Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 5 gennaio 2016

L'abito ecclesiastico: la sua finalità la sua importanza

"Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa." (Card. Giuseppe Siri)
1. Il monaco senza abito.

Si dice che l'abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D'altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l'abito religioso o deformarlo a mero "segno di riconoscimento" (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l'idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un'indebolimento della fede, occultata o deformata, che provoca l'abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l'uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

2. Chiarezza, non finzione.

La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un'azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell'uno e nell'altro caso l'interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all'abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involontariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

L'altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell'altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificando il suo status, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l'ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev'essere pubblicamente manifestata.

Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l'accidentale con l'essenziale. Ma nell'uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l'istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l'uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell'istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l'Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l'umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: "affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili".

Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l'inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall'altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l'importanza di quelle materiali.

L'uomo, diceva Pascal, è un po' angelo e un po' bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell'esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi - il corpo - l'uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, "sua disianza vuol volar sanz'ali", poiché l'uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l'istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

4. Tentazioni gnostiche.

L'utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all'essenza dell'uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell'abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l'uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell'abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l'applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l'accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l'illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all'inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l'angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall'assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l'abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l'abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all'esterno (come d'abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l'abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l'abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l'uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell'uomo (in cui l'angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L'abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

5. Dignità e bellezza.

C'è poi un'ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un "segno di riconoscimento" qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev'essere univoco: quindi, parlare di un "segno di riconoscimento" senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l'avessero scritto in faccia. Né c'è da stupirsene, visto che alludere ad un "segno di riconoscimento" senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall'uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell'umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote - anche esteriormente - si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare - anche esteriormente - la sua intima identificazione col Salvatore.

Per questo la veste sacra non dev'essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eliminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembrano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, tavolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D'estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall'abito come segno "escatologico", la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all'abito come segno "di riconoscimento", dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

6. Considerazioni finali.

Concludo con un tentativo di sintesi. L'abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l'abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell'uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l'abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt'al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel "segno escatologico" di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

L'esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l'abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell'abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l'ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d'identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica. [Fonte]

27 commenti:

ettore ha detto...

Certo l'abito, ma non solo... ma anche habitus di fede, di carità, di verità e tanto altro ancora....
E ancora, per tutti, clero e fedeli cristiani cattolici:
"Nel passato, in momenti cruciali per la Chiesa in cui tutto sembrava perduto, quando ogni sforzo umano sembrava insufficiente, una potentissima arma ha permesso ai cristiani di far trionfare il bene contro ogni possibile speranza: la preghiera."
è l'incipit di
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-grande-preghiera-per-fermare-il-ddl-cirinna-14870.htm

Anonimo ha detto...

...chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale.

Come non essere d'accordo?

Mi torna in mente un noto personaggio che viaggia in veste bianca economica, da cui traspare il pantalone nero di acrilico, scarpa nera da facchino e valigetta lisa da esattore anni 70.

Se non avete capito di chi parlo vi do un altro indizio: in aereo per passatempo rilascia interviste.

Anonimo ha detto...

ATTENZIONE!
In Italia si dice "l'abito non fa il monaco". E, per chi non lo sapesse, questo è un proverbio che risale ad un'epoca in cui la talare la indossavano anche gli universitari. Quindi, una persona in talare, al tempo poteva essere pure uno studente.
IN Germania esiste il proverbio opposto" L'abita FA il monaco". Trad.= un determinato atteggiamento interiore (=Habitus) ESIGE di rivelarsi anche in scelte esteriori e visibili". In soldoni: "chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale". Aggiungo che, fino a non molto tempo fa, le banche e molti uffici, PRETENDEVANO dagli impiegati uno specifico tipo di vestiario. Ed oggi è ancora così, almeno per ciò che riguarda gli uomini. Non l'ultimo segno della attuale decadenza del costume è dato dal fatto che, sempre più spesso, si tolleri che le donne vengano a lavorare (s)vestite alla moda. Oltre tutto, spesso e volentieri,dimostrano che statisticamente ha ragione chi sostiene che più sono brutte e più si mettono in mostra.

Anonimo ha detto...

Dignita' di essere Ministri di Dio :
http://gloria.tv/media/UUYek8w7gA5

mic ha detto...

Anonimo 9:28
Che l'abito non faccia il Monaco, nel senso che a volte si può avere una fede solo esteriore, non cambia né sminuisce quanto sottolineato nell'articolo.

Antonio ha detto...

un altro aspetto connesso: leggo su Avvenire on line (ho disdetto l'abbonamento) la solita Stefania Falasca che ci informa che Il papa non voleva che si sapesse della sua visita a Greccio. Che non sia intervenuto a condannare le distruzioni di presepi e' opportuno (per non dare pubblicita' che crei emulazione) ma questa volonta' di nascondimento mi fa chiedere: perche' non va a seppellirsi alle catacombe di s. Callisto?.
.

irina ha detto...

Ricordo anche gli abiti delle suore, di qualsiai ordine fossero.Con quell'abito, che richiedeva costante controllo quindi costante memoria del proprio stato,la suora portinaia era, fin dal primo impatto, percepita come parte essenziale della corte celeste di Maria Santissima. Conferiva quell'abito un incedere regale al seguito del Nostro Re.Si pregava allora, per tutti quelli conosciuti o sconosciuti che si sapeva nel bisogno spirituale e materiale.Un'Ave Maria e basta ma, all'inizio di ogni lezione, per quella certa mamma, per quel fratello, per quel missionario, guidate dalla suora insegnante, guida ardita nel mare della vita.
Poi dovettero aggiornarsi anche loro, le loro anime furono violentate, i loro abiti stracciati.

mic ha detto...

Anonimo 9:28
Che l'abito non faccia il Monaco, nel senso che a volte si può avere una fede solo esteriore e al di là delle circostanze storiche che lei ricorda, non cambia né sminuisce quanto sottolineato nell'articolo.

Anonimo ha detto...

Fa, fa eccome, dalle parti mie quando hanno cominciato a vestirsi da hippies hanno causato tanto sconcerto e fughe in massa e già che non erano tantissimi i fedeli, vi lascio immaginare, adesso si va per conoscenza, sappiamo che sono preti, quindi.....le suore sono molto vecchie da 'ste parti e vestono come un tempo, qualche rara filippina o di colore, ma nella normalità, taccio per carità di patria sui francescani festivalieri e sulla 'suora' canterina. Mi pare di capire, scusate, sono un po' tardo di comprendonio, chi sia il tipo descritto, beh se la valigetta è stile anni '70, non può essere che uno, lì rimasto perché erano anni ruggenti per lui, allora trentenne arrembante. Non aggiungo altro, chi vuol capire.....Lupus et Agnus. P.S. Chiedo venia, ma vedere Papa Benedetto coi paramenti, sempre bellissimi, soprattutto il fanone, arrivare col suo incedere elegante in S.Pietro, era uno spettacolo per gli occhi, anche per la bellezza delle cerimonie, adesso un's'pò guardé tant c'l'è sgrazied.

Anonimo ha detto...


Che l'abito non faccia il Monaco, nel senso che a volte si può avere una fede solo esteriore e al di là delle circostanze storiche che lei ricorda, non cambia né sminuisce quanto sottolineato nell'articolo.
PER CARITA'!Intendevo dire esattamente l'opposto. Ovvero, come afferma l'articolo, il voler disprezzare i segni esteriori è frutto di un pregiudizio gnostico.Una fede solo esteriore (ma quando mai ne ho fatto cenno? Dove ha letto che ho parlato di ciò? Non mi sembra) non è certo l'ideale ma E' SEMPRE MEGLIO CHE Niente. Ed è sempre meglio dell'attuale situazione. Sapete quali sono stati i primi frutti del bergoglismo? L'apostasia pubblica di Magdi Allam e la crisi delle sartorie ecclesiastiche. Se, nella mia vita non son riuscito a far altro che convincere le mie figlie che il modo di vestire non è neutro. Deve essere consono all'ambiente ed un vestiario pulito, curato ma non esibizionista è indice anche di pulizia e cura interiore. Ebbene, dicevo, se sono riuscito solo in ciò, anche ed in buona parte per merito di mia moglie, non lo nego, si può dire che la mia vita NON è STATA VANA.

Silente ha detto...

"Per questo la veste sacra non dev'essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eliminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato."
L'eclissi del Sacro, di cui l'abbandono della talare è un esempio eclatante, si accompagna sempre all'eclissi del Bello. Il Bello e il Sacro sono consustanziali. Scrive Keats in una delle sue Odi: "Bellezza è verità, verità è bellezza - questo solo sulla Terra sapete, ed è quanto basta". Roger Scruton, nel suo testo La Tradizione e il Sacro, si chiede il perché di questo abbandono della Bellezza da parte dei contemporanei e si risponde: "Forse perché sanno che conduce a Dio."

Emblematico è il fatto che i sacerdoti che hanno abbandonato la talare non hanno adottato il pur incongruo, a-simbolico, in-significante ma comunque riconoscibile clergyman, ma sono passati ad abbigliamenti ben più proletari, maglioni informi, camicie da boscaioli, blue-jeans, sciarpe arcobaleno, come un sacerdote che tiene una "rubrica religiosa" su una televisione locale. Ecco la bruttezza e ordinarietà citate nell'articolo, accompagnata dal rifiuto del principio che: "In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa."

Articolo molto interessante, per contenuto e chiarezza. Da far leggere ai molti sacerdoti che, rifiutando la loro "distinzione" dal mondo, rappresentata anche dalla loro veste, sostanzialmente rinnegano la loro Consacrazione e, conseguentemente, il loro ruolo sacramentale.

Anonimo ha detto...


---Decadenza esteriore ed interiore

Le suore aggiornate nell'abito grazie alle riforme conciliari sembrano crocerossine. I preti in clergyman assomigliano ad impiegati dell'azienda tranviaria. La decomposizione esteriore del clero e' parallela a quella interiore. Tutto l'esteriore, nella Chiesa attuale, e' diventato di una bruttezza allucinante: dalla liturgia piatta ed insignificante agli orrori della nuova architettura ecclesiastica, con chiese circolari che sembrano torte o estroflesse a sghimbescio verso l'alto, alla maniera di un hangar d'areoporto. E se l'esterno e' cosi' brutto come fa l'interno ad esser bello? A. R.

Anonimo ha detto...

A proposito dell'abito religioso, un episodio tragicomico riguardante il guardiano di Greccio, dove il papa si è recato ieri. Il frate ha dichiarato a Tv2000: "In quel momento non avevo neanche il saio e sono andato velocemente nel refettorio a indossarlo. Poi ho aperto il cancello al Papa." Se stava facendo qualce lavoro manuale, questo già lo giustificava. Se invece si era messo "in borghese", e in questo non vede niente di male, perché quella corsa? E se fossi arrivato io? un sacerdote? un vescovo? un cardinale? A che livello bisogna essere per vedere un frate col saio?
http://www.lastampa.it/2016/01/05/vaticaninsider/ita/vaticano/ecco-perch-il-papa-andato-a-greccio-D84x0aUUQyppLFeCCInQtL/pagina.html
Antonio

Anonimo ha detto...

Benedetta quell’utilitaria che dal luogo del martirio dell’Apostolo Pietro ha portato il Vescovo di Roma al luogo romito di Greccio, dove il Poverello d’Assisi volle presentare al mondo lo stupore davanti al Verbo divino, che si fece piccolo e povero, tanto da aver bisogno di tutto e di tutti.
ettore malnati
Vicario episcopale per il laicato e la cultura della diocesi di Trieste
Testuale:
http://www.lastampa.it/2016/01/05/vaticaninsider/ita/commenti/il-blitz-del-papa-a-greccio-un-richiamo-allascolto-della-piet-popolare-5lfjBqYj2E3ffxOoqv6dyN/pagina.html
Antonio

mic ha detto...

Benedetta quell’utilitaria che dal luogo del martirio dell’Apostolo Pietro ha portato il Vescovo di Roma al luogo romito di Greccio

Qui siamo semplicemente al più patetico e vomitevole kitsch...

Anonimo ha detto...

@ Antonio

Dopo l'indefinibile show del festival francescano in varie piazze d'Italia, vanno nei bar, alla toilette, e si tolgono subito il saio e si dileguano, li abbiamo visti coi nostri occhi, quindi deduco sia prassi comune.

Ben detto ha detto...

Beh ti cascano le braccia !
Come faceva Giovanni Paolo II ad andare a sciare senza che nessuno lo sapesse ?


Chiedere a Navarro -Valls ...

Eh la Cei ... ha detto...

Qui il documento
http://gloria.tv/media/mvn7kS6a2do

Tanto tempo fa , in uno dei tanti contenitori televisivi , mi irrito' molto l'espressione di un attore che invitato a commentare sul Papa che si accingeva a celebrare Messa se ne uscì dicendo : " anche io a teatro mi metto il costume " suscitando la ilarita' (!?!) dei perenni presenti.

S.Francesco , Don Bosco , S.Filippo Neri mettevano e smettevano la loro "divisa"come a teatro ?

Silente ha detto...

L'ostentata, insistita preferenza di Bergoglio per tutto ciò che è sciatto, brutto, informale e quindi informe, privo di decoro, non è manifestazione di modestia, ma di orgoglio, di esibizione di presunte virtù e soprattutto totale disconoscimento del Suo ruolo di Vicario di Cristo in terra. La pompa, il fasto, l'oro, i rituali e le vesti ricche non sono per Simone, ma per ciò che rappresenta e incarna. Vi è anche una totale ignoranza del valore, non solo analogico e anagogico, ma anche ontologico, dei simboli, che non solo "rappresentano", ma in qualche misura anche "sono". Le sue abitudini piccolo-borghesi, la vettura anonima, il "buongiorno" e il "buon pranzo", il rifiuto di risiedere in Vaticano preferendo un appartamento a Santa Marta, sono un manifesto ideologico, al limite del blasfemo.
Vedemmo le avvisaglie al momento nella sua elevazione al Soglio e, poco tempo dopo, quando platealmente e offensivamente rifiutò di partecipare a un concerto in suo onore affermando: "Non sono un Principe rinascimentale". Ancora orgoglio e rifiuto del Bello. E rifiuto del fatto che il Papa è anche Monarca.

San Carlo Borromeo, Principe della Chiesa e Principe mondano, viveva personalmente con molta modestia, ma non rifiutò mai i fasti, gli omaggi e la pompa dovuti alla sua carica. Arricchì e abbellì le Chiese della sua diocesi, i rituali ambrosiani, sacralizzò Lombardia con simboli di fede, Sacri Monti, colonne ed edicole votive. E questa ricca sacralizzazione del territorio contribuì a fermare la discesa offensiva e aggressiva del Protestantesimo dalla Svizzera.

Rr ha detto...

Analogico, anagogico, ontologico...Silente, tu presupponi che un semplice perito chimico di Baires conosca il significato di queste parole. Più semplicemente, parvenu era, e parvenu è rimasto.
Rr
PS: non voleva si sapesse? Evidentemente ignora anche il significato di "in incognito".

Aloisius ha detto...

Aggiungo la croce di metallo al posto di quella d'oro, portata invece dai Papi predecessori.

Polemizzai su questo con i miei familiari cattolici relativisti, difendendo la croce d'oro come simbolo più alto del cristiano, così come gli abiti del Sacerdote.

Chissà per quale arcano motivo un credente o un ateo possono portare croci o oggetti d'oro, magari regalandoli a prime Comunioni e compleanni, mentre è uno scandalo se li portano il Papa o un cardinale, massimi rappresentanti della Chiesa santa fondata da Cristo (e di uno Stato/città).

L'articolo chiarisce bene, però, che chi rinuncia ai simboli, siano essi abiti o altri oggetti "... per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involontariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico".

Coglie l'essenza del momento, in quanto l'insegnamento del Papa e' invece questo: il prete, per essere bravo, deve essere meno prete e piu' finto laico.

Motivo per cui Scalfari ha detto che questo Papa e' più laico dello Stato e per cui la massa non credente, inorgoglita dal fatto che il Papa sta dalla loro parte e fustiga i cattolici tradizionalisti con ogni sorta di critica, lo ha eletto a star del secolo.

L'effetto, però, e' quello espresso chiaramente dall'articolo, perché il mondo reagisce
"... allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio".

È proprio quello che sta avvenendo con laicisti e mussulmani.


Gederson ha detto...

L'abito non fa il monaco, ma l'identifica con l'ordine che rappresenta.

Anonimo ha detto...

San Carlo Borromeo, Principe della Chiesa e Principe mondano, viveva personalmente con molta modestia, ma ..
conformemente alla Sua Dignitas Sacerdotalis .

Don Giuseppe Cafasso (Santo) :
«Nel Dì del Giudizio il Signore mi chiederà se avrò fatto il buon prete, non il deputato»

Silente ha detto...

Cara Rosa, come hai ragione: "parvenu era, e parvenu è rimasto". Costui è arrivato al sacro Soglio senza una solida preparazione teologica, senza una adeguata formazione culturale e sociale. Ma ciò, dato il suo ruolo, non è una scusante per la sua sciatteria intellettuale, dottrinale e comportamentale.

Torniamo al tema dei simboli.
Franco Cardini, in un suo recentissimo libro indecentemente apologetico nei confronti di Bergoglio: Un uomo di nome Francesco (a Cardini io perdono molto, ma certo non tutto), non manca di criticare Bergoglio (ed è forse l'unica critica del testo) proprio per la sua rinuncia all'oro: " L'oro dei sacri arredi significa ben altro: è il riflesso della luce solare, dello splendore del Cristo Sol Iustitiae; è per lui, in Suo onore, nel Suo nome che i papi se ne adornano. In un mondo teocentrico e ierocentrico, come in modo differente sono sempre state le civiltà tradizionali succedutesi nella storia umana fino alla rivoluzione dell'Occidente-Modernità tra il XVI e XVIII secolo, l'oro ha un significato simbolico di tipo sacrale; esso non rinvia immediatamente ed esclusivamente alla ricchezza e quindi all'arbitrio e alla volontà di potenza individuali. Spogliarsene per indicare la rinunzia a quelli e a questa è un atto moralmente commendevole sul piamo delle intenzioni: ma - al di là delle intenzioni - teologicamente insensato e simbologicamente blasfemo [grassetto mio, ndr]".

Ecco, il rifiuto del simbolo, sia esso l'abito, il rito, il gesto, l'oro, è semplicemente blasfemia.

Anonimo ha detto...

Se, non dico sotto Pio XII, ma ancóra sotto Paolo VI, qualcuno ci avesse detto che il papa aveva alzato il pollice della mano destra, come il Fonzie di “Happy days” (magari accompagnandolo con un “Eeeehi” strascicato), o aveva, come dicono, battuto il cinque a un ospite a tavola, avremmo pensato a un motto di spirito, a una barzelletta.

A volte mi sembra di vivere in un brutto sogno.

Maso

rr ha detto...

Silente,
certo non è una scusante. Ma, essendo un parvenu, è più forte di lui: fosse un prete, un vescovo, un abate, cercherebbe di mascherare il suo "parvenuisme" con modi affettati, citazioni colte, e si farebbe scrivere testi che leggerebbe, invece di "andare a braccio". Poiché è arrivato al massimo grado della gerarchia, non ha più bisogno invece di nascondersi. E quindi non fa nulla per migliorarsi. In più è unArgentino di origine piemontese, due arroganze messe insieme.
RR

Anonimo ha detto...

Uh uh, 2 arroganze messe insieme, Rr, ti sei messa a giocare football americano women league? Entrataccia, efficacissima, purtroppo non sembra di vivere in un brutto sogno, siamo tutti svegli, almeno chi riesce a vedere oltre alla fuffa ideologica, laudatoria mass-mediatica, sempre più mass, mi pare non ci restino molte scelte, tanto il paese è già stato s-venduto in tutti i sensi, di cattolicesimo non vi è più traccia, né nella massa né in chi dovrebbe esserne a capo, il 'grande timoniere' ci porterà dritti al baratro, sta a noi saltare giù dalla barca prima che sia troppo tardi.....a 80 anni, cara Rosa, si può solo peggiorare, di brutto. Anonymous.