Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 20 luglio 2015

Mattia Rossi, Le cetre e i salici. Riflessioni sull’eclissi del canto gregoriano nella Chiesa postconciliare

Nella collana «I libri del ritorno all’ordine» diretta da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (i due nomi sono ancora felicemente associati in questo progetto), edita da Fede & Cultura, è stato recentemente pubblicato un testo di Mattia Rossi, Le cetre e i salici. Riflessioni sull’eclissi del canto gregoriano nella Chiesa postconciliare.
Su questo blog sono apparsi numerosi suoi sapienti articoli (vi invito a digitare il termine gregoriano sul motore di ricerca interno), che hanno aperto molti usci di comprensione non sempre accessibili soprattutto alle generazioni post-conciliari che sono state private dei tesori di un passato che non può essere obliterato senza sfigurare il volto della nostra Chiesa e creare quella che Romano Amerio chiama breviatio manus Domini, che ben può essere applicata anche a questo aspetto della grave diminutio nella lex orandi lex credendi, operata attraverso variazioni tagli e aggiunte, per effetto della Riforma liturgica di Paolo VI.
Pubblico di seguito la Prefazione che ho avuto il piacere di scrivere, per affiancare la bella recensione di Cristina Siccardi su Riscossa Cristiana [qui].

Mattia Rossi, Le cetre e i salici. Riflessioni sull’eclissi
del canto gregoriano nella Chiesa postconciliare
Prefazione di Maria Guarini

Mattia Rossi non è solo un Maestro di Musica, con la particolare vocazione e specializzazione della musica sacra, ma è anche un testimone. Lo dimostra in ogni parte di questo appassionato e competente lavoro, dal quale traspare come anche per lui - al pari degli apostoli che, nello stesso atteggiamento di Maria conservarono nel loro cuore gli insegnamenti del Maestro e Signore e li trasmisero a memoria delle prime comunità - cuore e memoria sono strumenti indispensabili anche per la formazione culturale umana, qualitativamente eccelsa nella misura in cui diventa ultima espressione del Lògos e perpetuazione di quel Verbo che è sin dal principio.

Infatti, la musica sacra non è un optional o semplicemente una qualunque arte, più o meno raffinata, da intrattenimento o espressione di una soggettività particolare. Riguarda la  Liturgia, della quale è parte integrante: il Verbo che si fa suono oltre che carne e lode e supplica e quanto altro. Accompagna l’Azione liturgica, che è azione pubblica – e non rappresentazione – di Cristo e, in Lui, della Sua Chiesa.

Chi entra nel ‘clima’ spirituale che la musica sacra – il gregoriano in particolare – crea, non può non assorbire l’essenza dell’evento che l’ha fatta nascere e vivere: il culto autentico a Dio che, in Cristo, è il Santo Sacrificio di espiazione, di lode e ringraziamento insieme.

Anche i culti pagani conoscevano il canto: da qui il termine “incantesimo”, ovvero “in-canto”.

Il Cristianesimo, e prima ancora l’Ebraismo, videro nel canto il modo migliore per sacralizzare il rito.
Le lingue mediterranee sono di per sé dotate di un accento alquanto melodico. Secondo la testimonianza di Cicerone, lo stesso latino antico riconosceva nelle parole un cantus obscurior, un canto latente, nascosto… Nel gregoriano questa caratteristica si traduce nella tendenza ad una elevazione melodica della sillaba accentata, sulla quale l’accentus (ad cantum – per il canto), “anima della parola e forma di musicalità”, secondo un detto risalente al V secolo, caratterizza la dinamica della parola latina. La sillaba accentuata si eleva verso l’acuto, mentre la finale si posa su una colonna portante. Sonorità che si muove al ritmo e nell’armonia di un ordine superiore; musica che non è fatto culturale né tecnico, ma nasce dal cuore appassionato, colmo di emozioni e mozioni interiori frutto del connubio tra ragione e fede.

Con  il passare dei secoli, ogni generazione nei diversi ambienti culturali si è innestata sull’esperienza precedente ma sforzandosi di vivere l’incontro con Dio, sia individualmente che comunitariamente. 
Nel corso della storia si sono evidenziate stratificazioni complesse e affascinanti, che nella melodia lasciano trapelare, insieme alle parole dei testi sacri, bagliori incandescenti: le scintille dello Spirito che incendiano i cuori ottenebrati e paralizzati dall’abitudine, dal formalismo.

In ogni epoca, a partire dall’età carolingia, nel mondo della liturgia la musica, ma non solo essa, ha trovato continuamente un fecondo equilibrio tra il patrimonio consegnato con rispetto e riverenza dal passato e le istanze contemporanee, cioè la comunità viva nella cui concretezza poeti e musicisti trovano le nuove espressioni capaci di cantare la fede nel presente, mettendo la persona mistica della Chiesa in grado di varcare la soglia del futuro. 
Passato, presente e futuro sono i tre poli che da sempre autenticano il linguaggio musicale e poetico nella celebrazione.

Mattia Rossi non manca di mettere in risalto come, sostanzialmente, non vi sia musica che possa definirsi sacra in sé, perché nel culto cristiano, non è sacra la musica, “ma la viva voce dei battezzati che cantano in Cristo e uniti a lui”. La lex orandi espressa nella musica è costituita da quei brani per la celebrazione Liturgica che, attraverso gli espedienti retorici veicolati dalla notazione neumatica, si propongono di tramutare in esegesi sonora la Scrittura, attraverso valori ritmici convenienti ad una musica la cui essenza è far cantare le parole secondo le inflessioni molto libere della declamazione.
Tutto questo Mattia Rossi lo espone con sapiente maestrìa sia nell’excursus storico, che evidenzia luci ed ombre, che nelle interessanti e coinvolgenti dimostrazioni di fondamentali espressioni riferite al ciclico riproporsi dell’anno liturgico, con esempi affascinanti di un singolare itinerario, ch’è immersione e assorbimento – mostrato attraverso le sapienti sottolineature dei brani più significativi del ricco repertorio, delle loro peculiari caratteristiche e recondite ricchezze che introducono nei misteri che celebrano.

Ma l’aspetto più rimarchevole del suo lavoro è l’interrogarsi sul significato intrinseco della musica sacra e del canto gregoriano in particolare e di cosa ne fa il “canto della Chiesa” e svelarne le scaturigini e le ragioni per cui esso è realmente incarnazione sonora della Parola di Dio, suono dell’Invisibile, epifania sonora del Verbo”. E dunque “è Dio che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo spirito”. L’Autore ci introduce dunque nelle più recondite e finissime ricchezze meditative, ai più coinvolgenti approfondimenti e alla vera intelligenza dell’autentico significato che consente di fissare “nei canoni musicali ed estetici gregoriani l’archetipo di musica liturgica”. Egli, però, non può non evidenziare la realtà della temperie ecclesiale odierna e l’iconoclastia che non ha risparmiato neppure la musica sacra e lo stesso gregoriano. E tutta questa feconda profondità che ci riempie di stupore, viene paragonata all’esilio babilonese «Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Sl 136) : una cetra – il canto gregoriano, appunto – forzatamente appesa ai salici della liturgia di una terra – la Chiesa – preda, da quasi un cinquantennio, della mutazione genetica che ha sfigurato ed eclissato il suo munus dogmatico fino ad arrivare alla liquefazione del munus sanctificandi terreno. È il frutto della de-dogmatizzazione, tanto liturgica quanto dottrinale, inaugurata con l’euforia del famigerato ottimismo a priori, dell’antropocentrismo conciliare.

Interessante cogliere, attraverso una analisi rigorosa, lo scostamento tra i documenti ufficiali – pur senza ignorare alcuni germi manipolatori presenti in nuce anche in essi – e le banali e desacralizzanti facilonerie musicali che tuttora caratterizzano le celebrazioni del rito ‘riformato’ e l’ineludibile drammaticità della situazione attuale che non regge ad alcun confronto con la spiritualità, ma neppure con la storia del passato.
È il momento che la Chiesa prenda atto di essersi infilata in un vicolo cieco. La custode dell’esegesi e della Sacra Scrittura ha fatto apostasia della sua musica e ha lasciato spazio a un vergognoso pop-liturgico-canzonettaro. Coloro invece che, nonostante le resistenze,  hanno compreso quanto tutto ciò fosse pericoloso — e non certo per chissà quale “mania” — sono pronti a riconsegnare il canto gregoriano alla sua legittima proprietaria, la Chiesa. È pronta essa a riaccoglierlo e poter gridare, con l’autore sacro, che «il tempo del canto è tornato»?
Certo, tutto questo richiede forza e responsabilità, è l’esatto opposto della banale faciloneria alla quale siamo stati troppo spesso abituati; è l’opposto dell’improvvisazione alla quale troppo spesso assistiamo; è l’opposto delle nostre smanie di protagonismo liturgico; l’opposto del nostro modo antropocentrico di approcciarci alla liturgia»1.
Ridotta ad un'immagine che mi viene spontanea, la conclusione che si ricava dallo scritto è che i novatori postconciliari hanno fatto a brandelli una splendida preziosa veste d'alta sartoria, creata su misura e con arte sublime per un evento unico vissuto da una Domina di rango eccelso. Alcuni di questi brandelli sono stati ripresi e adattati alla meglio per la festa di una donzelletta campagnola.

I musicologi di oggi dovranno esercitare il loro ingegno e le loro capacità nel combattere il degrado attuale, non solo quantitativamente ma soprattutto qualitativamente, ben superiore a quello passato, che pure c’è stato, per effetto delle contaminazioni “mondane” rinascimentali, barocche e operistico-ottocentesche.
Degrado o contaminazioni, di qualunque genere, vanno comunque evitati e combattuti, distinguendo ciò che è propriamente liturgico da ciò che non lo è. Ed è necessario riportare alla luce l’antico vettore della lex orandi, (ri)offrendo al rito la sua dimensione sonora plasmata dalla e nella Actio del Signore.
Impossibile, credo, tornare ad una purezza originaria, ma ciò che è appropriato e appartiene alla Santa e Divina Liturgia, va custodito e recuperato con passione e buona volontà. E probabilmente con gradualità, a partire da quanto è realisticamente possibile. Senza l’ottica del minimo sindacale.
Maria Guarini
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1. Mattia Rossi, http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2013/07/riccardo-muti-sulla-musica-sacra.html

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie per quest'aria pura!

Anonimo ha detto...

Laicattolicesimo - http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV1260_GF_Laicattolicesimo.html

Anonimo ha detto...

...
L’accordo tra il principio buono e il cattivo è il “dialogo”, altrimenti l’uno sarebbe la distruzione dell’altro, come spesso si vede nell’odierno dialogo che non vuole fare proselitismo o nell’amore tra l’ermeneutica della riforma della continuità e quella della rottura. Il vivere per il modernista è la prova della verità: quindi, vivi e lascia vivere è, manicheisticamente, tutto!

Per finire, la confusione tra Stato e Chiesa è tanto grande che con Francesco non sappiamo se lui vuole fare Pietro o Tiberio.
Un Pastore deve avere cura del suo gregge e nella Chiesa ciò che definisce il gregge del Pastore è la fede. Se il Pastore fa l’opzione preferenziale per una data classe, indipendentemente dalla fede, come Francesco che ha fatto l’opzione per i poveri indipendentemente della loro fede, ecco che si comporta come il capo di un Stato laico che si preoccupa di economia, ecologia, sociologia, invece che come il capo della fede cattolica.