Con la chiara ed articolata trattazione che segue, Paolo Pasqualucci confuta recenti affermazioni di Antonio Socci e Guido Ferro Canale. Essa assume particolare rilevanza nel mettere in luce i nuovi aspetti della ecclesiologia fondata sulla collegialità: un discorso che acquista maggior peso anche in riferimento alla Sinodalità incombente che, tutto sommato, è da lì che nasce.
Il focus del problema sta nell'attribuire poteri giuridici ad organismi che hanno invece, funzione consultiva. Si dà il caso che i documenti romani da tempo non brillino per chiarezza e precisione. La "nota praevia" alla Lumen Gentium, sia pure con cautela curiale, ha chiarito il vero significato di collegialità. Ma sembra che non sia riuscita a eliminare il rischio che de facto si pongano sullo stesso piano Papa e Collegio episcopale, senza tener conto che il collegio episcopale in tanto può insegnare in quanto è riunito sotto Pietro, per cui il potere nella Chiesa è unico: quello di Pietro, il quale può esercitarlo anche insieme ai vescovi.
Ancora sulla pertinace quanto infondata accusa a mons. Lefebvre di aver “approvato”, firmandoli, tutti i documenti del Concilio.
Sommario : 1. Un’accusa assurda. 2. La promulgazione dei documenti votati in Concilio al Vaticano I. 3. La promulgazione al Vaticano II. 4. Lumen Gentium 22.2 e nuova formula di promulgazione. 4.1 L’esegesi contorta prospettata in LG 22.2 non riesce a nascondere la mancanza di fondamento scritturale della nuova idea di collegialità. 5. La promulgazione, sua natura. 6. La promulgazione secondo il regolamento del Vaticano II. 7. Le modalità della famosa “firma”. 8. L’esatto significato della “firma”, in senso “oggettivo” e “soggettivo”.
1. Un’accusa assurda
L’accusa è stata di recente riproposta da Antonio Socci [qui]. Essa fa il paio con l’altra erronea interpretazione che periodicamente ricompare, quella di considerare valida l’illegale soppressione del Seminario di Écône nel 1975; riproposta poco tempo fa da Guido Ferro Canale in un articolo apparso su “Radio Spada” [qui]. Quest’Autore mi cita espressamente a disfavore, spero di potergli replicare ponderatamente in tempi non troppo lunghi.
L’accusa di contraddizione o incoerenza a mons. Lefebvre nasce dal fatto che egli, come tutti gli altri vescovi, nelle sessioni pubbliche del Vaticano II nelle quali si approvavano definitivamente i documenti del Concilio, fu invitato dal Papa ad apporre la sua firma in calce ai documenti stessi, che il Pontefice veniva via via approvando e promulgando dopo che erano stati votati ed approvati in aula in via definitiva dai vescovi, in una sessione pubblica e solenne. Con la speranza di riuscire a chiarire una volta per tutte la questione, cercherò di illustrare nel modo più articolato possibile la ratio di questa “firma”, il cui significato non appare a prima vista del tutto evidente.
La tesi che mi propongo di dimostrare è la seguente: la “firma” finale, richiesta dal Papa a tutti i Padri conciliari, si deve intendere come un attestato della partecipazione dei vescovi alla promulgazione dei documenti conciliari, non come dichiarazione di una loro approvazione degli stessi nel merito. Tale “firma” non ha infatti a che vedere con le valutazioni nel merito. La promulgazione di un documento, votato da un’assemblea affinché assuma forza di legge, è cosa del tutto diversa dalla votazione che ha permesso a quel documento di venire in essere, in genere a maggioranza. Si tratta di due atti completamente distinti, dagli effetti giuridici differenti. La votazione fa nascere il documento stesso da promulgare, la promulgazione lo rende noto a tutti, affinché sia osservato come legge da parte di tutti.
Nella procedura dei Concili ecumenici, questa “firma” ha rappresentato una novità assoluta, voluta da Paolo VI. Nel promulgare le due costituzioni del prima sospeso e poi interrotto Concilio ecumenico Vaticano I, Pio IX non aveva richiesto ai Padri conciliari nessuna firma in calce ai due documenti. La promulgazione era stata fatta senza tante formalità, secondo l’uso del tempo. Per qual motivo Paolo VI volle innovare? La spiegazione più plausibile è la seguente: perché voleva mettere in special risalto, rispetto al passato, il ruolo dei vescovi nel Concilio. Il punto è stato colto, tra i primi, dallo scomparso Ralph M. Wiltgen S.V.D, nel suo celebre, anche se mai tradotto in italiano, Il Reno tracima nel Tevere. Descrivendo l’approvazione finale della costituzione sulla Sacra Liturgia (2147 voti a favore, 4 contrari), egli scrisse: “Papa Paolo allora si alzò [dal trono, approntato per lui in S. Pietro] e promulgò solennemente la costituzione, usando una formula diversa da quella usata al primo Concilio Vaticano. In essa, si poneva una più ampia enfasi sul ruolo dei vescovi [segue la formula per esteso – vedi infra]”[1]. E perché sentiva la necessità di dar maggior enfasi al ruolo svolto dai vescovi? La risposta, a mio avviso, può essere una sola: in ossequio al nuovo (discusso e discutibile) concetto di collegialità propugnato dall’art. 22 della costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa.
La più accurata descrizione delle modalità con le quali è avvenuta la famosa “firma” si trova nella biografia di mons. Marcel Lefebvre scritta da S. E. mons. Bernard Tissier de Mallerais, l’unica che sono riuscito a consultare. Un approfondimento dello spunto di Wiltgen, si riscontra invece in De Mattei. Grazie alla “sottoscrizione” dei Padri conciliari, egli scrive, “il Concilio Vaticano II sembrò voler sostituire al modello “assolutista” di Trento e del Vaticano I un nuovo modello “democratico”, che alla volontà suprema del Romano Pontefice sostituiva quella dell’assemblea, sia pure unita allo stesso Pontefice. Alla verità della Tradizione, si sostituiva una “volontà sociale”, elaborata collettivamente e socialmente riconosciuta. La volontà dell’assemblea conciliare equivaleva alla “volontà generale” di Rousseau: una volontà sacra e assoluta alla quale i Padri, rispettando le leggi che essi stessi si erano dati, si sentivano obbligati in coscienza a subordinare le loro idee e le loro opinioni”[2]. Secondo quest’interpretazione, che mi sembra cogliere un punto essenziale, la “firma” dei Padri non si sarebbe limitata ad un accertamento per così dire notarile della regolarità della promulgazione ed implicitamente di tutta la procedura seguita. E nemmeno ad una loro compartecipazione alla promulgazione stessa. Essa avrebbe avuto il significato di dimostrare l’esistenza nell’assemblea conciliare di una vera e propria “volontà generale”, di tipo democratico, includente la volontà del Papa e di per sé obbligante in quanto appunto “volontà generale” dell’assemblea, non in quanto espressione della Tradizione ossia del Magistero perenne della Chiesa, cui il Concilio si sarebbe dovuto mantenere sempre conforme, senza mai ergersi al di sopra di esso.
Nell’esporre la mia tesi, comincerò con il ricordare la promulgazione dei documenti al Vaticano I, per passare poi all’analisi dettagliata della diversa formulazione usata al Vaticano II.
2. La promulgazione dei documenti votati in concilio al Vaticano I
In una breve opera dell’illustre storico della Chiesa, P. Hubert Jedin, leggiamo, a proposito del Vaticano I: “Il lunedi’ 18 luglio [1870], nella IV sessione del Concilio fu approvata la costituzione Pastor Aeternus [sull’infallibilità papale] con 533 voti favorevoli e 2 contrari (Fitzgerald di Little Rock e Riccio di Cajazzo), nello stesso tempo fu deciso l’aggiornamento del Concilio. Durante la seduta si abbattè un furioso temporale. Lampi e tuoni si susseguirono per un’ora e mezzo. “Mai avevo visto una scena così impressionante” scrisse il corrispondente del Times, Mozley. Quando il risultato della votazione fu trasmesso al Papa l’oscurità era così fonda che si dovette portare un lume perchè Pio IX potesse leggere il testo delle parole di conferma: “Noi definiamo in accordo col santo Concilio tutto quello di cui è stata data lettura e lo confermiamo in virtù dell’autorità apostolica”. Il giorno dopo la sessione scoppiava la guerra franco-tedesca. Due mesi più tardi, il 20 settembre, le truppe italiane occupavano la città di Roma […] I due decreti dogmatici del Concilio vaticano [primo], essendo presi in presenza del Papa, e da lui immediatamente confermati, hanno la forma di costituzioni apostoliche, sul modello dei concili lateranensi”[3]. La “conferma” pontificia autorizzava la promulgazione dei due documenti, avvenuta sotto forma di Costituzione Apostolica. I due documenti dogmatici, costituzione Fides et ratio sulla fede cattolica e Pastor aeternus sul primato e l’infallibilità papale, votati dal Concilio e “confermati” dal Papa in concilio, acquisivano in tal modo valore magisteriale, diventavano documenti del Papa. Per la validità della promulgazione bastava la “conferma” del Romano Pontefice. Non si ha notizia di “firme” apposte dai Padri conciliari ai due decreti.
Perché Pio IX disse: “noi definiamo”? Si trattava di due costituzioni dogmatiche, le quali, come si suol dire, “definivano” una volta per tutte verità di fede, da credersi obbligatoriamente per tutti i fedeli. I vescovi in concilio cum e sub Pontifice avevano “definito” queste fondamentali verità. In sede conclusiva, il Romano Pontefice condivideva la volontà da loro manifestata, dichiarando di “definire in accordo con loro” tutto ciò di cui era stata data lettura in aula. Quindi: “definizione” e “conferma” delle verità di fede da parte del Sommo Pontefice “in virtù della sua autorità apostolica”.
La “conferma in virtù dell’autorità apostolica” era una vera e propria approvazione in forma specifica delle due costituzioni, che le faceva diventare magistero pontificio. L’approvazione si fondava sulla “autorità apostolica”, formula con la quale si designava l’autorità che il Papa possiede nei confronti di tutta la Chiesa, in quanto Capo della Chiesa universale, allo stesso modo del Beato Pietro, dal quale discende quell’autorità (a lui conferita direttamente da Cristo Nostro Signore – Gv 21, 17) nella continuità dell’ininterrotta successione apostolica. Nel promulgare certi documenti i Papi facevano sempre riferimento esplicito alla loro “autorità apostolica”. Così Paolo VI, nella Lettera Apostolica Apostolica sollicitudo con la quale il 15 settembre 1965 istituiva il “Sinodo dei vescovi per la Chiesa universale”, affermava ad un certo punto: “[…] di nostra iniziativa e con la Nostra autorità apostolica erigiamo e costituiamo in questa alma Città [Roma] un consiglio permanente di Vescovi etc.”. “Di nostra iniziativa”, in latino motu proprio, per indicare che l’iniziativa era stata solo del Papa, senza intervento di alcuna autorità subordinata[4].
Jedin rileva che le due costituzioni del Vaticano I furono pubblicate come “costituzioni apostoliche”. Le costituzioni sono documenti che “contengono dichiarazioni dogmatiche o norme legislative generali o particolari, relative di regola alla struttura costituzionale degli organi della Chiesa e alle loro funzioni”[5]. In questo caso contenevano soprattutto “dichiarazioni dogmatiche”. L’autorità apostolica è a fondamento della somma, piena ed immediata potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa di cui viene investito il Papa appena accettata l’elezione al Sacro Soglio. Tale potere concerne sia ciò che riguarda la fede e i costumi, sia il governo e la disciplina della Chiesa. Esso spetta al Papa “iure divino” ossia per mandato divino dal momento dell’accettazione, e non per una qualsiasi delega da parte di coloro che l’hanno eletto.
Tale somma potestà di giurisdizione spetta dunque solo al Papa, in essa si esprime la sua “autorità apostolica”. Ciò significava che chi promulgava i documenti del Concilio, in nome appunto della “autorità apostolica”, era solo il Papa. Il Papa da solo, ex apostolica auctoritate, anche se con l’approvazione del Concilio; il Papa in concilio, non il Papa con il concilio.
La promulgazione delle due costituzioni dogmatiche del Vaticano I sembra ridursi a questa semplicissima formula, all’inizio del testo di ciascuna, seguita alla fine dalla firma del Pontefice con la data dell’evento: “Pio vescovo, servo dei servi di Dio, con l’approvazione del sacro concilio, a perpetua memoria del fatto [Pius Episcopus, Servus Servorum Dei sacro approbante concilio ad perpetuam rei memoriam]”. Dopo “memoria” vanno idealmente messi due punti: si inizia infatti il testo della costituzione. Allora:
“Pio vescovo, servo dei servi di Dio, con l’approvazione del sacro concilio, a perpetua memoria del fatto [per tutta la Chiesa, promulga]:
Il Figlio di Dio e redentore del genere umano, Gesù Cristo, nostro signore, etc.”.
Alla fine del testo, luogo e data: “Dato a Roma, in pubblica sessione solennemente tenutasi nella Basilica Vaticana nell’anno di Nostro Signore milleottocentosettanta, il ventiquattresimo giorno di aprile, ventiquattresimo anno del Nostro Pontificato”[7].
Naturalmente, i vescovi approvavano la promulgazione: non si vota una legge perché sia poi destinata a restar chiusa in un cassetto. E si può certamente affermare che fossero uniti al Papa che promulgava ciò che essi avevano “definito” e che il Papa aveva a sua volta “definito”. Ma uniti solo spiritualmente, moralmente. Tecnicamente, l’atto del promulgare (per l’intera Chiesa) era del Papa e solo del Papa perché manifestazione di quella suprema potestà di giurisdizione sull’intera Chiesa che, secondo la Scrittura, la Tradizione e il Magistero perenne, spettava solo al Papa. “Pasci le mie pecorelle” disse Nostro Signore risorto, rivolgendosi a Pietro (Gv 21, 17 cit.). Non disse : ”pascete”, non delegò il potere di governo a tutti gli Apostoli, che pure erano presenti, quale “collegio” unitario. Con quell’atto di investitura da parte del Risorto, il Beato Pietro acquistava una auctoritas sua propria, superiore, che gli altri Apostoli non avevano.
3. La promulgazione al Vaticano II
Si ripete la formula usata da Pio IX all’inizio del documento. Notiamo però una variazione significativa. Si legge, infatti: “Paulus Episcopus servus servorum Dei una cum sacrosancti Concilii patribus ad perpetuam rei memoriam”. Cioè: “Paolo Vescovo, Servo dei Servi di Dio, in unione con i Padri del Sacrosanto Concilio, a perpetua memoria del fatto”. Segue poi il titolo della costituzione e il suo testo. Alla fine del testo, altre due novità: una formula di promulgazione piuttosto lunga, seguita dalle firme del Papa con la data e da quelle di tutti i Padri conciliari, subito dopo quella del Papa. La formula è la seguente:
Tutte e singole le cose scritte in questa Costituzione [o Decreto, Dichiarazione] piacquero ai Padri del Sacrosanto Concilio. E Noi, con la potestà apostolica conferitaci da Cristo, in unione ai Venerabili Padri, nello Spirito Santo le approviamo, decretiamo, stabiliamo ed ordiniamo che queste decisioni sinodali siano promulgate a gloria di Dio.
Roma, presso S. Pietro
Giorno 21 del mese di Novembre dell’anno 1964 [MCMLXIV]
Io PAOLO Vescovo della Chiesa Cattolica [firma del Pontefice]
Seguono le firme dei Padri conciliari
[AAS, LVI (1964), pp. 97-134] [8]
Le differenze con l’impostazione del Vaticano I sono evidenti, anche in certi particolari minori: nel non scrivere più “anno del Signore” (Anno Domini) ma solo “anno MCMLXIV”; nel firmare come “vescovo della Chiesa Cattolica”, titolo tradizionale del Papa ma qui isolato dall’indicazione dell’anno del pontificato, del tutto assente. Paolo VI non promulga il testo con la semplice approvazione del Concilio, come Pio IX, ma “in unione con esso” (una cum). Un’unione semplicemente morale? Lo si potrebbe affermare se di mezzo non ci fosse stato l’art. 22 della Lumen Gentium e se non ci fossero state le firme finali dei Padri conciliari. L’impressione dell’interprete è che l’approvazione e la promulgazione le si vogliano far apparire come fatte da un soggetto risultante dall’unione tra pontefice e concilio: la “potestà apostolica” è sempre e solo del Papa (si è preferito potestas ad auctoritas) tuttavia il soggetto promulgante non è più il Papa da solo ma il Papa “in unione” con il Concilio, sulla falsariga per l’appunto del nuovo concetto di “collegialità”.
4. Lumen Gentium 22 e nuova formula di promulgazione
Al Vaticano I chi promulga è il Papa in Concilio; al Vaticano II, il Papa e il Concilio, in quanto ugualmente titolari della suprema potestas iurisdictionis, secondo la straordinaria novità introdotta da Lumen Gentium, 22.2: “D’altra parte l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice”[9].
L’ordine dei vescovi è dunque titolare con il Papa e mai da solo della summa potestas iurisdictionis sull’intera Chiesa ma per esercitarlo deve avere l’autorizzazione del Papa. Inversamente, l’esercizio che ne farà il Papa da solo mai necessiterà dell’autorizzazione dei vescovi. Ora, però, dopo che è stata attribuita la somma potestà anche al collegio con il Papa, non si può più limitare l’unione tra il Papa e i vescovi (dal punto di vista della giurisdizione sulla Chiesa) ad un’unione puramente morale, spirituale. Se quindi il Papa presenta la sua azione - qui un atto di promulgazione - come posta in essere una cum tutti i vescovi riuniti nel Concilio, bisogna dire che egli vuole apparire qui come capo del collegio che esercita un potere appartenente anche al collegio cum Pontifice, con tutta l’ambiguità e le contraddizioni che la cosa di per sé comporta.
Esaminiamo, infatti, la formula della montiniana promulgazione.
Invece di auctoritas si è preferito dire potestas apostolica. Si tratta sempre della summa potestas iurisdictionis su tutta la Chiesa. La formula mantiene il concetto tradizionale secondo il quale la potestas è stata conferita al Pontefice da Nostro Signore (questo significa “iure divino” all’accettazione dell’elezione). Al pontefice, non al collegio apostolico e di poi ai vescovi. Nello stesso tempo, si vuole che la promulgazione avvenga “in unione ai Venerabili Padri”. Abbiamo “l’unione nel promulgare”, che va sicuramente al di là dell’approvare la promulgazione. Nello schema seguito da Pio IX, il Papa prima definisce ciò che ha definito il Concilio poi promulga ciò che è stato definito, con l’approvazione del Concilio. Il Papa e il Concilio restano sempre distinti. Qui no, qui vengono a confondersi.
Infatti, ci dice Paolo VI, Noi in unione con i Venerabili Padri, e quindi Noi e i Padri “approviamo, decretiamo, stabiliamo e ordiniamo la promulgazione”. Esercitiamo assieme (una cum) la potestà somma di insegnamento e di giurisdizione sulla Chiesa, poiché “approviamo, decretiamo e stabiliamo” come legge della Chiesa il contenuto di “questi documenti sinodali” e contestualmente ne ordiniamo la promulgazione. Forse proprio a causa dell’ una cum, invece di “auctoritas” il testo usa “potestas apostolica”. Secondo la Scrittura, la Tradizione, il Magistero, l’”auctoritas” era solo del Papa (e difatti lo stesso Paolo VI l’usava nei motu proprio - vedi supra) e fondava la sua esclusiva summa potestas: ora, invece, la “potestas” su tutta la Chiesa la si vuol vedere anche nei vescovi uniti con il Papa, i quali non possiedono tuttavia l’ auctoritas del Papa, anche in unione con lui.
Da tutte queste considerazioni, appare evidente che la “firma” richiesta ai vescovi in calce a quella del Papa, vuol significare l’adesione di tutto il collegio dei vescovi a quanto contenuto nella formula di promulgazione e quindi al fatto che il Papa e i Venerabili Padri sono a tutti gli effetti un unico soggetto giuridico che approva, decreta, stabilisce e promulga le decisioni sinodali.
Ma come si riflettono qui l’ambiguità e le contraddizioni di LG 22.2? Il punto essenziale mi sembra il seguente. Paolo VI deve pur dire che egli sta esercitando “la potestà apostolica conferitaci da Cristo”. Il “Noi” qui a chi si riferisce? La sintassi della frase non lascia dubbi: conferita a Noi cioè a lui, all’individuo Giovan Battista Montini, in quanto Romano Pontefice. Ora, se la promulgazione è un atto riservato alla “potestà apostolica” del Papa, che a lui, e solo a lui, viene da Cristo (ossia “iure divino”), a quale titolo possono esercitarla anche i vescovi riuniti in Concilio con lui? A nessun titolo, se tale “potestà apostolica” era stata conferita da Nostro Signore solo al Papa. L’unione con i Padri conciliari deve allora ritenersi puramente simbolica, o mera figura retorica, ornamento stilistico? Ma si fanno firmare quasi tremila vescovi riuniti nel Concilio per ornare una mera figura retorica? Soprattutto quando la “potestà apostolica” invocata qui da Paolo VI era stata attribuita da LG 22.2 anche al collegio dei vescovi con il Papa? In realtà, dalla formula di promulgazione, si evince che Paolo VI promulgò i documenti del Concilio come capo del collegio dei vescovi riunito in Concilio, come se il Noi maiestatico comprendesse entrambi, nello spirito e nella lettera di LG 22.
Resta tuttavia il fatto che tale inclusione dei vescovi appare insostenibile, non solo alla luce della Tradizione della Chiesa, del Magistero perenne, ma anche della Scrittura. Si potrebbe accettare solo falsificando il versetto di Gv 21, 17 sopra richiamato, come se Nostro Signore avesse detto : “pascete le mie pecorelle”. Ma non l’ha detto e nessuno può farglielo dire. La fonte della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa è solo il Cristo. Perciò questo potere è di origine divina, da Lui delegato al suo Vicario. Il Vicario di Cristo è colui che esercita un potere vicario o in rappresentanza della persona che glielo ha conferito: vicarius, colui che fa le veci, sostituto, rappresentante, vicario. Il Vicario di Cristo è solo il Papa non anche “l’ordine dei vescovi” con il Papa, come se ci potessero essere due Vicari di Cristo: Il Papa da solo (uti singulus) e l’ordine dei vescovi con il Papa.
4.1 L’ esegesi contorta prospettata in LG 22.2 non riesce a nascondere la mancanza di fondamento scritturale della nuova idea di collegialità
Insostenibile, dunque, l’inclusione dei vescovi con il Papa nel soggetto titolare della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa. Vediamo in dettaglio. Nel prosieguo dell’articolo della LG, immediatamente dopo la frase sopra riportata, che attribuisce la summa potestas all’ordine dei vescovi con il Papa “suo capo”, si riconosce, ovviamente, che: “Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16, 18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21, 15 ss.)”. Subito dopo, però, il periodo continua con una frase introdotta da un’avversativa: “ma l’ufficio di legare e di sciogliere [ligandi ac solvendi munus], che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16, 19), è noto esser stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo [collegio quoque apostolorum, suo Capiti coniuncto] (cfr. Mt 18, 18; 28; 16-20)”. Cristo Nostro Signore ha dunque conferito il potere di “legare” e “sciogliere” ossia il potere d’ordine, non tanto ai singoli Apostoli quanto al “collegio”, sempre con Pietro a capo, ed anzi avrebbe Egli stesso istituito il “collegio” degli Apostoli con siffatto conferimento. Nel collegio, prosegue LG 22.2, i vescovi, “rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo, esercitarono la propria potestà [quale?] per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta la Chiesa”. Infine, “la suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico”.
La prima domanda che il fedele si pone di fronte ad un testo come questo, è la seguente: come può l’ordine o collegio dei vescovi con il Papa suo Capo esser titolare (subiectum) di una suprema e piena potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, se il Signore ha posto il solo Pietro quale “pietra”, “clavigero” e “pastore di tutto il gregge”? Non c’è qui una contraddizione? Come risponde il testo conciliare? Con l’argomento che, tuttavia, “l’ufficio di legare e sciogliere […] è noto che è stato pure concesso al collegio degli Apostoli, congiunto con il suo Capo [illud autem ligandi ac solvendi munus, quod Petro datum est, collegio quoque Apostolorum, suo Capiti coniuncto, tributum esse constat]”. Ma il “potere di sciogliere e legare” che cosa c’entra con la potestà di giurisdizione? È tutt’altra cosa. È il potere d’ordine, propriamente sacramentale, che consente ai sacerdoti di amministrare i sacramenti; potere strettamente sacerdotale, che ricomprende la facoltà data dal Cristo ai suoi Apostoli di rimettere o non i peccati (Mt 18, 18; Gv 20, 18). Questo potere è il medesimo sia per Pietro che per gli Apostoli. Ma rimettere o non i peccati in persona Christi non ha nulla a che vedere con il governo della Chiesa. Ricordo che mons. Lefebvre, all’atto della famosa consacrazione (non autorizzata dal Papa) dei quattro vescovi ad Écône del 1988, espressamente conferì loro solo la potestà d’ordine e non quella di giurisdizione, proprio per non creare una chiesa parallela e quindi uno scisma.
Lumen Gentium 22.2 confonde le acque perché vuol mettere sullo stesso piano il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa affidato a Pietro e quello di ordine attribuito anche agli Apostoli, come se quest’ultima attribuzione dimostrasse di per sé che anche agli Apostoli era stato conferito il potere di giurisdizione, in quanto collegio “congiunto col suo capo” (non si dice: “sottoposto al suo capo”, non si dice mai che il collegio è sottoposto a Pietro, sub Pontifice). Ma una connessione implicita di questo tipo è per l’appunto impossibile, data la diversità di natura dei due poteri[10].
Ma dobbiamo davvero credere che quando Nostro Signore ha detto agli Apostoli e a Pietro, come aveva già preannunciato a Pietro: “In verità vi dico che tutto ciò che voi legherete sulla terra, sarà legato in cielo e tutto ciò che voi scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 18, 18), li abbia costituiti in “collegio”, “congiunti a Pietro”? Collegio è nozione giuridica precisa, configura un soggetto dotato di capacità giuridica, titolare di diritti e doveri. A meno che non lo si intenda, per l’appunto, secondo la Tradizione della Chiesa, in senso solo morale, spirituale, come comunione retta dallo Spirito Santo. Ora, il conferimento del solo potere d’ordine a tutti gli Apostoli, che è un potere di rimettere individualmente i peccati, come fa a far venire in essere un soggetto giuridico unitario e quindi un “collegio”? Del resto la Chiesa, a quella fase della missione di Cristo Nostro Signore, era ancora in fieri. Egli la stava costruendo per gradi, cominciando dai Dodici. E lo era ancora dopo la sua Resurrezione. I vescovi riuniti collegialmente con il Papa, in un Concilio ecumenico, possono decidere sulle questioni della fede, dei costumi, sulla pastorale, su faccende di economia e politica, ma di certo non assolvere o meno dai peccati.
Il fantomatico “collegio” lo si è potuto giustificare scritturalmente solo mal interpretando il dato scritturale stesso, cioè presentando il potere d’ordine conferito agli Apostoli come se fosse di giurisdizione. Cosa evidentemente non rispondente al vero, inaccettabile. Il supporto scritturale addotto da LG 22.2 per giustificare la sua nuova dottrina, non regge pertanto al confronto imparziale con i Testi (che, del resto, mai erano stati letti in quel modo in passato). I passi evangelici nei quali il Signore conferisce il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, mostrano che lo dà al solo Pietro. Quelli nei quali Egli conferisce potere agli Apostoli uti singuli, mostrano che tale potere concerne solo l’ordine non il governo della Chiesa universale. L’antitesi è insanabile, non c’è barba di “ermeneutica” che possa eliminarla.
Lumen Gentium 22.2 sembra anche mutare la nozione di Concilio ecumenico. Dice infatti, come si è visto: “La suprema potestà che questo collegio possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio ecumenico”. Vale a dire: nel Concilio ecumenico si ha esercizio solenne della potestà che il soggetto giuridico collegio (“congiunto col suo Capo”) possiede su tutta la Chiesa. Il Concilio ecumenico diventa allora esercizio della suprema potestà della quale è titolare il collegio dei vescovi, con il suo Capo. Ma non è così, se non erro, che si è inteso nei secoli il significato del Concilio ecumenico. Esso era concepito come manifestazione della suprema potestà di giurisdizione del Papa, del Papa da solo, in quanto unico capo della Chiesa universale, non in quanto capo del “collegio” dei vescovi; del Papa, che decideva di associarsi straordinariamente i vescovi dispersi per il mondo “in consiglio”: nel magistero straordinario di un Concilio, al fine di prendere, sentite le loro articolate opinioni e approvatele, le opportune decisioni su importanti materie, concernenti in genere la fede e i costumi. La “collegialità”, in quanto attuantesi in un soggetto che esercitava il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, non era quindi anteriore al Concilio ecumenico: essa nasceva nel Concilio stesso e finiva con esso. Anche per questo, il magistero del Concilio si considerava “straordinario”. Invece adesso la collegialità la si vuol far preesistere e il Concilio ecumenico ne sarebbe appunto una manifestazione, quasi modo ordinario di governare la Chiesa.
5. La promulgazione, sua natura
Il Codice di Diritto Canonico (CIC) del 1917, ancora vigente al tempo del Concilio, stabiliva che: “Leges instituuntur, cum promulgantur” (c. 8, § 1). Il principio è ripetuto dal presente codice, del 1983, al c. 7, seguito dal c. 8 nel quale si precisa che “le leggi ecclesiastiche universali [valide cioè per tutta la Chiesa] sono promulgate con l’edizione nella gazzetta ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis, a meno che in casi particolari non sia stato stabilito un modo diverso etc.”. Gli Acta ancora non esistevano al tempo del Vaticano I. Le leggi sono istituite, in quanto leggi, solo una volta promulgate. Perché una legge sia “istituita” come norma valida per tutti i suoi destinatari, deve esser quindi promulgata dall’autorità legittima. Occorre un atto specifico, una dichiarazione pubblica, orale o scritta, nella quale appaia in modo evidente la volontà di istituire la legge – deliberata ed approvata dall’organo o dagli organi competenti – quale norma che tutti devono conoscere ed osservare. La promulgazione delle leggi è, pertanto, un atto dovuto in quanto “requisito necessario per la loro conoscenza e obbligatorietà da parte dei soggetti”. Nel caso della Santa Sede, tale requisito lo si adempie oggi con la pubblicazione negli Acta[11].
È evidente che la promulgazione della legge non ha nulla a che vedere con la sua approvazione mediante votazione. Si promulga ciò che è stato votato, e quindi già approvato con un atto anteriore e del tutto indipendente in quanto tale dalla sua successiva promulgazione. Che le leggi siano “istituite” in quanto leggi per tutti solo dopo la loro promulgazione, è principio antico, che si ritrova già in una delle prime raccolte di canoni ecclesiastici, il c.d. Decreto di Graziano, monaco camaldolese morto nel 1158, che insegnò “theologia practica” all’Università di Bologna: “Leges instituuntur, cum promulgantur”[12]. La promulgatio della legge risale comunque al diritto romano, anche se veniva praticata in genere per il progetto di legge. “Il progetto viene fatto conoscere al popolo mediante affissione in luogo pubblico (unde de plano legi possit). Tale promulgatio avviene nella forma generale degli editti, ossia nella doppia forma, verbale mediante pubblico annuncio e scritta mediante tavole di legno imbiancate”[13]. L’etimologia della parola è incerta, sembra volesse esprimere l’idea di “portar qualcosa davanti a molti” – pro multis[14].
6. La promulgazione secondo il Regolamento del Vaticano II
La promulgazione finale dei documenti approvati dal Concilio era prevista nell’art. 2 del Regolamento (Ordo) dello stesso, emanato da Giovanni XXIII il 6 agosto 1962, qualche mese prima degli inizi dell’Assise:
“Nelle Sessioni pubbliche, i Padri, presente il Sommo Pontefice, votano sulle formule dei Decreti o Canoni elaborati nelle Congregazioni generali, affinché il Sommo Pontefice, se lo ritenga opportuno, esprima la sua approvazione e ordini che sia promulgata [si censeat, sententiam suam dicat eamque promulgari iubeat]”[15].
La “sessione pubblica” era l’assemblea finale pubblica nella quale si votava solamente. Le “congregazioni” erano invece le assemblee nelle quali i vescovi discutevano e votavano i vari documenti, in genere a sezioni, come venivano via via elaborati dalle Commissioni conciliari. I testi più tormentati andavano avanti e indietro dalla Commissione alla Congregazione e viceversa. Nelle Congregazioni generali i Padri, dopo le discussioni precedenti, stabilivano “le formule dei Decreti o Canoni”, diceva l’art. 3 del Regolamento, ossia votavano il testo finale, che sarebbe stato poi presentato nella Sessione pubblica al Papa, per esser votato davanti a lui e da lui approvato e promulgato. Il regolamento giovanneo seguiva qui ancora le procedure del Vaticano I.
La procedura delle “Sessioni pubbliche” era fissata negli articoli 44-50 del Regolamento, ricalcando in parte quella del Vaticano I. Nell’art. 48, § 1 leggiamo che, dopo la lettura dei Decreti e Canoni da approvare, il Segretario generale si rivolgeva ai presenti nel seguente modo: “Eminentissimi, Eccellentissimi e Reverendissimi Padri, acconsentite voi ai Decreti e Canoni contenuti in questa Costituzione?” La risposta dei Padri consisteva nello scrivere il loro voto, che restava segreto, secondo la formula “sì o no” (placet vel non placet) alla quale apponevano la loro firma [Secretario generali interroganti Patres respondent vota in schedula scribendo, adhibita formula placet vel non placet, eamque subscribendo]. I voti erano poi raccolti e scrutinati nel modo tradizionale, con scrutatori e notarii .
L’art. 49, §§ 1 e 2, prescriveva i modi della promulgatio Decretorum et Canonum. Il Segretario generale mostrava in modo reverente il risultato della votazione al Papa, dicendo: “Beatissimo Padre, i Decreti e Canoni appena esaminati piacquero a tutti i Padri senza eccezione (oppure, in caso di dissenso, tranne che a questo numero [di Padri])”. Dopo di che, proseguiva l’articolo al § 2, “il Sommo Pontefice, se si degna di confermare i Decreti e Canoni, pronunzia la formula solenne: -- I Decreti e Canoni appena letti piacquero ai Padri, all’unanimità (o, in caso di dissenso, tranne questo numero [di Padri]). E Noi, con l’approvazione del sacro Concilio, li decretiamo, stabiliamo e sanciamo così come sono stati letti [Nosque, sacro approbante Concilio, illa ita decernimus, statuimus atque sancimus, ut lecta sunt]”[16].
Il regolamento del Concilio fu emanato da Giovanni XXIII. Sembra riprendere alla lettera la formula di promulgazione del Vaticano I. Si noterà, tuttavia, una significativa omissione: è stato tolto il riferimento alla “autorità apostolica”, in base alla quale, come si è visto, il Papa approva, decreta, stabilisce, insegna, etc.
Questo testo fu ulteriormente modificato da Paolo VI. Vi compare il riferimento alla “potestà apostolica ricevuta da Cristo”. Vi compare la frase nuova “in unione con i venerabili Padri”. Vi scompare ogni riferimento ai voti dissenzienti, che pur ci furono, anche se molto pochi. La Gaudium et Spes, “costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”, nella Sessione pubblica finale ebbe 2309 placet, 75 non placet, 7 nulli. Nell’ultima Congregazione generale aveva avuto addirittura 251 voti contrari, una percentuale abbastanza alta per un Concilio Ecumenico, che mira all’unanimità morale cioè alla quasi unanimità numerica. Alla fine l’opposizione si sfaldò, come sappiamo, sotto la pressione morale e psicologica del Papa, complice (forse) anche il clima di generale stanchezza.
7. Le modalità della famosa “firma”
Esse sono ricostruite da mons. Tissier de Mallerais nella sua biografia, come ho detto. Si tratta del paragrafo nel quale egli tratta della “promulgazione della libertà religiosa”, nel capitolo intitolato: “Fronte alla tormenta conciliare”.
“Quel giorno, ogni Padre conciliare aveva firmato come al solito il suo foglio di presenza, poi il Santo Padre aveva fatto il suo ingresso solenne in aula, infine il segretario generale aveva letto i quattro testi proposti al voto dei Padri. Così il voto finale sulla libertà religiosa fu seguito da tre altri voti finali riguardanti i decreti sull’attività missionaria della Chiesa (Ad gentes), sul ministero e la vita dei sacerdoti (Presbyterorum ordinis) e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes). Quest’ultimo documento ebbe 75 voti contrari, ivi compreso quello di mons. Lefebvre”[17].
Mons. Lefebvre disse sempre di aver votato contro due documenti conciliari: la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa e la costituzione Gaudium et spes. Ammise sempre di aver firmato tutti i documenti, anche se in tarda età, tradendolo la memoria, gli sembrava di non aver sottoscritto i due documenti che aveva respinto nell’urna[18].
Ma come votavano i Padri? “Ogni Padre riempiva una scheda individuale di voto concernente ciascun documento conciliare con una matita speciale dotata di mina magnetica, che permetteva la registrazione meccanografica dei voti. Poi firmava la scheda. I voti erano segreti e personali. Se un Padre rappresentava un Padre assente [per malattia, per esempio] non poteva votare al posto suo. Questo era il principio stabilito dal diritto canonico, come ricordò mons. Felici [segretario del Concilio]; tuttavia poteva sottoscrivere in nome dell’altro l’atto [finale] una volta promulgato”[19].
Dunque, si poteva firmare il documento finale anche a nome di chi non aveva votato! Perciò, anche chi non l’aveva votato poteva sottoscrivere tramite un rappresentante il documento finale! La cosa appare illogica: se non aveva preso parte alla votazione, a quale titolo la sottoscriveva? È comunque evidente, anche da questo dettaglio, che la famosa “firma” non aveva nulla a che vedere con la votazione. Non si può, pertanto, attribuirle il significato di una “approvazione” nel merito del testo sottoscritto. E la “firma” di chi aveva votato contro, quale “approvazione” avrebbe potuto convalidare?
“Dopo la celebrazione della Messa, mons. Pericle Felici si avanzò verso il Papa e annunziò i risultati dei quattro scrutini. Il Papa allora approvò i quattro documenti e li promulgò oralmente tra nutriti applausi. Successivamente, furono fatti circolare tra i Padri dei grandi fogli ognuno dei quali aveva nell’intestazione i titoli dei quattro documenti promulgati. Su questi fogli i Padri furono invitati a apporre le loro firme, precedute dalla parola: “Ego”: “io”, [parola] che significava l’unione di ciascuno all’atto di promulgazione del Papa, capo del collegio conciliare. I rappresentanti di un Padre assente potevano esprimere l’approvazione [alla promulgazione] da parte del loro mandante scrivendo : “Ego procurator”: “io rappresentante”, accanto al nome del Padre che essi rappresentavano. In tal modo, su uno di questi grandi fogli compaiono queste firme, della stessa mano:
Ego + Marcellus Lefebvre arch. tit. Synnada in Phrygia –
Ego procurator pro Epis. Augustinus Grimault, epis. tit. –
E su un altro foglio:
Ego Antonius de Castro Mayer, ep. Camposinus, Brasilia.
Da questi fatti incontrovertibili, risulta che mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer [di poi diventati i due cosiddetti “vescovi ribelli”, per difendere la Tradizione della Chiesa], dopo aver combattuto strenuamente contro la libertà religiosa, alla fine sottoscrissero la promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae”[20].
Si chiede a questo punto mons. Tissier de Mallerais: dobbiamo considerare questa firma un “voltafaccia”? Perché mons. Lefebvre ha sottoscritto un documento al quale si era opposto, votando non placet?
“Ciò che poteva sembrare un voltafaccia – continua mons. Tissier de Mallerais – non ha nulla di sorprendente. Una volta promulgato dal Papa, lo schema [del testo conciliare] cessava di essere uno schema per diventare un atto del magistero, mutando così di natura. Mons. Lefebvre stesso ha messo in rilievo il peso dell’approvazione pontificia […] sottolineando di aver sottoscritto molti dei testi del Concilio “sotto la pressione morale del Santo Padre”, dal momento che, diceva, “non mi posso separare dal Santo Padre: se il Santo Padre firma, sono anch’io moralmente obbligato a firmare”[21]. Dietro la “firma” c’era dunque il tradizionale spirito di obbedienza e di disciplina della Chiesa cattolica nei confronti del Papa, condiviso praticamente da tutti i Padri conciliari[22]. Non c’era sicuramente l’intenzione di approvare in qualche modo anche i documenti contro i quali si era votato non placet o di mascherare il proprio voto contrario.
8. L’esatto significato della “firma”, in senso “oggettivo” e “soggettivo”
Cerchiamo dunque di stabilire quale sia l’esatto significato da attribuire, in senso “oggettivo” e “soggettivo”, a questa “firma” dei Padri, non prevista dal regolamento iniziale ed introdotta per iniziativa di Paolo VI, cui ovviamente spettava il potere di modificare il Regolamento del Concilio.
a. In senso “oggettivo”. Che la “firma” non potesse significare approvazione del contenuto dei documenti sottoscritti, ciò risulta inequivocabilmente dai seguenti fatti :
- I Padri non firmarono spontaneamente ma su un invito del Papa. Si trattava in realtà di un ordine, anche se non sanzionato in caso di inadempienza. Il Papa ci teneva, evidentemente, anche se la “firma” era del tutto superflua ai fini della validità della promulgazione pontificia delle decisioni del Concilio.
- L’ordine era rivolto a tutti i Padri. Paolo VI esigeva questa firma, tutti erano tenuti a sottoscrivere, a prescindere da come avessero votato, se pro o contro: anche i 75 che avevano scritto non placet contro la Gaudium et Spes dovevano firmare.
- Come si è visto, si sono fatti firmare persino coloro che non avevano partecipato alla votazione, dando facoltà ad un Padre di firmare per loro (e mons. Lefebvre firmò per il vescovo Augustin Grimault). Non solo non contava come si era votato, ai fini della “firma”; non contava nemmeno il non aver votato!
- Alcuni tra i Padri disobbedirono al Papa e non firmarono. “Confrontando il numero dei votanti sulla libertà religiosa (2386) con quello dei Padri presenti firmatari della promulgazione (2364) si nota che almeno 22 Padri, votanti che siano stati pro o contro, non firmarono i documenti” [23]. Sui perché di questo rifiuto, si possono fare solo ipotesi, nessuna delle quali passibile di autentica dimostrazione.
- Il clima nel quale ebbero luogo le votazioni finali era quello di fine Concilio, marcato da una diffusa stanchezza generale. “La quarta e conclusiva fase conciliare, già a partire dalle ultime settimane di lavoro del 1964 sino alla solenne chiusura dell’8 dicembre 1965, è caratterizzata da un attivismo frenetico (sono solennemente approvati 3 costituzioni, 6 decreti e 3 dichiarazioni, cioè 12 dei 16 testi complessivamente varati dal Vaticano II!). L’assemblea è ridotta quasi sempre a votare; le commissioni svolgono un intenso lavoro di sistemazione dei testi, ormai quasi al di fuori di ogni controllo; il papa interviene ripetutamente su quasi tutti i testi…”[…] Tra il 20 settembre e il 6 dicembre 1965 si sono svolte complessivamente in aula 256 votazioni – dalla n. 284 alla n. 540 – pari al 47% di tutte quelle dell’intera durata del concilio. Quasi tutti i padri hanno vissuto questo aspetto del quarto periodo come un onere via via sempre più insopportabile. La concentrazione su un problema risultava difficile e si faceva strada la disaffezione. Restare a Roma, con comprensibili disagi e spese, per partecipare a raffiche di votazioni suscitava frustrazione…”[24].Il Vaticano II finiva, dunque, nello stesso modo con il quale era cominciato: nell’agitazione, nella fretta, nella confusione, come se mille diavoli lo stessero incalzando.
- Il significato dell’atto di promulgazione che i Padri sottoscrissero, come risulta chiaramente dalla formulazione che ne aveva voluto dare Paolo VI, era quello di un atto nel quale si confermava la natura collegiale (ex art. 22.2 LG) di ciò che il Concilio “unito al Papa” aveva deciso e promulgava. Inoltre, con l’escludere l’indicazione dell’esistenza anche minima di voti dissenzienti e nulli, si voleva evidentemente dare l’impressione di una unanimità non solo morale ma praticamente assoluta, sul tipo per l’appunto della “volontà generale” di Rousseau, come ha giustamente sottolineato De Mattei.Questo significato appare però teologicamente e canonicamente ambiguo e contraddittorio. Infatti, il testo da un lato riafferma che la potestà apostolica spetta solo al Papa, dall’altro ne mostra l’esercizio con il Concilio ossia con un organo ecclesiastico al quale tale potestà pure inerisce, sempre in unione con il Papa, secondo LG 22.2. Ma, già in base alla Scrittura questa stessa potestà non può inerirgli, con tanti saluti per la suddetta “unione”, che appare quindi di cartapesta.
Si tratta di capire quale significato lo stesso mons. Lefebvre abbia dato alla sua “firma”, come l’abbia intesa. Come si è detto, il punto è stato affrontato da mons. Tissier de Mallerais nella sua biografia (vedi supra). Dalle dichiarazioni dello stesso presule emerge che egli firmò soprattutto per obbedienza al desiderio del Santo Padre, per spirito di disciplina, non per intima convinzione. Su questa base, mons. Tissier de Mallerais giunge ad una conclusione che a prima vista potrebbe apparire singolare. Scrive, infatti, dopo aver ricordato che, nel 1976, undici anni dopo il Concilio, mons. Lefebvre si era confuso nel ricordo, affermando di non aver firmato i due documenti cui non aveva dato il proprio voto: “ Ciò vorrebbe dire, da un lato, che egli diede il suo placet finale a tutti gli schemi conciliari tranne a quei due [la Gaudium et Spes e la Dignitatis humanae]; dall’altro che, pur avendo firmato tutti i documenti del concilio (come risulta dagli Acta synodalia), non diede alla sua firma il significato di una promulgazione con il Papa”[25].
Come, non si rendeva conto che firmare voleva dire sottoscrivere quanto si dichiarava nella formula di promulgazione e quindi che i Padri riconoscevano di promulgare “una cum Pontifice”, secondo lo spirito e la lettera – aggiungo – di LG 22.2? In effetti, dalle dichiarazioni di mons. Lefebvre risulta proprio così: egli non diede alla sua firma quel significato. Riporto interamente il passo decisivo in proposito, presente solo in parte nella biografia del presule francese. Si tratta di una risposta durante le vivaci interviste da lui sostenute con la stampa internazionale il 15 settembre 1976, dopo lo “scandalo” delle ordinazioni sacerdotali da lui effettuate ad Écône il 29 giugno precedente, nonostante la recente ma illegale soppressione del locale seminario, da lui giustamente ignorata. Tramite la Segreteria di Stato, Paolo VI gli aveva ingiunto di non procedere alle medesime senza aver prima ricevuto, come da prassi, le litterae dimissoriae, ovvero il permesso dell’Ordinario diocesano ad effettuare le ordinazioni, permesso che non sarebbe stato ovviamente concesso a causa della suddetta soppressione. Si minacciava, in caso contrario, di applicare il c. 2373 1° del CIC, che comminava la suspensio a divinis per un anno [dall’esercizio delle funzioni sacerdotali], riservata alla Santa Sede, quanto alla sua remissione.
Ad una domanda sul Concilio pervenutaci nella registrazione solo nella sua parte finale (…duemilacinquecento vescovi si sono potuti sbagliare così clamorosamente?”), rispose:
“Non credo che duemilacinquecento vescovi si siano sbagliati. Evidentemente, penso che molti non si siano resi conto di quello che stava succedendo. Io stesso ho sottoscritto molti schemi del concilio, ma direi sotto la pressione morale del santo padre. Se il santo padre firma, mi sento moralmente obbligato a firmare. Ma la cosa fu fatta un po’ controvoglia [Mais c’était un peu à contrecoeur]. Due tuttavia non li ho firmati: quello sulla libertà religiosa e Gaudium et Spes. Il papa del resto me l’ha ricordato”[26].
Da queste dichiarazioni si deduce che: 1. mons. Lefebvre ha firmato i documenti del Concilio soprattutto perché sottoposto “alla pressione morale del Papa”, già esercitata dal fatto che il Papa stesso firmava (invitando tutti i vescovi a farlo). 2. Risultando da una “pressione morale” la firma è stata apposta “controvoglia”. 3. Sul significato “oggettivo” della “firma”, che rappresentava un riconoscimento della nuova (ambigua e contraddittoria) nozione di “collegialità”, mons. Lefebvre non sembra essersi interrogato. Non è detto che in quel caotico momento gli fosse del tutto chiaro, anche perché la consapevolezza completa del grande guasto provocato dal Concilio, in tutti i suoi vari aspetti, sembra essergli venuta in una fase di poco successiva. A lui, come vescovo, bastava il fatto che il Papa volesse questa firma in calce all’atto di promulgazione. Del resto, una volta approvata dalla maggioranza, la legge che viene promulgata non vincola anche la minoranza, a meno che non violi la legge di natura o divina? Si trattava pertanto solo di obbedire al Papa, nell’espletare questa ulteriore fastidiosa e tutto sommato pleonastica formalità della “firma”, non di approvare post festum documenti contro i quali si era votato. Spirito di disciplina, dunque, anche a malincuore. Non incoerenza. E nemmeno contraddizione[27].
Paolo Pasqualucci
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1. Ralph M. Wiltgen, The Rhine flows into the Tiber, Devon, 1919, pp. 138-139. L’opera, pur superata dal fondamentale studio del prof. De Mattei, costituisce ancora una lettura puntuale e istruttiva delle tormentate vicende conciliari.
2. Roberto De Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino, 2010, pp. 515-520; p. 516. Non sono riuscito a trovare nulla di rilevante per il mio tema nella monumentale storia del Vaticano II curata da Alberigo. Vedi: Peter Heinermann, Le ultime settimane del concilio, in: Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo, Il Mulino, Bologna, V, 2001, pp. 371-491; § 7.3: La seduta pubblica del 7 dicembre, pp. 480-486.
3. Hubert Jedin, Breve storia dei Concili. I venti concili ecumenici nel quadro della storia della Chiesa, tr. it. di Nerina Beduschi, Herder, Roma, 1960, pp. 195-196.
4. S.S. Paolo VI, Lettera Apostolica Motu Proprio : Apostolica sollicitudo, p. 2/6, w2.vatican.va.
5. Vincenzo Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, con la collaborazione del prof. Gaetano Catalano, Giuffré, Milano, 197011, p. 172.
6. Codex Iuris Canonici del 1917, c. 218 e c. 219. Il nuovo Codice di Diritto Canonico (1983) ha lasciato cadere l’inciso “iure divino” (vedi i c. 331, 332, 333, concernenti “Il Romano Pontefice”).
7. S. S. Pio IX, Constitutio Dogmatica De Fide Catholica, in “Christian Classics Ethereal Library”, con testo inglese a fronte, www.ccel.org, pp. 1/12 e 8/12.
8. Concilii Oecumenici Vaticani II. Constitutiones-Decreta-Declarationes, curante Florentio Romita, perito conciliari, Desclée ac Socii – Romae, 1967, p. 85, dove si riporta la formula relativa alla promulgazione della Lumen Gentium. La formula è identica per tutti i documenti del Concilio. Il Romita riporta anche tutte le varie votazioni, per ogni documento. Testo latino: “Haec omnia et singula quae in hac Constitutione dogmatica edicta sunt placuerunt Patribus. Et Nos, Apostolica a Christo Nobis tradita potestate, illa una cum Venerabilibus Patribus, in Spiritu Sancto approbamus, decernimus ac statuimus et quae ita synodaliter statuta sunt ad Dei gloriam promulgari iubemus. Romae, apud S. Petrum […] Sequuntur ceterae subsignationes”.
9. I Documenti del Concilio Vaticano II. Costituzioni – Decreti –Dichiarazioni, Ed. Paoline, 1980, p. 89 […una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite, subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest].
10. L’art. 22 di LG ribadisce naturalmente il Primato di Pietro (ivi, § 2, cit.) mettendovi però subito accanto la definizione della nuova collegialità (ivi, cit.). In tutto l’articolo si insiste sempre sull’unione tra il Papa e i vescovi poiché essi “formano un tutto” (LG 22.1). Ma un conto, osservo, è l’unione in senso spirituale, dottrinale, pastorale, sorretta dallo Spirito Santo, un conto quella in un soggetto giuridico nuovo, nel quale la summa potestas sulla Chiesa sia attribuita anche ai vescovi con il Papa. Appunto, con il Papa e mai sottoposti al Papa: unito l’ordine al Capo, insieme al Capo, congiunto al Capo (simul cum, una cum, coniunctum). Di fronte a questo modo di esprimersi, chi vuole, non può sentirsi legittimato ad intendere la figura del Papa come quella di un “primus inter pares”?
11. Vincenzo Del Giudice, Nozioni di Diritto Canonico, cit., pp. 163-164.
12. Del Giudice, op. cit., pp. 46-49. D. 4 d.p.c.3: “Leges instituuntur, cum promulgantur, firmantur, cum moribus utentium approbantur” (Decretum Gratiani, First recension, edition in progress, by Alexander Winroth, con la collaborazione di numerosi studiosi -sites.google.com/a/yale.edu/decretumgratiani/home).
13. Giovanni Rotondi, Introduzione a Leges publicae Populi Romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, Estratto dall’Enciclopedia Giuridica Italiana, 1912, rist. anast. Olms Verlag, Hildesheim, 1966, pp. 1-188; p. 123. Letteralmente: “onde possa esser facilmente [de plano] letto”.
14. Op. cit., ivi.
15. S. S. Giovanni XXIII, Lettera Apostolica Appropinquante Concilio, contenente il Regolamento dello stesso, w2.vatican.va., p. 4/27.
16. I Concili Ecumenici in genere emanavano Decreti e Canoni. I primi, articolati in (brevi) capitoli, esponevano il contenuto dogmatico (p.e., al Tridentino, abbiamo avuto “Il Decreto sulla giustificazione”, nella Sessione VI, in sedici brevi capitoli). Ai Decreti seguivano spesso i Canoni, che infliggevano l’anatema per le opinioni erronee sulla dottrina insegnata nei Decreti, quand’era dogmatica. Il “Decreto sulla Giustificazione” è corredato da ben 33 canoni. Al Vaticano II non si ebbero né gli uni né gli altri, il Concilio fu atipico anche da questo punto di vista. Ma la cosa si spiega con l’impostazione data da Giovanni XXIII: non condannare nessun errore, non definire verità di fede, fare un Concilio solo pastorale.
17. Bernard Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre. Une vie, Clovis, 2002, pp. 331-332.
18. Op. cit., p. 333. Mons. Lefebvre intervenne più volte a voce e per iscritto in concilio per criticare diversi schemi. Criticò severamente il “messaggio al mondo” del 20 ottobre 1962, sorta di carta ideologica dell’aggiornamento, elaborato a sorpresa dai “nuovi teologi” e accettato da Giovanni XXIII, nonché la “pastoralità” stessa imposta al Concilio, i cui caratteri ambigui ne rendevano non chiaro il fine. Proponeva di reintrodurre nei documenti una parte dogmatica, accanto ad una pastorale. Quest’intervento, letto in aula, accentuò nei suoi confronti la preesistente ostilità dell’elemento neomodernista. Vedi: Mgr. Lefebvre, J’accuse le Concile!, Éditions Saint-Gabriel CH – 1920 Martigny, 1976, che raccoglie tutti i suoi interventi al Concilio.
19. Op. cit., p. 332.
20. Op. cit., ivi. I grandi fogli con le firme si trovano negli archivi del Concilio (op.cit., ivi).
21. Op. cit., p. 333.
22. Op. cit., ivi, che riporta anche un’analoga considerazione di Wiltgen.
23. Op. cit., p. 334. La Dichiarazione ebbe 2308 voti a favore, 70 contrari e 6 nulli (secondo F. Romita, a cura di, Concilii Oecumenici Vaticani II, cit., p. 304).
24. Giuseppe Alberigo, Conclusione e prime esperienze di ricezione, in Storia del Concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, V, pp. 546-575; pp. 546-552.
25, Bernard Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 333-334.
26. Mons. Marcel Lefebvre, Première conférence de presse du 15 septembre 1976, in La condamnation sauvage de Mgr Lefebvre, numero speciale della rivista ‘Itinéraires’, diretta da Jean Madiran, aprile 1977, contenente 63 documenti annotati dallo stesso Madiran, dal 1974 al 1977, sulla “condanna illegittima di mons. Lefebvre”; pp. 209-226; p. 210. Dato il gran numero di inviati si dovette fare una seconda conferenza, nella quale il presule ribadì il concetto: op. cit., pp. 226-240; pp. 230-231. Sulla soppressione illegale del Seminario di Écône, mi permetto rinviare al mio recente saggio: Paolo Pasqualucci, La persecuzione dei “Lefebvriani” ovvero l’illegale soppressione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, Solfanelli, Chieti, 2014, pp. 148, pp. 124-125 per la sospensione a divinis. Nell’intervista, su di un punto, come si è detto, la memoria deve aver tradito mons. Lefebvre: Paolo VI doveva avergli rimproverato il voto contrario ai due documenti citati, voto che egli non aveva mai nascosto, non la mancanza di firma, che non c’era stata.
27. Sullo spirito di fedeltà e disciplina al Romano Pontefice da parte dei vescovi di allora, nel senso appunto dell’autentica Tradizione cattolica, vera ragione della “firma” di mons. Lefebvre e sicuramente di tanti altri Padri, vedi le precise osservazioni di De Mattei, op. cit., pp. 516-519.
27 commenti:
a me sembra una questione di lana caprina. Se anche mons. Lefebvre avesse approvato i testi conciliari dove sarebbe il problema? Io troverei ancor più rafforzata la sua posizione perché significherebbe che Lefebvre pur se storcendo il naso e pur se intravedendo fin da subito almeno alcune delle molte problematiche causate dai testi conciliari, non ha agito per pregiudizio o irrazionalmente. Se prima ha approvato quei documenti e dopo li ha contestati significherebbe che Lefebvre ha fatto le contestazioni solo dopo attenta riflessione.........Insomma da una eventuale approvazione dei testi conciliari io vedrei uscire solo un Lefebvre con la testa sulle spalle e i piedi per terra! D'altronde è questa linea che ha seguito riguardo alla messa nuova: pur essendo tra gli ispiratori del Breve esame critico, e pur avendo fatto sapere che lo avrebbe sottoscritto.........poi però non lo fece. Non solo, per oltre un anno Lefebvre celebrò col nuovo messale. Quando poi capì che il Novus Ordo era realmente pericoloso per la fede..........lo rifiutò. Ma tale rifiuto fu lungamente meditato, non fu certo improvvisato e inconsulto.............così agisce chi ama veramente la Chiesa.
“firma”, in senso “oggettivo?
Então, o Papa Paulo VI só queria a assinatura material dos bispos, que não representava em absoluto sua adesão as doutrinas nos documentos conciliares? Isso é absurdo! Os padres foram informados de que se quisessem assinar um ou mais documentos, mas não todos eles, eles poderiam fazer uma nota na margem ao lado de seu nome, especificando quais os documentos que assinaram ou não quiseram assinar.
Mi sembra che Paolo Pasqualucci distingua chiaramente la "firma" dei singoli documenti in sede di "votazione" da quella - inedita fino al Vaticano II - in sede di "promulgazione".
In ogni caso, resta valida l'osservazione di Juanne.
Non può destare meraviglia né recriminazioni il dissenso di Mons Lefebvre su alcune "innovazioni" che rappresentano i punti controversi del concilio puntualmente applicati in chiave progressista: quello che mons. Gherardini definisce il "Gegen-geist" (il contro-spirito) del Concilio. E' normale poter esprimere le proprie perplessità e o divergenze, su un magistero 'pastorale', dopo aver avuto il tempo di meditare e approfondire il senso e gli effetti di alcune formulazioni ambigue o comunque divergenti dalla Fede di sempre espresse in determinati documenti.
Non mi risulta affatto che "per oltre un anno Lefebvre celebrò col nuovo messale", celebrò invece con il Messale del 1965.
Ecco la risposta che il "gentile" sig Socci mi ha inviato in merito alle firme di Mons Lefevbre: "Ti ho già citato la lettera di Lefebvre a Giovanni Paolo II che taglia la testa al toro. Siccome tu non vuoi vedere l'evidenza almeno smettila di rompere i coglioni a me. Scrivi ai fanatici della tua fatta". Sarebbe questa la gà attuando Bergoglio?
Povero Socci, come è caduto in basso. Una volta l'ammiravo molto (siamo conterranei), adesso invece lo compatisco. E' diventato pian piano un conciliarista duro e puro, nonostante i suoi libri sul segreto di Fatima (molto critici con Giovanni XXIII, ad esempio). Oggi mi sento di non aver più nulla da spartire con lui, intellettualmente e spiritualmente parlando; lo stesso mi è successo con Padre Livio. Rimango invece ancora ammiratore di Paolo Brosio, soprattutto per il suo grande zelo, da neofita e da innamorato di Maria SS.ma; forse però anche lui dovrà ricredersi su Bergoglio, e passare dalle lacrime (piangeva leggendo dell'intenzione di Francesco di stroncare Medjugorje) allo sbigottimento e poi all'allontanamento. Pace e bene
Chiedo scusa: una domanda:
Lumen Gentium 22, al passo "criticato" in questa sede, ha una nota (la 64) che a sostegno degli asserti conciliari, cita alcuni testi del Concilio Vaticano I (primo) che non mi sembrano sospettabili di proto-progressismo conciliarista (parcere verbis), ossia:
1 lo schema della "Constitutio dogmatica secunda de Ecclesia Christi", capitolo IV (in MANSI, volume 53, pagina 310);
2 la relazione KLEUTGEN sul detto schema (in MANSI, volume 53, pagine 321 B e 322 B);
3 la dichiarazione del relatore ZINELLI (in MANSI, volume 52, pagina 1110 A).
Cosa rispondere a questi specifici "rimandi"?
Supponiamo che, durante un'assemblea condominiale, io abbia combattuto come un leone su una questione che mi stava molto a cuore riguardante le "parti comuni", ma malgrado il mio zelo ed il mio impegno, ho dovuto soccombere di fronte alla maggioranza schiacciante che tramite votazione ha democraticamente espresso il suo verdetto.
Supponiamo pure che l'amministratore abbia detto:
"Signore e signori, la decisione che è stata da voi votata è vincolante, ed è il frutto del gioco democratico per il quale siamo qui riuniti, in quanto l'assemblea è sovrana.
Ora, considerata l'eccezionale importanza della questione, desidero che seduta stante sottoscriviate il verbale che la presidenza ha già provveduto ad allestire e che riporta puntualmente la decisione da voi presa qui oggi.
Prego quindi ogni condomino di passare qui al tavolo della presidenza per convalidare con la sua firma questo verbale, documento testificante il risultato della vostra partecipata e combattuta decisione.
Già fin d'ora ringrazio tutti per l'esempio civico che dimostrerete compiendo fino all'ultimo il vostro dovere comunitario di condomini, sapendo distinguere quello che è il dibattito sull'oggetto avvenuto prima e quello puramente amministrativo a cui siete chiamati ora, in quanto altro non è che il riconoscimento ufficiale della decisione che avete democraticamente preso, decisione che tutti siete chiamati ad accettare e ad ottemperare".
Mi alzo, vado al tavolo della presidenza e obtorto collo firmo il verbale.
Significa che ho cambiato idea sull'oggetto dell'infuocata decisione?
Per Socci forse è così.
Cosi come il sacerdote non ha il pieno potere di ordine che ha solamente il Vescovo, anche nel campo del potere di giurisdizione esso e' attribuibile pienamente solo al Papa, I Vescovi non hanno un pieno potere di giurisdizione per cui non possono essere associati al Papa creando una sorta di potere assoluto come erroneamente il CVII fa'.
@ Juanne - Mons. Lefebvfre e la Messa NO - Caso Socci
JUANNE - Lei afferma che "per oltre un annno Lefebvre celebro' col nuovo messale". Sarebbe cosi' gentile da indicarmi la fonte di questa sua affermazione? Da nessuna fonte attendibile risulta che mons. Lefebvre abbia mai celebrato la Messa NO. Che l'avesse celebrata, puo' esser stata invece una delle tante voci malevole diffuse al tempo nei confronti della FSSPX, a cominciare da quella (del tutto falsa) che non fosse stata eretta in modo regolare secondo il diritto canonico. Cito questo passo dalla biografia di mons. Bernard Tissier de Mallerais, da me ampiamente utilizzata. Mentre stava per procedere alle ordinazioni sacerdotali del 1976 sotto la minaccia della sospensione a divinis, si avvicendavano gli inviati da Roma per farlo desistere. Uno di essi fu il P. Edoardo Dhanis, gia' rettore della Gregoriana,il 27 giugno, alle 9 di sera, avanti-vigilia delle ordinazioni. "IL P. Dhanis piombo' a Flavigny dove mons. Lefebvre stava predicando agli ordinandi in ritiro. In tono supplichevole, tenendo in mano il Messale della Messa di Paolo VI, disse: "MOnsignore, se oggi stesso voi accettaste di dire assieme a me questa messa, tutto si appianerebbe con Roma!" - Ho gia' celebrato la messa, rispose laconicamente l'arcivescovo". E il povero sacerdote se ne ando' con viso sconsolato." (B. Tissier de Mall., op. cit., pp. 512-513, con la fonte ivi citata). Nel Sermone del 29 giugno successivo alla Messa dell'ordinazione dei nuovi sacerdoti, mons. Lefebvre disse che nelle ultme tre settimane per ben sei volte era stata avanzata la richiesta di ristabilire relazioni normali con Roma "e di dimostrarlo accettando il nuovo rito, celebrandolo io stesso. Mi sono stati persino mandati dei sacerdoti affinche'io concelebrassi con loro...[...] E' chiaro che tutto il dramma tra Econe e Roma e' imperniato sulla questione della Messa" ("La condamnation sauvage de Mgr Lefebvre", cit., pp. 124-125). La difesa della vera Messa cattolica, del suo significato, nel resto del sermone, meriterebbe a mio avviso di essere stampata a parte e tradotta in italiano per questo blog, tanto sono essenziali e sempre validi gli argomenti esposti. Le insistenze di Roma sul punto, dimostrano o no che mons. Lefebvre non aveva mai celebrato la nuova Messa?
CASO SOCCI - Consiste a quanto sembra nel rifiuto di approfondire lo studio delle cause della tremenda crisi della Chiesa, di giungere sino al Concilio Vaticano II. Cio' gli impedisce un atteggiamento obiettivo nei confronti della FSSPX e del suo fondatore. Se posso permettermi un'opinione personale, sarebbe comunque bene evitare polemiche di tipo personale nei suoi confronti. Combattiamo la "buona battaglia" contro le idee errate e nefaste che in questo periodo storico stanno affliggendo la Santa Chiesa, non contro le persone. E' un periodo di grande e diabolica confusione, per tutti. Auguriamo a Socci di riuscire a mettere il suo indubbio talento e le capacita' sinora dimostrate, la passione per la rinascita della Chiesa che con noi sicuramente condivide, al servizio di un maggiore e piu' approfondito studio delle cause della crisi.
@ Anonimo delle ore 11.15 sui "rimandi in nota" del testo di LG 22.2 criticato
Giusta osservazione. La risposta e' che bisognerebbe andare a leggere i testi cui fa riferimento la nota per controllare l'esattezza del riferimento conciliare. Testi non di
facile reperimento.
Su internet, tra gli e.book, ho trovato questo testo: Matteo Visioli, "Il diritto della Chiesa e le sue tensioni alla luce di un'antropologia teologica", 1999, Gregorian Biblical Bookshop, pp. 476. Sono quei libri che si possono leggere a spizzichi, due o tre pagine di seguito, poi si salta etc. Comunque ho trovato un riferimento al testo che ci interessa.
A p. 16 l'autore, contrario alla tesi della primazia di giurisidizione del Papa concessa poi da quest'ultimo ai vescovi per il governo delle loro diocesi, afferma che "piu' volte il magistero ha affermato che la potesta' del collegio dei vescovi e' vera e propria potesta' di governo, ed autorita' suprema" (13) anche se deve esser esercitata "nonnisi consentiente Romano Pontifice" (14). Alla nota n. 13 cita la citata Relazione ufficiale Zanelli, alla 14 il passo ben noto di LG 22.2 (integrandoli tra loro). A p. 20 tuttavia, sempre nelle note spiega che queste relazioni (Zanelli e Kleutgen, citate dalla LG 22) concernevano schemi che non furono discussi in aula. Presentavano la dottrina di chi sosteneva appunto che la suprema potestas iurisdictionis doveva esser attribuita collegialmente a Pontefice e collegio sub o cum Pontifice (se ho ben afferrato il concetto). Questa dottrina non era ovviamente condivisa da Pio IX, come ne fa fede gia' la formula di promulgazione delle due costituzioni conciliari, da me analizzata. Quindi, non si trattava tanto di "magistero" anteriore quanto di correnti dottrinali che non coincidevano con il "magistero" anteriore.
Resterebbe da vedere che cosa dice S. Leone M. nel Sermone 4, 3, citato sempre in nota dalla LG. Cerchero' di individuarlo in internet. Spero di aver risposto in modo soddisfacente alla sua osservazione, metodologicamente correttissima.
Interessanti le conclusioni riportate nell'articolo.
C'è però un aspetto che - spero non mi sia sfuggito - mi pare un po' improvvisato durante l'assise: come si possono promulgare dei documenti facendo riferimento a delle procedure contenute in uno di essi?
Sarebbe come votare un documento che stabilisce un quorum del 50% invece dei 2/3, votando già col sistema del 50%.
Se vogliamo già questa è una prevaricazione.
Se Socci approvasse Lefebvre, vorrebbe dire che per tutta la sua vita si e' dedicato ad una causa sbagliata, la chiesa conciliare. E' molto difficile, specie ad un certa eta', con problemi familiari pesanti, e sempre sull' orlo di perdere il posto, riconoscere di aver sbagliato tutto.
Allora ci si trincera dietro l' invettiva, l' offesa gratuita, un muro di protezione.
Al prossimo " scndalum" forse il muro crollera'.
Io non ho mai pensato che Monsignore fosse un demonio, ma non avevo ben chiaro i termini del problema. Da quando ho iniziato ad informarmi, ed ho iniziato a leggere questo ed altri blogs, ho capito molte cose. GPII sbaglio' , forse perché mal informato, o forse perché convinto conciliar ista, e forse un po' anche Monsignore. Ma oggi come oggi, con un VdR del genere ( sentito oggi?) e con un Sinodo del genere, continuar a condannare la FSSPX e' fare il gioco del Nemico.
Cce ne fossero di Monsignor Lefebvre oggi!
RR
PS: penso che al Monsignore nocque e nuoce tutt' ora un certa visione " politica" che di lui hanno i suoi detrattori, incluso Socci.
Se posso permettermi un'opinione personale, sarebbe comunque bene evitare polemiche di tipo personale nei suoi confronti. Combattiamo la "buona battaglia" contro le idee errate e nefaste che in questo periodo storico stanno affliggendo la Santa Chiesa, non contro le persone.
Questo approccio è fondamentale. Peccato sia solo accennato, mentre invece su questo aspetto si dovrebbe scrivere un articolo intero.
Io, ma credo anche molti tra noi, abbiamo avuto una maturazione costante per arrivare a poter sostenere quel che diciamo. Purtroppo, anche per questioni di anagrafe, molti di noi sono cresciuti col NO e solo in seguito e ognuno per motivi e attraverso tappe diverse è giunto a conoscere e a frequentare poi il VO.
È quindi importante aiutare coloro che questo cammino non l'hanno ancora intrapreso o lo stanno solo iniziando. Aggredendoli rischiamo solo di rinsaldarli nelle loro attuali posizioni rendendo difficile lo staccarsi, anche in futuro, da tali opinioni.
Mai io ho aggredito Socci nelle email che gli ho mandato. Nonostante ciò, quando ha capito "da che parte stavo" ha iniziato con un linguaggio offensivo ed incivile che dimostra proprio quasi un "odio" nei confronti della Fraternità SSPX ed in generale tutto ciò che riguarda la Tradizione in contrasto con il CVII. Nonostante questa dimostrazione di inciviltà mai le mie risposte sono state del medesimo suo tenore, ma cercando sempre di portare argomenti razionali che purtroppo lui non vede (o meglio non vuole vedere). Ho comunque avuto l'impressione che sia un'uomo "sull'orlo di una crisi di nervi".
http://www.documentacatholicaomnia.eu/04z/z_1692-1769__Mansi_JD__Sacrorum_Conciliorum_Nova_Amplissima_Collectio_Vol_052_(Conc_Vat_I_Pars_2_2)__LT.pdf.html
http://www.documentacatholicaomnia.eu/04z/z_1692-1769__Mansi_JD__Sacrorum_Conciliorum_Nova_Amplissima_Collectio_Vol_053_(Conc_Vat_I_Pars_2_3)__LT.pdf.html
Sperando che questa informazione possa essere d'aiuto, auguro una santa notte.
Bravo Anonimo 21:08, sono anch'io del suo parere. Ripeto, ammiravo e stimavo Socci, ma di fronte al muro di insulti e al rifiuto di ragionare , di analizzare, di indagare, non lo riconosco proprio più, non è più lui (anche Padre Livio fece un cambiamento simile, come di uno minacciato o anestetizzato). Rifiuta Bergoglio e difende al spada tratta il CV II, rifiutandosi di discuterlo, di "rispondere punto su punto" come faceva S. Pio X, sulla base dei documenti, non di discorsi da bar. Hai, Hai, signora Longari, avrebbe commentato il buon Mike Bongiorno. Con lui, con Padre Livio, non si può più discutere: ognuno per la sua strada, e Dio per tutti
Socci ci considera "persone da curare" e "bigotte". Ora volevo chiedere a qualcuno se fosse a conoscenza di un passato da comunista del Socci perchè da come parla sembra che gli sia rimasto qualche strascico di passato frequentante questa ideologia. Qualcuno ne sa qualcosa?
@ Testo del Mansi - evitare le polemiche personali (Viandante)
- Ringrazio l'Anonimo delle 22.00 che ha gentilmente segnalato la reperibilita' elettronica del testo del Mansi. Mi attivero' quanto presto.
- Viandante: giustissime le sue osservazioni. Anche chi appartiene a una generazione piu' vecchia della sua e' giunto "a tappe" o meglio "e'ritornato" a tappe alla vera fede. Chi non ha subito l'influenza del pensiero e della mentalita' contemporanee, ostili alla nostra religione? Il "ritorno" o la "scoperta" sono in genere molto faticosi e bisogna veramente ringraziare Iddio onnipotente che ci sorregge in questo cammino, sempre insidiato da mille pericoli. Ora, nelle discussioni e dispute non e' facile mantenere la calma. Se l'altro e' rude o ti insulta, non ti viene spontaneo rispondere alla stesso modo magari mettendoci il carico da undici? "Cosi', mi sono sfogato, almento!" pensa uno. E invece no: bisognerebbe cercare di rispondere sempre con concetti agli insulti, quando ci sono. E' difficile. Tuttavia, in lungo periodo questa e' la strategia vincente perche' il tempo e' galantuomo, come si suol dire. Nel caso di Socci non capisco perche' si debba dire che se rivedesse la sua opinione su mons. Lefebvre allora dovrebbe accorgersi di aver sbagliato tutto nella sua vita. Non vedo perche'. Non bisognerebbe coinvolgere la vita privata delle persone nelle polemiche ne' fare il processo alle intenzioni. Su questo penso che l'accordo sia generale.
Socci ha detto, privatamente: "la lettera di mons. Lefebvre a Paolo VI per me taglia la testa al toro". Quale lettera? Mons. Lefebvre ha avuto diversi contatti con Paolo VI. Si potrebbe avere un riferimento piu' preciso? Discutiamo su questa lettera, per vedere se "taglia effettivamente la testa al toro". Se poi la controparte non vuole discutere, pazienza. Continuamo lo stesso a batterci per la buona causa, ma restando sempre per quanto possibile nell'ambito dei concetti, delle idee, dei principi.
Guarda, caro Anonimo 20:22, che giù a Siena sono tutti da sempre comunisti duri e puri e poi, ora mi sembra di ricordare, che ai suoi esordi il buon Antonio fosse sì un po' contestatore, capellone (infatti da decenni ha un look un po' da capellone), bastian contrario, per dirla alla toscana. Quindi la tua ipotesi può essere valida. Io sono "vaccinato" contro capelloni, barbudos, potere operaio et similia fin da quando, nella 2^ metà degli anni '60 ero a Pisa all'Università (alle Normali) e loro facevano il bello ed il cattivo tempo, seminando letteralmente il terrore (gettarono in Armo i goliardi durante la festa delle matricole)
@ Paolo Pasqualucci
Antonio Socci si riferisce ad una non meglio precisata lettera di Lefebvre a Giovanni Paolo II non a Paolo VI che "taglierebbe la testa al toro". Sinceramente però non ho ancora capito a quale lettera si riferisse. Ho chiesto al diretto interessato senza avere nessuna risposta: purtroppo il Sig Socci ha questo modo di trattare le cose senza entrare completamente nel merito delle questioni. Comunque son convinto che questa lettera non taglia "nessuna testa al toro"
La costituzione dogmatica "Sacrosanctum Concilium" sulla liturgia ebbe solo quattro voti contrari.
Mons. Lefèbvre non era tra questi.
@ Mons. Lefebvre non voto' contro la SC
Lo sappiamo. E allora? Concluda il ragionamento.
La costituzione dogmatica "Sacrosanctum Concilium" sulla liturgia ebbe solo quattro voti contrari.
Mons. Lefèbvre non era tra questi.
Prima di sparare a zero, sarebbe bene approfondire. I 'bachi' della SC sono emersi dopo (alcuni dei famosi "ma anche"). E in ogni caso la "Riforma" che ne è scaturita col NO si è discostata in molti punti dalla SC.
Nella Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Liturgia i padri conciliari tracciarono le linee guida di una revisione del messale. Dopo il Concilio, quindi, fu designata una commissione che ne vergò materialmente il nuovo testo: il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
Inizialmente fu redatto un nuovo messale edito nel 1965 e in parte modificato nel 1967, in cui furono introdotti la preghiera dei fedeli, la possibilità di poter recitare in volgare un diverso e più ampio ciclo di letture ed anche diverse parti dell‘Ordinario.
Tuttavia, la Commissione arrivò alla formulazione di un ulteriore nuovo Messale nel 1969: il Novus Ordo Missæe, che fu redatto ben oltre le linee guida del Concilio. In particolare, e non soltanto, circa l’utilizzo della lingua liturgica, quanto meno nella prassi che relega l’uso del latino a poche cerimonie, soprattutto a quelle celebrate dal pontefice. [...] Alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato furono permesse nella liturgia, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché di canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l’estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa. (dal mio saggio «La questione liturgica. Il Rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II», Sofanelli, 2015)
Il 28 ottobre 1965 furono firmati i Decreti ‘De Pastorali Episcoporum Munere in Ecclesia’ (‘Christus Dominus’), ‘De Accommodata Renovatione Vitae Religiosae’ (‘Perfectae Caritatis’), ‘De Institutione Sacerdotali’ (‘Optatam Totius’), e alle Dichiarazioni ‘De Educatione Christiana’ (‘Gravissimum Educationis’) e ‘De Ecclesiae Habitudine ad Religiones Non-Christianas’ (‘Nostra Aetate’).
E il successivo 18 novembre furono firmati la Costituzione Dogmatica ‘De Divina Revelatione’ (Dei Verbum’) e il Decreto ‘De Apostolatu Laicorum’ (‘Apostolicam Actuositatem’).
E il successivo 7 dicembre, i Decreti ‘De Libertate Religiosa’ (‘Dignitatis Humanae’), ‘De Activitate Missionali Ecclesiae’ (‘Ad Gentes’), ‘De Presbyterorum Ministerio et Vita’ (‘Presbyterorum Ordinis’), e la Costituzione Pastorale ‘De Ecclesia in Mundo Huius Temporis’ (‘Gaudium et Spes’).
A quanto risulta, la firma dei Padri Conciliari venne apposta - o non apposta - ad ogni singolo documento.
Gli ‘Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II’, Vol. IV, Pars VII, in calce ai quattro documenti datati 7 dicembre 1965 riportano però solo la firma di Papa Paolo VI; per le altre firme rimandano invece ad una lista collettiva con la dicitura “Sequuntur Patrum subsignationes: cf. pag. 804”, o “cf. infra, n. 7”. Tale lista collettiva, denominata ‘Patrum subsignationes’, costituisce un vero e proprio falso storico, in quanto non tutti e quattro i documenti furono firmati da tutti i Padri Conciliari presenti.
Per esempio, è noto che Mons. Marcel Lefebvre non firmò né la ‘Dignitatis Humanae’ sulla libertà religiosa né la ‘Gaudium et Spes’ [cf Lefebvre, M., ‘The Infiltration of Modernism in the Church’, Montreal (Canada), 1982, www.sspxasia.com/Documents/Archbishop-Lefebvre/The-Infiltration-of-Modernism-in-the-Church.htm; cf anche Davies, M., ‘Archbishop Lefebvre. The Case for the Defence’, www.sspxasia.com/Documents/Archbishop-Lefebvre/Case_for_Defence.htm, 1983].
Ma avendo firmato i due restanti documenti datati 7 dicembre 1965 (‘Ad Gentes’ e ‘Presbyterorum Ordinis’), il suo nome compare comunque nella lista collettiva di documenti firmati in quel giorno, dando a credere che abbia firmato anche gli altri due.
È vero che all’inizio della lista collettiva, subito dopo la firma di Paolo VI viene quella del Card. Tisserant, Decano del Sacro Collegio; e a quest’ultima è stato apposto un asterisco rimandante ad una nota in calce che recita: “Alcuni Padri diedero il voto, senza per questo aver firmato successivamente i decreti del Sacro Concilio” (“Quidam Patres suffragium dederunt, quin decreta Ss. Concilii subsignaverint”).
Ma perché, in primo luogo, questo asterisco non è stato apposto al titolo ‘Patrum subsignationes’, dove si sarebbe dovuto mettere a rigor di logica, riferendosi la nota non al Card. Tisserant, bensì a tutta la lista e a tutti i Padri in genere? Forse per rendere l’asterisco graficamente meno evidente, e quindi meno evidente al lettore anche l’imbarazzante ammissione in nota?
Poi, in secondo luogo, per correttezza verso la precisa verità storica e per correttezza verso i singoli Padri Conciliari che non firmarono qualche documento – la cui “libertà di coscienza” anche di non firmare, pur affermata dal Vaticano II stesso, viene di fatto calpestata dai suoi Atti Conciliari editi, tramite un gioco di prestigio che fa apparire quello che non è vero – un asterisco si sarebbe dovuto apporre al nome di ciascuno di questi Padri, precisando cosa firmarono e cosa non firmarono.
@ Ancora sulla firma-non firma di mons. Lefebvre
Mi sono basato sulla biografia di mons. Bernard Tissier de Mallerais, autore a mio avviso di esemplare onesta' intellettuale. Egli scrive citando spesso direttamente gli Acta Synodalia, cioe' i verbali del Concilio. Alla p. 332 della sua biografia di mons. Lefebvre scrive che "i grandi fogli" con le famose firme sono conservati negli archivi del Concilio mentre la "loro sintesi" appare in Acta Synodalia, IV, VII, 804-859. (55 pagine di firme, a quanto sembra).
Se ci sono nuovi argomenti, per dimostrare che la faccenda della firma e' un "falso storico", ben vengano. Mi sembra tuttavia che siamo lontani dall'avere prove effettive in tal senso. Mons. Tissier de Mallerais afferma esservi sul famoso foglio per la Dignitatis humanae le due firme della stessa mano, quella di mons. Lefebvre, per la firma sua e del vescovo Grimault, che egli rappresentava per la firma stessa (sempre p. 332).
Restiamo ai fatti essenziali: la firma in calce ai documenti non ha niente a che vedere con il voto agli stessi, a favore o contro. Il suo scopo era quello di "autenticare" una promulgazione che si voleva nello spirito della nuova idea di collegialita', da dimostrarsi addirittura condivisa al cento per cento dall'intero "collegio con il suo Capo". La cosa porta l'imprimatur montiniano. E il fatto che mons. Lefebvre abbia firmato, nella situazione sopra spiegata, nulla toglie al significato e al valore del suo voto contrario alla Gaudium et Spes e al decreto sulla liberta' religiosa, ne' alla sua di poco posteriore opposizione al Concilio in blocco, una volta resosi pienamente conto di come in troppi suoi testi si fossero offuscate e alterate fondamentali verita' di fede. Come ha spiegato Mic, il veleno c'era anche nella SC, e lo si capiva, ma ancora abbastanza ben nascosto o comunque in dosi che si sperava di poter controllare. Certo, oggi e' piu' facile, dopo la distruzione della liturgia cattolica operata da Paolo VI, scorgere i semi della corruzione nella SC. (Il quale Paolo VI, subito dopo il Concilio, per perseguire velocemente i suoi scopi, riformo' subito la Curia ovvero la elimino' quale organo supremo di effettivo governo e controllo della S. Sede per sostituirla con la Segreteria di Stato, organo politico piu' che dottrinale, riforma sciagurata, una delle cause dell'attuale crisi. Per De Corte, Paolo Vi era una "alumbrado" - chiuso l'inciso).
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