che ne fosse affissa una copia su una delle bacheche della sala d’ingresso della Rota.». J. Llobell, Novità..., pag. 2.
   4. Il can. 1453 fissa la durata auspicabile dei processi in un anno per la prima istanza e sei mesi per la seconda, ma nulla dice sulla terza e ulteriore, cioè appunto sulla sede tipica di intervento della Rota; quindi, il rescritto colma una lacuna legislativa e, nello stesso tempo, deroga al can. cit. per il caso in cui la prima istanza o la seconda pendano presso il Tribunale Apostolico della Rota Romana.
    5. Così J. Llobell, Novità..., pagg. 29-30.
    6. Ibid., pag. 32.
   7. Il rescritto del 7 dicembre, che si presenta come un primo coordinamento tra Norme rotali e nuova disciplina del processo, riprende la III e la IV, ma non la V, che tuttavia potrebbe ricomparire nell'aggiornamento complessivo delle Norme.
   8. È stato, però, ripreso dal recentissimo rescritto del 7 dicembre, che, al punto 3), dispone: «Dinanzi alla Rota Romana non è ammesso il ricorso per la N.C. P. (Nova Causae Propositio), dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione.». Il commento in proposito compete al §3.4.4, ma posso affermare già in questa sede che la rettifica si mostra gravemente insufficiente.
    9. J. Llobell, Novità..., pagg. 17-8.
   10. Sebbene la nuova legge universale non abbia recepita quest'innovazione (cfr. infra, §4.3.1), si può ritenere che essa sopravviva al Mitis Iudex e continui ad applicarsi fino alla scadenza del rescritto.
   11. Cfr. i diversi saggi in tema, poi raccolti in C. de Diego-Lora, Estudios de derecho procesál canónico III-IV, Pamplona 1990. Peraltro, il ragionamento riferito nel testo si inscrive nell'ambito di una tesi che - contro la lettera del Codice - afferma che anche le sentenze in materia matrimoniale passano in giudicato, perché per infirmarle con la nova causae propositio non basta qualsiasi argomento, ma se ne richiedono di “nuovi e gravi”.
   12. Infatti, per l'Istruzione Dignitas connubii (DC) art. 292 e secondo la giurisprudenza della Segnatura Apostolica, i motivi addotti per la nova causae propositio si considerano “gravi”, quindi ammissibili, «quatenus decisiuonum reformationem saltem probabilem reddunt, non sufficiunt vero merae censurae et animadversiones criticae» come invece negli appelli (Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, CG 42607/2012 – Nullitatis matrimonii. Novae causae propositionis, Decreto del Congresso, 11 maggio 2012, in Monitor Ecclesiasticus CXXIX [2014], pagg. 31-7, qui 32). Esiste, poi, anche la possibilità che il ricorso rechi la prova evidente dell'erroneità delle precedenti pronunzie, vuoi per incompetenza professionale o atteggiamento “divorzista” dei primi giudici, vuoi per manovre di una parte in danno dell'altra o, come pure è accaduto, di tutte e due in danno della Chiesa e della verità. Ma va da sé che, in tali nefande ipotesi, a fortiori non si potrà lasciar sussistere la doppia conforme (che sia pro nullitate o pro vinculo, sebbene la seconda possibilità mi sembri quasi soltanto accademica).
   13. Potranno semmai rilevare, a mio sommesso avviso, ai fini del can. 1644 §2, cioè per valutare se, ammesso il ricorso per nova causae propositio, occorra anche sospendere l'efficacia della precedente sentenza pro nullitate (cfr. anche DC 294).
   14. Cfr. Alessandro III, decretale Lator (X.2.27.7).
  15. Così, invece, J. Llobell, Novità..., pagg. 19-26, per i casi in cui l'errore si deve a scarsa professionalità dei giudici, non a manovre o collusioni cui abbia partecipato almeno uno dei coniugi.
   16. Alcune decretali – evidentemente considerando proprio la tranquillità di coscienza dei fedeli: nihil sub sole novi - hanno affermato la possibilità di dissimulare su un errore occulto, di cui l'autorità fosse venuta a conoscenza per vie traverse, senza una denuncia delle parti; palesemente, non è questo il caso e la dissimulazione, o “fingere di ignorare”, non è mai ammessa se un fedele avvia un procedimento accertativo. Sul tema, cfr., anche per gli opportuni esempi in materia matrimoniale, E. Olivero, Dissimulatio e tolerantia nell'ordinamento canonico, in Id., Studia Canonica, Milano 1987, pagg. 5-196.
   17. Per il foglio d'udienza e l'auspicio che, tramite la sua pubblicazione, si superi la prassi del rescritto, cfr. E. Baura, La procedura per ottenere facoltà speciali da parte dei Dicasteri della Curia Romana. Commento all'art. 126 bis del Regolamento Generale della Curia Romana, in Ius Ecclesiae 23 (2011), pagg. 290-8, spec. 293-4. In senso critico verso l'impiego disinvolto del rescriptum ex Audientia SS.mi per l'adozione di provvedimenti anche molto importanti e derogatori – a vario titolo – rispetto al diritto comune, cfr. V. Gómez-Iglesias, La “aprobación específica” en la “Pastor Bonus” y la seguridad jurídica, in Fidelium Iura 3 (1993), pagg. 361-426, spec. 377-82. Superfluo osservare che la situazione, rispetto ad allora, non sembra affatto migliorata: cfr. anche A. Viana, Sobre el recto ejercicio de la potestad de la Curia Romana, in Ius Canonicum, 51 (2011), pp. 531-45.
   18. Il sospetto, a mio avviso, è lecito, considerato il cumulo di stranezze e anomalie; ma vi è un forte argomento in contrario, ossia il fatto che interventi incisivi sui giudizi di nullità fossero già ad uno stadio avanzato di elaborazione, secondo quanto riferisce J. Llobell, Novità..., pagg. 2-3. È possibile, dunque, che la concessione delle facoltà speciali nasca da una decisione di Benedetto XVI, nel senso di lasciare al successore l'adozione di misure organiche, ma provvedere ai problemi più urgenti della Rota con misure già ampiamente studiate e vagliate in sede di prospettata riforma generale.
   19. Il rescritto del 7 dicembre, forse, vuol essere un primo passo nella direzione auspicata... ma, se è così, Bergoglio ha indossato gli stivali delle sette leghe, perché mi pare proprio che il testo pecchi dell'eccesso opposto: come ho detto (supra, nt. 1), non presenta nessuno dei caratteri che consentirebbero di riconoscerlo come rescritto!
20. Su cui si è espresso efficacemente A. Zambon, Il motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus. Prima presentazione, testo aggiornato al 9 novembre 2015 (disponibile sul sito www.ascait.org), pag. 1: «Il Motu proprio è stato accolto e salutato in diversi modi dagli studiosi e dagli organismi di stampa. Si è scritto di rifondazione del processo canonico di nullità matrimoniale, di riforma dello stesso, di evoluzione, di sottolineatura (finalmente, secondo questi autori) della dimensione pastorale della nullità del matrimonio togliendone l’esclusiva agli ascetici giuristi. Certa stampa laica poi ha salutato il Motu proprio come l’introduzione del “divorzio breve” anche nella Chiesa, in correlazione al divorzio breve presente negli ordinamenti statali. Nel parlare del MID bisogna tener conto di questa recezione che è stata fatta; perlomeno, questa interessa i fedeli che si rivolgono al Tribunale ecclesiastico.».
  21. Contra, invece, C. Dounot, La réforme de la procédure des nullités de mariage au regard des principes juridiques, in Catholica 1/2016, pagg. 56-75 (qui 65), e in corso di pubblicazione in C. Dounot – F. Dussaubat (curr.), La réforme des nullités de mariage. Lectures critiques: «il faut s’interroger sur la portée juridique contestable de ces Règles de procédure. Non insérées dans le dispositif du motu proprio, et annexées comme simple règlement, elles n’ont pas valeur de loi universelle (can. 8).». Egli resta incerto se qualificarle decreto generale legislativo oppure istruzione.
  22. Dissento, quindi, da J. Llobell, Alcune questioni comuni ai tre processi per la dichiarazione di nullità del matrimonio previsti dal m.p. “Mitis iudex”, relazione LUMSA (Roma, 30 ottobre 2015, in corso di pubblicazione su Ius Ecclesiae, testo provvisorio in www.consociatio.org) §2, il quale pensa ad un complesso normativo unitario, di rango legislativo, e non ritiene ammissibile la qualificazione come decreto generale esecutivo, trattandosi di atto proveniente dallo stesso Legislatore: il Pontefice è titolare di plenitudo potestatis, non vincolata ad alcuna divisione dei poteri; al decreto ex cann. 29-30 resta estraneo lo scopo di applicare altre leggi, che già solo per questo gli sarebbero in qualche modo sovraordinate, come il fine al mezzo; l'unicità della veste formale del Motu proprio non impedisce, in presenza di indici testuali univoci, di qualificare parte dei suoi contenuti come atti amministrativi, tanto più che essa si adatta ad entrambi e che al rescritto ex Audientia, il cui nome sarebbe tipicamente amministrativo, si riconosce spesso natura legislativa proprio in ragione dei contenuti. Concordano con Llobell M. del Pozzo, L'organizzazione giudiziaria ecclesiastica alla luce del “Mitis Iudex”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 23 novembre 2015, pag. 8, che però non si sofferma particolarmente sul tema, e N. Colaianni, Il giusto processo di delibazione e le “nuove” sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale – Rivista telematica, 21 dicembre 2015, pagg. 2-3 e nt. 4). Pur citando Llobell, afferma di non entrare nel merito della questione A. Zambon, Il motu proprio..., pag. 2.
  23. Si è anche ipotizzata la natura di istruzione (così B. du Puy-Montbrun, Analyse canonique du Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, sul sito www.libertepolitique.com); ma a me non sembra che RP possa obbligare solo le autorità incaricate di applicare il Mitis Iudex (cfr. can. 34 §1), perché, ad es., l'art. 11 §1 è una direttiva per chiunque intenda presentare un libello, dunque per l'avvocato o per la parte. Analoghe le pur rapide considerazioni di J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 4.
  24. Invero, in presenza di continuità sostanziale della disciplina, non mi pare che il dato formale della sostituzione dei canoni del Codice configuri quel venir meno della legge che fa cessare anche l'efficacia dell'istruzione volta ad eseguirla, ai sensi del can. 34 §3. Negli stessi termini, Ph. Toxé, La réforme des procès en nullité de mariage en Droit canonique latin, in Nova et Vetera XC (2015), pagg. 377-95, qui 378-9. Secondo J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 13, il nuovo can. 1691 §3 «rinvia alle rispettive norme del CIC del 1983 e, in molti casi, a mio parere, anche della DC» (adduce quale esempio la pubblicazione degli atti, su cui la disciplina speciale tace del tutto e appare necessario il rinvio a DC 229-36).
  25. Merita una segnalazione distinta Edward Peters, che ha articolato le sue prime impressioni in una lettura generale (E. Peters, A first look at Mitis Iudex, articolo dell'8 settembre 2015 sul blog In the Light of the Law) e una critica incentrata sul processus brevior (Id., A second look at Mitis, especially at the new fast-track annulment process, articolo dell'8 settembre 2015 sul blog In the Light of the Law).
  26. Cfr. il testo - “...statuimus hisce Litteris dispositiones edere quibus non matrimoniorum nullitati, sed processuum celeritati faveatur...” - e le considerazioni di M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 3: «L'indiscusso principio cardine della riforma è la difesa dell'indissolubilità del matrimonio e della verità dell'accertamento attraverso lo strumento giudiziario. In questa linea, appare molto chiara e illuminante la scansione tra dottrina dell'indissolubilità, sistema della nullità matrimoniale e disciplina processuale additata nel secondo capoverso del Proemio. Si tratta di tre ambiti distinti e successivi. L'iniziativa si colloca esplicitamente nella sfera della disciplina o della regolamentazione e non intende né sovvertire il caposaldo dogmatico dell'intangibilità del vincolo coniugale né inficiare il regime sostanziale dell'invalidità del consenso». Questo contributo, in effetti, è l'unico – almeno finora e per quanto ne so – che abbia accordato il giusto valore alle indicazioni sulla mens legislatoris, di cui supra nel testo.
  27. Le mie considerazioni prescindono, ovviamente, da qualunque giudizio sul merito dei nuovi capi di nullità, introdotti dalla Rota in via giurisprudenziale e poi riconosciuti nel CIC 1983; osservo, tuttavia, che di fatto essi non hanno certo resa automatica la declaratoria di nullità, almeno non a livello centrale, visto che la percentuale di sentenze pro vinculo, in Rota, si aggira sulla metà del totale (cfr. L'Attività della Santa Sede degli ultimi anni). E se sono assai rare le pronunzie rotali sul bonum coniugum, quelle in tema di incapacità (can. 1095) costituiscono, ormai da lunga pezza, la grande maggioranza: qui si manifesta una seria discrasia applicativa, che preoccupa soprattutto per la sua persistenza, rispetto ai Tribunali inferiori, assai più disinvolti di quello Apostolico nel decidere pro nullitate su tali capi.
  28. Non è certo raro che soltanto l'esigenza di contrarre un secondo matrimonio canonico – magari avvertita solo dal nuovo compagno di vita – induca, dopo molti anni dal naufragio del primo rapporto, a considerare il giudizio di nullità.
  29. Perlomeno in Italia, poi, questa fama di esosità poteva – forse: non entro nel merito - essere giustificata alcuni decenni or sono, ma è certamente falsa oggi: sono sensibilmente inferiori alla norma delle cause di separazione e divorzio sia i costi sia i tempi, sebbene un altro pregiudizio verso i sacri Tribunali sia la lentezza.
  30. Cifra che desumo dalla quantità di pratiche trattate dalla Segnatura sotto la voce che include l'esame della relazione annuale sull'attività, inviatale da ciascuno di tali Tribunali. La pubblicazione annuale L'Attività della Santa Sede riporta sempre dati statistici interessanti circa il Supremo Tribunale della Chiesa.
  31. Si consideri, tuttavia, che «È un dato notorio che parecchie centinaia di circoscrizioni sono sprovviste di un proprio tribunale». M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 11, nt. 35.
32. A parte le innovazioni del can. 1673, §§ 3-5, che, ribadito il principio per cui le cause di nullità matrimoniale vanno affidate ad un collegio di tre giudici, stabilisce che due di loro – non più uno solo – possono essere laici e prevede che, se sia impossibile costituire il collegio nella Diocesi o nel Tribunale designato dal Vescovo, si possa designare un giudice singolo, chierico, “ubi fieri possit, duos assessores probatae vitae, peritos in scientiis iuridicis vel humanis, ab Episcopo ad hoc munus approbatos” (§4; sull'opportuno ricorso a competenze extragiuridiche, cfr. P. Moneta, La dinamica processuale nel m.p. “Mitis Iudex”, relazione al Seminario LUMSA, testo provvisorio in www.consociatio.org, in corso di pubblicazione su Ius Ecclesiae, pag. 4). Quest'ultima innovazione, in realtà, non fa che sopprimere la necessaria autorizzazione della Conferenza Episcopale (can. 1425 §4), che veniva concessa regolarmente; gli assessori non sono giudici, ma consiglieri del giudice, già previsti per regola generale (can. 1424); anzi, il fatto che qui si parli di due assessori e non, come nel can. 1425 §4, di un assessore e un uditore, sembra indicare che, almeno in linea di principio, il giudice singolo dovrà farsi carico in proprio dell'istruttoria (cfr. cann. 1428 e 1561). Infine, sia gli assessori sia, a fortiori, i laici muniti dei requisiti necessari all'ufficio di giudice non potranno essere reclutati, in genere, che tra soggetti che già ora partecipano a questi processi, cioè avvocati e periti. Con il rischio, in qualche modo paradossale, di infoltire forse l'organico dei Tribunali, ma rendere più difficile l'attività delle parti, anche tenuto conto della domanda aggiuntiva di operatori che sarà creata dalla investigatio praeiudicialis (cfr. infra, § 3.3). Molto critico con la presenza dei giudici laici C. Dounot, La réforme…, pagg. 68-9, che rileva inoltre (pag. 71) la contraddittorietà con la scelta di valorizzare la potestas iudicandi del Vescovo (che egli sembra legare soprattutto al potere di ordine, piuttosto che alla giurisdizione).
  33. Merita menzione il breve articolo di G.P. Montini, Risposte al questionario per il Sinodo – Snellimento della prassi canonica in ordine alla dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale?/3, in Quaderni di diritto ecclesiale 27 (2014), pagg. 463-7, secondo cui la celerità dei giudizi era soprattutto questione di risorse investite nei Tribunali e nel reperimento di personale preparato, non già di mutamenti nella normativa, dato che «davanti ai miei occhi è stato legittimamente celebrato in Italia un processo di nullità matrimoniale con giudizio ordinario, dalla presentazione del libello alla pubblicazione della sentenza, in nove giorni (SSAT, prott. nn. 40978/08 CP; 41010/08 VT).» (ivi, pag. 467).
  34. Il che fa ritenere superata anche l'indicazione di DC 24 §1, secondo cui il vicinum Tribunal – da intendersi: diocesano – poteva essere designato solo laddove fosse impossibile costituire l'interdiocesano. Lo spirito della riforma va in direzione esattamente opposta e il recupero della funzione giudiziale come parte della potestas propria del Vescovo giustifica anche la soppressione dell'intervento della Segnatura Apostolica (anche perché si tratta di designare il Tribunale che tratta gli affari di competenza di una data Diocesi, non già di derogare ai criteri che la rendono competente, il che richiederebbe una dispensa dalla legge processuale che solo il Supremo Tribunale può concedere: così mi sembra che si possano risolvere le perplessità di M. del Pozzo, L'organizzazione..., pagg. 17-8). Invece, sebbene ora si parli di vicinius Tribunal e la riforma insista sulla proximitas anche fisica tra giudici e parti, potrebbe conservar qualche valore «la prassi adottata dalla Segnatura, [che] non implica necessariamente un'adiacenza o un riferimento strettamente geografico». Ibid., pag. 17.
  35. Ma forse non solo, considerato che «Il modello previsto per le diocesi italiane dal m. p. Qua cura (PIO XI, 8 settembre 1938, in AAS, 30 [1938], pp. 410-413) venne esteso dalla Congregazione per i Sacramenti alle Filippine (1940), Canada (1952) e Brasile (1959)». Ibid., pag. 12, nt. 37.
  36. «Il Santo Padre, al fine di una definitiva chiarezza nell’applicazione dei documenti pontifici sulla riforma matrimoniale, ha chiesto al decano della Rota romana che venga chiaramente manifestata la mens del supremo legislatore della Chiesa sui due motu proprio promulgati l’8 settembre 2015:
1. Il vescovo diocesano ha il diritto nativo e libero in forza di questa legge pontificia di esercitare personalmente la funzione di giudice e di erigere il suo tribunale diocesano;
2. I vescovi all’interno della provincia ecclesiastica possono liberamente decidere, nel caso non ravvedano la possibilità nell’imminente futuro di costituire il proprio tribunale, di creare un tribunale interdiocesano; rimanendo, a norma di diritto e cioè con licenza della Santa Sede, la capacità che metropoliti di due o più province ecclesiastiche possano convenire nel creare il tribunale interdiocesano sia di prima che di seconda istanza.». P.V. Pinto, Dichiarazione, in L’Osservatore Romano, 8 novembre 2015, pag. 8.
  37. Esito coerente, del resto, con l'intento di moltiplicare i giudici e accrescere la possibilità di accesso alla giustizia canonica; nonché con la dichiarazione di Mons. Pinto, quale che ne sia l'esatto valore canonico. Cfr. M. del Pozzo, L'organizzazione..., pagg. 12-16 (dove peraltro si dubita della possibilità di istituire Tribunali interdiocesani in futuro, poi confermata dalla dichiarazione), nonché pag. 6: «La consapevolezza dell'incisività della riforma e della complessità delle situazioni particolari demanda, però, alla discrezionalità dei singoli Vescovi l'opportunità e la tempistica dell'applicazione del disposto e non ingiunge l'esclusività del tribunale diocesano.». A. Zambon, Il motu proprio..., pagg. 8-9, pur menzionando l'opinione contraria di Llobell, sposa la linea del Pontificio Consiglio.
  38. Insiste particolarmente sul punto M. del Pozzo, L'organizzazione..., passim.
  39. E. Peters, Note: Avoiding the requirements of Mitis would not be easy for bishops, articolo del 14 settembre 2015 sul blog In the Light of the Law. In senso contrario alla delega, peraltro prospettata in favore del Vescovo ausiliare, anche M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 9, nt. 32, che insiste sulla mens legis e la responsabilità personale del Vescovo. Insistenza analoga in Ph. Toxé, La réforme…, pag. 392, che pur ricorda che la portata del divieto di delega ex can. 137, rispetto al Vescovo, è discussa in dottrina. Un possibile effetto paradossale del divieto, soprattutto se interpretato nel senso di escludere anche l'affidamento delle pratiche ai giudici diocesani: «The conversation became somewhat comical when a colleague mentioned that, since the processus brevior must be done by the diocesan bishop himself and cannot be delegated, there could be no use of the processus brevior in times of a vacant diocesan see, periods which can last more than a year in the United States.». K. Martens, New Norms for Marriage Nullity, articolo del 4 dicembre 2015 sul sito www.firstthings.com.
  40. Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale canonico, Roma 2012, pagg. 198-201.
  41. “Exoptatur ergo ut in magnis sicut in parvis dioecesibus ipse Episcopus signum offerat conversionis ecclesiasticarum structurarum, neque munus iudiciarium in re matrimoniali curiae officiis prorsus delegatum relinquat. Idque speciatim valeat in processu breviori, qui ad dirimendos casus manifestioris nullitatis stabilitur”: preambolo, punto III. Contra, per un divieto di delega che però non ritrovo nel testo, R.A. Gomez Betancur, Los pro y los contra de una Reforma: Mitis Judex Dominus Jesus, novembre 2015, estratto dai Selected Works dell'A. disponibile all'URL h p://works.bepress.com/derecho_canonico/23.
  42. Nello stesso senso, Ph. Toxé, La réforme…, pag. 392, secondo cui la norma resta in vigore per le cause non soggette al processus brevior. Egli non si è accorto, però, che il nuovo can. 1688 prevede esplicitamente la possibilità che il Vescovo giudichi di persona anche le cause trattate con il rito documentale; e sarebbe strano il contrario, dato che dovrebbero essere più semplici del processus brevior. Ritengo, invece, che DC 22 §2 resti in vigore per le cause ordinarie.
  43. Altrimenti, contravverrebbe alla mens della riforma, che lo vuole garante di un utilizzo della nuova procedura conforme al principio dell'indissolubilità matrimoniale. Per questo, diversamente da E. Peters, Avoiding..., non credo che, in tal caso, egli debba chiedere apposita dispensa alla S. Sede.
  44. Osserva Ph. Toxé, La réforme…, pag. 383, che il legislatore ha probabilmente ritenuto che le cause matrimoniali non abbiano carattere contenzioso in senso proprio, ma che ciò non impedisce che la parte convenuta possa risentire pregiudizio.
  45. Lo rileva J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 13.
  46. La rassegna di giurisprudenza rotale che appare ogni anno ne L'Attività della Santa Sede riporta regolarmente casi di nullità  di giudizi celebrati, nei gradi inferiori, con violazioni del diritto di difesa del convenuto addirittura eclatanti.
  47. Il diritto canonico non segue la distinzione della legge italiana tra residenza, domicilio e dimora, né è vincolato dalle risultanze anagrafiche: esso distingue tra domicili e quasi-domicili (cfr. cann. 100-107). Si acquistano con la permanenza nel territorio di una Parrocchia o, almeno, di una Diocesi, ma per il domicilio si richiede l'intenzione di rimanervi in perpetuo o la dimora effettiva per cinque anni completi, mentre per il quasi domicilio bastano tre mesi, di permanenza oppure di intenzione (can. 102); in entrambi i casi, la continuità della permanenza dev'essere morale, quindi, p.es., lo studente universitario fuori sede acquista un nuovo domicilio o quasi-domicilio canonico anche se rientra a casa dei genitori nei fine settimana. Infine, domicilio e quasi-domicilio non si perdono con il semplice allontanamento dal luogo, perché occorre anche l'intenzione di non ritornare (can. 105): quindi è normalissimo che una persona ne abbia più di uno contemporaneamente.
  48. E infatti il ricorso al quasi-domicilio è consentito, dal can. 1699 §1, per le istanze di dispensa super rato, dove – a parte le molte altre differenze rispetto ai giudizi di nullità – il pericolo di abusi o frodi è decisamente minore.
  49. È evidente, del resto, che, se bastano tre mesi di soggiorno in un luogo per acquisire un quasi-domicilio e, quindi, potervi introdurre una causa, diventa molto facile scegliere il Tribunale più conveniente; non così se occorrono i cinque anni del domicilio, o un trasferimento in pianta stabile.
  50. Invero, già sotto la vigenza del CIC 1917, che pur prevedeva, al can. 1964, soltanto il quasi-domicilio di parte convenuta, si era sentita l'esigenza di prevenire possibili abusi, determinati soprattutto dalla collusione delle parti in frode alla santità del vincolo: cfr. S. Congregatio de Disciplina Sacramentorum, Instructio de competentia iudicis in causis matrimonialibus ratione quasi-domicilii, 23 dicembre 1929, in AAS 22 (1930) 168-171. Merita di essere riportato l'incipit: «In tam effraena divortiorum cupiditate hodie invalescente, quae efficit ut apud omnes fere gentes funestissima vigeat lex civibus tribuens facultatem coniugale vinculum abrumpendi quasi pro lubitu aut saltem non gravibus, et quod peius est, ex industria et fraude confectis causis, consecutum est, ipsos catholicos coniuges facile abripi desiderio nuptias dissolvendi quum matrimoniale consortium ipsis non eam attulerit felicitatem et pacem, quam sensibus nimio indulgentes sibi spoponderant.». Purtroppo però, sebbene l'attualità del pericolo ivi considerato sia indiscutibile, non sembra che il documento citato possa offrire un aiuto neppure sul piano interpretativo, perché la verifica dell'effettività è tuttira prescritta da DC, mentre quella sulle ragioni per cui si preferisce il quasi-domicilio agli altri fori contrasterebbe con l'affermata equipollenza dei medesimi (salvo forse il caso di contrasto con il principio di prossimità, se ed in quanto si possa considerare rispetto ad un giudice, che, comunque, ad una parte dovrebbe esser prossimo).
  51. Cfr. P. Moneta, La dinamica..., pagg. 17-8.
  52. A termini del rescritto del 7 dicembre, punto 6, «La Rota Romana giudichi le cause secondo la gratuità evangelica, cioè con patrocinio ex officio, salvo l’obbligo morale per i fedeli abbienti di versare un’oblazione di giustizia a favore delle cause dei poveri.». Può darsi che questa soluzione faccia scuola, ma non differisce poi molto dallo status quo: già ora la maggioranza delle cause in Rota gode del gratuito patrocinio e, sia lì sia presso i Tribunali inferiori, nessuno si sogna di avviare un'attività di recupero crediti verso chi non paga il contributo obbligatorio.
  53. M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 22, considera funzionale l'incarico del Parroco proprio, o incaricato – a suo tempo – della preparazione al matrimonio, personale quello degli altri operatori, a ciò deputati dall'Ordinario (s'intende, all'interno di una struttura stabile che, come ricordato ibid., nt. 76, «potrà essere integrata [rectius: composta] da esperti o professionisti di diversi settori (psicologici, psichiatri, terapisti relazionali, consulenti familiari, canonisti, matrimonialisti civili, ecc.)»). Ph. Toxé, La réforme…, pagg. 381-2, ritiene possibile una pluralità di soluzioni organizzative: struttura stabile, elenco di consulenti approvato dal Vescovo, incarichi caso per caso, valorizzazione dell'esistente presso i Tribunali.
  54. In un recente decreto della Rota (B. 103/07), la raccolta di prove ante causam, da parte del soggetto poi nominato avvocato di fiducia dell'attore, è stata espressamente considerata tra i vizi che sostanziavano la nullità della sentenza ob ius defensionis denegatum e consigliavano l'avocazione al Tribunale Apostolico. Cfr. L'Attività della Santa Sede 2008, Città del Vaticano 2009, pag. 644. La raccolta di prove da parte dell'avvocato, o futuro avvocato, dell'attore è particolarmente in voga presso i Tribunali ecclesiastici degli Stati Uniti, il che si spiega, d'altronde, con un'altra loro abitudine, l'acquisizione di testimonianze scritte anziché in udienza (su ciò influisce certamente l'istituto dell'affidavit, pacificamente applicabile nel diritto processuale nazionale). Cfr. W.L. Daniel, Ongoing Difficulties in the Judicial Praxis of American Tribunals in Causes of the Nullity of Marriage, in The Jurist 74 (2014), pagg. 215-63, spec. pagg. 243-9.
  55. Fortunatamente, il testo dei nuovi canoni è molto chiaro: l'unica udienza è deputata appunto alla raccolta delle prove, che può essere delegata ad altro Tribunale ai sensi del can. 1418, ma certamente non a soggetti diversi e tantomeno alle parti. Cfr. can. 1686 e RP 18.
  56. La Relazione finale dell'ultimo Sinodo (in A. Zambon, Il motu proprio..., pagg. 6-7) ne parla come di «un servizio d’informazione, di consiglio e di mediazione, legato alla pastorale familiare».
  57. Cfr. anche ibid., pag. 6: «È positivo che tale opera di consulenza previa sia inserita nella pastorale unitaria matrimoniale, che si prenda a cuore non solo la preparazione al matrimonio o l’accompagnamento del matrimonio già vissuto bene, ma anche le ferite della crisi matrimoniale e una possibile verifica della nullità del matrimonio, tramite il processo canonico. È un inserimento non sempre facile o scontato, ma essenziale per vivere la vicinanza alle situazioni delle persone e la partecipazione alle loro vicende».
  58. Un altro problema che non mancherà di influire sulla selezione del personale è la possibilità che l'intervento in sede di investigatio praeiudicialis faccia sorgere sospetto di parzialità e, dunque, obbligo di astensione (cann. 1448-9): J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 12, ritiene che ciò accada in generale, ma che il m.p. eccettui il caso del Vescovo, che quindi potrebbe partecipare di persona alla investigatio e poi giudicare nel processus brevior.
  59. Ph. Toxé, La réforme…, pag. 382, ritiene che i motivi del legislatore risiedano nella rarità delle riconciliazioni e nell'aver introdotto la investigatio praeiudicialis. Quest'ultima è addotta da un membro della Commissione di riforma quale unica ragione dell'intervento sul vecchio can. 1676: cfr. J. Horta Espinoza, Intervento al Convegno AILAT (Roma, 13 ottobre 2015), video sul sito www.iuscanonicum.it.
  60. Sul punto, cfr. in particolare C. Dounot, La réforme..., pagg. 59-62. L'A. lega il vecchio can. 1676 alla presunzione di validità del matrimonio, tesi che mi lascia alquanto perplesso; concordo pienamente, invece, con il rilievo secondo cui «Il n’est plus question de la “fonction des juges” (l’article a été supprimé), et le ton donné par le législateur est à l’opposé de l’an- cienne affirmation. Le nouveau canon 1675 ne part plus du mariage à sauver, mais de l’individu: “Le juge, avant d’accepter la cause, doit avoir la certitude que le mariage a irréparablement échoué, de sorte qu’il soit impossible de rétablir la vie conjugale commune”. Ceci est réaffirmé dans un rescrit pontifical du 7 décembre 2015, évoquant les “personnes en échec matrimonial”, “les enfants les plus fragiles, marqués par l’amour blessé et perdu, et auxquels il faut redonner confiance et espérance”. […] Ce n’est plus l’existence du lien en tant que tel qui semble devoir être appréciée, mais celle du lien “en situation d’échec”. L’échec du mariage n’est plus simplement un marqueur, un indice possible de la nullité du lien. C’est la nullité du lien qui doit venir remédier à l’échec du mariage.» (ivi, pag. 60).
  61. Non va trascurato neppure il rilievo di N. Colaianni, Il giusto processo..., pagg. 16-7: RP 14 §1 consacra, quali indici di nullità evidente, anche casi in cui, a rigore, è evidente solo il fallimento del rapporto. E per lui (ivi, pag. 20), nelle cause matrimoniali «non si tratta di accertare la lesione di una situazione soggettiva ma di attuare per ragioni di pubblico interesse (“la verità del sacro vincolo”) la riconducibilità del fallimento matrimoniale a una delle cause di nullità dell’atto.».
  62. Cfr. quest'articolo di presentazione del Mitis Iudex, che però, in proposito, sembra rifarsi ad una prassi già maturata: [...] D.J. Zielonka, Short Process or Not? That is the Question. The New Tribunal Law and Procedures Pertaining to the Marriage Nullity Cases, sul sito ufficiale della Diocesi di Bridgeport, www.bridgeportdiocese.com, pag. 4.
  63. Il diritto fondamentale di agire in giudizio è specificato (cfr. la rubrica dell'art. 2 m.p.: De iure impugnandi matrimonium) come diritto di chiedere l'accertamento sulla nullità del matrimonio, riconosciuto ai coniugi in ogni caso (cfr. can. 1674),  in vista della scelta del proprio stato di vita (cfr. can. 219)
  64. Su questo punto, modifico la mia posizione rispetto a quanto sostenuto nella relazione orale, dove ho dato per certo che il nuovo can. 1675 costituisse un requisito di ammissibilità.
  65. D. Castellano, Una riforma “contraddittoria e incoerente” - Intervista con Danilo Castellano, riprodotta in S. Magister, Nuovi processi matrimoniali. Un giurista demolisce la riforma di papa Francesco, articolo del 3 ottobre 2015 sul blog www.chiesa. [...] C. Dounot, La réforme..., pag. 60. Si può aggiungere che, viceversa, ci sono matrimoni nulli che non sono falliti, o perlomeno che non falliscono per molti anni. Altri AA. neppur considerano il nuovo can. 1675 e i suoi possibili effetti negativi: A. Zambon, Il motu proprio..., pag. 7, si limita a menzionarlo, quasi come qualcosa di scontato, mentre Ph. Toxé, La réforme…, pag. 382, non esprime perplessità di sorta.
  66. E ciò sia per gli scrupoli di coscienza dei coniugi, sia perché la dottrina comune dei moralisti afferma bensì che il dubbio, ancorché probabile, sulla validità del matrimonio non vieta di rendere il debito coniugale, poiché prevale il possesso dello status matrimoniale - eccettuato il caso in cui si dubiti dell'esistenza di un matrimonio precedente, perché la preferenza non può che accordarsi a questo: cfr. infra, §3.4.4 – ma non vieta affatto di investire i giudici della soluzione di tali dubbi.
  67. Diversamente, infatti, il dubbio sulla validità del primo vincolo verrebbe proposto come azione per la nullità del secondo.
  68. C. Dounot, La réforme..., pag. 60, nt. 12, ricorda però che ciò è avvenuto in passato con i matrimoni dei sovrani, adducendo ad esempio il caso di Napoleone e Giuseppina; nell'esposizione orale, ho considerato l'analoga vicenda di Enrico VIII e Caterina d'Aragona, soffermandomi sull'assurdità di una norma procedurale secondo cui Sua Maestà Britannica avrebbe prima dovuto cacciare di casa colei che pur si presumeva essere la legittima consorte, e solo dopo si sarebbe potuto verificare se lo fosse e se per caso dovesse essere ristabilita nei diritti di moglie.
  69. Una possibile soluzione, ancorché parziale, sembra offerta dal can. 1674 §1 n. 2, che continua a prevedere che, oltre ai coniugi, possa agire anche l'autorità ecclesiastica – precisamente il promotore di giustizia – se la (probabile) nullità è divenuta pubblica e non è possibile od opportuna la convalida. Ora, la investigatio praeiudicialis, già solo per il fatto di coinvolgere strutture parrocchiali e diocesane, facilmente porterà con sé una certa “fama di nullità”, quindi più o meno tutti i casi finiranno per rientrare nel raggio di azione del promotore. E sarebbe assurdo negare ai coniugi il diritto di accusare il matrimonio, riconoscendolo invece all'autorità, che non vi ha certo un interesse diretto e personalissimo. Può essere utile ricordare che il CIC 1917 (can. 1971 §1 n. 1) negava il diritto di agire per la nullità al coniuge che vi avesse dato causa con colpa grave; ma spesso, ad es. per i vizi del consenso, egli era anche il solo che ne fosse a conoscenza e potesse materialmente agire. Per ovviare agli inconvenienti, si consentiva la denuncia della nullità all'Ordinario o al promotore (can. 1917 §2): questi poteva agire solo in presenza di impedimenti di natura pubblica (formula il cui significato era dubbio, onde è stata sostituita con l'attuale pubblicità di fatto), ma l'Ordinario poteva emettere una sentenza di mero accertamento del fatto, così rendendolo “pubblico” e consentendo al promotore di accusare il matrimonio. Dato che il CIC 1983 ha inteso eliminare le restrizioni al ius accusandi, credo che sia più semplice evitare questi espedienti e ammettere che le parti siano legittimate ad agire in tutti i casi in cui lo sarebbe, in loro vece, il promotore. Quindi, concludo che, se anche si affermasse l'indebita lettura restrittiva del can. 1675, il giudizio di nullità dovrebbe comunque ammettersi se a) vi sia un dubbio soggettivo di almeno un coniuge e, in relazione al libello, sorga un dubbio oggettivo pro nullitate nel giudice; b) la convivenza sia cessata, non per il dubbio sulla validità, ma per fallimento irrimediabile del rapporto interpersonale, che potrà farsi palese anche con la semplice indisponibilità a convalidare il matrimonio; c) anche mancando il requisito b), se ormai gira voce che il matrimonio sia nullo e non sia possibile od opportuna la convalida. Quanto poi sia opportuno incoraggiare chi sospetti la nullità del proprio matrimonio a divulgare il più possibile tali dubbi, è altra questione.
  70. Si tratta di una prognosi molto severa, che andrebbe limitata a casi in cui i fatti, per come prospettati, non possano in alcun modo condurre alla pronunzia di nullità, oppure contrastino con altri fatti che siano notori (cfr. DC 122); la prassi, non di rado, è assai più rigorosa. DC, infatti, è intervenuta a salvaguardia dei fedeli contro i rigetti facili (prevedendo il previo parere del difensore del vincolo; vietando di pretendere una perizia preventiva nelle cause per incapacità; consentendo un'indagine preliminare su possibile incompetenza, difetto di legittimazione o infondatezza, in quest'ultimo caso solo per far emergere un possibile fondamento: cfr. artt. 116 §3, 119 §2 e 120). Sotto questo profilo, il Mitis Iudex manifesta un'inversione di tendenza forse inattesa.
  71. Il requisito è ripreso dalle norme sul contenzioso orale (cfr. can. 1659 §1). Potrà bastare anche la probabilità tenue, dato che il testo legale richiede solo aliquod fundamentum (e cfr., comunque, il can. 18); ma non è più ammessa la possibilità di lasciar emergere questo minimo indispensabile in corso di causa. Contra, ma en passant e senza motivazione in proposito, P. Moneta, La dinamica..., pag. 3, che ritiene che qui si tratti del «tradizionale fumus boni iuris».

  [...]
  84. Così A. Zambon, Il motu proprio..., pag. 12; anche P. Moneta, La dinamica..., pag. 7, enuncia come congiunti i due aspetti, ma poi (pag. 10) osserva «che la già menzionata disposizione del n. 2 del can. 1683 va in realtà sdoppiata, perché fa riferimento a due aspetti che, pur collegati, sono distinti l’uno dall’altro. Il primo è di natura sostanziale, attinente alla realtà umana della vicenda matrimoniale; il secondo di natura processuale riguardante le prove che possono confermare ed avvalorare tale realtà. La disposizione va quindi letta così: 1. ricorrano circostanze di fatti e di persone....che rendano manifesta la nullità; 2. tali circostanze devono essere sostenute da testimonianze o documenti che non richiedano una inchiesta o una istruzione più accurata.». Un processo semplificato in casi di nullità manifesta rientrava tra gli auspici del Sinodo del 2014 (cfr. la Relatio finalis, nn. 114-5); da ciò, tuttavia, non mi sembra che si possa desumere un argomento per ridurre la semplicità istruttoria a mero accidente o appendice più o meno implicita, come forse fa Ph. Toxé, La réforme…, pag. 388, che, come requisiti, menziona solo consenso e nullità manifesta. La formula «in casibus, qui accuratiorem disquisitionem vel investigationem non exigant»  era già in uso per la declaratoria di nullità detta impropriamente “in via amministrativa”, che il can. 249 §1 CIC 1917 attribuiva alla S.C. dei Sacramenti e che, dopo la Cost. Ap. Regimini Ecclesiae Universae, è passata tra le competenze della Segnatura Apostolica: DC la menziona all'art. 5 §2, parlando di nullitas evidens, ma questa dicitura non è stata ripresa dall'art. 118 della Lex Propria del Supremo Tribunale, poiché pareva introdurre un requisito più restrittivo; «Si tratta cioè di casi risolti sulla universalmente richiesta base della certezza morale, ma per i quali tutti gli elementi (“acta et probata”) sono già pronti». G.P. Montini, La nuova legge..., pag. 493.
  85. «Le circostanze [anche se vi sono dei capi di nullità, quali: occultamento doloso della sterilità, violenza fisica, mancanza di uso di ragione...], di cui RP 14 § 1, non indicano capi di nullità, ma situazioni e fatti che possono essere rilevanti in ordine alla prova. Si tratta di circostanze già acquisite dalla giurisprudenza della Rota romana e dalla prassi dei tribunali; la presenza quindi di queste circostanze (che devono essere provate), non comporta necessariamente una “evidenza” nel capo di nullità.». A. Zambon, Il motu proprio..., pag. 3. Analogamente, D.J. Zielonka, Short Process…, pag. 2. Contra, nel senso dei nuovi motivi, C. Dounot, La réforme..., pagg. 62-5, cui però sfugge l'esigenza di verifica nel caso concreto.
  86. Questa sembra la lettura di D. Castellano, Una riforma... Cfr., però, più correttamente, A. Zambon, Il motu proprio..., pag. 12: [...]. In termini analoghi, P. Moneta, La dinamica..., pag. 11.
  87. Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, V.T. 25651/94, Decreto 13 dicembre 1995, in Il Diritto ecclesiastico 108 (1997), pagg. 22-3, con nota di C. Gullo.
  88. Anche N. Colaianni, Il giusto processo..., pag. 17, pur affermando che in RP 14 §1 «Si tratta di presumptions of fact, già emerse nella giurisprudenza di alcuni tribunali ma sempre ridimensionate dalla Segnatura apostolica ad “adminicula, indicia vel circumstantiae”, da valutare secondo le usuali regole probatorie», aggiunge: «Naturalmente, il m.p. non ritiene che in presenza di tali circostanze il matrimonio, quasi deterministicamente, debba ritenersi nullo, tant’è che il nuovo can. 1683 § 2 fa comunque salva la necessità di “un’inchiesta o una istruzione più accurata”». Tuttavia, egli sembra comunque ritenere che la sussistenza di una di tali circostanze dispensi, più che dall'onere della prova, da particolari approfondimenti istruttori. Invece, a mio avviso, il processus brevior è funzionale al compimento di tutta e sola l'attività di istruzione necessaria a verificare se, su un'ipotesi di nullità ben precisa e delineata in concreto, si possa raggiungere la certezza morale, oppure occorrano indagini ulteriori.
  89. «In effetti, ciò che va prima di ogni altra cosa considerato sotto il profilo che stiamo considerando è la coerenza interna della vicenda matrimoniale esposta nel libello. I fatti, le circostanze attraverso cui si snoda questa vicenda debbono comporre un quadro armonico, senza elementi che si pongano in contraddizione l’uno con l’altro. Naturalmente tenendo presente che si tratta di una vicenda umana, fortemente influenzata da una componente sentimentale, che, come tale, non sempre risponde a criteri logici e razionali.». P. Moneta, La dinamica..., cit., pag. 11.
  90. Non bisogna lasciarsi fuorviare dal carattere “manifesto” che si richiede alla nullità: manifestum è meno di evidens; l'evidentia basta da sola a indurre la certezza morale, il manifestum no. Propriamente, infatti, si parla di evidentia (cfr. l'ingl. evidence) a proposito della percezione sensoriale diretta e, nel linguaggio processuale, si provano per evidentiam facti, cioè mediante pura e semplice costatazione (regolata dalla procedura dell'accesso giudiziale o inspectio ocularis), elementi controversi come lo stato dei luoghi, che rientrano in una categoria particolare di fatti notori, il notorium facti permanentis. Ora, l'evidentia nel senso accennato potrà darsi, semmai, rispetto al fatto dell'inconsumazione; giammai rispetto ai motivi di nullità che, già solo per il fatto di riferirsi ad un momento passato, come la celebrazione del matrimonio, sfuggono alla percezione diretta. Per questo, a mio giudizio, il loro carattere “manifesto” può darsi solo nei termini illustrati nel testo. Contra, N. Colaianni, Il giusto processo..., pag. 19, secondo cui sia il processus brevior sia quello documentale si riallaccerebbero «alla tradizionale procedura canonica ex notorio» e presupporrebbero una «evidente certezza». L'analogia, semmai, opera in altri termini, dato che anche nel processo documentale occorre che si dia un elemento particolarmente forte – il documento – ma esso non basta e occorre anche la certezza morale sull'assenza di ciò che lo infirmerebbe (p.es. la dispensa).
  91. Cade in errore, quindi, Ph. Toxé, La réforme…, pag. 390, ritenendo che la prova della nullità debba essere assunta prima dell'inizio del processo i documenti debbono essere prodotti, ma da nessuna parte si prevede l'assunzione anticipata delle testimonianze. Il requisito «testimoniis... suffulta» va riferito ai capitoli di prova su cui i testi dovranno essere interrogati, non a loro risposte già rese extra iudicium, che non avrebbero valore di prova. Non per nulla, l'A. (ivi, pag. 391) finisce per domandarsi quale sia il senso della sessio per la raccolta del materiale probatorio (ritengo che lo abbia confuso la polisemia del termine francese évidence). J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 14, rileva che proprio il sistema della certezza morale impedisce di attribuire efficacia “automatica” pro nullitate alle circostanze di RP 14 §1, tanto più esse “possono” rendere manifesta la nullità, segno che la legge stessa ammette che ciò non avviene sempre.
  92. Un pensiero analogo deve aver sfiorato B. Nguyen, Annulment Reform: 6 Misconceptions and 6 Developments, National Catholic Register, 9 settembre 2015: «as tempting as it can be to jump to conclusions, the mere presence of any of these do not necessarily mean that there was an invalid act of marrying. It merely means that a party can request the new, shorter procedure. Once there is a determination as to which procedure to use, then the judge or the bishop must still determine, according to canon law, if there is a lack or defect of consent, following the specific grounds that fall under these.».
  93. Particolarmente criticata in dottrina la mancanza di tassatività: cfr., tra gli altri, Ph. Toxé, La réforme…, pag. 389, che parla di «liste non exhaustive à la Prévert».
  94. Su cui cfr. N. Colaianni, Il giusto processo..., pag. 17: «il fatto che il m.p. non abbia lasciato alla giurisprudenza il consolidamento di queste nullità manifeste ma le abbia espressamente nominate come tali depone nel senso di una loro elevazione a figure sintomatiche della nullità matrimoniale: manifestazioni tipiche della nullità, dalle quali possa desumersi in via di deduzione logica l’esistenza sia pure potenziale dell’incapacità o del vizio della volontà. […] Con il m.p., in conclusione, il legislatore canonico, senza introdurre nuove figure di nullità, ratifica, per dir così, quelle figure sintomatiche che pur emerse nella giurisprudenza non erano assurte a ius receptum per l’oggettiva perplessità nascente dal fatto che esse impingono nel campo vietato del rapporto matrimoniale.».
95. Per la verità, se E. Peters, A second look..., teme una dilatazione eccessiva del processus brevior, Ph. Toxé, La réforme…, pagg. 390-1, è incerto ma orientato ad un impiego assai circoscritto e M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 32, ne paventa piuttosto la sostanziale disapplicazione. E, in effetti, le primissime indicazioni provenienti dalle sedi locali sono restrittive: [...] (Diocesi di Madison, Wisconsin, Frequently Asked Questions, qq. 13 e 14, sottolineature aggiunte). Tuttavia, il testo pubblicato sul sito dell'Arcidiocesi di Milwaukee, di cui Madison è suffraganea, pur coincidendo in molti passaggi, non presenta queste indicazioni restrittive e si limita ad ammonire che il processus brevior non garantisce una declaratoria di nullità.
  96. Nello stesso senso, mi sembra, Ph. Toxé, La réforme…, pag. 390: «Dans tous ces cas, nous sommes renvoyés à la question de la preuve, en l'espèce concrète.».
  97. Cfr., in particolare, P. Moneta, La dinamica..., pag. 11, ed E. Peters, A second look...
  98. Così P. Moneta, La dinamica..., pagg. 11-2.
  99. Analogamente Ph. Toxé, La réforme…, pag. 389.
  100. Cfr. E. Peters, A second look... Analoghi rischi per i fedeli paventa Ph. Toxé, La réforme…, pag.  389.
  101. «Il giudice, nel ponderare la validità del consenso espresso, deve tener conto del contesto di valori e di fede – o della loro carenza o assenza – in cui l’intenzione matrimoniale si è formata. Infatti, la non conoscenza dei contenuti della fede potrebbe portare a quello che il Codice chiama errore determinante la volontà (cfr. can. 1099). Questa eventualità non va più ritenuta eccezionale come in passato, data appunto la frequente prevalenza del pensiero mondano sul magistero della Chiesa». J.M. Bergoglio, Allocuzione alla Rota Romana, 23 gennaio 2015.
  102. Ph. Toxé, La réforme…, pag. 390. Per quanto riguarda il fatto di “non volere” il Sacramento come tale, si consideri che, secondo le regole della teologia sacramentaria, l'obex si può configurare solo con un atto positivo, almeno virtuale, della volontà (“Se il matrimonio fosse davvero un Sacramento – e non ci credo – non vorrei sposarmi”). Difficile provarlo e ancor più presumerlo in chi, quantomeno, tollera la forma canonica; in caso di dispensa da essa, si spera che la mens del coniuge non credente sia stata esplorata a sufficienza. Mi sembra che N. Colaianni, Il giusto processo..., pagg. 5-10, trascuri questo dato, che pur dovrebbe essere l'ubi consistam per ogni riflessione in proposito.
  103. Infatti il testo usa l'infinito presente, gignere potest, compatibile solo con un giudizio astratto; se si riferisse al fatto concreto dedotto in giudizio – che è, per definizione, un evento passato – dovrebbe impiegare l'infinito perfetto.
104. E. Peters, A second look... Di regola, per fortuna, il Vicario giudiziale non seguirà lo svolgimento successivo della causa e la decisione spetterà (dovrebbe spettare?) al Vescovo. Tuttavia, sussiste pur sempre il pericolo che quella prima valutazione condizioni gli altri protagonisti, soprattutto se meno preparati del Vicario in diritto canonico.
105. Per questo motivo mi sembra scorretto parlare di un «processo sommario» a cognizione incompleta, giustificata dal consenso delle parti (N. Colaianni, Il giusto processo..., pag. 2): a parte l'improprietà di riferimenti, sia pure impliciti, a categorie proprie della processualcivilistica italiana, mi pare che il processus brevior non comporti l'accantonamento di nessuna questione (come invece accade se la cognizione è “sommaria perché incompleta”) e neppure un'assunzione solo parziale delle prove; ritengo, invece, che si debbano acquisire tutte quelle prove ammissibili e rilevanti per verificare l'ipotesi di nullità manifesta e che non si possa parlare di «circostanze di fatto, sommariamente accertate» (ivi, pag. 3). D'altronde, non mi pare che il testo legale preveda restrizioni diverse dall'incompatibilità della perizia con questo rito.
  106. P. Moneta, La dinamica…, pag. 15; la sinonimia tra auditor e instructor non è prevista dal Codice vigente, ma compariva in quello del 1917, can. 1580 §1: «Potest Ordinarius unum aut plures auditores, seu actorum instructores sive stabiliter sive pro certa aliqua causa constituere». M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 24, testo e nt. 82, concludendo anch'egli per l'equiparazione all'uditore, rileva che, nel nuovo CIC, di instructor parla solo il can. 1704, relativo al processo super rato. Poiché, però, ivi si prevede che questi trasmetta gli atti al Vescovo insieme con un'apta relatio, che qui invece si è esclusa, credo che la scelta del nome risenta, piuttosto, dell'origine italiana di quasi tutti i componenti della Commissione: nel nostro processo civile, vi è sotteso un favor per la concentrazione delle attività processuali che contraddistingue, appunto, il processus brevior. Una parentela canonica si dà, semmai, con l'incaricato dell'investigatio praevia al processo penale, equiparato all'uditore dal can. 1717 §3 e che, almeno dal raffronto tra i cann. 1718 §1 e 1428 §3, sembrerebbe tenuto a mettere a disposizione dell'Ordinario – unico giudice della materia - solo gli elementi raccolti, senza relazione.
  107. Cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale..., pag. 206, nt. 40; la doctrina richiesta dal can. 1428 §2 non è sinonimo di preparazione giuridica e, comunque, non dev'essere attestata da un titolo accademico.
  108. Nello stesso senso, M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 24. Egli, inoltre, ritiene che l'instructor non possa esercitare la facoltà di delega ad actum riconosciuta all'uditore da DC 51 e tenderei a convenire con lui; ma ciò significa che un altro possibile mezzo di soluzione degli inconvenienti viene a trovarsi precluso.
  109. E. Peters, A second look...
  110. Pur imponendogli di preferire qualcuno che provenga dalla Diocesi di origine della causa: strana applicazione, se poi è tale, del principio di prossimità del giudice... J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 9, rileva che l'ampiezza dei criteri di competenza potrebbe rendere alquanto difficile applicare la regola.
  111. Non sono stati richiamati o riprodotti i cann. 1660 e 1661 §2, che nel processo contenzioso orale regolano le integrazioni alla difesa delle parti, perché la sostanziale concordia tra i coniugi dovrebbe renderne l'esigenza del tutto eccezionale; ma non mi sentirei di escludere, per i pur improbabili casi residui, un'applicazione analogica. In contrario, tuttavia, potrebbe deporre il divieto all'impiego del contenzioso orale nelle cause matrimoniali, ribadito dal nuovo can. 1691 §1.
  112. Tuttavia, non credo che si sia inteso superare il principio dell'interrogatorio separato di ciascuno, salvo l'eventuale confronto ordinato dal giudice (DC 165). C. Dounot, La réforme…, pag. 73, nota che RP 18 §1 contrasta con la regola generale del can. 1559 e ne ribalta la formulazione; non credo, però, che si tratti di un ribaltamento di principio, come egli sembra ritenere, ma di un'eccezione che può disporsi per decreto generale esecutivo sia perché lo stesso can. 1559 ammette deroghe (da parte del giudice), sia soprattutto perché discende dalla direttiva di concentrazione in unica udienza, specifica del processus brevior. Egli, tuttavia, segnala anche che la regola generale è stata dettata per proteggere la libertà dei testimoni e, a questo proposito, sarà molto opportuno che l'istruttore faccia un uso accorto del proprio potere di escludere la parte; oserei dire che, nel dubbio, dovrebbe preferire esercitarlo anziché no.
  113. C. Dounot, La réforme…, pagg. 73-4, non avverte il nesso con questa procedura preesistente, ma le sue critiche all'innovazione appaiono comunque condivisibili, tanto più che non si riproduce neppure il requisito della sottoscrizione.
  114. In questa parte della trattazione, seguo M.J. Arroba Conde, Prova e difesa nel processo di nullità del matrimonio canonico. Temi controversi, Lugano 2008, pagg. 75-119.
  115. Nullus idoneus testis in re sua intelligitur: D.12.5.10.
  116. S. Congregatio Sacramentorum, Instr. Provida Mater, 15 agosto 1936, in AAS 28 (1936) 313-361.
  117. Suprema S. Congregatio S. Officii, Instructio servanda in Vicariatu Apostolico Sueciae, 21 giugno 1951 (in X. Ochoa, Leges Ecclesiae..., vol. III, Roma 1972, nn. 3900-3906), n. 8.
  118. Che è anche un ordine di rango, stabilito «iuxta momentum maius singulis probationibus tribuendum»: così la relazione del Coetus de iure processuali, in Communicationes 2 (1970), pag. 185.
  119. Cfr. J. Llobell, Alcune questioni..., pagg. 14-5. Sulla stessa linea Ph. Toxé, La réforme…, pag. 386: il nuovo testo «ne dit pas vraiment autre chose, même s'il dit autrement. […] Ce n'est pas une révolution, mais cela permit de rassurer des juges ou défenseurs du lien trop scrupuleux ou tutioristes qui multiplieraient les récherches de preuves, alors que la certitude morale peut être acquise, sans luxe de mesures d'instruction.». Contra, C. Dounot, La réforme..., pag. 69: [...] Mi pare, tuttavia, che gli sfuggano il carattere solo eventuale della prova piena e l'esigenza di valutare tutti gli elementi.
  120. In altri termini, il consenso necessario al processus brevior non sarebbe soltanto consenso “alla domanda”, ma a svolgere un ruolo attivo nel processo; elemento non esplicitato perché il “più” (si pensi alla proposizione congiunta...) include il “meno”. Comunque, di sicuro la partecipazione personale di entrambi è vista quantomeno come il caso normale.
  121. Cfr. E. Peters, A second look...
  122. Si noti che i nuovi canoni non accennano neppure agli adempimenti che, nel processo ordinario, dovrebbero seguire l'istruttoria, ossia pubblicazione degli atti, conclusione in causa e scambio di memorie (cann. 1598-1607). Il primo dovrebbe essere superfluo, poiché le parti, diversamente da quanto avviene di solito, dovrebbero aver partecipato all'assunzione delle testimonianze e, quindi, conoscere già tutti gli atti; ritengo, tuttavia, che le animadversiones e defensiones di cui al nuovo can. 1686 possano riguardare anche la necessità di un supplemento di istruttoria (salve le possibili conseguenze sull'ulteriore corso del giudizio, che a quel punto potrebbe mutare rito). La conclusione in causa, di conseguenza, dovrebbe coincidere – ed essere disposta – con il decreto che trasmette gli atti al Vescovo (cfr. can. 1687 §1), mentre lo scambio di memorie si intende anticipato al termine dell'istruzione probatoria (cfr. can. 1601, per l'identità dei termini impiegati). Assenza di contrasti significativi tra i coniugi, maggior completezza del libello e presenza diretta delle parti all'istruttoria (peraltro consentita, ma non imposta) hanno, con ogni probabilità, fatto ritenere superflua al legislatore una disciplina specifica; ma anche i processi nati “semplici” possono complicarsi strada facendo. Con conseguenze anche molto gravi: ad es. la mancata conoscenza di un atto, in forza di DC 231 e della giurisprudenza di Rota ivi recepita, «fa sorgere due distinti motivi di nullità, ossia ipso facto quello di nullità sanabile per la nullità dell’atto (cf. can. 1622, 5°) e, si et quatenus, quello di nullità insanabile per negazione del diritto di difesa (cf. can. 1620, 7°)». G.P. Montini, La nullità insanabile per denegato diritto di difesa (can. 1620,7°) e il difensore del vincolo, in Periodica 102 (2013), pagg. 317-50, qui 336.
  123. Come invece nel contenzioso orale. «Mentre le osservazioni a favore del vincolo debbono essere obbligatoriamente presentate, le difese di parte possono anche essere ritenute superflue dagli stessi interessati ed essere quindi omesse. In tal senso va indubbiamente intesa l’espressione “se ve ne siano” (“si quae habeantur”) usata dal can. 1676. L’espressione è imprecisa, perché il termine per la presentazione delle difese va in ogni caso fissato: saranno poi le parti a valutare l’opportunità di presentare una loro memoria difensiva, eventualmente nella veste tradizionale del restrictus iuris et facti.». P. Moneta, La dinamica..., pag. 17. Alla necessità di un summarium conclusivo sembra credere E. Peters, A second look... Invece, C. Dounot, La réforme…, pag. 72, ritiene che l'inciso “si quae habeantur” significhi che le parti potrebbero non essere state messe in condizione di esporre i propri argomenti, ottenendo l'assistenza di un avvocato. A parte il rilievo che nelle cause di nullità esse possono stare in giudizio personalmente, l'A., all'evidenza, è caduto vittima dell'imprecisione redazionale segnalata da Moneta.
  124. Su RP 12 cfr. ampiamente J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 14: «la nuova legge, all’art. 12 delle RP, ha fatto proprio il concetto di certezza morale sancito da Pio XII nel 1942 e ribadito da S. Giovanni Paolo II nel 1980. Detto concetto, in quanto contenente una definizione, non era stato espressamente formulato dal can. 1608 del CIC del 1983. Invece, l’art. 247 § 2 della DC non soltanto lo ha accolto, ma ha aggiunto che la certezza meramente “prevalente” è insufficiente per dichiarare la nullità del matrimonio. È noto tanto che la certezza “morale” era stata sostituita da quella “prevalente” al n. 21 della procedura per le cause di nullità del matrimonio approvate nel 1970 per gli Stati Uniti d’America, quanto che questo affievolimento era stato criticato da S. Giovanni Paolo II nel citato discorso alla Rota del 1980. Ciononostante, la prima norma che ha vietato l’uso della certezza “prevalente” è stata la DC. Tale interdizione è stata ora testualmente accolta (sia in latino che in italiano) dall’art. 12 delle RP. Invece, l’autentica certezza morale è talmente “certa” (senza scrupoli né formalismi) che ha portato Papa Francesco a considerare che la prima dichiarazione di nullità del matrimonio è sufficiente per renderla eseguibile, purché non sia stata appellata».
  125. Invece, N. Colaianni, Il giusto processo..., pagg. 18-21 sembra sostenere entrambe le alternative nello stesso tempo: da un lato, il consenso delle parti comporta, per lui, mancanza di contraddittorio e accostamento alla volontaria giurisdizione (ma, a parte il fatto che “contraddittorio” e diritto di difesa non sono sinonimi di “contrasto di interessi”, egli trascura il ruolo del difensore del vincolo, parte necessaria, quando sarebbe semmai da riconsiderare la tesi di Grocholewski che ne farebbe il vero convenuto), dall'altro ravvisa analogie con la procedura per la nullità “in via amministrativa” che si applica «si Signatura Apostolica videt de nullitate matrimonii declaranda in casibus, qui accuratiorem disquisitionem vel investigationem non exigant» (Lex Propria, art. 118), nonché con la dispensa super rato, visto in particolare l'impiego del termine “istruttore”. Ma la dispensa è una grazia, la cui concessione, anche una volta accertato il factum inconsummationis, resta ancorata a valutazioni di opportunità. Invece, l'analogia con la procedura del Supremo Tribunale, pur meritevole di approfondimento, non considera che ad esso le cause matrimoniali pervengono essenzialmente per querela nullitatis e ricorso avverso un diniego di nova causae propositio, quindi ad istruttoria già compiuta o a nuove prove offerte; il giudizio in questione riscontra una certezza morale già presente in atti ed evita lungaggini ulteriori, ma resta un momento giudiziario, che di amministrativo ha solo la procedura, sicché la conclusione sembra dover essere opposta a quella propugnata dall'A.
   126. Parlo di “doppia conforme necessaria”, sebbene si tratti di un'espressione non usata in dottrina, perché “doppia conforme” ha avuto, fin qui, due significati: la necessità, appunto, che in una causa matrimoniale, anche se nessuno avesse proposto appello, sopravvenissero due sentenze conformi perché fosse esecutiva la dichiarazione di nullità; il limite alla proponibilità di ulteriori appelli che questa sopravvenienza comportava e continua a comportare. C. Dounot, La réforme…, pagg.  66-7, non distingue i due aspetti quando afferma che si tratta di un istituto molto antico e risalente alle Decretali.
   127. Cfr. J. Llobell, Novità..., pag. 10.
  128. Lo si desume sia dalla regola generale del can. 1638, sia dalla formulazione del can. 1679, secondo cui l'esecutività consegue all'intervenuta scadenza dei termini per l'appello. Ritengo errato, quindi, sostenere, come fa C. Dounot, La réforme..., pag. 67, che la questione sia stata lasciata aperta e che vi sarebbe il rischio di matrimoni contratti in pendenza di appello; resta semmai da vedere se, in qualche raro caso in cui già si dispensava dalla doppia conforme (p.es. gravissima malattia), si potrà accordare l'esecutività provvisoria ai sensi del can. 1650 §2.
  129. Cfr. il can. 1680 §1, che disciplina l'appello “contra eandem sententiam”, ossia la pro nullitate di cui al can. precedente.
  130. Cfr. J. Llobell, Alcune questioni..., pagg. 16-7, che finisce per parlare di un ritorno al sistema delle impugnazioni come disciplinato dalle Decretali.
  131. Nonostante una pronuncia contrata della Segnatura, che sancisce l'applicabilità della perenzione anche alle cause matrimoniali: cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 2695/72 CG, Decisione del Congresso, 26 aprile 1972, Romana - Nullitatis matrimonii. Incidentis: de appellatione, in Apollinaris 45 (1972), pagg. 385-8.
  132. La regola generale, sancita dal can. 1650, è che l'esecutività consegue al giudicato, che tuttavia non si dà mai nelle cause matrimoniali; quella delle pro nullitate, dunque, costituisce un'eccezione e non può estendersi alle pro vinculo in via interpretativa. Forse per superare quest'ostacolo J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 17, prova a sostenere che il solo effetto del can. 1643 sia consentire una revisione più agevole del giudicato che comunque si formerebbe. Ma temo che questa interpretazione non sia compatibile con il dato testuale invocato il can. 1641, che fa espressamente salvo il 1643.
   133. Per alcuni dati recenti relativi agli Stati Uniti, cfr. W.L. Daniel, Ongoing Difficulties..., pagg. 256-7.
   134. Anche perché i giudici del secondo non hanno “fatto carriera”, superando un qualche tipo di selezione ulteriore: sono giudici diocesani esattamente come i primi, tanto che, almeno in Italia, giudicano cause in primo e cause in secondo grado. Non si pensi, poi, che il sospetto di cedimenti alla “nullità facile” sia gratuito, dato che, a parte i tristi esempi degli anni Settanta e Ottanta, vi è una recente denunzia del Decano della Rota Romana: «Ai tempi di Jullien, in una pesante situazione politica da poco creatasi nel clima della c.d. guerra fredda, quel Decano doveva lamentare l'incombente presenza di “un sipario tristemente calato in Europa che impedisce l'afflusso a Roma di gran numero di cause” (31). Oggi, purtroppo, dobbiamo assistere a un dato forse più drammatico: che, cioè, da intere Nazioni cattoliche, anzi si direbbe quasi da interi Continenti, non giungono appelli alla Rota. Se ciò si debba a tacite convenzioni intercorse in sede locale per accomodare le vertenze, in modo da tacitare, di fatto, le competenze dei Tribunali pontifici, non spetta a me affermarlo, quantunque siano certi i possibili, perniciosi effetti di una tale prassi, energicamente denunciati dallo stesso Santo Padre quando asserisce che nella Chiesa, “proprio per la sua universalità e per la diversità delle culture giuridiche in cui è chiamata ad operare, c'è sempre il rischio che si formino, sensim sine sensu, ‘giurisprudenze locali' sempre più distanti dall'interpretazione comune delle leggi positive e persino dalla dottrina della Chiesa sul matrimonio”  (32).
  In effetti, si osserva che in vaste aree del mondo cattolico si vanno affermando, a dispetto dei reiterati richiami pontifici, orientamenti giudiziali (non si può certo chiamarli col nome di giurisprudenza, proprio perché difettano di quella prudentia che ha fra i suoi primari dettami la fedele aderenza al Magistero!) che indulgono a interpretazioni lassiste o, comunque, incongrue dell'incapacità consensuale, ad esempio, ma anche dell'errore determinante la volontà o della positività dell'atto simulatorio.
   Ancora a monte, non deve sfuggire, ancorché subdolo, il pericolo che a tale prassi siano sottese malsane tendenze al particolarismo ecclesiale e/o nazionale, che porterebbero a far rivivere (per paradosso, in una società umana sempre più, come usa dirsi, globalizzata!) le più viete derive ereticali di matrice regalista, che la Catholica ha già in passato saputo sconfiggere grazie al fondamento divino delle sue Istituzioni, prima fra queste il Papato, segno e garanzia di unità nella fede e di libertà da qualsiasi servaggio a poteri mondani.». P.V. Pinto, Appellatio iudicialis alla Rota Romana e carisma petrino, in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 2/2014, pagg. 789 sgg., e in banca dati IusExplorer (sottolineature aggiunte).
   135. La commissione pontificia per la terza istanza ad un Tribunale locale è divenuta assolutamente normale in Polonia, Germania, Inghilterra e Irlanda: cfr. G.P. Montini, La nuova legge della Segnatura Apostolica a servizio della retta e spedita trattazione delle cause matrimoniali, in Quaderni di diritto ecclesiale 23 (2010), pagg. 479-98, qui 484.
  136. Mi sento di concordare, quindi, con la valutazione di Diocesi di Madison, Wisconsin, Frequently Asked Questions, 15 settembre 2015, qu. 11: «Pope Francis has discerned that the extra certainty it affords is disproportionate to the additional burden of time, energy, and resources that it entails. And since the right to appeal remains in force, everyone’s right to defend their marriage remains intact.».
   137. In astratto, lo dico solo per completezza, si potrebbe prevedere: a) che il Tribunale di prima istanza, se non vi è appello, trasmetta gli atti – non più a quello di seconda, ma – al difensore del vincolo presso quest'ultimo, perché valuti se impugnare; b) l'obbligo, per i difensori del vincolo, di appellare alla Rota se sanno che, in seconda istanza, si giudica in modo non conforme alla giurisprudenza rotale (cfr. PB 126); c) più drasticamente, la nomina romana del difensore del vincolo. Tutte ipotesi che, allo stato, non appaiono neppure futuribili.
  138. E. Condon, A Modest Proposal, post del 12 settembre 2015 sul blog canonlawyered.wordpress.com, propone di ovviare a tali rischi tramite interventi dei Vescovi, o della Segnatura in sede di dispensa dai titoli accademici, che impongano il possesso (almeno) della licenza in diritto canonico a tutti i giudici che tratteranno il processus brevior: proposta apprezzabile, tanto più che la deroga al principio di collegialità delle cause dovrebbe ridurre il fabbisogno di personale; ma, senza un deciso intervento della Segnatura, sarà molto difficile che trovi un seguito non sporadico.
   139. Giustamente, M. del Pozzo, L'organizzazione..., pag. 21, osserva che (a parte la difficoltà di individuare il suffraganeus antiquior in una Provincia le cui Diocesi esistano tutte ab immemorabili) il giudice di appello per le cause del Metropolita viene ad essere uno dei giudici le cui sentenze, a loro volta, sono impugnate presso di lui; il che non giova all'imparzialità, tanto più necessaria trattandosi del processus brevior. Mi permetto di aggiungere che, se si è voluto applicare il principio di “prossimità”, si è compiuta una scelta poco felice.
   140. E ciò nonostante il disposto del can. 1680 §3 (cfr., infatti, il can. 1687 §4), sia perché il giudice non è singolo, sia perché l'appello richiede argomenti gravi, quindi - eccettuato il caso in cui esso sia meramente dilatorio, per cui è previsto il rigetto in limine - non dovrebbe darsi mai quella nullità “manifesta” che è richiesta dal can. 1683 §2. Al più, il caso potrebbe darsi se l'appello documentasse l'ingiustizia manifesta (cfr. can. 1645 §2) di una pronuncia pro vinculo.
   141. Contra, C. Dounot, La réforme…, pagg. 67-8, secondo cui il testo prevede solo la designazione del difensore. Ma sarebbe una designazione inutile se poi esso non dovesse interloquire sull'ammissibilità (come peraltro è espressamente previsto che faccia in primo grado) e il termine “parte” può benissimo applicarsi anche a lui (cfr. can. 1434 n. 1), soprattutto in un testo caratterizzato da evidente sforzo di sintesi.
  142. Mons. Pinto la avverte con particolare intensità: «Si osserva, infatti, che alla base di molti appelli provenienti da queste due realtà nazionali [Italia e USA] non v'è tanto un desiderio di giustizia coltivato in coscienza, ma interessi estrinseci al bene spirituale, siano essi di salvaguardia patrimoniale o di pugnace e malevola contrarietà alla comparte, che legittimamente aspira a dare un nuovo ordine alla propria vita. Tale genere di appelli deve essere scoraggiato e la Rota userà tutti i mezzi legittimi per contrastarlo. È un dovere di tutela della dignità della funzione giudiziale, che non può essere degradata a strumento di rivalsa personale; è un dovere di giustizia verso le persone che veramente agiscono in giudizio per trovare nella sentenza ecclesiastica la pace della loro coscienza.». P.V. Pinto, Appellatio iudicialis... Tuttavia, a fronte di queste considerazioni, sarebbe opportuno rammentare che de internis non iudicat praetor e che, comunque, «L'intenzione di una parte nell'opporsi alla causa non deve pregiudicare la sua considerazione»; e tantomeno si può ammettere che i giudici ecclesiastici considerino “ostile” la parte che secondo loro si oppone alla nullità in maniera irrazionale: vi sarebbe di che dubitare dell'imparzialità. G.P. Montini, Il processo di nullità matrimoniale. La partecipazione della parte convenuta tra diritto e realtà, in Rivista di scienze religiose 1/2007, pagg. 65-85,qui 72-3.
   143. J. Llobell, Alcune questioni..., pagg. 19-20, pur esprimendosi in termini analoghi, ritiene che al giudice di secondo (o ulteriore) grado dovrebbe comunque essere consentito ratificare la pronunzia precedente, se ha raggiunto la certezza morale sull'esistenza della nullità, in modo tale che si dia la doppia conforme. Ma non si vede quale vantaggio pratico potrebbe derivarne, dato che, a suo avviso, gli appelli tardivi non sarebbero più ammessi; inoltre, se la ratifica con decreto non è più prevista, ciò si spiega con il fatto che un appello non meramente dilatorio è, per definizione, tale da non lasciar sussistere quella certezza morale che, sola, la consentirebbe. P. Moneta, La dinamica..., pagg. 6-7, rilevando l'incidenza del nuovo potere su un diritto fondamentale, auspica che venga applicato con equilibrio e cautela. C. Dounot, La réforme…, pag. 74, mette in guardia contro il rischio di abusi di potere, che costituiscono delitto canonico ex can. 1389.
   144. Il pregiudizio richiesto dalla legge potrà ben consistere, al limite, nella falsità di una decisione provocata da un accordo fraudolento di cui una delle parti si sia pentita; ovviamente, i margini di appello saranno maggiori se si riterrà ammissibile il processus brevior anche in caso di non perfetta coincidenza delle versioni fattuali o, a fortiori, dei motivi invocati.
    145. Su questo rilievo critico, cfr. K. Martens, New Norms...
   146. Lo rileva J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 17, che nota come le norme processuali sui delicta graviora abbiano, invece, sostanzialmente resa inappellabile la sentenza di seconda istanza.
   147. Che, non più necessaria all'esecutività delle sentenze, continua però ad operare come limite al numero degli appelli ammissibili. Tuttavia, merita segnalazione la recente giurisprudenza rotale secondo cui tale limite opera solo riguardo alle sentenze pro nullitate e non anche pro vinculo, argomentando, inter cetera, che un conto è affermare che è un fatto è provato, altro asserire che non vi è prova sufficiente della sua inesistenza (decreti B. 109/06 e B. 113/08, che respinge l'istanza di revoca del precedente; cfr., rispettivamente, L'Attività della Santa Sede 2007, Città del Vaticano 2008, pag. 770, e L'Attività della Santa Sede 2009, Città del Vaticano 2010, pag. 635).
   148. Io stesso ho avuto modo di esaminare una sentenza genovese, confermata dal TER di Torino, che la Segnatura ha munito del decreto di esecutività, per il riconoscimento degli effetti civili, sebbene in un grado fosse stata dichiarata l'incapacitas del marito, nell'altro della moglie, con analoghi ribaltamenti del vetitum e, peraltro, anche su fondamenti probatori diversi, dato che la convenuta appellante, in seconda istanza, accettò di farsi sottoporre a perizia.
   149 J. Llobell, Novità..., pag. 16. L'istituto della conformità equivalente, previsto da DC 291 §2, è chiaramente circoscritto a casi in cui i fatti costitutivi del vizio sono identici (“iisdem factis matrimonium irritantibus”); e non mi sembra davvero che il vizio del consenso di Tizio sia identico a quello di Caia.
   150. La possibilità di esperire nova causae propositio per il puro e semplice riesame di quanto già addotto costituisce una grazia, precisamente una dispensa da legge processuale, che la Segnatura Apostolica, normalmente competente in materia, continua a considerare riservata al Romano Pontefice: cfr. G.P. Montini, La prassi delle dispense da leggi processuali del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (art. 124, n. 2, 2a parte, Cost. Ap. Pastor Bonus), in Periodica 94 (2005), pagg. 43-117, qui 50.
   151. M. Nelles, Commento / Note – Decretum n. 46207/2012 CG, in Monitor Ecclesiasticus 129 (2014), pagg. 39-42, qui 40-1 (cfr. anche i relativi riferimenti). La novità sostanziale può anche consistere nella dichiarazione della parte cui si dovrebbe la nullità, assente nei precedenti gradi, di voler collaborare: cfr. decreto rotale B. 42/08, in L'Attività della Santa Sede 2008, pag. 647; in senso contrario, però, B. 87/09, in L'Attività della Santa Sede 2009, pagg. 635-6. È più difficile ottenere il nuovo esame presentando una nuova perizia privata: essa «deve essere materialmente nuova, cioè mai esaminata dai giudici; intrinsecamente nuova, cioè colmare le lacune di precedenti perizie o scio[gliere] le incertezze; dotata di forza critica, cioè mettere positivamente in discussione gli argomenti delle precedenti decisioni.» (L'Attività della Santa Sede 2009, pag. 635, riferendo il tenore del decreto B. 82/08; conformi, B. 111/08 e B. 84/09)
   152. Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 38025/06 CG, Decreto del Congresso 27 settembre 2006, Neapolitana, Nullitatis matrimonii - novae causae propositionis, in Apollinaris 83 (2010), pagg. 390-2, con nota di C. Begus. Nella specie, in sentenza (e durante il processo) si era confusa la prova del dolo con quella dell'errore sulla qualità. Analogamente, la sentenza rotale A. 186/08 ha concesso la nuova proposizione, e addirittura deciso contestualmente pro vinculo, in un caso in cui le due conformi affermative avevano confuso l'errore sulla qualità redundans in errorem personae con un generico errore sulla “personalità” di controparte (L'Attività della Santa Sede 2009, pag. 637).
   153. Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 970/69 CG, Decreto del Congresso, 6 giugno 1970, Caietan. - Nullitatis matrimonii, querelae nullitatis adversus sententiam rotalem et, subordinate, novae causae propositionis, in Apollinaris 43 (1970), pagg. 509-11, che rigetta la querela ma concede la nuova proposizione, per violazione del diritto di difesa, in un caso in cui non erano stati ammessi alcuni testi né accordato il gratuito patrocinio.
   154. Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 15475/83 CG, Decreto definitivo coram Sabattani 1 giugno 1985, Calaritana, Nullitatis matrimonii. Incidentis: querelae nullitatis et restitutionis in integrum adversus decreta rotalia, in Il Diritto ecclesiastico 96 (1985) II, pagg. 253-60. Può bastare anche molto meno della macchinazione: il decreto rotale B. 67/05 ha reputato “nuova e grave” una dichiarazione con cui il convenuto, asserito simulante, ritrattava la propria precedente negazione, insieme con il suo pertinace rifiuto di instaurare la convivenza con l'attrice dopo le nozze (cfr. L'Attività della Santa Sede 2008, pag. 647). Analogamente, B. 162/08, su una solenne ritrattazione del convenuto, di confessione evangelico, che in precedenza avrebbe deposto in modo frettoloso e superficiale perché maldisposto verso il Tribunale cattolico (cfr. L'Attività della Santa Sede 2009, pag. 636).
   155. Così deve intendersi l'espressione tribunal appellationis impiegata dal can. 1644: cfr. M.J. Arroba Conde, Diritto processuale..., pag. 586, e J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 18.
   156. Vi sono solo altri tre giudici competenti in pianta stabile per il terzo grado, e tutti per un ambito territoriale circoscritta: la Rota della Nunziatura Apostolica in Spagna (che giudica anche in quarto), il Tribunale del Primate di Ungheria e quello di Friburgo in Brisgovia: cfr. J. Llobell, Novità..., pagg. 25-6, testo e note.
  157. Peraltro, J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 18, ha rilevato che questa riserva di competenza, in pratica, potrebbe sortire l'effetto paradossale di rendere più difficile esperire la nova causae propositio rispetto ad un rimedio ben più eccezionale, come la restitutio in integrum.
   158. In tal senso, P. Moneta, La dinamica..., pag. 6.
  159. Tali le considera, senza esitazioni, Ph. Toxé, La réforme…, pag. 393, nt. 6.
  160. Lo nota, sia pure en passant, C. Dounot, La réforme…, pag. 68, il quale però, pur critico verso questa “règle inédite”, non svolge particolari considerazioni al riguardo.
  161. Queste considerazioni sono già state avanzate da J. Llobell, Novità..., pagg. 25-6, rispetto alle facoltà speciali; ora, sembrano ancor più cogenti, dato che il divieto non ha più carattere temporaneo. La disparità di trattamento, poi, sarebbe insostenibile già sul piano concettuale, se dovesse affermarsi l'assimilazione al giudicato sostanziale delle pronunzie pro nullitate, ove seguite da nuovo matrimonio canonico (cfr. infra nel testo).
 162. Si noti che il diritto di appello al Papa (Concilio Ecumenico Vaticano I, Costituzione dogmatica Pastor Aeternus sulla Chiesa di Cristo, 18 luglio 1870, cap. 3, DH 3063) o alla chiesa della città di Roma (Professio Fidei Michaelis Palaeologi, DH 861) in tutte le cause spettanti alla giurisdizione ecclesiastica sembrerebbe de Fide (cfr. anche Concilio di Sardica, DH 133-5; Niccolò I, Lettera Proposueramus quidem, DH 641). Atteso il chiaro tenore dei testi, il termine “appello” deve intendersi in senso ampio, comprensivo di qualsiasi impugnazione o rimostranza. Senza dubbio, qui non si vieta di rivolgersi direttamente al Papa, o alla Segnatura Apostolica; mi pare, però, altrettanto indubbio che, nei casi qui in discussione, il diritto di appello venga trasformato – ben che vada - quasi in graziosa concessione.
   163. Cfr. Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, 38517/06 VAR, Responso 22 giugno 2006, in Periodica 95 (2006), pagg. 553-4.
   164. Stranamente, sembra che il punto sia sfuggito a J. Llobell, Alcune questioni..., pag. 17, secondo cui la sola differenza tra le cause in materia di stato delle persone e le altre consiste nella maggior ampiezza della nova causae propositio rispetto alla restitutio in integrum. Anzi, egli afferma che l'effetto previsto dal can. 1642 è l'esecutività; ma questa, a dire il vero, è disciplinata dai cann. 1650 sgg. e, sebbene in linea di principio consegua al giudicato, può essere ordinata (o prevista per legge) anche in altri casi.
   165. Si potrebbe pensare, valorizzando la differenza tra nova propositio e restitutio, che il rescritto preveda una “manifesta ingiustizia” diversa, non circoscritta ad ipotesi tassative. Ma, a parte il fatto che l'impiego della locuzione sembra di per sé indicativo della mens legislatoris, il testo è formulato in modo da porre, in linea di principio, un divieto, sicché per questa via si verrebbe ad ampliare un'eccezione (cfr. can. 18). E anche se si desse per richiamato, anzi riprodotto, solo il can. 1645 §1 (dunque il presupposto della manifesta ingiustizia), si dovrebbe comunque concludere che, se alla pronunzia pro nullitate è seguito nuovo matrimonio canonico, essa ha acquisito la stabilità propria del giudicato (cfr. can. 1642 §1); inevitabile, a questo punto, ammettere la N.C.P. nei soli casi previsti per la restitutio.
   166. Inoltre, mi sembra che detto vizio si riferisca alla violazione commessa dal giudice, in sentenza o durante il processo. Tralascio, invece, il n. 5) dell'elenco, poiché il contrasto con precedente sentenza passata in giudicato è palesemente irrilevante.
   167. Cfr. S. Alfonso M. de' Liguori, Theologia moralis, vol. VI, nn. 900-907, e sinteticamente G. D'Annibale, Summula theologiae moralis, vol. III, Roma 1892, n. 478: «Hactenus de matrimonio valido: quid si dubitetur, utrum validuni fuerit, an nullum? probabiliter, inquam, nam dubium leve contemnendum est. Principio, is qui dubitat necesse habet rem explorare diligenter; et interim petere nequit, sed reddere debet. Posthac vero, si certo non appareat matrimonium irritum fuisse, pro matrimonio (quod possidet) regulariter respondendum erit; ideoque tametsi pro valore matrimonii nulla, pro nullitate probabilis tantum (Prol. § 260) ratio subsit: et licet ipse in mala fide (II, § 127, 21), idest dubius impedimenti, matrimonium contraxerit. Regulariter, nam in impedimento ligaminis (idest, si is dubitet de morte prioris conjugis), quia prius matrimonium possidet, quamdiu sibi non constat, illud solutum fuisse, petere nequit, etsi contraxerit hona fide.». Forse, nel caso dell'impedimento ligaminis, il termine possessio non è il più indicato, dato che fa riferimento ad una situazione di fatto e che, in concreto, la “situazione matrimoniale” in essere è quella del secondo matrimonio (può darsi che di qui nasca l'equivoco del rescritto); ma il ragionamento resta intatto, perché il favor iuris di cui al can. 1060, in questo caso, non può che seguire la regola Prior in tempore potior in iure.
  168. Cfr. S. Alfonso M. de' Liguori, Theologia moralis, vol. VI, nn. 609-18, spec. 611, e ampiamente, proprio per la materia del matrimonio nullo (già in essere o futuro), M. Bonacina, De magno Matrimonii Sacramento, quaest. III (De impedimentis eorumque dispensatione), p. ult., in Id., Opera omnia, vol. I, Lione 1678, pagg. 290-2. Sono espressamente esclusi, inter cetera, il caso in cui qualcuno denunci l'impedimento e quello in cui di esso vi sia publica fama. Cfr. anche Benedetto XIV, bolla Apostolica, 26 giugno 1749.
   169. Come si è detto, i moralisti, in caso di dubbio probabile sulla nullità, raccomandano prima di tutto un'indagine accurata; e, sebbene nulla venga detto in proposito, questa potrebbe benissimo consistere nel processo, dimodoché la certezza morale raggiunta dal giudice – quali che ne siano i termini – restituisca serenità alla coscienza della parte. Ma solo finché questa certezza può sussistere secondo il diritto, cioè se non emergono argomenti adatti per una nova causae propositio.
  170. «S.q.d., causas matrimoniales non spectare ad iudices ecclesiasticos: A.S.». Concilio Ecumenico Tridentino, Doctrina et canones de Sacramento Matrimonii, can. 12 (DH 1812). Il solo modo per rendere compatibile la nuova regola con il dogma definito è sostenere che questo caso non configuri una causa matrimoniale, o perché si darebbe il giudicato o perché la possessio del nuovo matrimonio escluderebbe, in pratica, il dubbio probabile. E ricadremmo nei casi già visti.
   171. Cfr. L. Billot, Tractatus de Ecclesia Christi, vol. I, Prato 1909, pagg. 466-71, specialmente pagg. 469-70: «De infallibilitate autem in rebus disciplinae breviter notandum quod tota est sita in hoc, quod ex Spiritu Sancti assistentia habet suprema Ecclesiae auctoritas ut nunquam possit condere leges quae revelatis regulis fidei et morum sint quomodolibet oppositae. […] Nunc autem leges disciplinares sunt quaedam socialia principia per quae suum influxum in propria membra exserit Ecclesia. Si igitur necesse est ut ipsa sit sancta sanctitate principiorum, fieri nunquam poterit ut disciplina ab ea constituta et probata contrarietur regulis fidei et quibuslibet normis in evangelio praestitutis. Ex quo manifeste sequitur Ecclesiam esse infallibilem in statuenda disciplina, sumendo nunc infallibilitatem in sensu paulo supra declarato. — Accedit quod ex verbis Christi, Matth. XXVIII-20, non minus infallibilis exhibetur Ecclesia in concreta et practica interpretatione revelationis, quam in eius interpretatione dogmatica». Molto più ristretto, però, l'ambito assegnato al principio da Melchor Cano, De locis theologicis, Madrid 2006, pag. 205 (Lib. V, Cap. V, secunda conclusio): pur avendo detto «Ecclesiam, cum in re gravi quidem et quae ad Christianos mores formandos apprime conducat, leges toti populo dicit, non posse iubere quicquam, quod aut evangelio aut rationi naturae contrarium sit. - Non ergo hic omnes ecclesiae leges approbo, non universas poenas, censuras, excommunicationes, suspensiones, irregularitates, interdicta commendo. Scio nonnullas eiusmodi leges esse, in quibus si non aliud praeterea quicquam, at prudentiam certe modumque desideres. […] [...]. E alla tertia conclusio (pag. 207) ammonisce: «Nunc illud breviter dici potest, qui summi Pontificis omne de re quacumque iudicium temere ac sine delectu defendunt, hos sedis apostolicae auctoritatem labefactare, non fovere; evertere, non firmare.».
   172. S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, qu. 95, a. 3 (il testo isidoriano è Etym. V 21, in PL 82, 203).

9 commenti:

Anonimo ha detto...

(il Tribunale Apostolico non cessa di operare in tempo di Sede vacante)Emh...
Scusate,
da quando si legiferato in tal senso (e/o è adottata questa prassi?) Che io sappia la condanna di Santa Giovanna d'Arco fu subito dichiarata illegittima, proprio in forza del fatto che la sentenza era pronunciata ed eseguita in tempo di Sede Vacante, quindi era stata defraudata del diritto all'appello pontificio.

Anonimo ha detto...

Un attacco al Matrimonio sacramentale cattolico che viene da lontano e che ultimamente ha visto Kasper come alfiere...

Silvano M. ha detto...

La risposta dei Francescopensierodipendente è già collaudata. " Saremmo degli ingenui se pensassimo che potesse andare tutto bene alla prima stesura, siamo consapevoli che ci vorranno modifiche e aggiustamenti, Siamo certi della bontà della strada intrapresa e indietro non si torna "

marius ha detto...

@ Silvano M
Per curiosità, chi disse ciò?

Japhet ha detto...

Interessante la scoperta del documento firmato da Ratzinger prima di abdicare, che già apre la porta alle novità, in riconoscimento (se ho capito bene) di una prassi più lasca già prevalente. Cio farebbe vedere, al di là di certi atteggiamenti esteriori, una sostanziale continuità di questo papato con il precedente, almeno in certi settori.

Anonimo ha detto...

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/01/04/leggende-metropolitane-la-misericordia-dei-felici-anni-settanta/

Gianni B. ha detto...

E' un articolo molto tecnico, frutto di studio e competenza, un utile strumento per chi vuole capire di più.
Grazie.

3 gennaio 2016 10:37 ha detto...

Ancora nessuno ha risposto a quel mio dubbio.
Ovvero: il Tribunale Apostolico non cessa di operare in tempo di Sede vacante)Emh...
Scusate,
da quando si è legiferato in tal senso (e/o è adottata questa prassi?)?!? Che io sappia la condanna di Santa Giovanna d'Arco fu subito dichiarata illegittima, proprio in forza del fatto che la sentenza era pronunciata ed eseguita in tempo di Sede Vacante, quindi lei era stata defraudata del diritto all'appello pontificio.

Bah ! ha detto...

Dalla parte di Gesu' Cristo !
http://associazionemadonnaumiltapistoia.blogspot.it/2016/01/bari-qualcosa-e-cambiato-nei-rapporti.html

Serieta' , Responsabilita' : si vuol veramente sradicare la gramigna del peccato e ri - guadagnare anime a Dio ?
Oppure si vogliono lasciare le anime al demonio ?
Ogni giorno , ogni occasione ci pone davanti a un bivio : destra o sinistra ? Vita o morte ?
Cari Sacerdoti , potete ri-darci la Vita ( dell'Anima ) o condurci alla morte ( Eterna )

rapporti.htmlhttp://www.sehaisetediluce.it/apparecchio_alla_morte.htm