Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 23 gennaio 2016

Mattia Rossi. L’origine del disastro liturgico-musicale

Ho raccolto e unificato il testo che segue, di Mattia Rossi, dalla pubblicazione in quattro parti su Riscossa Cristiana [qui]. Un interessante compendio per completare le nostre conoscenze su quello che senza mezzi termini viene indicato come il disastro musicale seguìto alle riforme conciliari che, com'è noto, non hanno risparmiato neppure la Musica Sacra. 
È inserito nell' Indice degli articoli sulla Musica Sacra pubblicati sul blog [qui].

L’origine del disastro liturgico-musicale 
di Mattia Rossi
Introduzione

«Non vi sembra, questa posizione della Sacrosanctum Concilium, una vera rivoluzione rispetto alla concezione che si aveva prima, nei confronti della musica sacra?».

Basterebbero queste poche parole, di per sé, per comprendere da dove provenga l’odierna pietosa condizione della musica liturgica: un panorama musicale devastato la cui indecenza è talmente evidente da permetterci di sorvolare. Contra factum non valet argumentum.

Basterebbero quelle poche parole d’apertura, dunque, per spiegare la situazione in cui versa la musica sacra in seguito alla riforma di Paolo VI e alla promulgazione del Novus Ordo Missae: basterebbero quelle parole proprio perché ad ammettere candidamente la «rivoluzione rispetto alla concezione che si aveva prima, nei confronti della musica sacra» veicolata dal Vaticano II non sono i detrattori del nuovo messale. No, la citazione qua sopra è del numero uno liturgico-musicale in casa CEI: mons. Antonio Parisi, autorevole esponente dell’Ufficio liturgico nazionale. Una rivoluzione: ben detto.

Ecco, ma nonostante siano gli stessi laudatores conciliari a risparmiarci parte del lavoro, non vogliamo esimerci dall’esprimere anche noi qualche considerazione.

Come primo passo, riterrei utile sgomberare il campo dai soliti triti-e-ritriti slogan e luoghi comuni. Mi pare evidente, come si diceva poco fa, che per constatare il disastro liturgico-musicale non occorra essere tecnici o addetti ai lavori: basta possedere un apparato uditivo correttamente funzionante e una minima dose di buonsenso per rendersi conto della penosità della situazione. Si tratta di un panorama talmente ignobile che, di fronte ad esso, difficilmente si riuscirà ad essere esaustivi.
Eppure, nonostante la mole della tragedia liturgico-musicale in corso, gran parte dello scrivere e parlare (anche in area cosiddetta “tradizionalista”, purtroppo) che si fa di musica sacra e del suo declino gira attorno ai soliti mantra: l’abbandono del gregoriano e dell’organo, le chitarre in chiesa che non vanno bene, il Vaticano II che chiede che si riservi a questo e a quell’altro “il posto principale”, l’esaltazione di un immacolato passato intaccato dagli abusi odierni, gli abusi stessi che non sono conseguenza del Novus Ordo ma non si sa bene di cosa, un nuovo repertorio in volgare fatto di brani “brutti”, e via di questo passo.

Ecco, a me pare – e lo dico francamente – che tutti questi slogan siano, nella gran parte dei casi, argomentativamente fondati sul nulla. Mi pare manchi, alla base di tutte queste (talvolta pure condivisibili) posizioni, un’analisi corretta, approfondita e, soprattutto, argomentata sulle cause, da un lato, e conseguenze, dall’altro, della temperie attuale. Mi pare, in sostanza, che si continui a disquisire, più o meno precisamente, ma senza cogliere alcuni punti che, a mio avviso, rimangono essenziali nel definire correttamente la discussione: il perché si è giunti a ciò e il perché non si sarebbe dovuti giungere a ciò.

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Un primo punto, infatti, sul quale si deve riflettere è il seguente: per quale motivo l’abbandono del canto gregoriano e della polifonia classica devono essere condannati? Per quale ragione la loro rottamazione sessantottina, e la loro sostituzione con musichette più di consumo, deve essere biasimata?

Il più delle volte pare che sia solo una questione estetica e di gusto: l’uno è “bello”, l’altro è “brutto”. Peccato che il liturgismo vaticanosecondista postuli l’esatto contrario: anzi, il nuovo repertorio risponde perfettamente allo spirito dell’azione liturgica bugniniana.

Altre volte pare, invece, che sia quasi questione di “illegalità”: il gregoriano è il cantodellachiesa (tutto attaccato, da buon mantra) e le canzoni nuove no, vengono a spodestare con la forza il padrone di casa. Benissimo, in parte è anche vero. Però, a ben pensarci, anche quando venne introdotta la polifonia libera (cioè quella non più vincolata alle linee melodiche gregoriane) si fece un’operazione tutto sommato simile: l’introduzione nella Messa di un genere “nuovo” e “scandaloso” per l’epoca (basta leggere la bolla Docta Sanctorum Patrum). Certo, i livelli qualitativi sono nettamente differenti, ma sono anche figli della loro epoca…  E allora: perché un nuovo genere poté essere introdotto (non senza difficoltà, peraltro) in passato e oggi no?

Insomma, voglio dire, possibile che si proceda, per la maggior parte delle volte, per banalissimi slogan che, in assenza di argomentazioni solide, fanno il gioco dei modernisti? C’è, invece, qualche ragione più profonda se il gregoriano deve – e dico: deve – essere il canto della liturgia cattolica – e dico: cattolica –? C’è qualche ragione se noi condanniamo l’abbandono del gregoriano non perché è “più bello”, “più sacro”, “più meditativo”, “più spirituale” di Dove troveremo tutto il pane? o di Andate per le strade, ad esempio? Certo che sì: perché esso è ontologicamente cattolico e non accidentalmente come chi sostiene che esso vada recuperato solo perché è più “bello” o più “sacro” o perché storicamente è il canto della Chiesa.

Ma detto questo, segue a ruota il secondo punto su cui si deve riflettere: il gregoriano, nato per un tipo di liturgia, è espressione di una certa fede, di una certa teologia e di una certa ecclesiologia incompatibili con quelle veicolate dal Novus Ordo. E allora, se il canto gregoriano è intrinsecamente cattolico (ripeto: e non per ragioni storiche o estetiche), qual è la correlazione tra l’attuale crisi musicale non solo col messale di Montini&Bugnini, ma anche col Concilio stesso?

Ovvero: come è possibile voler curare un malato somministrandogli il virus che ha causato la malattia stessa? Fuor di metafora: come è possibile voler “curare” la liturgia riformata con lo stesso virus – il Concilio – che ha provocato l’esplosione cancrenosa? Ancor più esplicito: come è possibile porre rimedio alla cloaca liturgico-musicale in corso attraverso la Sacrosanctum Concilium, ovvero esattamente con ciò che l’ha cagionata? Perché non si vorrà far credere che ciò che è avvenuto dal 4 dicembre del 1963 in poi non abbia alcuna relazione con ciò che in quella data avvenne… No, in buona fede fin che si vuole, ma fino a un certo punto. Il “post hoc, hoc; sed non propter hoc”, sinceramente, lasciamolo ad altri candidi normalisti. Noi, al di là di improbabili “ermeneutiche”, prendiamo i documenti leggendovi la “lettera”, non lo “spirito”.
Sarà sufficiente.

Ecco perché noi cercheremo di capire, a partire dalla prossima puntata, che cosa sia il gregoriano e come ci si debba porre dinanzi ad esso. Solo conoscendone la sua essenza primaria sarà possibile comprendere che la crisi musicale non è altro che l’altra faccia della desistenza dell’autorità e dell’abbandono del munus docendi della Chiesa riformata. E solo osservando come si è posta la Chiesa riformata davanti ad esso, nella sua “lettera” conciliare, sarà possibile comprendere di cosa è figlio il disastro liturgico-musicale tanto condannato a parole. Ecco, giusto a parole: perché nei fatti, lo vedremo, tutto è perfettamente logico.

Prima parte: Che cos’è il gregoriano? Un inquadramento storico e documentale

Abbiamo inaugurato questa rubrica mensile dedicata alla musica liturgica con una lunga presa d’atto di quella che è un’amara evidenza: la liturgia e la musica sacra stanno attraversando una crisi che non ha eguali, sia come mole della dissoluzione liturgica sia come livello qualitativo della nuova musica, causata dal sovvertimento del rito preparato dal Vaticano II e coronato con l’introduzione del Novus Ordo o altrimenti detto messale di Paolo VI. (vedi: L’origine del disastro liturgico-musicale – Introduzione)

Accanto a questa constatazione – sia pur non occupandoci della nuova Messa – denunciavamo come l’abbandono del canto gregoriano non rappresentasse solamente un fatto deprecabile sul piano estetico o formale, ma fosse un grave atto di abiura dell’autorità della Chiesa in quanto, al di là delle banali difese d’ufficio, esso incarna ontologicamente – e non solo accidentalmente o storicamente – la dottrina cattolica.

In questa puntata (e anche nella prossima) mi pare, dunque, utile tentare di rispondere con i lettori di “Riscossa Cristiana” a qualche domanda che non può rimanere inevasa: perché il gregoriano è così fondamentale tanto da definire il suo ripudio un’abiura? qual è la sua vera natura? da cosa nasce? che cosa rappresenta all’interno della liturgia cattolica?

Per rispondere a simili interrogativi, occorrerà definire preliminarmente alcuni paletti che ci consentano di aver chiaro di cosa si stia parlando quando menzioniamo quella categoria così generica che va sotto il nome di “canto gregoriano”.

Innanzitutto, è necessario compiere un inquadramento di natura cronologica. Come dicevamo, “canto gregoriano” si presenta come un maxi-contenitore nel quale comunemente si tende a far confluire di tutto: dal salmo in retto tono al tractus iper-melismatico, dalla Messa “de Angelis” ai canti vari come la Salve Regina o l’Adoro te devote. In realtà, quando parliamo di gregoriano, ci riferiamo a quel repertorio, definito tecnicamente “autentico”, composto ad uso liturgico grossomodo tra il IX e il X secolo e frutto di una “fusione” tra la tradizione romana, assai ricca dal punto di vista del ciclo di lezioni, e quella gallicana, molto più ornata dal punto di vista musicale, operata dai Carolingi.

I primi documenti relativi alla formazione del repertorio gregoriano affondano le radici nell’VIII secolo. A quest’altezza, però, i manoscritti non sono ancora notati musicalmente: la trasmissione delle melodie avviene ancora esclusivamente per via orale. È a partire dal X secolo che i testi dei manoscritti vengono sormontati da segni denominati successivamente dagli studiosi “neumi in campo aperto”: essi si presentano come punti, stanghette, vermicelli, chioccioline, lettere, e una miriade di altri segni. (clicca sull’immagine per ingrandirla)
Tutti questi segni, si scoprì in seguito, non stavano ad indicare delle melodie precise (vedremo più avanti il loro significato). Le indicazioni melodiche precise vennero introdotte tra il X e l’XI secolo attorno prima a una e poi a due linee tirate a secco: rossa la linea del Fa, gialla la linea del Do.

A questo punto, ovverosia nel momento in cui si tende a perdere memoria delle melodie che prima erano trasmesse oralmente e quindi si sente la necessità di “notarle” sui codici, possiamo dire che il gregoriano ha già aperto le porte alla decadenza. Per questo, ciò che venne composto in seguito non si definisce più propriamente gregoriano autentico, ma post-classico perché muta in modo sostanziale le tecniche compositive. E fu un mutamento talmente sostanziale che, di lì a poco, portò alla nascita di un nuovo genere musicale: la polifonia.

Detto questo, però, non bisogna correre il rischio di ritenere il canto liturgico nato nel IX secolo. Le radici del canto cultuale cristiano risalgono alle prime comunità. Anzi, a Nostro Signore stesso che, come narrano i vangeli, può essere considerato il “primo cantore”: «E dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il Monte degli Ulivi». In ogni caso, come ho scritto nel mio Le cetre e i salici [vedi presentazione, nel blog] il canto sacro è certamente attestato da san Paolo: «Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo» (1Cor 14,26); «[…] trattenendovi fra di voi con salmi, inni e cantici spirituali» (Ef 5, 19); «Ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando nei vostri cuori a Dio, per impulso della grazia, con salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3, 16); «Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (Atti 16, 25).

Dal II secolo abbiamo altre diverse testimonianze: Tertulliano, nel De anima, descrive come si svolgeva la liturgia di allora citando espressamente «psalmi canuntur» (canto dei salmi). Interessantissima (anche in relazione all’attualità, se vogliamo) l’ammonizione di Clemente Alessandrino che, a fine II secolo, nel Pedagogo scrive: «Si scelgano musiche dignitose, allontanando il più possibile le musiche di effetto svenevole atte a sollecitare il nostro prepotente istinto».

La musica sacra e liturgica cristiana, dunque, nasce in seno alle prime comunità e, gradualmente e organicamente, progredisce e accresce per circa otto secoli fino a giungere ad un repertorio stabile e organizzato nei secoli dell’apogeo gregoriano.

La seconda necessaria restrizione che occorre fare riguarda il repertorio: il discorso che condurremo già a partire dalla prossima puntata e finalizzato a comprendere correttamente l’essenza del gregoriano, riguarderà solamente i brani del Proprium Missae, cioè le parti cosiddette variabili: introito, graduale, alleluia, offertorium e communio.
Queste cinque parti si possono ulteriormente dividere in altre due categorie: i canti della schola cantorum (introito, offertorio e communio) e i canti del salmista (graduale e alleluia o tractus). Sono i canti sui quali si intervenne maggiormente, i canti che meglio di tutti potranno darci l’idea di cosa sia realmente il gregoriano così da rispondere a quelle domande che ci eravamo posti poco sopra.

Le parti del Proprium, come noto, sono anche dette “parti variabili” in quanto cambiano ad ogni Messa, mentre le parti dell’Ordinarium (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei) sono dette “parti fisse” proprio perché sempre presenti (fatta, naturalmente, eccezione per il Gloria in Avvento e Quaresima). Ed è proprio questa terminologia a farci comprendere il perché noi ci occuperemo quasi solamente dei brani del Proprio: è perché essendo i brani che caratterizzano la domenica o la festa si presentano, a differenza dei brani fissati dell’Ordinario, come i più ricchi di melodie e di informazioni retoriche che, durante il corso dei nostri appuntamenti, cercheremo in parte di analizzare.

Un’ultima chiarificazione sempre legata a questo discorso sul repertorio, ci può giungere dal fondo documentale al quale attingeremo. I principali manoscritti contenenti il Proprio della Messa e che, sin dalla prossima puntata, verranno utili per le nostre analisi sono, sostanzialmente, appartenenti a due famiglie: quella sangallese e quella metense.

Al primo ramo appartengono diversi codici (San Gallo 339, Cantatorium 359 o Einsiedeln 121, ad esempio), mentre alla seconda appartiene praticamente un solo manoscritto fondamentale, il Laon 239. Sulla decifrazione di queste due scuole – argomento che costituirà l’oggetto della prossima puntata – si sono concentrate tutte le conquiste semiologiche che ci hanno permesso di riscoprire la vera essenza del gregoriano.

Ecco, queste erano le principali indicazioni metodologiche che mi sembrava doveroso definire cosicché, nel prosieguo del nostro addentramento nel canto sacro liturgico, quando ci riferiremo al gregoriano daremo per scontato il fatto che esso sta ad indicare il repertorio del cosiddetto “fondo autentico” e riguardante il Proprio della Messa.

Seconda parte: che cos’è il gregoriano? Alcune precisazioni sulla sua natura intrinseca

Dopo aver definito, nella precedente puntata, il canto gregoriano da un punto di vista storico e documentale, vediamo ora di completare la risposta alla domanda posta nel titolo – Che cos’è il gregoriano? – delineando i caratteri che fondano il canto della Chiesa nato all’ombra delle cattedrali. Cerchiamo, cioè, di capire quale sia la sua più profonda ed essenziale natura.

Abbiamo accennato, sempre nell’articolo scorso, come a partire dal X secolo i testi dei manoscritti siano stati corollati da tutto un insieme di strani segni, denominati neumi: punti, stanghette, trattini, vermicelli, chioccioline, lettere, e moltissimi altri ancora. E accennavamo anche che tutti questi segni non vennero inseriti per indicare delle melodie precise. Ora anticipiamo già quella che sarà la nostra conclusione: in quei segni è racchiusa tutta l’essenza del canto gregoriano, tutto il pensiero, la mens, che ha costruito il repertorio sacro. Non esageriamo nemmeno troppo se affermiamo che quei segni sono il canto gregoriano.

Vediamo, ora, di cercare di comprendere più da vicino cosa significhi ciò e qual è lo scopo della notazione neumatica. Ma andiamo per gradi.

Primo passaggio – Il gregoriano non è un canto mensurale: ciò significa che non adotta la notazione mensurale (nata alla fine del XIII secolo) secondo cui ogni nota indica il proprio valore e, cioè, la sua precisa durata. Ancora oggi le note di un pentagramma indicano già in loro stesse la loro durata: ad esempio, una nota vuota con la stanghetta vale 2/4 (due quarti), se è piena vale 1/4, se ha la cediglia vale 1/8, se ne ha due vale 1/16, se è vuota e senza stanghetta vale 4/4, e via dicendo…

Questo, sul piano pratico, vuol dire che ciascuna nota gregoriana, non possedendo questo tipo di notazione, non ha, in sé stessa, nessuna durata prestabilita. Ad esempio, se io ho una sequenza di tre note, le posso cantare in molteplici modi: fare un po’ più lenta la prima e non le altre due, rallentare la seconda, o la terza, o farle tutte lente, o tutte veloci, o velocizzare solo quella centrale… Insomma, anche un piccolissimo nucleo di note può essere eseguito in modi e tempi diversi (per capire, a livello meramente temporale, le tre note dell’esempio possono essere seguite in un secondo, in due secondi, in tre secondi, in cinque secondi…).

Le note gregoriane, sostanzialmente, non mi dicono da sole quanto valgono. Lo stesso discorso applicato a una o due note, va da sé, lo posso applicare a una intera melodia, a un’intera frase o a un intero brano.

Secondo passaggio – In questa situazione di apparente anarchia ritmica, il canto gregoriano ha posto una regola aurea: la durata da attribuire alle note è la stessa che si otterrebbe nel pronunciare il testo sul quale quelle note sono poste. Cioè, in assenza di altre regole, la ritmica da dare alla melodia è data dal fluire stesso della pronuncia del testo.

Ne consegue che l’accento tonico della parola coincide con l’accento musicale: ad esempio, se io devo cantare la parola Dòminus, la sillaba iniziale Dò- risulterà musicalmente accentata perché da un punto di vista grammaticale essa conserva l’accento tonico. Se, invece, devo cantare la parola miserére, la sillaba accentata sarà la stessa che conserva l’accento tonico ovvero la terza (--).

Lo stesso ragionamento, ampliando un pochino lo sguardo, si può applicare ad una intera frase. Cosa vuol dire ciò? Facciamo un esempio: la frase adoramus te in un’esecuzione cantata risulterà sciolta e scorrevole così come risulterebbe nel recitarla. Ma una frase come propter magnam gloriam tuam risulterà leggermente più “rallentata” perché composta da particolari nessi consonantici (pr, pt, gn, gl, m-t) per i quali il nostro apparato fonatorio necessita di maggior articolazione per il loro pronunciamento.

Possiamo pensare anche alla parola omnes e a quanto maggior tempo richieda nell’essere pronunciata o cantata correttamente rispetto ad un’uguale parola di cinque lettere come può essere nobis proprio a causa della presenza/assenza di particolari nessi consonantici.

Per cui: il ritmo generale dipende dal tempo che io impiego a pronunciare correttamente la parola o frase. Ecco, la regola fondamentale per l’esecuzione del gregoriano è quella di seguire la ritmica sillabica.

Ma a questo punto possiamo aggiungere il terzo passaggio della nostra riflessione: il gregoriano può (e lo fa nella pressoché totalità del repertorio della Messa) modificare la legge di base e porre delle precise regole ritmiche ed esecutive. E se lo fa è solamente per una esigenza superiore, per una necessità la cui importanza è tale da forzare la regola fondamentale che si era dato: lo fa, in definitiva, esclusivamente per fini retorici ed esegetici.

Lo scopo delle puntate che seguiranno sarà proprio questo: andare a sondare il repertorio gregoriano, attraverso esempi che seguiranno il lento incedere dell’anno liturgico, vedendo come esso riesca a incarnare l’esegesi della Chiesa.

Ecco qual è il vero significato di quei segni: essi, intervenendo pesantemente sulla esecuzione ritmica del brano e indicando all’esecutore quali note (ovvero parole) meritino una sottolineatura musicale (ovvero di significato), danno un colore, offrono l’interpretazione che di quel brano la Chiesa vuole dare.

Solamente qualche esempio. Prendiamo la parola ecce: è teologicamente significativo che la stessa parola venga sottolineata (attraverso soluzioni ritmiche come il rallentamento o l’amplificazione) in un tempo forte come l’Avvento, dove l’“ecco” ha una forte valenza simbolica, mentre ciò non avvenga in una qualsiasi domenica del tempo per annum. O ancora: le parole reges o potestas, ad esempio, è del tutto logico che per esigenze teologiche vengano sottolineata maggiormente in un Proprium come quello dell’Epifania rispetto a una qualsiasi domenica dell’anno.

In conclusione, dunque, la notazione dei neumi non è altro che una “forzatura” del normale andamento ritmico a causa di un intervento che la Chiesa docente vuole fare su una determinata parola, frase o brano. In questo senso, assume significato la definizione che, sin dall’inizio di questa rubrica, abbiamo dato del gregoriano: una esegesi della Parola.

Ed ecco, allora, che si comprende ancora di più come il canto gregoriano possegga una funzione primariamente cattolica – l’interpretazione delle Scritture – e delle qualità che non possono solamente essere artistiche o estetiche ma che rappresentano, incontrovertibilmente, l’essenza stessa del canto sacro che oggi si rinnega. E rinnegare la necessaria interpretazione della Scrittura significa rinnegare la dottrina stessa e il munus docendi che è (sarebbe) proprio della Sposa di Cristo. Le conseguenze di tale rinnegamento le tragga, in coscienza, ciascun lettore.

Terza parte: Il repertorio gregoriano di Avvento

È iniziato l’Avvento, il tempo dell’attesa. La liturgia cattolica, domenica scorsa, ci ha messi di fronte alla duplice attesa che caratterizza questo tempo forte: non solamente l’attesa per il ricordo della nascita terrena del Figlio di Dio, ma, soprattutto, l’attesa del “secondo” Avvento di Gesù Cristo, quello finale nella gloria e nella maestà.

A partire dall’introito, poi per tutto il graduale e fino all’offertorio, il canto gregoriano ci ha offerto la sintesi musicale della I domenica: “Universi qui te exspectant non confundentur”, tutti coloro che aspettano il Salvatore non saranno confusi. È una dimensione, quella della I domenica trascorsa, escatologica e universale, che intende abbracciare tutti coloro che attendono con fiducia la venuta (seconda) del Salvatore. È stata una domenica nella quale l’attesa della venuta del Signore ha fatto da collante a gran parte del repertorio.

Proseguendo, non sarà faticoso notare come domenica prossima, la II d’Avvento, non si presenti come scollegata da quella precedente. Anzi, l’introito che ascolteremo domenica è pervaso dalla medesima connotazione dell’abbracciare tutti i credenti in Cristo nella vera fede:

Populus Sion, ecce Dominus veniet ad salvandas gentes
et audi tam faciet Dominus gloriam vocis suae,
in laetitia cordis vestri.

“Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare le genti”, è una sostanziale risposta al tema della I domenica: chi attende il Signore non resterà confuso – si pregava domenica scorsa – perché, ecco, il Signore verrà a donare la salvezza – si pregherà domenica. Alla fiduciosa e confidente attesa della I domenica, l’introito della II sembra quasi avanzare una serena risposta: “Dominus veniet ad salvandas gentes”, il Signore verrà a salvare le genti.

A questa complementarietà che caratterizza il gregoriano bisognerà un po’ far l’abitudine: tutto il repertorio del canto della Chiesa è costellato di rimandi, citazioni, temi che si rincorrono o si completano. O, come è il caso delle domeniche d’Avvento, si assiste ad un crescendo, un graduale climax che, domenica dopo domenica, aggiunge sensibilità nuove.

La III domenica, infatti, la cosiddetta domenica “Gaudete”, segna l’apice di quanto tracciato dalle due precedenti. Il termine “Gaudete” che dà il nome alla domenica è dovuto all’incipit dell’introito che è tratto da San Paolo (unico testo paolino inserito nel tempo d’Avvento) e, più precisamente, dalla Lettera ai Filippesi (4, 4-5):

Gaudete in Domino semper, iterum dico, gaudete;
modestia vestra nota sit omnibus hominibus:
Dominus propre est.
Nihil solliciti sitis, sed in omni oratione petitiones vestrae innotescant apud Deum..

È un testo, come si vede, profondamente gioioso. Una letizia che, del resto, caratterizza anche visivamente questa domenica nella quale il sacerdote veste i paramenti rosa e non violacei.

Nella III domenica, dunque, l’effetto di crescendo instaurato dai tre repertori è perfettamente esplicitato: dalla semplice speranza nella venuta (I domenica), si aggiunge la certezza della redenzione per chi crede (II), che porta necessariamente alla gioia che accompagna questa certezza. Ecco, dunque, il senso che questo introito, anche nella sua ricca strutturazione musicale, ci intende offrire: rallegrarsi sempre nel Signore che presto verrà perché, in Lui, nulla ci deve preoccupare.

Un taglio più distintivo conserva, invece, l’ultima domenica d’Avvento, la IV. Essa, soprattutto nell’offertorio e nel communio, ha una colorazione puramente mariana.

Innanzitutto, notiamo che l’offertorio di questa domenica è lo stesso del giorno dell’Annunciazione:

Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum:
benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui

Sono le parole dell’arcangelo Gabriele mescolate a quelle di Elisabetta che la Chiesa ha fuso in un’unica antifona (la preghiera popolare dell’Ave Maria verrà compilata in seguito e proprio a partire da quest’antifona) offerta alla Vergine nell’ultima domenica che precede la celebrazione liturgica del mistero dell’Incarnazione, il Natale, a nove mesi di distanza dall’Annuncio dell’arcangelo.

Il testo di quest’offertorio, così come quello della preghiera, ci permette una singolare riflessione sull’atteggiamento della Chiesa nei confronti della liturgia e del canto sacro: l’arcangelo Gabriele, salutando la Vergine, non pronuncia il suo nome, ma la saluta solamente con il «piena di grazia». La Chiesa, invece, attraverso la sua “catechesi” musicale quale è il canto gregoriano, tra l’«Ave» e il «gratia plena» decide di inserire il nome della Vergine, Maria. E proprio sul nome aggiunto, «Maria», il canto  gregoriano, dopo un inizio su un registro intermedio, innalza la propria melodia raggiungendo una tessitura vocale acuta che desta immediatamente l’attenzione.

Ecco, allora, che la “forzatura” del testo evangelico attraverso l’arbitrario inserimento del nome proprio della Vergine – il quale, lo ricordiamo, viene addirittura sottolineato ed esaltato melodicamente rispetto all’esordio dell’antifona – ha una motivazione retorica: accentuare la novità e la centralità di quel “sì” che la Madre di Gesù pronunciò ai piedi dell’arcangelo Gabriele. E tutto questo, come dicevamo, viene proposto nell’ultima domenica d’Avvento, quella più vicina temporalmente al Natale.

E poi, sempre nella IV d’Avvento, troviamo il communio:

Ecce Virgo concipiet, et pariet filium:
et vocabitur nomen eius Emmanuel.

Anche qui, dopo una semplice declamazione dell’«Ecco, la Vergine…», il notatore gregoriano pone tutto il suo slancio espressivo sul seguito. Mediante fini procedimenti retorici modificativi dei neumi, notiamo un poderoso rallentamento ritmico sul «concipiet» a sottolineare l’avvenuto concepimento divino, sull’«et» seguente che introduce il secondo verbo, «pariet», anch’esso fortemente allargato e amplificato, fino ad arrivare, attraverso un robusto climax espressivo, al secondo pesante «et» che prelude al terzo significativo verbo, «vocabitur», nel quale ogni nota esige un risalto ritmico.

È un brano interamente esaltatorio dell’evento dell’Incarnazione inserito, nuovamente, nell’ultima domenica d’Avvento, quella che prelude alla Santa Nascita del Salvatore.

Quarta parte: Il repertorio gregoriano del tempo natalizio

È solamente un assaggio quello che vorrei dare in questa puntata della presente rubrica sul canto gregoriano del ricco repertorio gregoriano del tempo natalizio.

Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’analisi del repertorio gregoriano è principalmente un’analisi retorica. E la dicotomia retorica tra i brani ascoltati nel giorno di Natale e quelli che si ascolteranno nel giorno dell’Epifania è evidente. Ma andiamo per gradi.

Nel racconto evangelico di Luca, inserito nella liturgia della Messa di mezzanotte, l’angelo indica ai pastori il “segno” tramite il quale essi avrebbero riconosciuto il Salvatore: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce» (Lc 2,12). E l’introito della Messa del giorno di Natale Puer natus non fa altro che tradurre in musica quel passo: tutto il brano, infatti, ha un unico polo di attrazione che è posto proprio sulla parola iniziale «Puer». Quella parola così sottolineata diventa, per noi, il “segno” per comprendere il corretto senso della celebrazione.

Il Natale, del resto, è la festa che celebra la kenosis di Cristo, Dio che, abbassatosi alla debole natura umana, si fa puer, bambino. Nell’immagine del bambino si riassume l’intero mistero dell’Incarnazione: il Verbo eterno che si fa carne per redimerci. Ecco perché tutto il brano ha come unica parola di riferimento puer, la quale viene cantata tutta allargata in modo da sottolinearla e amplificarla.

La semplicità postulata dall’introito del giorno di Natale era stata già annunciata in un frammento dell’introito della Messa “in aurora” Lux fulgebit. In un contesto semiornato, mediamente melismatico, il compositore gregoriano converte bruscamente lo stile: l’appellativo «princeps pacis» viene, infatti, presentato totalmente sillabico. Il principe della pace non viene dipinto melismaticamente e solennemente, ma la sua centralità viene risaltata proprio dalla sua genuina elementarità, la stessa di un bambinello indifeso.

Natale, però, è anche drammaticità. I riferimenti alla passione sono tutti lì da cogliere. E non mi riferisco solamente alla festa della Circoncisione di Gesù del 1° gennaio nella quale si ricorda come il Divin Bambino cominciò da subito a soffrire nella carne e a spargere il suo Divin Sangue: ma già il primo giorno dopo Natale, il 26 dicembre, la liturgia rimanda alla Passione di Nostro Signore. E lo fa “servendosi” della passione del protomartire santo Stefano.

«Vedo i cieli aperti e Gesù che sta alla destra di Dio Onnipotente; Signore Gesù, ricevi l’anima mia e perdona loro questo peccato», recita il communio Video coelos. È un testo particolarmente simbolico che il gregoriano riveste di una musica struggente e drammatica: in un tempo nel quale la nuova religione ammanta il Natale, nella migliore delle ipotesi, ovvero laddove non sia apertamente apostata, di una stucchevole e mielosa glassa superficiale di povertà e buonismo, ebete gioia e finta fratellanza, il communio  gregoriano del 26 dicembre rimanda direttamente e senza mezze misure o necessità interpretative alla Passione di Cristo.

Con le stesse parole di Nostro Signore, «Accipe spiritum meum», infatti, la liturgia di santo Stefano ricorda il primo giorno dopo Natale, nel pieno del clima di letizia per la nascita del Divin Figlio, il vero senso dell’Incarnazione: testimoniare la fede nel Redentore usque ad mortem.

Infine, quasi a contraltare della semplicità natalizia del Puer natus, troviamo l’introito dell’Epifania Ecce advenit. Se l’impero, la potestà, la regalità, come abbiamo visto poco fa, non erano per nulla al centro dell’introito natalizio, lo diventano, però, nel giorno in cui essi si manifestano all’universo intero: l’Epifania.

«Ecce advenit Dominator Dominus: et regnum in manu eius, et potestas, et imperium» (Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero), recita l’introito.

La solennità dell’Epifania, infatti, come la definisce L’anno liturgico di dom Guéranger, è «il trionfo del regale Bambino», è il «giorno santissimo», definizione che il Canone romano le riserva assieme a Natale, Pasqua, Ascensione e Pentecoste, in cui la Chiesa cattolica e la sua liturgia sono chiamate a contemplare la magnificenza regale del Salvatore.

E tutto questo è espresso perfettamente dall’introito gregoriano nel quale tutto convoglia a celebrare la potenza e la maestà del Signore dinanzi alle genti e ai re della terra: al Dominatore del mondo va il regno, la potenza e la gloria.

E la chiusura del cerchio la si avrà verso il termine dell’anno liturgico, all’ultima domenica di ottobre, con la festa di Cristo Re, festa istituita da Pio XI nel 1925. Essendo, questa, una celebrazione recente, non trasmette un repertorio di canti proprio: il Proprium Missae è stato, però, assemblato dalla Chiesa conformemente alla finalità della celebrazione. Ebbene, il graduale Dominabitur previsto dalla liturgia per la festa di Cristo Re è totalmente ricavato da quello dell’Epifania, Omnes de Saba. E anche il testo salmico ha un sapore che rimanda decisamente ai “colori” della solennità del 6 gennaio: «Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum. Et adorabunt eum omnes reges terrae: omnes gentes servient ei» (Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra. Tutti i re gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti lo serviranno).

6 commenti:

Gianni B. ha detto...

Veramente ottimo lavoro.
Se esiste una interrelazione tra sensibilità musicale e sensibilità spirituale, ci si dovrebbe interrogare sull'origine dell'attuale insensibilità che diventa incapacità.

In Chiesa toglietegli le chitarre.... ha detto...

Ma che bella questa Chiesa Cattolica Orientale di rito Bizantino e come e' st-r-r-r-idente quella chitarra !
Brrrr...
https://www.youtube.com/watch?v=rDP76lIEQRU

Brrr.... ha detto...

https://www.youtube.com/watch?v=rDP76lIEQRU

irina ha detto...

Senza dubbio qui è presente una spiritualità a noi oggi sconosciuta. Molto probabilmente sono stati i monaci ad entrare nella liturgia con tanto rispettoso amore.Occorrono generazioni di oranti fedeli per arrivare a tali sfumature e altre generazioni per assimilarle. Una vita non basta. Che follia è stata lasciarsi condurre fuori dal sacro recinto. Come se l'uomo potesse arrivare da sè là dove può condurlo solo l'adorazione.

Luisa ha detto...

Non mi sembra di aver letto smentite ufficiali alla notizia dei luterani finlandesi che hanno ricevuto la Comunione in San Pietro.
Un silenzio che lo conferma.
È un fatto gravissimo ma passa nel silenzio di chi dovrebbe reagire, per essere più precisi il card. Müller aveva reagito, ma chi lo ascolta oramai?

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/01/20/vacanze-romane-dei-luterani-di-finlandia-con-comunione-cattolica/

http://www.ncregister.com/blog/edward-pentin/lutheran-group-reportedly-given-holy-communion-in-st.-peters-basilica/

Luisa ha detto...

In realtà il card. Müller aveva reagito dopo i propositi di Bergoglio nel tempio luterano, sembra dunque che su quel che è successo in San Pietro sia calato un pesante e codardo silenzio.