Prima Parte (arricchita da una corposa Introduzione e dal piano dell'opera) [qui]
Titolo: La falsa immagine dell’islam contribuisce a confondere il culto della S.ma Vergine, la venerazione per Abramo, l’adorazione del vero Dio
Titolo: La falsa immagine dell’islam contribuisce a confondere il culto della S.ma Vergine, la venerazione per Abramo, l’adorazione del vero Dio
NON CREDIAMO NELLO STESSO DIO DEI MUSSULMANI
Confutazione della falsa immagine dell’islam
diffusa nella Gerarchia cattolica attuale
diffusa nella Gerarchia cattolica attuale
di Paolo Pasqualucci
settembre 2015
Seconda Partesettembre 2015
II
Genesi dell’islamismo
nello spirito di conquista e nella violenza
nello spirito di conquista e nella violenza
SOMMARIO : 1. La Mecca pagana. 2. Il monoteismo iniziale di Maometto, rivolto solo contro i pagani. 3. La singolare concezione maomettana del “profeta”. 4. Il “patto di Haqaba”, l’ègira. 5. L’editto di “Maometto il Profeta”. 6. Inizio della guerra per bande contro i coreisciti ed emancipazione da ebraismo e cristianesimo. 7. La costruzione dello “Abramo mussulmano” quale progenitore della monolatria di Maometto. 8. L’espansione militar-religiosa dell’islam: obiettivi, metodi, principi. 8.1. Mai la pace ma solo tregua (armata) con gli infedeli, sino alla vittoria finale. 8.2. Il finanziamento della “guerra santa” e la conquista della Mecca, trasformata manu militari in città santa della nuova religione.
1. La Mecca pagana.
La Mecca, dove nacque Maometto, forse nel 571 AD, oggi grande città della ricca Arabia Saudita, posta sulle aride alture dello Higiaz a 66 km dal mare e a 260 m. d’altezza, era a quel tempo famosa come centro religioso per via del santuario della Kaaba, una pietra nera adorata dagli arabi pagani, posta vicino ad un pozzo di acqua “piuttosto salmastra”. La posteriore “leggenda islamica” affermò che il santuario era stato costruito da Abramo e da suo figlio Ismaele, nato dalla schiava Agar sua concubina, considerato il progenitore degli Arabi (nel recinto sacro si fa ancor oggi vedere un’impronta, che sarebbe stata lasciata dal piede di Abramo!)[1].
“Alla metà del VI sec. d. Cr. La Ka’bah era ormai il luogo di maggior fama religiosa presso gli Arabi pagani, era la meta di grandi pellegrinaggi annui accorrenti anche da parti lontane della penisola; e la Mecca a sua volta era divenuta la città più ricca ed importante di quella grande parte d’Arabia che non era soggetta ai diretti influssi delle civiltà della Siria, della Mesopotamia, del Yemen”. La floridezza della città dipendeva anche dal fatto che i coreisciti, il gruppo tribale che dominava e “aveva il possesso del santuario”, si erano dimostrati abili mercanti monopolizzando in pratica tutto il traffico delle grandi vie carovaniere che, partendo dal Yemen, univano l’Oriente alle coste del Mediterraneio (Siria e Palestina, allora parti dell’impero bizantino). La città, sottolinea Nallino, si distingueva dal resto dell’Arabia centrale e settentrionale. Era retta da un’oligarchia mercantile priva di veri, formali poteri coercitivi, che governava sulla base del codice tribale, dell’etica di clan, se così si può dire. La giustizia era amministrata nella forma, sostanzialmente privata, della “vendetta di sangue” e della sua composizione secondo determinate forme, tipiche delle società tribali. Sempre su base parentale-tribale esistevano forme di assistenza per gli orfani e le vedove.
“L’elemento beduino autentico, fuori della cerchia ristretta della sua tribù, non conosce freno; assaltare e rubare, uccidere membri di altre tribù è lecito; non esiste che il freno proveniente dal timore di vendetta o rappresaglie da parte della tribù offesa”[2].
All’epoca di Maometto, grande era il divario tra i ricchi mercanti e il resto, i poveri e gli schiavi. I mercanti meccani erano persone dotate di notevoli capacità. “Oltre a radunare cammelli e scorte armate, era necessario fare trattative con le moltissime tribù beduine disseminate lungo tutto il percorso lunghissimo, allo scopo di assicurarsi contro aggressioni pagando loro anche una specie di pedaggio [...] Occorrevano inoltre forti capitalisti; e il capitale, per lo più, non consisteva in numerario, poiché le monete erano rare in Arabia, salvo in Yemen. Gli abitanti della Mecca affidavano capitali, consistenti per lo più in merci e schiavi, agli impresari della carovana, affinché questi li commerciassero nei porti del nord o del sud, facendoli fruttare […] Dato questo sistema capitalista, non mancava alla Mecca l’usura in proporzioni assai gravi; come conseguenza di tutto ciò e data la presenza di numerosi schiavi liberati [in genere abissini], esisteva alla Mecca una situazione che non aveva riscontro nel resto d’Arabia, ossia esisteva un proletariato in contrasto con una classe ricca o di buona borghesia”[3].
La poligamia, assente nella civile e raffinata Arabia del Sud, era largamente praticata, anche nelle sue forme estreme. Esisteva del pari il matrimonio temporaneo, rimasto poi quest’ultimo nell’islam sciita[4]. Il capo della tribù era elettivo e si imponeva soprattutto per la sua autorità morale. Esistevano poi il capo per le razzie o spedizioni militari (rahīs), l’indovino, l’oratore (per le questioni con le altre tribù) e il poeta (shāyr). Poeti e poetesse occupavano un posto particolare in quell’antica società e furono tra i più accaniti avversari di Maometto, che ne fece uccidere diversi, da suoi sicari o con pubbliche esecuzioni. “Il poeta era considerato come il depositario delle tradizioni storiche e genealogiche della propria tribù. Era diffusa la credenza che la parola pronunziata in forma ritmica solenne avesse una specie di valore magico e che l’invettiva poetica scagliata dal poeta contro gli avversari prima della lotta fosse qualcosa che andasse a toccare e danneggiare materialmente i nemici. Quindi si comprende lo svolgimento grandissimo che nella letteratura araba ebbe l’invettiva in versi”[5]. In generale, gli arabi antichi amavano molto la poesia, oggetto di pubbliche ed apprezzate contese. Coltivavano anche il senso dell’ospitalità: era dovere religioso ospitare il viaggiatore e il fuggiasco per i primi tre giorni.
“Il paganesimo arabo nel VI sec. d. Cr. era un politeismo in via di dissolvimento, sia per naturale processo evolutivo, sia perché insidiato dalle forti comunità giudaiche della parte N-W della penisola e dal cristianesimo ormai padrone dell’orlo settentrionale dell’Arabia e di quasi tutto il Yemen. Anzi qualche isolato monoteista arabo, né ebreo né cristiano, ma tuttavia sotto l’influsso evidente di queste due grandi religioni, non mancava ormai nel Higiaz. Il carattere primitivo delle singole divinità arabe era già del tutto o quasi del tutto obliterato nella mente dei rispettivi adoratori; la denominazione generica di Allāh “il Dio”, probabilmente importata dal nord, tendeva a sopraffare il nome proprio antico, ed alla Mecca stessa aveva quasi cancellato il nome vero del Dio tutelare della Kaaba, che sembra fosse Hubal. I meccani riconoscevano Allah quale creatore, l’invocavano nei pericoli e nella distretta, facevano in nome suo i giuramenti solenni; ma riconoscevano al suo fianco divinità femminili minori, considerate come sue figlie, concepite come più vicine all’uomo e quindi come interceditrici a favore di questo presso il Dio supremo, sicchè anche a loro venivano pòrte le offerte sacrificali di grano e di bestiame”[6].
Non esisteva un tempio. “Il culto nel paganesimo arabo, anziché una idolatria nel vero senso della parola, era un feticismo, nel quale il posto preponderante spettava alle pietre sacre, d’ogni dimensione e forma, mobili o fisse in posto, ch’erano spesso ad un tempo feticcio ed altare sacrificale”. C’erano territori o recinti sacri, con i relativi custodi ereditari, nonché àuguri ed indovini. “Ignota la liturgia, sostituita dai semplici riti dei sacrifici, da giri attorno ad oggetti sacri o da altri atti simbolici e da grida scomposte”. Sembra si credesse in modo vago alla sopravvivenza dell’anima “identificata con il respiro”, senz’idea alcuna di una vera vita eterna e della retribuzione per gli atti compiuti in vita. Era una religione “utilitaria”, mirante soprattutto ad ottenere “i favori terreni delle divinità”, scarsa di contenuto etico[7].
2. Il monoteismo iniziale di Maometto, rivolto solo contro i pagani.
Maometto nacque forse nel 571 AD. Apparteneva alla tribù dell’aristocrazia mercantile, i coreisciti, tramite un sottogruppo, gli hascemiti. Crebbe orfano e povero, accudito dai parenti, prima lo zio poi il nonno. Sposò poi Kadigia, ricca vedova di diversi anni più anziana e donna d’affari, che inizialmente l’aveva assunto alle sue dipendenze. Il suo soprannome era Amīn, “il fidato” (vedi la Parte Prima), il che implica che fosse considerato persona onesta e affidabile. Non si sa nulla di sicuro sulla maturazione della sua vocazione religiosa. Inizialmente deve aver praticato il paganesimo dell’ambiente, religione degli antenati. Sembra che abbia viaggiato qualche volta con le carovane dei coreisciti che si recavano in Siria, al servizio dello zio o della sua futura moglie. Come che sia, egli, prima in privato (per circa due anni) poi in pubblico, cominciò all’improvviso a dichiararsi l’araldo per diretta rivelazione divina di un “rigido monoteismo”, che appariva ricavato o ricalcato “su idee e leggende religiose cristiane e ebraiche. Ma senza dubbio le sue fonti dovettero essere ben magre e ben incerte, se del Cristo egli ebbe a formarsi il concetto proprio del sistema docetico; se del cristianesimo egli non riuscì ad afferrare il dogma capitale della redenzione; se le narrazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento appaiono in lui deformate talora da confusioni gravissime ovvero conformi alla haggādāh popolare giudaica [aneddotica teologicamente non affidabile] ed agli apocrifi cristiani anziché ai testi biblici genuini; se, infine, per tacer d’altro, egli potè a lungo illudersi d’essere riconosciuto da Ebrei e da Cristiani quale un apostolo di Dio agli Arabi”[8].
Mi sembra utile integrare l’analisi di Nallino con quella dell’autorevole Bausani, sempre sullo stesso tema. Nella religione predicata da Maometto vi sono anche, oltre ad ampio materiale “attinto dal paganesimo preislamico” (nei riti del pellegrinaggio, nell’accettazione della legge del taglione, di divinità pagane come jinn o spiritelli del deserto, nella semplicità della sua morale), diverse componenti riconducibili allo gnosticismo, “nel senso più ampio che ora va prendendo la parola. Si potrebbe forse giungere a dire, con un certo ardimento, che il Corano è il frutto di una iniezione di materiale gnostico in un ambiente socialmente primitivo, rielaborato dalla mente di un monoteista assoluto. Ne nascono curiose miscele, per esempio la giustapposizione di racconti allusivi e simbolistici – ottimi in un contesto gnostico ma qui degnosticizzati – accanto a riti pagani e a brani del più puro biblicismo monoteistico. La degnosticizzazione avviene soprattutto in due direzioni: quella escatologica (come è noto la gnosi accentua scarsamente il lato escatologico, ad eccezione del Manicheismo) e quella monoteistica. Ma ne restano frammenti erratici, e studi recenti hanno mostrato come il lato simbolistico del Corano (poi esagerato dai movimenti sciiti), forse anche nella impostazione escatologica è più ampio di quanto non si creda. Misteriose restano ancora le vie di passaggio di questi influssi: si tratta delle comunità cristiane e ebraiche d’Arabia con patrimonio dogmatico non troppo ortodosso (il Corano parla di una trinità Dio Padre-Maria-Gesù, tipicamente manichea; di sette ebraiche che divinizzano Esdra et similia) e forse di qualche comunità manichea. È documentata la presenza di manichei nel regno di Hira [antico regno arabo dei Lachmidi, tribù satellite dei persiani, lungo l’Eufrate] poco prima del nascere dell’Islam, e, secondo certi orientalisti, deriverebbe dal Manicheismo il concetto tipicamente coranico delle rivelazioni successive di Dio ai Profeti, con un “suggello” finale della profezia”.
Conclude, pertanto, l’autore: “Ma come con precisione si siano svolti i contatti fra il Profeta e queste “fonti” non c’è dato sapere. Sebbene la conoscenza delle Scritture che egli aveva non sembra derivata da lettura diretta, v’è pur qualche brano (per es., Cor., sura 2, 248, [dove si menziona il Saul biblico]) che potrebbe persino far sospettare il contrario. Sappiamo che il neo-Profeta era accusato [dai concittadini meccani] di avere un informatore umano: più probabile ci sembra una rielaborazione, nella sua viva e originale personalità, di dati acquisiti con elementi cristiano-ebraico-gnostici durante la sua gioventù: i suoi viaggi in Siria, se reali, spiegherebbero molte cose”[9].
Bausani mette in rilievo un altro importante tratto dell’islamismo, non facilmente coglibile dall’esterno, dipendente proprio dal sincretismo religioso che ne è all’origine.
“Resta comunque il fatto che la sintesi da Maometto genialmente operata funzionò egregiamente, e divenne, cristallizata nel Corano, centro di attrazione di ulteriori materiali che vi si aggregarono con l’andare dei tempi, sempre obbedendo a quello che sembra esser stato un carattere tipico dell’Islam sin dal suo sorgere: il carattere ampiamente aperto al compromesso e alla sintesi, se si vuole anche a una notevole tolleranza, salvo restando il monoteismo, per tutto ciò che risulti a bene della comunità e favorevole al suo “interesse” (maslaha) spirituale o materiale”[10].
Torniamo ora alla vita di Maometto. Le rivelazioni celesti che egli affermava di ricevere avvenivano di notte, verso l’alba, trasmesse da “un nobile personaggio” invisibile o “spirito di santità”, solo più tardi (a Medina) da lui identificato con l’Arcangelo Gabriele. Le parole del “messaggero”, ricevute (a quanto sembra) in stato di forte agitazione e prostrazione, Maometto le ripeteva poi ad alta voce, le recitava a memoria, in forma solenne, salmodiata. Esse venivano apprese a mente e in parte trascritte su svariati materiali da coloro che gli credevano e gli stavano intorno. Maometto morì all’improvviso, lunedì 8 giugno 632 AD a Medina, dopo alcuni giorni di forti ed improvvise febbri, intento a preparare una spedizione contro i bizantini. Secondo la testimonianza di una delle sue mogli, la ventenne Aisha che l’assisteva - da lui scelta in moglie quando aveva nove anni - mentre il suo sguardo si irrigidiva, mormorò nel delirio: “Al contrario, voglio il Compagno Sommo, del Paradiso”[11]. Durante la sua vita non ci fu alcuna edizione ufficiale scritta di tutto il Corano, che in molti sapevano recitare a memoria (la capacità della memoria era ed è fortissima nei popoli abituati ad una cultura prevalentemente orale). Come si è detto, nella Prima Parte di questo lavoro, fu il terzo Califfo (khalīfa, “vicario”, “successore”, qui nella guida della comunità mussulmana), Othman (644-656), a provvedere alla bisogna. L’edizione da lui curata è rimasta canonica, nonostante i problemi che essa pone agli interpreti[12].
Maometto, continua Nallino, nella sua lotta contro il paganesimo dei meccani “non ebbe affatto l’idea di predicare una religione diversa dalle altre monoteistiche a lui vagamente note. Il suo pensiero era semplice. Per salvarsi occorre commemorare assiduamente Iddio, lasciar in disparte l’eccesso delle cure mondane; occorre fare il bene, elargire abbondanti elemosine ai poveri, proteggere gli orfani, rifuggire dall’usura. Ma come si commemora Iddio? Con la preghiera, intesa nel senso di recitazione salmodiata di testi sacri [preghiera rituale], accompagnata da prostrazioni e genuflessioni come nel rito antico dei Cristiani d’Oriente, e preceduta da purificazioni del corpo mediante parziali lavacri [purità rituale]”[13].
Maometto si sentiva dunque inviato da Dio ad essere per gli Arabi quel profeta nazionale che Dio aveva inviato nei secoli precedenti agli altri popoli e che finora gli Arabi non avevano avuto. Egli è “un ammonitore in lingua araba chiara”, egli apporta un “testo sacro arabo”. Si noterà che per Maometto “i grandi personaggi dell’Antico Testamento e del Vangelo, Gesù Cristo compreso, sono tanti profeti nazionali, senza carattere di universalità”, ragion per cui le “rivelazioni” fatte a Maometto, pur diverse per lingua e forma dalle altre precedenti, obbediscono “ad un unico scopo: la salvezza delle singole nazioni”. Egli ritiene, in questa fase, che la fede da lui predicata non sia in contraddizione con quella insegnata dai profeti antichi, scritta “nei fogli antichissimi di Abramo e di Mosè”. Al Maometto meccano, “il nome muslim [ = incondizionatamente sottomesso, si intende: a Dio] è comune ai suoi seguaci ed a tutti i credenti delle altre religioni monoteistiche rivelate, sicchè ha un solo contrapposto: mušrik: politeista. Le parti del Corano rivelate alla Mecca non hanno alcuna traccia di polemica contro gli Ebrei ed i Cristiani”[14].
3. La singolare concezione maomettana del “profeta”.
Questo è sicuramente un punto essenziale. Si notano, tuttavia, i germi della futura, grave involuzione di questo autoelettosi profeta, che inizialmente sembrava voler diffondere tra gli arabi un monoteismo simile a quelli ebraico e cristiano, così come erano a lui noti. Il germe è rappresentato, accanto ad elementi della personalità di Maometto alla Mecca evidentemente ancora latenti, dalla sua peculiare concezione del significato del profeta e della sua missione. Nell’Antico Testamento, i profeti non hanno una dimensione solo nazionale. Da un lato, essi ammoniscono severamente i capi e il popolo di Israele quando deviano dalla retta via; dall’altro, conferiscono alla Rivelazione un significato sempre più universale, che coinvolge tutti gli uomini per la loro salvezza, facendo vedere anche con le profezie come debba giungere a compimento la Promessa di salvezza “per una moltitudine di popoli” fatta da Dio ad Abramo (Gn 17, 1-8). Questa Promessa, unitamente all’Alleanza che ne è il presupposto, sfugge completamente a Maometto. Che oltretutto mostra di non afferrare il vero rapporto tra Gesù Cristo e l’ebraismo e quindi tra il Gesù Messia che realizza, per tutti gli uomini con il suo Sacrificio sulla Croce, la promessa fatta ad Abramo ed il Gesù mero profeta nazionale all’interno dell’ebraismo, cosa che Egli non fu mai o solo in piccola parte.
Inoltre, sul piano personale, i Profeti biblici dimostrano particolari qualità concesse loro da Dio: capacità di fare miracoli o prodigi, di predire il futuro, grande austerità di vita personale. Appaiono sempre come difensori strenui e intransigenti della morale fondata sui Dieci Comandamenti e dei diritti del vero Dio, sino al totale oblio di sé, al sacrificio della propria vita (vedi l’ultimo di essi, san Giovanni Battista, fatto decapitare per aver difeso audacemente in faccia al re e alla sua concubina il vero matrimonio). Tutti questi elementi non si riscontrano affatto nella personalità e nella vita di Maometto, considerata con il rigore dello storico e non secondo le leggende diffuse tra i suoi seguaci. E difatti, come fu notato, per Maometto il profeta sembra essere più un “trasmettitore” di un messaggio divino che un “ispirato”, un individuo la cui anima sia penetrata dallo spirito divino, che la eleva ad una conoscenza superiore e ne sorregge la vita personale intemerata. Dal numero dei profeti biblici citati nel Corano mancano molti dei maggiori dell’Antico Testamento (Isaia, Geremia, p.e.) mentre sono presenti sconosciuti “profeti” arabi pagani sostanzialmente leggendari, che sarebbero stati inviati in passato a popoli arabi al tempo scomparsi. La concezione del profetismo che qui emerge appare non concordare con quella autentica (da riferirsi ai profeti e allo spirito di profezia dell’Antico e Nuovo Testamento) e di taglio sostanzialmente sincretistico, con inclinazione marcata a introdurre come prevalente nella personalità “profetica” in quanto tale un essenziale (ma del tutto eterodosso) tratto nazionalistico e politico, da fondatore di Stati e capo di eserciti.
Altro elemento peculiare della “predicazione” di Maometto, già in grande evidenza nella fase meccana, è la vera e propria ossessione per il Giorno del Giudizio, “nominato ben 90 volte nel Corano con enorme prevalenza nelle sure meccane”. Maometto sembrava dominato “dal pensiero spaventoso della catastrofe finale del mondo, quando il cielo si fenderà” e tutto l’universo andrà in frantumi. Quello sarà “il giorno” per antonomasia, indicato sempre con un diverso epiteto o frase descrittiva: “il giorno della riunione”, “il giorno della vittoria” etc. Quando arriverà, Dio solo lo sa; sarà comunque improvviso. L’istante della risurrezione dei corpi è chiamato invece “L’Ora” o con un epiteto: “la precipitante”, “la percuotente”, etc.[15] Negativa, affermo, quest’insistenza perché mostra mancanza di equilibrio, ispirando essa un vero e proprio terrore nel Giudizio finale, ben al di là del pur grande e giusto timore (un aspetto del timor di Dio) che esso deve ispirare a noi cristiani. E tuttavia (vedi Prima Parte) le pene infernali saranno inflitte da Allah per l’eternità solo ai non-mussulmani! E tale discriminazione, presente (anche se parzialmente) già nel giudaismo talmudico, ma non nel cristianesimo, non appare arbitraria ed in contraddizione con la vera Giustizia divina?[16]
Ancora una volta le fonti di Maometto non erano pure. Sottolinea Nallino: “Abbiamo qui una piena eco della letteratura apocalittica e sibillina cristiana [tutta apocrifa], con la quale il Corano ha comune anche la frequenza delle descrizioni immaginose dell’inferno e del paradiso. Senonché per quest’ultimo cessa lo spiritualismo cristiano e vi si sostituisce un quadro di gioie materiali, quali poteva sognarle e bramarle un arabo autentico di quell’età anche sulla terra. La resurrezione dei corpi, con tutte le loro passioni e tutti i loro bisogni, diventa il necessario presupposto d’una vita oltremondana così concepita; ed infatti su essa molto insiste nel periodo meccano il Corano, nel quale invece non troviamo mai svolto il concetto puro dell’immortalità dell’anima”[17].
Oltre che con la futura catastrofe universale, Maometto minacciava i suoi concittadini pagani con l’immagine delle catastrofi che colpivano le singole nazioni e popoli, per via della loro incredulità, tema reperito “ora da testi biblici, più o meno alterati, concernenti Noè, Abramo, Lot e Mosè, ora da leggende di origine a noi ignota, relative ai profeti Hud, Salih, Suhayb, inviati ai popoli arabi all’epoca estinti: Ad, Tamud, Madyan”[18]. Che questi sconosciuti, leggendari profeti arabi pagani, inviati in epoca remota agli arabi possano considerari nel novero degli autentici profeti, riconducibili ai Patriarchi della Bibbia, ciò è del tutto impossibile, come si è detto, e mostra ancora una volta quanto sia eterodossa la concezione maomettana del profetismo.
4. Il “patto di Haqaba”, l’ègira.
I meccani, anche per restare fedeli alla “consuetudine” (sunna) dei loro padri pagani, non ne volevano sapere della missione di Maometto. Li infastidivano le sue invettive contro i ricchi, contro l’usura, l’idea che i loro antenati fossero all’inferno perché pagani e di doverci andare anche loro per lo stesso motivo. Trovavano particolarmente assurda l’idea di una resurrezione dai morti. Poeti e poetesse deridevano Maometto, molti lo ritenevano via di testa, i suoi sparuti seguaci subirono offese e vessazioni; offese toccarono anche a lui, tuttavia sempre protetto dalla solidarietà del suo clan hascemita di appartenenza, le cui leggi non scritte di convivenza con il resto della tribù egli sino a quel momento non aveva violato. C’era un’ostilità in costante aumento, non ancora una vera e propria persecuzione. Maometto, dopo aver spinto alcuni suoi seguaci a trasferirsi temporaneamente in Abissinia, tentò allora di trapiantare la sua religione nella “ridente ed alpestre” cittadina di Ta’if, a 100 km da La Mecca ma fallì miseramente con “l’elemento beduino accorrente alle fiere” di quella città.
“L’accoglienza che ebbe colà fu pessima, e degenerò rapidamente in un disastro. Partito [assieme ad un discepolo] con il progetto di chiedere protezione alla tribù che abitava a Taif, sperando forse di convertirla all’Islam, si ritrovò cacciato dalla città e rincorso dal popolino tra lazzi e maltrattamenti”. Lui e il suo segretario furono fatti oggetto a lanci di immondizie e sassaiole. Secondo la tradizione, cioè secondo il Corano, solo i folletti del deserto gli prestarono ascolto, mentre recitava il Corano, in parte convertendosi[19].
Nel settembre del 622 emigrò a Yatrib, “la posteriore Medina” (Madīnat an-nabi, città del profeta (nabi), ossia “la Città” per antonomasia: Medīna).
Fu una mossa calcolata, preceduta da accordi politici contenenti anche un risvolto militare dalle future, notevolissime conseguenze. Fu una “emigrazione”, come ricorda Nallino, o ègira (higrah), dalla data della quale i mussulmani contano gli anni: “emigrazione con il significato di “deliberata separazione dai suoi” e non già “fuga”, come si suol tradurre con duplice errore filologico e storico”. “Separazione” carica di un significato ostile[20].
La “emigrazione” ebbe luogo dopo un preciso accordo (“patto di Haqaba”, giugno 622) con i gruppi arabi dominanti a Yatrib (gli al-Hazrag, ai quali era appartenuta – sembra – una bisnonna di Maometto). Questo patto garantiva al “Profeta” una posizione di arbitro, ma di un arbitro che veniva considerato da alcuni “Apostolo di Dio” e quindi tendente a porsi come capo carismatico, politico e militare della città. Non solo, quindi, semplice arbitro nei confronti delle fazioni che ivi si confrontavano accanitamente, cosa abbastanza comune nell’anarcoide mondo arabo del tempo. Era nella tradizione araba nominare un arbitro per le dispute fra tribù. La protezione militare era garantita soprattutto dal gruppo degli al-Hazrag cui si contrapponeva quello degli al-Aws. Il “patto” fu seguito un anno dopo da un editto a firma “Maometto il Profeta”. Ci fu dunque una netta evoluzione: da semplice arbitro di conflitti tribali a capo politico e militare in quanto “profeta”; dall’arbitrato super partes alla teocrazia. La genesi e il significato del “patto di Haqaba” sono spiegati in modo assai chiaro da Nallino.
Yatrib, a 350 km “in linea retta a Nord della Mecca”, sorge a 630 m sul mare, in una pianura ridente e ben coltivata, ricca di acque: più che una città, masserie e castelli isolati, campi, giardini, palmeti. La colonizzarono per primi gli ebrei, forse fuggiti a sud dopo le due disastrose sollevazioni contro i Romani nel I e II secolo. Nel VII secolo d.C. parlavano arabo ed erano in maggioranza arabi giudaizzati. Gli ebrei avevano pertanto in mano gran parte dell’agricoltura, frutto del loro lavoro. Al pari dei mercanti arabi, esercitavano anch’essi certamente l’usura. Tribù arabe sopraggiunte gradualmente dal sud tolsero agli ebrei parte delle terre e acquisirono la supremazia politica nella zona. Dal punto di vista religioso, metà della popolazione praticava il giudaismo (ebrei e arabi giudaizzanti), l’altra metà il paganesimo. Le lotte di clan avevano luogo soprattutto tra i due gruppi principali arabi, che vi coinvolgevano i nuclei ebraici, a seconda delle circostanze[21].
A Medina gli arabi locali, vivendo a contatto con gli ebrei, si erano familiarizzati con il monoteismo. La notorietà di Maometto era di sicuro giunta a loro, e quelli che si accordarono con lui si erano convertiti all’islam cioè dichiaravano di riconoscere Maometto come inviato del Dio unico. Tanto basta, infatti, per diventare mussulmano: dichiarare di fronte a testimoni che esiste un solo Dio e che Maometto è il suo inviato. Un “solo Dio”, si intende, nel senso antitrinitario e quindi anticristiano dell’Unico del Corano.
“La dura esperienza di Taif era stata per Maometto la prova palmare del pericolo di avventurarsi in terreno non preparato; d’altro canto, la posizione da lui ormai assunta rispetto al paganesimo non gli avrebbe consentito di stringere accordi con una popolazione la cui maggioranza continuasse a professarsi ostinatamente politeista; era indispensabile ottenere prima qualcosa di simile al così detto semiproselistismo giudaico, che gli ebrei ponevano come condizione di convivenza ai pagani in Palestina, in Arabia, ed altrove. Infine Maometto aveva dovuto convincersi che ormai, per la tutela sua e dei suoi seguaci di fronte agli avversari sempre più minacciosi, era necessaria anche la forza materiale”[22].
Da questo complesso di fattori, di carattere contingente, che (aggiungo da parte mia) si venivano però ad innestare sulla personale, ferrea convinzione di Maometto, di essere lui il profeta nazionale mandato dal Dio unico agli arabi; dotato (come ha detto qualcuno) di una personalità che non si limitava a convincere poiché voleva in realtà vincere, si originò la svolta del credo mussulmano in senso politico e militare. Se inizialmente egli si era presentato ai suoi concittadini nelle vesti di riformatore religioso, che agiva sopra tutto sul piano del miglioramento della religione e dei costumi, e quindi sul piano sociale ed etico; ora, con l’emigrazione, egli compiva un radicale salto di qualità: si creava la base sociale e territoriale per esser anche il capo politico e militare della nuova religione. La “religione” si cercava uno Stato e se ne costruiva uno, identificandovisi.
“L’accordo di Haqaba fu di enorme importanza: fu il germe della grande evoluzione che fra poco Maometto compirà. Innanzitutto era un patto difensivo che prevedeva la resistenza armata agli avversari: primo avviamento dunque dell’islamismo a combinare il suo contenuto religioso con un organismo guerriero. Inoltre, Maometto cominciava ad apparire come un capo non più soltanto religioso, ma anche politico. In terzo luogo si ponevano le basi di una vera rivoluzione nell’ordinamento sociale degli Arabi del Higiaz; poiché al vincolo di tribù cominciava a sostituirsi quello affatto nuovo d’una solidarietà politico-religiosa, che con il primo può trovarsi in grave conflitto. Infine, meditando di abbandonare e di far abbandonare ai suoi seguaci coreisciti la Mecca per portarsi a Medina nelle condizioni previste dagli accordi di Haqaba, Maometto rinnegava per un ideale nuovo i principi costitutivi della società araba, spezzava il vincolo più sacro agli occhi degli Arabi genuini, commetteva una specie di ribellione figliale all’autorità paterna”[23].
Fece partire alla spicciolata le circa sessanta famiglie che lo seguivano e poi partì lui con pochi fidi rimasti a proteggerlo, sfuggendo alle insidie dei maggiorenti, che sembra avessero tentato di ucciderlo, cosa ora lecita avendo egli violato il codice della solidarietà tribale, il che lo privava della protezione legittima della tribù e lo metteva alla mercé di chiunque. Al posto della tribù Maometto stava istituendo, come “patria” dell’arabo, la Umma, la comunità dei credenti nel Dio unico da lui predicato. Una rivoluzione radicale. Alla metà del secondo anno dell’ègira, apparve il celebre editto, firmato da “Maometto il Profeta”, conservato dalla tradizione, ritenuto autentico da tutti, anche dagli orientalisti occidentali.
5. L’editto di “Maometto il Profeta”.
“Il concetto che lo informa – spiega sempre Nallino – è in grande contrasto con le idee tradizionali arabe, ma in pieno accordo con il modo con cui Maometto alla Mecca aveva immaginato la storia sacra dell’umanità: vale a dire, un succedersi od un coesistere di nazioni, intese nel senso di unità religiose, dirette da un apostolo che Iddio stesso scelse in mezzo a loro ed al quale fornì le opportune rivelazioni”. In conseguenza di ciò, Maometto cominciò a crearsi la sua “nazione” su base “religiosa”. “I vari ed eterogenei elementi della popolazione medinese (tribù arabe del luogo, immigrati coreisciti o altri, tribù giudaiche) sono dichiarati formanti “un’unica ummah” o nazione “rispetto agli altri uomini”. Le controversie gravi, che possano provocare disordini, dovranno esser portate “davanti a Dio e davanti a Maometto”. Costui diventa così il giudice supremo della nazione, non in base al libero volere degli uomini (com’era il caso degli arbitri scelti per dirimere le contese fra le tribù arabe), ma in virtù della sua stessa missione divina. Tuttavia nessuno sarà impedito dal trarre vendetta per ferita ricevuta; nessuno invece potrà uscire per imprese militari o razzie se non per disposizione di Maometto, che dunque, anche nei rapporti, per così dire, di politica estera e bellica, è il capo dello Stato medinese”[24].
Qui si ha appunto la svolta essenziale, rispetto alla mentalità e ai costumi arabi del tempo. “I membri delle singole tribù continuano, come in passato, ad essere solidali nel pagamento del prezzo del sangue e nel riscatto dei loro prigionieri di guerra; ma quando si tratti di sangue versato “nella via di Dio” [il jiahd o “sforzo” su questa “via” è appunto la c.d. guerra santa], ossia combattendo i politeisti meccani nemici di Maometto, la solidarietà di tribù deve scomparire davanti alla nuova solidarietà fra tutti i credenti [i muslimin, gli “incondizionatamente sottomessi”, ovviamente ad Allah], che in tal caso “prendon vendetta l’uno per l’altro”. Il nostro documento afferma pure in modo certo quel principio che diverrà il cardine di molta parte della morale e del diritto islamici, cioè che i credenti sono fratelli rispetto ai rimanenti uomini; stabilisce, inoltre, in pieno contrasto con le idee arabe fino allora vigenti, che non sia lecito uccidere un credente a motivo di un miscredente”[25]. Da ciò risulta, arguisco, che i mussulmani non si considerano fratelli degli altri uomini ma solo ed esclusivamente tra di loro.
I “credenti” vengono in tal modo a costituire una comunità o umma completamente separata dal resto dell’umanità e ad esso superiore. Non solo in senso morale-religioso ma anche politico e giuridico: costituiscono, infatti, un’unità politica cementata esclusivamente dalla fede nel Dio unico del Corano, che comunque li premierà tutti con il Paradiso nell’al di là e con il dominio del mondo nell’al di qua. È come se questa Comunità avesse un fondamento e una legittimazione a dominare sovrannaturali. Politica e religione vengono a costituire l’unum et identicum.
Nel nuovo Stato, “islamico” appunto, ci sono però sia pagani che ebrei. I pagani sono posti in una posizione di netta inferiorità, i loro beni e persone non sono più protetti dalle tradizionali norme, basate sulle consuetudini tribali. Gli ebrei sono (per ora) liberi di professare la loro religione. In caso di guerra, devono tuttavia concorrere alle spese con i credenti. In caso di assalto dall’esterno, tutti gli abitanti di Medina dovevano darsi reciproco aiuto. L’Editto fa già scorgere le discriminazioni delle future società mussulmane. I nemici erano al tempo i pagani (“politeisti”): essi si videro togliere le tradizionali protezioni fondate sui costumi tribali. Gli ebrei restavano liberi, ma con delle limitazioni, in caso di guerra. L’editto marca il passaggio dell’islamismo da una fase ancora difensiva ad una decisamente offensiva, in senso stretto, quello dell’impiego della forza all’esterno e della coercizione discriminante all’interno, verso i non-mussulmani, con varie gradazioni.
“L’editto – commenta sempre Nallino – è pure un documento prezioso dell’azione politico-militare che Maometto ormai si proponeva di svolgere nei riguardi della Mecca sua patria; poiché varie frasi mostrano ch’egli non aveva più di mira soltanto la difesa armata contro i persecutori, come nel patto di Haqaba, ma anche l’iniziativa di guerra ai suoi concittadini pagani; guerra per sé stessa parricida, ma da lui giustificata come avvenente per la causa di Dio. L’islamismo sta dunque per prendere l’offensiva, assumendo quel carattere aggressivo che per vari secoli non l’abbandonerà più, e di cui la dottrina della guerra santa è l’espressione teorica; Maometto a sua volta è ormai capo religioso, politico e militare ad un tempo”[26].
Diciamo da sempre che per i maomettani politica e religione sono la stessa cosa. Mi sembra che l’interpretazione dell’insigne studioso faccia comprendere assai bene le combinazioni che hanno portato a questo risultato, che deve tuttavia ritenersi, io credo, più che il prodotto di circostanze casuali genialmente sfruttate da Maometto dal punto di vista politico-religioso, lo sbocco inevitabile, progressivamente consapevole, del modo nel quale Maometto stesso aveva sin dall’inizio inteso la sua “missione” di profeta “nazionale” arabo. È da notare che egli iniziò l’opera “profetica” all’improvviso, in modo del tutto spontaneo, a conclusione di un periodo nel quale (secondo la tradizione) aveva sentito il bisogno di isolarsi più volte di notte negli anfratti delle aride colline intorno alla Mecca.Dopo un’iniziale tolleranza, la popolazione cominciò in maggioranza ad osteggiarlo, come era da attendersi. Ma non ci fu mai una vera persecuzione. Potè sempre parlare liberamente. Pianificò il suo trasferimento in una città dove era sicuro di avere una base di potere, civile e militare, sufficiente per poter costituire la sua “comunità di credenti” e da lì muovere alla conquista di altri territori. Quando “emigrò”, i coreisciti non tentarono di riacchiapparlo. Voglio dire: non mossero in armi contro il fedifrago, fu lui invece ad attaccarli, pur non provocato, cominciando quasi subito una guerra per bande, a base di imboscate, razzie contro le loro ricche carovane, terrorismo (eliminazione mirata e a tradimento di certi nemici mediante sicari). Una guerriglia, un vero e proprio brigantaggio, giustificati da che cosa, se non dal desiderio di rivalsa e conquista, paludato in roboanti dichiarazioni di star combattendo “sulla via di Allah” ossia per istigazione divina? Certo, un metodo di “evangelizzazione” alquanto diverso da quello predicato da Nostro Signore Gesù Cristo, Crocifisso e Risorto, che mandò gli Apostoli disarmati alla conquista spirituale dell’impero romano, armati solo della fede, confidenti solo nello Spirito Santo e nella verità eterna ed immutabile degli insegnamenti divini da Lui rivelati!
6. Inizio della guerra per bande contro i coreisciti ed emancipazione da ebraismo e cristianesimo
A Medina, “Maometto il profeta” entrò in crisi con il giudaismo. Gli ebrei lo accettavano come capo politico (non avevano scelta) ma si rifiutavano ovviamente di riconoscerlo come “inviato di Dio”, come autentico profeta. “A Medina Maometto aveva assunto senz’altro anche quel titolo di nabī “profeta”, che alla Mecca aveva applicato soltanto ai patriarchi e profeti dell’Antico Testamento, a Gesù Cristo ed a san Giovanni Battista; profeta, s’intende, nel senso semitico, cioè di banditore di verità religiose e di precetti morali ispirati da Dio, e non già nel senso volgare di predicente l’avvenire [alla maniera di àuguri ed indovini]. Anzi questa qualità di profeta, d’apostolo di Dio, era stata da lui messa come fondamento giuridico e morale della sua supremazia, come giustificazione della sua autorità sugli immigrati meccani e sui Medinesi; sicché il governo suo, affatto rudimentale da un lato, era concepito dall’altro come una perfetta teocrazia, analoga a quella di Mosè sugl’Israeliti”.
L’autoelettosi Profeta, non preannunciato in alcuno dei due Testamenti, non pretendeva che gli ebrei si convertissero, poiché, sottolinea Nallino, “era ancora convinto dell’identità sostanziale del suo credo con quello degli Ebrei e dei Cristiani”, naturalmente come da lui conosciuto e reinterpretato. Tuttavia voleva esser riconosciuto dagli ebrei come “l’apostolo arabo della vera fede, inviato da Dio agli Arabi”. Una simile pretesa, annoto ancora, dimostra quanto errata fosse l’idea che Maometto si era fatta della figura del profeta, che può esser solo quella delineata nell’Antico e nel Nuovo Testamento autentici. Per gli ebrei era inconcepibile che potesse sorgere un profeta al di fuori del popolo di Israele o un Messia che non fosse della stirpe di Davide; né potevano ammettere i riconoscimenti (sia pur distorti) di Maometto a Gesù e a san Giovanni Battista. Inoltre, “troppo evidenti erano infine i gravi errori di Maometto in materia biblica, perchè non dessero luogo a dispute incresciose ed a facili derisioni da parte degli Ebrei”. Non serviva a nulla accostarsi ai riti giudaici che veniva via via a conoscere, volgersi in direzione di Gerusalemme durante la preghiera rituale, celebrare il digiuno del Kippur, invitare, mediante “rivelazione”, suoi seguaci a discutere educatamente con gli ebrei, a dir loro: “il nostro Dio e il Dio vostro sono uno solo, ed a Lui siamo sottomessi” (sura 29, 45)[27].
L’astio nei loro confronti, che covava sotto la cenere, esplose violento una volta iniziate le sistematiche spedizioni militari per espandere lo Stato maomettano: ad ogni evento importante, eliminava una comunità ebraica della zona, confiscandone i beni, riducendola in semiservitù o servitù, o espellendola, finché giunse a sterminare tutti i maschi di quella più ricca di Medina.
Non mi addentrerò nelle vicende militari, se non riassuntivamente, per mostrare, tenendo Nallino quale principale punto di riferimento, come dal comportamento in esse tenuto da Maometto i mussulmani abbiano ricavato norme immutabili, tuttora valide, di diritto internazionale, sulla pace, la guerra, sul trattamento dei prigionieri, la ripartizione del bottino. Nallino mette molto bene in rilievo, meglio di altri autori, l’importante e singolare connessione, tipica dell’islamismo, tra “rivelazione” e diritto di guerra e di conquista.
Le prime imprese, con bande da 60 a 200 uomini, furono condotte quasi sempre dallo stesso Maometto. Non riuscirono a catturare le più ricche carovane dei coreisciti però “servirono a stringere accordi con tribù locali e ad allargare la zona d’influenza del nuovo Stato. Fu l’inizio di quella politica d’espansione militare e religiosa, che continuerà a caratterizzare l’islamismo per lunghissimo periodo di tempo, sino cioè all’età moderna”[28]. Ma ai pozzi di Badr, nel marzo del 624 AD, circa trecento mussulmani, aiutati anche dalle circostanze, nel Corano attribuite poi ad intervento divino, sconfissero circa 1000 coreisciti, catturando un ingente bottino. Non dev’esser stato un gran combattimento, se in tutto i morti furono un’ottantina. Importanti furono le conseguenze religiose e politiche derivate dalla spartizione del bottino.
“I dissensi a tale proposito furono fatti cessare da Maometto con un provvedimento di cui invano cercheremmo le tracce nel periodo meccano della sua vita, e che invece diverrà sempre più frequente nel periodo medinese: ossia mediante una rivelazione divina. L’argomento della divisione delle prede, che agli occhi nostri parrebbe del tutto profano, trovò quindi posto nel libro sacro dell’islamismo e divenne più tardi uno dei capitoli obbligatori nella trattazione della guerra santa per parte dei libri di diritto canonico; con esso si iniziò il fenomeno di una saltuaria e frammentaria legislazione emanante direttamente da Dio, che corre parallela a quella personale di Maometto e non ha riscontro fuori dell’islamismo”[29].
Maometto collegava di continuo politica e religione, facendo della prima un’emanazione della seconda. Ne risultava una sintesi formidabile dal punto di vista puramente umano del consolidamento e dell’esercizio del potere e della politica di potenza della “Comunità dei Credenti”. Questa sintesi fu lodata da Jean-Jacques Rousseau, nel cap. VIII : De la religion civile, del IV libro del Du Contract Social (1762), come esempio dell’agire di un geniale fondatore di Stati, che “lia bien son sistême politique”, eliminando a priori ogni dualismo tra religione e politica, sempre presente, invece, negli Stati cristiani. In effetti, possiamo dire che l’uso della religione fatto da Maometto a Medina costituisca un caso classico e di notevole successo di religio instrumentum regni.
“Il precetto a cui qui accenno – continua Nallino – stabilì che un quinto del bottino fosse riservato a Dio, ossia al suo apostolo, che l’avrebbe erogato a favore dei suoi parenti, a scopi di beneficenza pubblica e, implicitamente, nell’interesse generale dello Stato. La portata di siffatta disposizione fu assai maggiore di quel che possa sembrare a primo aspetto. Fino allora unico provento del Governo medinese erano state le elargizioni volontarie dei credenti, alle quali s’aggiungevano, nell’eventualità di guerre, contributi straordinari da parte di tutti i cittadini, musulmani o non; adesso a questo provento si aggiunse il quinto delle prede, stabilito da Dio medesimo come cosa normale, e si ebbe quindi il primo passo verso quell’ordine di idee che, facendo del bottino di guerra uno dei principali cespiti d’entrata della cassa di Stato, doveva spingere ineluttabilmente quest’ultimo sulla via dell’espansione militare. Vedremo più innanzi come altre disposizioni venissero in seguito a completare questo primo passo e a dare definitivamente all’islamismo un carattere aggressivo”[31].
L’accurata e penetrante ricostruzione di Nallino ci permette di scorgere l’emergere della violenza quale carattere costitutivo dell’islam, ontologico vorrei dire.
Con il prestigio acquistato dopo la vittoria di Badr Maometto potè cominciare a “rompere definitivamente con il giudaismo e con parte degli obblighi impostisi nell’editto di Maometto il Profeta”[32]. Quindi, un mese o due dopo la vittoria, con un futile pretesto, espulse il gruppo ebraico che occupava “il centro di Medina” e ne confiscò i beni. Nel campo spirituale “avvenne l’emancipazione di Maometto dal giudaismo e dal cristianesimo e quindi, di fatto, la nascita dell’islamismo come religione indipendente e a quelle antagonista. L’immensa importanza di ciò per la storia universale, sia politica che religiosa, esige che vi fermiamo la nostra attenzione”[33].
7. La costruzione dello “Abramo mussulmano” quale progenitore della monolatria di Maometto.
In quanto autoelettosi “profeta” degli arabi, per condurli alla fede nel Dio unico, Maometto aveva il problema di esser riconosciuto formalmente come profeta anche dalle altre due religioni monoteiste. Si trattava di una questione di legittimità: egli doveva esser accettato come profeta che si inseriva nell’autentica tradizione profetica, operante nell’Antico e nel Nuovo Testamento (per Maometto solo il Pentateuco e il Vangelo, come da lui conosciuti e intesi). Però era ovvio che, per quanto amichevoli potessero essere le discussioni con ebrei e cristiani, e sopra tutto con i primi a volte non lo erano affatto (lo si capisce dal Corano), né gli uni né gli altri potevano riconoscere quest’arabo scaturito dal nulla come profeta che completava la Rivelazione vetero e neotestamentaria. Oltretutto, per i cristiani, anche se afflitti dall’eresia come quelli disseminati in Arabia (c’erano monofisiti, nestoriani, ariani), non valeva pur sempre la verità di fede secondo la quale la Rivelazione si era chiusa con la morte dell’ultimo Apostolo? Era del tutto impossibile che, circa cinque secoli dopo ne venisse ora un altro. Costui, pur non essendo mai stato menzionato nelle Scritture, rifacendosi a modo suo al Vangelo (al-Ingîl), si dichiarava profeta, mandato agli arabi che finora erano stati esclusi dalla Rivelazione, secondo l’idea che Maometto stesso si era fatto di quest’ultima. Però, come si è detto, non dimostrava nessuno dei “segni” che contraddistinguono il vero inviato di Dio, il vero Apostolo, così riassunti da san Paolo nel difendersi dalle calunnie dei suoi nemici: “[…] non essendo stato io in nulla inferiore agli Apostoli per eccellenza, quantunque io sia un niente. Difatti i segni che fan distinguere il vero Apostolo, voi li avete visti verificarsi sotto i vostri occhi: una pazienza a tutta prova, miracoli, prodigi e opere di potenza” (2 Cr 12, 11-12). La tradizione popolare mussulmana attribuisce a Maometto migliaia di cose portentose e miracoli, ma si tratta notoriamente di leggende.
L’atteggiamento di ripulsa di ebrei e cristiani non poteva esser accettato da Maometto, anche per motivi politici e di potere.
“Com’era possibile – ritorno a Nallino – che i seguaci del monoteismo cristiano e giudaico, l’autorità dei quali era stata invocata da Maometto alla Mecca a proprio favore, negassero a Medina la verità della missione del profeta arabo monoteista? E d’altro canto, dopo le sue passate affermazioni intorno a coloro che, non Arabi, avevano ricevuto in addietro Scritture sacre da Dio, come avrebbe potuto adesso Maometto dichiarar falsa la religione degli Ebrei medinesi e vera soltanto quella da lui predicata?”[34]
Era appunto questo il dilemma nel quale si era cacciato Maometto. Se ebrei e cristiani avevano ragione, allora lui era un falso profeta. (Da questo dilemma comunque non si scappa nemmeno oggi: se lui è un vero profeta, allora è integralmente falso il cristianesimo ed è anche falso il giudaismo, da Mosè in poi). Ma come dimostrare che era lui Maometto ad aver ragione, nei confronti di ebrei e cristiani?
“Le nuove cognizioni bibliche, apprese al contatto con i Cristiani e sovra tutto con gli Ebrei di Medina, lo misero in grado di risolvere queste difficoltà. Nelle parti meccane del Corano la figura del “profeta” Abramo non aveva ricevuto maggior risalto che quella degli altri personaggi biblici; rimaneva anzi addietro a quella di Mosé e di Gesù, ricche di miracoli. A Medina Maometto venne a conoscere che Abramo, il restauratore del monoteismo, non solo è chiamato nella Bibbia l’amico di Dio, e dato come padre al popolo giudaico, il quale pertanto riceve il nome di “seme d’Abramo”, ma anche, secondo il Genesi, è il progenitore di varie popolazioni dell’Arabia di nord-ovest, sovra tutto attraverso la linea genealogica di suo figlio Ismaele. Apprese inoltre che Abramo era vissuto prima di Mosé, ossia prima della legislazione religiosa giudaica, e così pure prima di Gesù, ossia del cristianesimo. Conobbe infine che l’Antico Testamento annunzia la futura venuta d’un Messia, e che il Vangelo di san Giovanni fa predire da Gesù ai discepoli l’invio del Paracleto, dopo la sua propria morte, per istruirli ed assisterli. Da queste notizie Maometto trasse conseguenze inattese”.
Come si ricostruiscono le “conseguenze inattese”? Sopra tutto dall’analisi delle sure medinensi, che fanno appunto apparire un monoteismo “abramico” assente in quelle meccane, ad esse anteriori. A Medina Maometto si appropria di Abramo, facendone un “mussulmano”, l’esempio dello “abbandono incondizionato” a Dio che sarebbe la religione da lui Maometto predicata. Una spiegazione accurata dei termini “islam” e “mussulmano” può aiutare a meglio comprendere.
“Il nome poi della nuova religione, Islàm (non ìslam), che forma con il termine Corano un binomio inscindibile, venne dalla parola araba con la quale s’indicava un atteggiamento che, secondo il “suo” profeta, doveva costituire la posizione fondamentale d’ogni uomo nei riguardi di Dio: l’”abbandono incondizionato” (questo è appunto il significato di “Islàm”); i fedeli di tale religione potrebbero così dirsi in italiano, badando al senso, “oblati”. Dalla radice S L M, che forma il sostantivo ‘iSLāM (sarebbe, con maggior precisione grammaticale, un infinito), deriva altresì il participio MuSLiM, da noi tradotto con “musulmano” (con una sola esse)”. Tale traduzione, ci spiega l’illustre studioso, è venuta a noi attraverso il plurale persiano della parola: muslimān (mussulmano)[35].
Cosa significa allora mussulmano? “Colui che si è incondizionatamente abbandonato [a Dio]”, l’assolutamente sottomesso [a Dio]. Naturalmente, al Dio unico, antitrinitario predicato da Maometto, con la sua caratteristica “monolatrìa”, il Padrone di schiavi del Corano. Sottomesso al Dio del Corano non a quello della Bibbia, che noi sappiamo esser Uno e Trino. Si capisce allora perché Gesù sia considerato da Maometto un vero “mussulmano”, cosa che per noi cristiani è del tutto priva di senso. Gesù è visto come un semplice uomo, anche se dotato di poteri straordinari, che avrebbe predicato lo stesso monoteismo di Maometto (monoteismo che, secondo Maometto, sarebbe stato per l’appunto quello di Abramo); monoteismo “puro” occultato dai suoi malvagi discepoli, che avrebbero alterato il Nuovo Testamento, per invidia del profeta arabo. Gesù avrebbe rappresentato, come precursore di Maometto, un modello di incondizionata sottomissione al Dio unico, come di poi Maometto stesso, autoproclamatosi “sigillo dei profeti” e restauratore arabo in lingua araba del supposto monoteismo puro del vero “mussulmano” Abramo. La “sottomissione a Dio” che l’islamismo vuol essere, è pertanto costruita alterando i dati vetero e neotestamentari, e non solo per ciò che riguarda le figure di Abramo e di Nostro Signore.
“La religione che egli predica, afferma Maometto adesso, è quella d’Abramo, capostipite del popolo arabo, prototipo degli avversari del politeismo e dell’idolatria, non ebreo né cristiano, ma sottomesso ai voleri di Dio, cioè muslim “musulmano”. I successivi profeti hanno tutti calcato le orme di lui; quindi tutti i libri sacri da loro ricevuti sono veri e si corroborano l’un l’altro, così come essi alla loro volta sono corroborati o confermati dal Corano. V’ha di più: l’Antico Testamento (at-Tawrāh – la Torah) e il Nuovo (al-Ingil) preannunziano la venuta d’un apostolo che sarà chiamato Ahmad, cioè “lodatissimo”, sinonimo quindi di Muhammad “Maometto”. Perché dunque Ebrei e Cristiani non riconoscono ora l’apparizione dell’apostolo vaticinato nei loro testi sacri? Egli è che i loro capi malvagiamente occultano parte di ciò che le Sacre Scritture contengono; oppure ai testi rivelati apportano alterazioni che vorrebbero far risultare inesatti o falsi i racconti ed i precetti d’origine biblica contenuti nel Corano e che Dio stesso direttamente rivela al nuovo apostolo arabo. Così Maometto sfugge d’ora in poi alle obbiezioni fastidiose di Cristiani e di Ebrei, ed al tempo stesso allarga il piano della sua missione; giacchè questa non sarà più rivolta semplicemente a convertire i pagani arabi al monoteismo, ma anche a ristabilire nella sua primitiva purezza quella religione d’Abramo, che, predicata pure dai successivi profeti, era stata falsata dai moderni Ebrei e Cristiani”[36].
Questa la “pensata” di Maometto, l’impostura di genio, che gli permise di sbarazzarsi d’un colpo solo dei due monoteismi rivali. L’apostolo arabo, l’autoelettosi profeta, si poneva ora come il banditore del vero monoteismo, della fede di Abramo contro la vera Rivelazione, dell’Antico e Nuovo Testamento! Le tremende audacie di eresiarchi come Lutero o di scismatici come Enrico VIII d’Inghilterra, sono cosa da niente se paragonate all’ardire di un Maometto!
“Ormai il Corano osa imputare di politeismo le dottrine giudaiche a motivo della loro apoteosi di ‘Uzayr (Esdra), e quelle cristiane a motivo della credenza nella divinità di Cristo; ripetutamente dichiara che Dio ha inviato appunto il suo apostolo Maometto con la retta guida e la religione vera per far prevalere questa su ogni altra religione, a marcio dispetto d’ogni sorta di “politeisti”; annunzia infine che con Maometto “suggello dei profeti” si chiude la serie degli apostoli e delle rivelazioni di Dio a tutta l’umanità. D’ora in poi nel Corano la parola islām non si contrappone più al solo paganesimo, ma anche ai culti giudaico e cristiano; e l’islamismo cessa di essere una religione nazionale araba per assumere automaticamente carattere di universalità”.
L’islamismo ampliava enormemente il significato del suo nome sino a farlo diventare sinonimo di un’instauranda religione monoteistica universale, che voleva essere una restaurazione della purezza monoteistica primitiva (quella di Abramo) alterata dai malvagi ebrei e cristiani; falsificatori del Libro, e quindi infedeli, miscredenti anche loro, già dannati perché negatori della missione profetica di Maometto!
Il “rivolgimento” di Maometto, come lo chiama Nallino, comportò ampie riforme nel culto. I mussulmani smisero di volgersi verso Gerusalemme durante le loro preghiere pubbliche. Al digiuno ebraico sostituirono quello del ramadan, mese nel quale Maometto sembra aver ricevuto la prima “rivelazione”. Si elaborarono divieti alimentari più semplici di quelli in uso presso i giudei. L’innovazione più significativa riguardò tuttavia il pellegrinaggio, come si è detto praticato da tanto tempo verso il santuario pagano della Kaaba. Di nuovo Maometto fece intervenire Abramo, attribuendogli una visita alla “pietra nera” assieme ad Ismaele, visita della quale ovviamente non c’è traccia nella vita dell’Abramo storico, che resta sempre quello della Bibbia,
“Fra gli arabi politeisti che nell’età islamica accorrevano in pellegrinaggio al santuario della Mecca, sembra non mancasse qualche Arabo cristiano; certo è che nell’antica poesia, e perfino in quella di Cristiani del I secolo dell’ègira, c’imbattiamo in curiosi giuramenti fatti per la Ka’bah e per la croce ad un tempo. Non è dunque impossibile che, avanti l’islamismo, qualche Arabo cristiano avesse associato le tradizioni bibliche su Abramo ed Ismaele con il santuario della Mecca, e giustificato così la partecipazione ad un pellegrinaggio tipico del paganesimo. Tale idea bizzarra fu accolta da Maometto; ed ecco quindi il Corano proclamare, dal second’anno dell’ègira in poi, che il più antico santuario del mondo dedicato al culto del vero Dio fu la Ka’bah, costruita da Abramo, il quale da Dio stesso apprese i riti del pellegrinaggio e a Dio chiese carattere sacro per il territorio circostante, nonché agiatezza per i suoi abitatori, malgrado la desolazione del luogo. Di qui il precetto coranico, di cui non v’è traccia nella predicazione di Maometto alla Mecca: ‘Gli uomini debbono a Dio il pellegrinaggio al santuario [della Ka’bah] quando abbiano la possibilità d’andarvi”[38].
Questa fu, dunque, la seconda “pensata” geniale di Maometto e sempre utilizzando la figura di Abramo ai suoi fini.
“Ognuno vede le grandi conseguenze scaturenti da tutto questo. Rimase ancor più accentuato il distacco dal giudaismo e dal cristianesimo, ai cui luoghi santi venne sostituita una città araba, centro fino allora di culto pagano, i cui riti quasi barbarici accompagnanti il pellegrinaggio in vari punti del territorio della Mecca ebbero l’onore di venir quasi tutti assunti in blocco nella religione islamica”[39].
Nell’attuare il suo “rivolgimento”, Maometto giocò su due elementi: l’anteriorità di Abramo a Mosè e quindi alla legislazione mosaica; il fatto che Abramo sia stato il padre di Ismaele, considerato il progenitore degli arabi. Abramo poteva quindi ritenersi a sua volta “arabo”. E come risolse Maometto il problema per così dire “ermeneutico”, rappresentato dal fatto che le versioni coraniche di fatti vetero e neotestamentari notori, infarcite com’erano di errori, apparivano del tutto diverse da quelle canoniche? Basti pensare, per le fonti cristiane, alla “Maria, madre di Gesù” del Corano, definita “sorella di Aronne”, come se si fosse trattato della profetessa sorella di Aronne, il fratello di Mosé, vissuta circa dodici secoli prima di Cristo! Della rappresentazione del tutto assurda della S.ma Trinità, come se includesse “Maria, madre di Gesù” quale terza persona! Lo risolse in maniera molto semplice, come si è visto: ebrei e cristiani avevano falsificato i loro testi sacri, cancellando i riferimenti a Maometto e comunque modificando la rivelazione ricevuta, sempre in odio a Maometto! Così si spiegava perché i testi sacri non si “corroboravano” tra di loro, per realizzare una perfetta armonia con il Corano, come avrebbero dovuto[40]. Il Corano metteva, comunque, le cose a posto perché, come ultima rivelazione “fatta scendere” sul “sigillo dei profeti”, abrogava tutte le precedenti e si proponeva d’ora in poi come l’unico testo sacro per tutta l’umanità: nel Corano c’è tutto ed è tutto, tutto il mondo ha il dovere di abbracciarlo, con le buone o con le cattive (in realtà, soprattutto con le cattive).
Non sta né in cielo né in terra affermare che il Pentateuco e il Vangelo sono stati “falsificati”. E da chi, innanzitutto? Quando? Come? E che significa “falsificati”? Che insegnano cose malvage, il vizio al posto della virtù, o comunque una falsa rivelazione? Ma ce l’ha il Corano un testo paragonabile al Discorso della Montagna? O al “Padre Nostro”? O a tante pagine sublimi che si ritrovano nelle Lettere degli Apostoli o nei Profeti e in altri testi dell’Antico Testamento? E quale cristiano o scriba, nel VII secolo dopo Cristo, si sarebbe messo a modificare le Sacre Scritture man mano che lo sconosciuto Maometto veniva propalando la sua “rivelazione”, per farla apparire falsa?
Dobbiamo tuttavia metterci in testa che questa straordinaria ed inconcepibile liquidazione dei nostri Testi Sacri, perché sarebbero frutto di falsificazione, per i mussulmani è un autentico dogma di fede. Questa menzogna viene loro insegnata da bambini, quando imparano il Corano a memoria, sempre in arabo, anche quando non conoscono quella lingua. Noi cristiani, cosiddetto “popolo del Libro” assieme agli ebrei, per loro siamo malvagi, ispirati dal demonio (Iblis) perché falsificatori della vera Rivelazione e, per ciò stesso nemici di Allah. Meritevoli quindi di gravissima punizione: gli infedeli sono già tutti dannati e devono esser puniti anche in questo mondo, i mussulmani (in quanto comunità autoelettasi a “partito di Dio” (Hezbollah), che fa valere per supposto mandato divino “i diritti di Dio” nei confronti dei miscredenti) si considerano pertanto in diritto di disporre di noi, dei nostri beni, dei nostri territori, delle nostre famiglie, di tutto.
La tesi insensata della falsificazione delle Scritture merita, com’è logico, la dovuta attenzione ai fini di una doverosa confutazione; sopra tutto oggi, dopo che la Gerarchia, colpevolmente persa dietro le fumisterie ingannevoli e apostatiche del “dialogo”, si disinteressa del tutto di quest’aspetto dell’antagonismo dell’islam nei nostri confronti. Dico antagonismo a ragion veduta perché dottori ed intellettuali mussulmani continuano ad insistere sul punto, e quindi a metterci sotto accusa, senza trovare opposizione alcuna da parte cattolica. Tuttavia, per non interrompere il fluire del presente discorso, mi occuperò di questo importante quanto trascurato argomento nella parte del mio studio dedicata alla “cristologia” coranica.
8. L’espansione militar-religiosa dell’islam: obiettivi, metodi, principi.
Dopo la trasformazione della sua religione in un credo che si presentava come l’unica e vera “religione d’Abramo” da imporre a tutti gli uomini, la posizione di Maometto nei confronti della sua città natale venne di fatto a mutare, con logiche ripercussioni sul piano politico e militare.
“Il programma politico-militare sino allora seguito a Medina dal profeta si era limitato, come vedemmo, a tentare il blocco delle vie conducenti alla Mecca, per tagliare le comunicazioni dirette di questa con i grandi mercati della Siria, fonte precipua dell’opulenza coreiscita; questo programma modesto si mutò di necessità in altro assai più vasto e ardito: la conquista musulmana della Mecca”[41].
In termini strettamenti militari, da Medina, situata come si è detto a 350 km in linea retta a nord della Mecca, Maometto con le sue bande, applicando le tecniche della guerriglia (di fatto del brigantaggio di tipo beduino), era in grado di infastidire prima e di tagliare poi la via di comunicazione tra la sua città natale e la Siria. Il tipo di guerra che egli aveva scelto, e che con termine moderno chiamo guerriglia, si basa in effetti sulla cosiddetta “strategia dell’attacco indiretto”, volto cioè non alla ricerca della battaglia frontale in campo aperto (contro un nemico in genere superiore in uomini e mezzi) ma alla conquista graduale del territorio con una continua guerra di attrito, fatta di limitate ma frequenti incursioni, in modo da mettere alla fine in grave pericolo o addirittura tagliare le principali vie di comunicazione dell’avversario, per ridurlo all’impotenza o costringerlo (se del caso) a battaglia campale solo in condizioni finali di netta inferiorità.
“Le rive occidentali dell’Arabia consistevano di una pianura costiera di svariata larghezza. Dietro di questa si alzava una catena di aride montagne rocciose e da qui partiva il vasto altipiano che degradava dolcemente per circa mille km fino al Golfo Persico. Per raggiungere la Siria, le carovane meccane risalivano la pianura costiera, passando fra Medina e la costa del Mar Rosso – un tratto largo solo circa 120 km. I mussulmani di Medina erano così in grado di colpire i Meccani nel loro punto vitale: la linea di comunicazione commerciale con la Siria.
La strategia usata da Maometto nel 623-630 fu la stessa usata da Feisal e Lawrence nel 1916-1918. Nella prima guerra mondiale, i Turchi mantennero a Medina e alla Mecca forti guarnigioni che dipendevano per il loro sostentamento non da carovane di cammelli, bensí dalla ferrovia Medina-Damasco. Feisal e T. E. Lawrence si piazzarono a nord di Medina e cioè nella posizione più adatta a tagliare questa via di comunicazione con la Siria”[42].
Ma perché Maometto doveva occupare anche la sua città natale? Si trattava di un obiettivo imposto dall’intreccio di religione e politica creato da Maometto stesso.
“Islamizzando il pellegrinaggio alla Kaaba [rendendolo obbligo imposto dal Dio unico del Corano], Maometto veniva implicitamente a proporsi come sommo postulato religioso la liberazione di quel santuario dall’impurità del paganesimo; sicchè, agli occhi dei credenti, il piano mirante a sottomettere la grande città dello Higiaz non poteva più apparire soltanto come frutto di mire espansionistiche o di spirito di vendetta, ma anche, e sovra tutto, come un obbligo imposto da Dio medesimo. D’altro canto, facendo assurgere la Mecca a tanta nobiltà nella nuova religione, Maometto soddisfaceva al suo immutato affetto verso la città nativa ed insieme offriva ai coreisciti le basi d’una riconciliazione, la quale avrebbe conservato, ed anzi accresciuto, i vantaggi economici e morali di cui essi avevano avuto il godimento sino allora”[43].
I meccani, comunque, sul momento passarono alla controffensiva, spinti da un’impellente necessità perché le bande di Maometto erano riuscite nel frattempo a bloccargli ogni traffico. Nel marzo del 625 presso il monte Uhud i maomettani subirono una dura sconfitta, contro forze superiori (circa mille uomini contro tremila). Lo stesso Maometto, secondo la tradizione, ebbe due denti rotti e un colpo di spada di sghimbescio gli fracassò a mezzo l’elmo. I morti mussulmani furono tuttavia solo 75, quelli coreisciti 20. I coreisciti avrebbero potuto facilmente occupare Medina perché la schiera maomettana si era liquefatta, nascondendosi nelle grotte del monte. Ma si fermarono “a spogliare e mutilare i morti”, secondo i feroci e ancestrali rituali della vendetta tribale. Non era comunque nella mentalità araba del tempo effettuare campagne distruttive, occupare o distruggere città, annientare il nemico. Le tribù dell’Arabia centrale si sfidavano in una singola battaglia, che magari veniva ripetuta l’anno dopo, anche per anni, e in tal modo regolavano pro tempore conti e vendette. Si vinceva e si perdeva. I coreisciti si limitarono a prendersi la rivincita della sconfitta di Badr. Dopo la vittoria, se ne tornarono a casa, tra le eulogie dei poeti e il giubilo del gruppo di donne che ogni tribù si portava ad ogni battaglia, affinché incitassero i guerrieri alla pugna, con i loro caratteristici canti, tamburelli e ululati[44].
Maometto, invece, “combatteva per vincere ad ogni costo”, sottolinea lo stesso Glubb[45]. Aveva la determinazione assoluta di un vero capo carismatico, fornito per di più di innate capacità politiche. Non indietreggiava di fronte a nulla e sapeva dosare abilmente crudeltà e magnanimità, aspirazioni al cielo e ai beni di questo mondo. Sui suoi uomini aveva un ascendente assoluto[46].
Il Profeta non si perse d’animo. Intervennero subito versetti coranici a rimproverare per gli errori commessi e a promettere future rivincite e vittorie, nonché a dichiarare che chi moriva in battaglia “sulla via di Dio” sarebbe andato subito in Paradiso. “Per la prima volta un versetto coranico venne a proclamare che coloro i quali sono stati uccisi per la causa di Dio non sono morti ma vivi, provveduti d’ogni cosa presso il loro Signore, lieti di quel che Iddio per la sua generosità ha loro elargito”[47]. Maometto si rifece di lì a poco gettandosi sugli ebrei. Quattro mesi dopo la sconfitta, con un lieve pretesto, accerchiò “un secondo gruppo ebraico dell’oasi medinese, i Banu an-Nadir; ai quali, arresisi dopo poco senza combattimento, Maometto impose di sgombrare il paese, consegnando a lui gl’immobili tutti, le armi e quante altre cose non riuscisse loro di portar via subito a dorso di cammello”.
Per tacitare il mugugno dei seguaci, scontenti del fatto che tutto il bottino era andato all’”apostolo di Dio”, giunse un’opportuna “rivelazione celeste” che giustificava il suo comportamento. Si creò in tal modo, attribuendole origine divina, una seconda norma fondamentale, sulla semplice base della condotta del Profeta, “che – sottolinea Nallino – divenne poi la norma definitiva del diritto pubblico islamico per quanto riguarda il carattere demaniale delle terre prese senza combattimento agl’infedeli”[48].
Le terre prese con la forza agli ebrei (una vera e propria rapina) erano andate a Maometto non come individuo privato ma come Capo dello Stato islamico, quindi al pubblico demanio, per usare un termine moderno. Avevano “impinguato le casse dello Stato in modo insperato” in un momento di grave crisi, permettendo di sollevare il morale e la situazione economica difficile di molti immigrati meccani ospitati fino ad allora gratis presso famiglie medinesi; liberato il paese da una comunità che difficilmente si sarebbe convertita all’islam; terrorizzato tutti gli altri, specialmente i tiepidi, che erano molto probabilmente la maggioranza. La politica spregiudicata e cinica di Maometto, procurava vantaggi economici alla sua setta con l’uso sapiente delle confische, delle espulsioni, del terrore.
“Con febbrile energia Maometto ricostituì i suoi nuclei combattenti. Un anno dopo Uhud ecco le sue bande, spesso capitanate da lui medesimo, spingersi con audacia verso il nord, verso l’est, e, al sud, a poca distanza dal territorio meccano; ecco le vie carovaniere esser di nuovo malsicure.” Di fronte alla rinnovata minaccia, i coreisciti, alleandosi stavolta con due grosse tribù forestiere, comparvero di fronte a Medina con circa 10.000 uomini, un esercito enorme, per il luogo e i tempi. Ma un modesto fossato scavato attorno alla città per consiglio di uno schiavo straniero li bloccò[50]. Si persero in discussioni su come superare il fossato, che sembrava loro cosa complicata e nello stesso tempo indecorosa per veri arabi, abituati a battaglie frontali che si risolvevano in genere in un mulinare di combattimenti individuali. Mancava del tutto l’esperienza della guerra d’assedio ma è evidente che l’armata non aveva coesione e che non c’era gran voglia di battersi.
Lo studio delle lotte tra Maometto e la sua città natale fa vedere che il desiderio di battersi e di vincere, l’aggressività più spregiudicata era unicamente dalla parte del Profeta. Sua era sempre l’iniziativa, che profittava dell’apatia degli avversari, desiderosi solo di continuare a mercatare e di godersi la vita, al modo degli antenati. Quasi sicuramente non capivano le ragioni di tanta e animosa ostilità, il furore da posseduto che animava l’implacabile volontà di conquista del loro singolare concittadino. “L’apostolo di Allah” affascinava gli spiriti avventurosi e quindi parte consistente della gioventù, nonché l’elemento servile, con il suo messaggio di giustizia sociale (contro i ricchi, gli usurai, gli “ipocriti”) al servizio di un ideale guerriero e conquistatore di religione, che livellava i “credenti” nella servitù al Dio unico ma anche li affratellava, promettendo gloria in questo mondo e una splendida vita eterna, corposa e carnale. “O Dio! Non c’è altra vita che la vita futura! O Dio! Abbi misericordia di emigrati e aiutanti! [Allahumma la aish illa aish al akhra!/ Allahumma irham al Ansar wa al Muahjira!]”, cantavano nelle loro metalliche rime gli Ansar o “emigrati” con lui dalla Mecca e i Muahjira o “aiutanti” ossia i primi convertiti medinensi, costituenti entrambi il nucleo dell’islam primitivo, quelli che sapevano recitare tutto il Corano a memoria, i “duri e puri” della prima ora, tratti dalle città, non dalle tribù beduine[51].
Il rutilante messaggio politico-religioso di Maometto veniva indubbiamente a colmare un vuoto spirituale al tempo diffuso nell’ambiente cittadino, un bisogno di maggior giustizia sociale, un desiderio d’azione, tutte cose che la società preislamica dell’ arretrata e semibarbara Arabia centrale non era in grado di garantire, evidentemente.
Il parallelo corre istintivamente all’oggi. Vediamo l’islamismo attrarre seguaci anche nell’Occidente decadente, immerso nel vuoto spirituale e nella deboscia. Non credo si tratti solo della relativa “semplicità” del suo credo e della sua morale, dovuta anche all’assenza di un clero, di un autentico culto, di una dogmatica dedicata alla spiegazione dei divini misteri della vera Rivelazione, di una teologia morale. Credo dipenda, piuttosto, dalla sua accattivante sintesi di ugualitarismo e senso dell’autorità, sensualità e spiritualità; garantita, giustificata questa sintesi dalla fede nell’assoluta trascendenza di Dio: l’eccelso, il dominatore, il padrone, l’onnisciente e onnipotente, il vittorioso il cui comando impone di conquistare tutto il mondo (“La spada è la chiave del Paradiso – Una spada è testimonio sufficiente” – ha proclamato “l’Apostolo” di questo Dio). L’islamismo, religione del Dio unico abissale e nello stesso tempo religione carnale (come è stato detto), attrae, inoltre, anche perché il suo credo restaura in modo marcato il principio d’autorità, completamente svanito in Occidente, senza il quale né la pace dell’animo né vita associata accettabile è possibile. E lo restaura in particolare nei confronti delle donne, sottoposte da quel credo a ingiuste sudditanze, che oggi appaiono comunque un male minore rispetto ai costumi liberissimi e corrottissimi delle donne occidentali, una delle cause principali della decomposizione in atto; donne che hanno fatto strame del matrimonio, della famiglia, della legittima procreazione, e di tutte le tradizionali virtù femminili (architravi di popoli e civiltà) a cominciare dalla modestia e dal pudore; possedute come sembrano queste donne (a grande e giuliva maggioranza) dallo spirito di fornicazione, dal delirio di onnipotenza, da una innaturale avversione per la mascolinità e la virilità. Nell’ambito della famiglia la donna mussulmana, nonostante sia sottoposta a rigide limitazioni, gode comunque di dignità, autorità, rispetto e non è priva di tutela[52].
Questo Dio senza volto, che nel Corano mai compare, nemmeno indirettamente e nemmeno nell’al di là, risultando alquanto vago il concetto di una “visione beatifica” (vedi supra); che resta sempre una voce che risuona imperiosa e persino spietata nelle tenebre, la voce di un Dio che si proclama “creatore” senza però esser “il Padre nostro”; questa divinità enigmatica, impenetrabile, inaccessibile e tuttavia sovrastante ed incombente, attrae nonostante tutto anche la componente mistica, la fame di assoluto nelle anime che la provano e non la trovano più dove dovrebbero, nel cristianesimo, ridotto nelle condizioni inani e comatose che sappiamo.
L’attrazione per l’islam, in concorrenza con quella della multiforme “spiritualità orientale” e del neo-paganesimo, riempie anche qui un vuoto, l’autentica voragine rappresentata dalla Chiesa cattolica di oggi, da troppo tempo in decadenza spirituale, morale, di fede, di costumi, di cultura, di temperamento, la cui pastorale (tranne poche eccezioni, ma non possiamo consolarci con esse) appare purtroppo sempre più succube dell’ideologia del “politicamente corretto” dominante, anche la più perversa, e quindi non più orientata alla conversione e alla salvezza delle anime, al trascendente, al divino, alla vita eterna, quella vera, rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo. Riempie in qualche modo, l’islam, anche il vuoto rappresentato dalla autodissoluzione edonistica e nichilistica del pensiero laico contemporaneo, filosofico, scientifico, estetico; desertificazione spirituale che ha assunto proporzioni drammatiche anche per quanto riguarda la produzione artistica, dalle arti figurative alla letteratura al cinema, ove spadroneggia, con poche eccezioni, ciò che è perverso, osceno, deforme, blasfemo, turpe, volgare. L’architettura si compiace di forme oblique, sghimbescie, contorte, comunque paradossali e di voluminosità massiccie, sgraziate, brutali, come se il pensiero avesse rinunciato a plasmare la materia nella costruzione e si lasciasse dominare da essa. In questo clima torbido, nel quale l’individuo immerso nella massa si trova senza la vera religione e posto in antitesi con la sua Patria, con la Nazione, che (gli si dice) deve esser “superata” nell’umanità in marcia verso l’unificazione nella democrazia universale, l’individuo si trova abbandonato a se stesso, senza più certezze, valori, esposto alla propaganda dell’islam, che appare più agguerrita rispetto a quella delle altre false religioni e pseudo-religioni pullulanti per ogni dove.
Un altro aspetto angoscioso dell’analogia con il lontano passato è rappresentato dalla situazione militare. Gli eserciti arabi maomettani dimostrarono notevoli capacità: tuttavia, senza il reciproco esaurimento sociale e militare dei due grandi imperi che essi aggredirono, il bizantino e il persiano, sfiniti dai venticinque anni delle ultime loro guerre, mai sarebbero riusciti a compiere conquiste tanto rapide e in così breve tempo. Oggi, l’avanzata dell’autoproclamato califfato dell’ISIS, che, già con il rispolverare questo titolo (cancellato dai mongoli nel 1258, con l’occupazione di Bagdad e lo sterminio degli ultimi Abbasidi), si richiama proprio alle grandi conquiste iniziali dei mussulmani, non sarebbe possibile senza la divisione interna dell’Occidente e la sua notoria debolezza militare, provocata a sua volta dalla decadenza morale e sociale generale.
Ma torniamo alle Guerre del Profeta.
“Una serie continua di piccole incursioni partiva da Medina e dai suoi alleati beduini contro le tribù amiche dei Coreisciti. Quegli individui che si dimostravano pericolosamente contrari ai Musulmani o all’Apostolo venivano assassinati con metodi che potremmo definire terroristici. (Circa a quest’epoca Maometto mandò un uomo alla Mecca per uccidere Abu Sofian [uno dei capi, a lui ostilissimo], ma il piano fallì). La predicazione, le uccisioni e la propaganda procedevano simultaneamente allo scopo di conquistare nuovi proseliti”[53]. Questo modo di “predicare” e “diffondere” l’islam delle origini, non ci ricorda qualcosa di ancora perfettamente attuale, nell’AD 2015? Forse che i metodi dell’Isis, l’autoproclamato “Stato islamico” sono diversi?
“Il capo della tribù dei Beni Lahyan, che si era dimostrato ostile al Profeta, venne assassinato e la sua testa fu portata a Maometto a Medina. Ma sei Musulmani furono poi catturati per rappresaglia: quattro di essi vennero uccisi dai Beni Lahyan e agli altri due, Zeid e Khubaib, venduti ai Coreisciti affinché i parenti dei caduti a Badr potessero vendicarsi su di loro [erano le crudeli leggi tribali della vendetta]. I Musulmani considerano Zeid e Khubaib loro martiri. Mentre i Meccani lo legavano a un palo, Khubaib gridò: “O Signore, osserva questi uomini uno ad uno e distruggili completamente. Che nessuno possa sfuggire!”. Quando le due vittime furono solidamente legate, vennero date lance ai bambini degli uomini morti a Badr affinché contribuissero ad ucciderli”[54].
Dopo la grande vittoria difensiva rappresentata dal fallimento dell’assedio di Medina (febbraio del 627), Maometto eliminò, questa volta sterminandola, la terza e ultima comunità ebraica medinense, la più ricca e influente, i Beni Quraidha, composta di agricoltori, come la seconda, mentre la prima era di artigiani, orafi e fabbricanti d’armi.
“Ed il giorno stesso della partenza dei nemici, o l’indomani, Maometto, nella baldanza del successo ottenuto, si getta all’improvviso sulle dimore dell’ultimo gruppo ebraico che ancora risiedeva nell’oasi di Medina, e che negli ultimi giorni dell’assedio aveva tenuto un contegno sospetto di eccessivo favore verso gli assalitori. I miseri si arrendono a discrezione dopo 15 o 25 giorni; gli uomini, da 600 a 900, vengono tutti decapitati senza pietà, le donne e i bambini venduti come schiavi, l’introito della vendita e il bottino divisi secondo le solite regole, gli immobili (case e palmeti) spartiti per un quinto a Maometto e per quattro quinti tra le famiglie musulmane. Ed una rivelazione coranica celebrò anche questo arricchimento considerevole dei fedeli come voluto da Dio. Medina, col suo territorio, fu così sbarazzata completamente dagli Ebrei; le comunità giudaiche delle oasi settrentionali del Higiaz furono pervase dallo spavento; ed il posteriore diritto pubblico islamico ebbe la base principale per la norma che è lecito al capo dello Stato di far uccidere i prigionieri di guerra non musulmani, maschi e capaci di portare le armi, siano essi combattenti o non”[55].
Questa “norma” non fu ricondotta direttamente ad una “rivelazione”. Tuttavia, essa era stata sanzionata da Maometto e ciò bastava per farne un principio giuridico di origine divina. È la “norma di diritto pubblico mussulmano” nei tempi recenti più volte spietatamente applicata dall’ISIS. Si noti l’efferatezza del principio: coinvolge anche il maschio adulto che non era combattente purché capace di portare le armi. In questo modo si può giustificare come voluto da Allah lo sterminio dell’intera popolazione maschile di una tribù o di un popolo, contro i quali si sia combattuto, con la sola eccezione dei vecchi decrepiti e dei bambini piccoli[56]. Naturalmente, i comandanti mussulmani vittoriosi non sono obbligati ad applicare una norma del genere. Storicamente, ora l’hanno applicata, ora no. I terroristi dell’ISIS vi sono ricorsi largamente. Ma è indicativo del carattere intrinsecamente violento e sanguinario dell’islamismo che esso autorizzi (come proveniente da Dio) un simile comportamento, non validamente controbattuto dagli incitamenti al perdono che si trovano nel Corano, accanto a quelli alla vendetta, considerata cosa legittima. “Di’ a quelli che credono, che perdonino a quelli che non credono nei giorni di Dio, istituiti per retribuire gli uomini per ciò che avranno operato” (sura 45 o della genuflessa, 13, meccana). Bisogna perdonare ai miscredenti, che non credono “nei giorni di Dio”, ossia nel Giudizio finale. La vendetta privata è lecita se proporzionata all’offesa ricevuta, tuttavia cosa migliore è perdonare e riconciliarsi con chi ci ha ingiuriato e offeso[57]. Ma del “perdono” ai miscredenti poi non si sarebbe più parlato ed anzi Maometto avrebbe instaurato una prassi del tutto opposta, come si è visto, mentre sarebbe rimasto il primato spirituale del perdono sulla vendetta per le offese private tra mussulmani.
Le conseguenze della “battaglia del fossato” e del susseguente sterminio degli ebrei di Medina furono di vasta portata. La volontà di resistenza dei meccani cominciò rapidamente a cedere. Devono esser intercorsi dei contatti segreti, ragion per cui fu concesso a Maometto di recarsi in pellegrinaggio alla Kaaba con una scorta di suoi fidi. Non era quello solenne (hajj) “legato alla data fissa dell’ultimo mese dell’anno arabo” ma solo “la visita solenne (῾umrah) possibile in qualsiasi momento e per la quale i quattro mesi sacri, in cui l’antico costume arabo vietava di combattere, sembravano porgere ai Mussulmani sufficiente garanzia d’immunità”[58].
La “visita solenne” ebbe luogo nel febbraio-marzo dell’AD 628, sesto dell’ègira. Maometto e circa 1500 seguaci, armati di sole spade, giunsero al confine del territorio sacro, in un luogo chiamato al-Hudaybiyah. Nacquero però difficiltà e discussioni, e i musulmani temettero ad un certo punto un’imboscata. Non fu concesso a Maometto di fare la “visita”. In compenso, egli firmò un trattato che stabiliva una tregua di dieci anni “e per l’anno seguente e i successivi garantiva a lui e ai suoi seguaci il libero pellegrinaggio col permesso di rimanere tre giorni nella città”[59]. I seguaci non erano contenti di questo risultato, che sembrava loro una sconfitta. Tuttavia successive rivelazioni presentarono il trattato come una grande vittoria per i mussulmani. Si trattò, in effetti, di una vantaggiosa ed importante mossa politica sulla via del ritorno trionfale alla Mecca.
8.1 Mai la pace ma solo tregua (armata) con gli infedeli, sino alla vittoria finale.
Questo episodio, remoto e secondario, presenta tuttavia una fondamentale importanza anche per noi cristiani. Ed anzi, per tutti i non-mussulmani. Per qual motivo? Perchè il “trattato di al-Hudaybiyah” costituisce “il fondamento della posteriore norma giuridica che non ammette tregue con infedeli concluse per un periodo maggiore di un decennio”[60]. Questa norma costituisce un altro principio fondamentale del “diritto pubblico mussulmano”, un diritto, come ormai sappiamo bene, nel quale non si distingue tra legge umana e divina: le norme che reggono la Comunità dei Credenti, sono tutte in modo diretto o indiretto di origine divina, sono il decreto di Allah che si attua a beneficio dei Credenti in questo mondo, quelli che Egli ha creato per volerli “ben guidare” e portare alla vittoria[61]. Questa norma significa che, se allo scadere dei dieci anni, la guerra contro l’infedele non viene ripresa, la tregua si intende tacitamente rinnovata. Lo stato di guerra contro l’infedele deve allora considerarsi permanente, se con esso possono aversi solo tregue, al massimo decennali e rinnovabili o prolungabili a causa delle circostanze, ma mai può aversi una vera pace. L’obbligo dello “sforzo sulla via di Dio” ovvero della “guerra santa”, spiega l’illustre Bernard Lewis, “non conosce limiti di tempo o di spazio, esso deve protrarsi finché il mondo intero non abbia accolto la fede islamica o non si sia sottomesso al potere dello Stato islamico. Finché ciò non avvenga, il mondo resta diviso in due: la ‘Casa dell’Islam’ (Dār al-Islām), dove prevalgono potere musulmano e legge dell’Islam, e la ‘Casa della Guerra’ (Dār al-Harb), inglobante tutto il resto. Tra le due vige uno stato di guerra moralmente necessario, legalmente e religiosamente obbligatorio, fino al trionfo finale e inevitabile dell’Islam sulla miscredenza. Secondo i testi giuridici tale stato di guerra può esser sospeso, se necessario, da un armistizio o da una tregua di durata limitata; non può concludersi con una pace, ma solo con una vittoria finale. Guida del jihād è il sovrano o il governante dello Stato musulmano. In epoca classica, ciò voleva dire il califfo; più tardi vuol dire qualsiasi sultano o emiro in carica”[62].
La verità è una sola: l’islam si considera da sempre in stato di guerra permanente contro di noi (contro tutto ciò che non è mussulmano) e le dichiarazioni ripetute di leaders politici e religiosi occidentali, comprese quelle del Papa regnante, Francesco, sulla natura intrinsecamente “pacifica” del “vero Islam”, servono solo a nascondere la realtà, ingannando i popoli e i fedeli.
Lo stato di guerra permanente contro il resto del mondo un tempo era attuale, ovvero perennemente in atto a causa della grande rapidità delle conquiste maomettane iniziali; successivamente – sottolinea Lewis – ha acquisito una dimensione tendenzialmente messianica (ma oggi, aggiungo, con l’espansionismo dell’ISIS, la presenza di forti comunità mussulmane in costante aumento nell’ Europa in piena crisi demografica e di valori, le grandi ricchezze fornite dal petrolio, si è tradotto di nuovo “in atto”).
“Certi propositi [dell’epoca delle grandi conquiste iniziali] riflettono ben chiara la convinzione che il compito, prescritto da Dio, di propagare l’Islam in tutto il mondo, si trovi già nella sua fase conclusiva. Viene citato il Profeta: “Conquisterete certamente Costantinopoli. Beati l’emiro e gli eserciti che se ne impossesseranno”. In un’altra Tradizione [hadith], di vecchia data ma senz’altro apocrifa, il Profeta va oltre, e predice che l’imminente caduta di Costantinopoli sarà seguita da quella di Roma”[63].
È evidente che il concetto mussulmano della “pace” non corrisponde al nostro. Ciò risulta anche dall’uso linguistico. Lo spiega molte bene il citato prof. Lewis.
“La parola araba più comune per ‘pace’, ampiamente nota in molte altre lingue, è salām [ital., salamelecchi, ebr. Shalom], che occorre spesso nel Corano, e figura nella lingua quotidiana di praticamente tutti i musulmani. Tuttavia, essa si trova associata a significati preminentemente non politici. Nell’uso musulmano, salām significa ‘pace’ sia in questo mondo, dove vale ‘tranquillità’, sia nell’altro, dove vale ‘salvezza’; figura nella forma di saluto più comune, salām ῾alay-kum, ‘la pace sia con voi’, e la connotazione tipica è assai chiaramente espressa dalla frequente associazione, in tali casi, con la misericordia e la benedizione divina. Vi sono testi, pretese lettere del Profeta agli ebrei di Maqna e ai cristiani di Ayla, che si concludono così, ma già in antico finì per essere universalmente accettato il principio secondo cui il saluto con salām si dovesse usare solo tra musulmani, e che altre forme dovessero essere adottate, se necessario, in discorsi o scritti rivolti a non musulmani. Nel linguaggio diplomatico, salām si usa sempre parlando tra musulmani, anche in stato di guerra, mai parlando a un governante non musulmano anche alleato”[64]. La pace dunque “sia con voi”, ma solo tra di loro, mai con noi, esclusi dalla vera “pace” in quanto infedeli. Ciò conferma che i mussulmani non si sentono affatto fratelli dei non-musulmani. E come potrebbero, visto che Allah, pur dichiarandosi Creatore, non è Dio Padre Nostro? Certamente l’imam invitato alcuni mesi fa da Papa Francesco alla farsesca preghiera della pace nei Giardini Vaticani, unitamente ad un rabbino, non la pensava in modo diverso dagli altri mussulmani. Invocare una vera pace mondiale assieme agli infedeli, sarebbe stato per lui cosa contraria alla sua fede, un’eresia.
8.2. Il finanziamento della “guerra santa” e la conquista della Mecca, trasformata manu militari in città santa della nuova religione
Di ritorno da al-Hudaybiyah, Maometto si diresse con le sue schiere non a Medina ma “contro la magnifica ed ampia oasi giudaica di Haybar, a circa 120 km in linea retta a nord di Medina, e fece promettere da Dio ai suoi ampie prede quali “segno [da parte di Dio] per i credenti”. Questa volta gli ebrei opposero resistenza ma senza successo. Nello spazio d’un mese circa i singoli castelli furono espugnati con perdite insignificanti da parte dei Musulmani, e la popolazione costretta a capitolare abbandonando ai vincitori un enorme bottino di beni mobili ed accettando l’imposizione di continuar la coltura dei campi e dei palmeti, e di versare in perpetuo all’erario musulmano la metà dell’annuo raccolto. Ebbe in compenso la libertà di culto”[65].
Puntualmente, ad ogni azione militare di rilievo, fausta od infausta che fosse, seguiva dunque la sottomissione e spoliazione di una comunità ebraica della penisola arabica, in un caso sanzionata dalla strage dei maschi. Si trattava di comunità tra loro isolate e quasi indifese, tutte prese dai loro lavori e traffici, che mai pensarono ad unirsi contro il comune nemico. Da parte di Maometto sembra evidente la presenza di un disegno politico preciso, sostenuto sempre dalle rivelazioni di Allah. Nell’attuarlo il Profeta traeva delle regole che sarebbero poi diventate caposaldi della “guerra santa” e del trattamento da infliggersi agli infedeli, in quanto tali.
Le misure delle quali furono vittime gli ebrei di Haybar, lasciati in vita in condizione di servitù, “non erano dettate da particolare sentimento di tolleranza, ma dall’impossibilità di provvedere altrimenti alla coltivazione delle terre”. Pertanto, tali disposizioni “divennero poi la base delle norme di diritto islamico per regolare la natura della proprietà fondiaria nei territori conquistati fuori d’Arabia e la situazione giuridica dei sudditi cristiani od ebrei dello Stato musulmano. Nè è da tacersi che i lauti proventi del territorio di Haybar costituirono più tardi il nucleo dei fondi di guerra per le prime grandi conquiste islamiche dopo la morte di Maometto”. Le altre due “colonie giudaiche” dell’Arabia settentrionale, anch’esse del tutto agricole, “subirono immediatamente la stessa sorte di Haybar”[66].
Ecco quindi i liberi coltivatori ebrei dell’Arabia perdere tutto e diventare dei “protetti” del generoso dominatore islamico, che avrebbe potuto naturalmente tagliar loro la testa per decreto divino, preesistente dai tempi dei tempi nella “madre del Libro”, se le terre non avessero a causa di ciò corso il rischio di andate in rovina. E come a loro, capiterà poi molte altre volte ai cristiani, conquistati dai mussulmani nelle loro guerre di aggressione.
Merita un approfondimento l’accenno di Nallino ai “lauti proventi” derivati dall’incameramento delle terre e dei beni degli ebrei, grazie ai quali i maomettani poterono poi procedere al finanziamento delle loro prime campagne militari in grande stile. La ricostruzione di questa forma di “finanziamento” è stata fatta con precisione dal grande islamista italiano, Leone Caetani, duca di Sermoneta (1869-1935) nei suoi monumentali dieci volumi degli Annali dell’Islam, purtroppo da lui interrotti anzitempo, comprendenti la raccolta e il vaglio critico di tutti i documenti originali rintracciati per i primi quarant’anni dell’era mussulmana.
“Le nuove acquisizioni territoriali di un genere che oserei definire “coloniale”, rappresentavano inoltre un vero eldorado per un ambiente di miserabili quale era quello delle bande musulmane. Il Caetani calcolò in 32.000 quintali di datteri e cereali la rendita annuale del Profeta dell’Islàm da queste oasi [quelle ebraiche appena menzionate], il che vuol dire, sulla base di un consumo trimestrale di due quintali a testa, la possibilità di mantenere 4.000 uomini [armati] all’anno. Fu una vera potenza finanziaria che passava nelle mani del Profeta dell’Islàm, uno strumento validissimo – come osserva lo stesso Caetani – per aumentare la sua potenza militare e per comperarsi la sottomissione di molti spiriti avventurosi, che affluivano a Medina da ogni tribù dei dintorni. ‘Questi furono i mezzi – egli continua – che più contribuirono alla diffusione dell’Islàm in Arabia. Le aride steppe d’Arabia sono il territorio più sterile per teorie teologiche, e senza l’aiuto materiale di tante ricchezze e senza l’influenza militare e morale che esse davano al Profeta, l’Islàm non sarebbe mai riuscito vincitore del paganesimo antico”[67].
Il “paganesimo antico” dei meccani cominciò a vacillare in modo irreparabile dopo gli ultimi sviluppi militari e in seguito all’aggravarsi delle ristrettezze economiche prodotte dalla guerriglia maomettana nei loro confronti.
“Uno Stato senza autorità suprema saldamente costituita, senza validi mezzi coercitivi contro i malcontenti, colpito nelle finanze dall’interrotto e turbato commercio carovaniero, come poteva a lungo resistere ad uno Stato teocratico, guidato da persona energica, di larghe vedute, che disponeva di rivelazione celesti per imporre il suo volere ai dubbiosi e recalcitranti, che ai suoi fidi offriva spoglie opime in nome di Dio e che per i suoi meravigliosi successi militari vedeva ogni giorno crescere seguaci e territori?”[68].
I “successi militari” erano ottenuti sopra tutto contro gli indifesi ebrei e le mal scortate carovane meccane, o grazie al terrorismo praticato contro le tribù beduine che si mantenevano ancora ostili. Poche le vere battaglie. Tuttavia, i successi c’erano e l’onda mussulmana montante sembrava ormai inarrestabile.
“La posizione eccezionale fatta ormai alla Ka῾bah, ed ai luoghi santi finitimi, nella nuova religione, non era forse un argomento formidabile in favore di chi vedeva la salvezza e l’incremento della prosperità della Mecca nell’annessione di questa allo Stato musulmano? Le defezioni al paganesimo si fecero quindi più frequenti; e due mesi dopo il ritorno di Maometto a Medina [dopo aver fatto un’altra visita pia alla Kaaba, accompagnato da circa 2000 uomini armati] passarono all’islamismo i due migliori capitani che la Mecca possedesse: ῾Amr ibn al-Ash, il futuro conquistatore dell’Egitto, e Khalid ibn al-Walid, il futuro soggiogatore musulmano della Siria e della Palestina”[69].
Ormai lo Stato del Profeta cominciava ad allargarsi a macchia d’olio nella penisola arabica, estendendosi in ogni direzione e avvicinandosi sempre più ai confini dei domini bizantini.
“Tribù arabe lontane cominciavano a venire per far atto di sottomissione, accettando l’islamismo nel senso d’abbandono di pratiche pagane e di riconoscimento dell’autorità politica di Maometto, con l’impegno di passare a questi ogni anno un determinato tributo”[70]. In tal modo gli introiti dello Stato aumentavano e cresceva enormemente il prestigio del suo Capo. Con le spalle coperte dal trattato di al-Hudaybiyah, Maometto mandò una spedizione contro i confini meridionali dell’impero bizantino (629 AD). A Mota, villaggio dell’odierna Giordania meridionale, tremila mussulmani, dopo una violenta quanto suicida carica frontale, furono sconfitti dagli arabi cristiani che combattevano con i bizantini, rafforzati dalla locale guarnigione imperiale, e dovettero ritirarsi, riuscendo però a mantenere un certo ordine[71].
Ormai la conquista della Mecca era matura. Prendendo a pretesto un incidente minore, Maometto dichiarò che era stata violata la tregua stipulata con la sua città natale. Rivelazioni coraniche incoraggiarono i titubanti. Radunò una forza che per via si ingrossò sino a diecimila uomini, con la quale entrò trionfalmente nella città dopo aver sostenuto qualche irrisorio scontro, ai primi di gennaio dell’anno 630, otto anni dopo essersene separato. Proibì ogni saccheggio, “con amara delusione di non pochi Medinesi e sovra tutto delle cupide milizie beduine. Quasi senza eccezione gli abitanti si convertirono, almeno esteriormente, all’islām; mentre l’oligarchia degli ottimati meccani scompariva ad un tratto, per far posto alla monarchia assoluta e teocratica dell’antico orfanello, obbligato otto anni prima a lasciar la città”[72]. Il “profeta armato” aveva dunque vinto[73]. Nallino ricorda anche l’amnistia “quasi generale” oculatamente accordata nella circostanza da Maometto. Tuttavia, aggiungo, egli fece condannare a morte dieci persone, quasi tutti poeti e poetesse; suoi nemici personali, che lo avevano malignato e offeso in versi (vedi supra), anche se poi ne perdonò alcuni, che si convertirono, onde i giustiziati sarebbero stati solo sei, tra cui una o due donne. Poca cosa, si dirà, data la situazione e gli usi del tempo. Ma l’odiosità e l’ingiustizia di queste condanne a morte restano, non sanate dal loro numero esiguo.
Alla “conquista della Mecca”, come venne chiamata, seguì immediatamente il pellegrinaggio con le relative cerimonie attorno alla Kaaba. In quest’occasione il Profeta “purificò tosto la città da ogni traccia di culto pagano, ordinando la distruzione di tutti gl’idoli”, che comunque non dovevano esser molti[74]. Nallino non lo ricorda, ma probabilmente da questa distruzione deriva la norma (che forse possiamo includere nel “diritto pubblico mussulmano”) alla quale si ispirano oggi i fanatici dell’ISIS, nel distruggere per quanto possibile “ogni traccia di culto pagano”, come si è visto in più occasioni, in ultimo a Palmira, con l’aggiunta della barbara esecuzione del povero archeologo siriano direttore del sito. E al “culto pagano” essi equiparano anche le chiese cristiane, come si è visto, dato che, secondo il Corano, anche i cristiani devono considerarsi “politeisti”! Nel Corano si dice che gli idoli sono “legna per la gehenna” (sura 21 o dei profeti, 98), e le “pietre ritte” una “abominazione” (5 o della tavola imbandita, 92). Vanno perciò distrutti, sull’esempio di quanto ha fatto il Profeta. Questa iconoclastìa si innesta sul divieto incondizionato di riprodurre esseri viventi, con l’esclusione di alberi, piante, oggetti inanimati, e di possedere tali immagini[75]. La riproduzione dell’essere vivente suonerebbe offesa a Dio che l’ha creato, l’essere vivente; sarebbe come un tentativo di superare in qualche modo l’invalicabile abisso che separa il tenebroso Dio unico del Corano dall’uomo e dal mondo. Un divieto esplicito in tal senso non si ritrova nel Corano, così come non v’è un chiaro obbligo alle donne di portare il velo. Però questa è stata la norma che i rigoristi hanno imposto sin dall’VIII secolo d.C. Tale produzione d’immagini deve ritenersi “addirittura illecita nel caso di raffigurazioni plastiche che proiettino ombra; soltanto in paesi europeizzati (come l’Egitto a partire dall’ultimo trentennio del sec. XIX) l’avversione alle statue si può considerare vinta”[76]. Invece, i Talebani e i terroristi dell’ISIS hanno dimostrato che non è stata affatto vinta e che gli zeloti dell’islamismo ne sono ampiamente posseduti.
Compiuta la conquista della Mecca, il Profeta mantenne la capitale del suo Stato a Medina, molto più conveniente, come sito. Completò la sua “riforma” del culto, escludendo definitivamente (dall’anno successivo) i pagani dal pellegrinaggio alla Kaaba. Finché non fossero stati formalmente e completamente esclusi dal sacro rito, egli non avrebbe partecipato al pellegrinaggio solenne. I politeisti, come dice ora il Corano, “sono lordura”, guai se si accostano “al sacro oratorio della Mecca. I patti anteriori solenni verranno mantenuti con loro, aggiungono le rivelazioni celesti: ma patti nuovi non si faranno più. Ormai è la guerra aperta contro gl’infedeli perché tali, e non soltanto, come in passato, perché fedifraghi o pericolosi. La teoria della guerra santa è spinta così alle sue estreme conseguenze”[77]. In quest’epoca, fu emesso “un ultimatum che imponeva a tutte le tribù arabe di accettare l’Islamismo entro quattro mesi, pena la guerra”[78]. Questa dunque l’alternativa: o la conversione ad Allah e al suo Profeta o la guerra; e quindi o la conversione immediata o la morte (e se andava bene, la servitù). Questo il messaggio che, Maometto vivente, fu fatto pervenire a tutti gli abitanti dell’Arabia ed anzi a tutto il mondo allora conosciuto, anche se molto probabilmente deve ritenersi apocrifa la tradizione secondo la quale, già nel 628 egli avrebbe inviato ambasciate ai regnanti bizantini, persiani, abissini invitandoli a sottomersi all’islam.
Conversione sul posto, hic et nunc, pena la vita, senza saper nulla di questa religione, senza nemmeno aver avuto il tempo di istruirsi in essa: quale intreccio di fanatismo, aridità spirituale, formalismo, desiderio di conquista militare e non delle anime, è all’opera qui! “Alle origini storiche del decennio medinese dobbiamo il carattere più che altro formale di tanta parte dell’islamismo, contro il quale carattere, solo dopo alcuni secoli, reagirono i mistici; carattere formale per cui, ad esempio, basta, per divenir musulmani, pronunciare davanti a testimoni le poche parole della professione di fede: “Non v’è Dio fuori di Allah, Maometto è l’inviato di Allah”, senza bisogno di preparazione spirituale, di catecumenato; mentre d’altro canto mille impedimenti e pene terribili sono posti a chi tenti di uscire dall’islām”[79].
* * *
Nella primavera del 632 Maometto prese parte finalmente al pellegrinaggio solenne alla Mecca, dopo che il luogo era stato purificato da ogni traccia di paganesimo e ai pagani stessi (ai non-mussulmani) era stato vietato per sempre di parteciparvi. Dall’altura sovrastante la città pronunciò un discorso passato alla storia come Discorso del commiato, nel quale, dopo aver dettato una serie di regole di condotta alla Comunità, dichiarò in sostanza di aver portato a termine la sua missione, confermata da versetti coranici, ricorda Nallino, “nei quali Dio proclama: ‘Quelli che sono miscredenti hanno perduto oggi ogni speranza d’abbattere la nostra religione; non temeteli dunque temete [invece] me [solo]. Oggi vi ho reso completo il vostro culto, ho colmato i miei favori su di voi, ho consentito che aveste per [unica] religione l’islam’”[80]. Subito dopo ritornò a Medina e cominciò ad allestire la spedizione militare contro “la parte sud-est della Palestina soggetta a Bisanzio”, per vendicare la sconfitta di Mota. Ma, come si è detto, verso l’inizio dell’estate fu colpito da violente febbri e dopo alcuni giorni morì improvvisamente, il giorno 8 giugno 632 AD, di lunedì. I numeri pari sono forieri di sventura, per i mussulmani.
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1. Vedi: p. 17 nota n. 2 di Il Corano, nuova versione letterale italiana, con prefaz. e note di Luigi Bonelli, 19293, terza ediz. riveduta aggiuntovi l’indice analitico, rist. antast., Ulrico Hoepli, Milano, 1983 (vedi la Prima parte del presente lavoro) . Per comodità del lettore, ripeto qui l’indicazione della già citata fonte principale da me consultata per la vita di Maometto: Carlo Alfonso Nallino, Vita di Maometto. Edizione di due letture preparate per la stampa nel 1916, I: Maometto alla Mecca e gl’inizi della sua missione religiosa, pp. 6-18; II: Maometto a Medina: l’evoluzione del suo pensiero religioso e gl’inizi dell’Islam come organismo politico, pp. 19-38, Istituto per l’Oriente, Roma, 1946. D’ora in poi: Vita. A causa di limiti tecnici, translittero anche qui le parole arabe in prevalenza al modo approssimativo dei media e del linguaggio corrente. Il grassetto e il corsivo nelle citazioni sono miei, salvo espressa indicazione in contrario. Scrivo “mussulmano” con due esse, in modo più aderente alla pronuncia effettiva in italiano. Ricordo che Maometto non è spregiativo ma esatta traduzione italiana di Muhammad (il lodato), reso nel Medio Evo in latino con Machometus, da cui l’italiano medievale e poi moderno Maometto. Da secoli vengono pertanto chiamati maomettani in Occidente coloro che praticano la religione da lui fondata. Nelle citazioni coraniche, le parole in corsivo sono del traduttore.
2. Carlo Alfonso Nallino, L’Arabia preislamica, in ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. III: Storia dell’arabia preislamica. Storia e istituzioni musulmane, a cura di M. Nallino, Istituto per l’Oriente, 1941, pp. 1-47; p. 26. Inedito, testo di un corso tenuto nel 1937 a Rodi, al “Corso di Alta Cultura” tenuto alla Società Nazionale Dante Alighieri.
3. Op. cit., pp. 44-45.
4. Seymour Vesey-Fitzgerald, Muhammadan Law. An Abridgement according to its various schools, 1931, rist. anast. Scientia Verlag, Aalen, 1979, p. 34 per le forme preislamiche di matrimonio. Un uomo ereditava le mogli del padre tranne quella che era la propria madre. La donna era considerata un bene mobile che veniva venduto con il matrimonio. Il suo consenso era raramente richiesto. C’erano matrimoni di gruppo che coprivano forme di prostituzione, per dare un padre al bambino che nascesse ad una prostituta che frequentasse regolarmente un gruppo inferiore a dieci uomini; cosiddetti di scambio; il prestito della moglie a qualcuno più gagliardo che la mettesse in cinta; forme di convivenza; matrimoni in seguito a ratto della futura sposa; poligamia e concubinaggio illimitati. Maometto abolì tutto questo, il che fu indubbiamente un bene, anche se lo schema della compravendita restò latente nel contratto islamico di matrimonio (ivi). Impose come requisito necessario il consenso della sposa. Prescrisse poi un massimo di quattro mogli contemporaneamente, accanto ad un numero aperto di concubine, tratte dalle schiave. A se stesso (vedi Prima Parte), rimasto vedovo di Kadigia, riservò nove mogli, 23 concubine, un numero imprecisato di schiave, giustificandosi con le opportune “rivelazioni”. Sempre giustificandosi con una rivelazione divina (sura 33,36), si prese in moglie anche la moglie del figlio adottivo Zayd, suo segretario, dopo averla fatta divorziare da quest’ultimo, cosa che anche per gli arabi del tempo era proibita perché sentita come una forma d’incesto.
5. Nallino, L’Arabia preislamica, cit., pp. 37-38. Numerosi testi di poeti arabi e preislamici e impegnati nelle lotte pro e contro Maometto, sono stati assai utilmente tradotti dall’illustre arabista Sergio Noja, Maometto profeta dell’Islàm, 1974, Oscar Mondadori, 1985, passim. Poeti e poetesse cantavano in genere la gloria guerriera, la fama, il lignaggio, l’amore, la donna, il vino. Tenendo conto del significato particolare della poesia presso gli antichi arabi, si può forse capire perché le prime e più brevi sure del Corano fossero recitate in versi da Maometto.
6. Nallino, Vita, pp. 3-4. Allāh vuol dire: “il”[al] “dio” [lāh], ossia: al-lāh, Iddio = Allâh, in arabo, con l’articolo (Noja, op. cit., p. 58). Anche gli arabi cristiani dicono “Allâh” quando nominano Dio. L’ebraico Eloah e l’arabo Ilâh provengono dalla stessa radice, che contiene l’idea del sacro, dell’inviolabile: ‘alh, ‘alw, ‘alj, ‘all (Alfred von Kremer, Geschichte der herrschenden Ideen des Islams. Der Gottesbegriff, die Prophetie und Staatsidee (1868), rist. anast. Olms, Hildesheiim, Zürich, New York, 1984, p. 122, n. 3). Per noi cristiani, però, il termine è diventato da tanti secoli sinonimo del Dio unico nel quale credono i nostri nemici mortali mussulmani, che non è il vero Dio, rivelatosi invece Uno e Trino, la S.ma Trinità. Nella poesia amorosa pre-islamica troviamo quest’esclamazione di una bella fanciulla all’innamorato invadente, giunto a sorprenderla nella stanza più intima della sua casa: “Per Allah, esclamò ella, non c’è modo di sfuggirti, né vedo che la tua follia si dissipi da te!” (Sergio Noja, op. cit., p. 57). “La Caaba, il cui nome significa “dado”, è una costruzione più o meno cubica, larga 10 m., lunga 12 e alta 15, che era allora priva di tetto, e nella quale è murata, sulla faccia esterna della parete che guarda verso sud-est, la famosa “pietra nera”[forse un meteorite], tanto celebre e venerata quanto modesta di proporzioni (è grande circa quanto un pugno). Nei tempi pagani, secondo la tradizione, veniva conservata nell’interno della Caaba tutta una serie di idoli” (op. cit., p. 63).
7. Nallino, Vita, p. 4.
8. Op. cit., p. 5. Il docetismo era l’eresia secondo la quale il corpo di Cristo era apparente, pertanto la Passione e la morte per crocifissione sarebbero state mera apparenza. Non si accettava che un Dio soffrisse e morisse in croce. “Le radici profonde di questa eresia si trovano nel “dualismo”, come professato dagli gnostici e dai manichei. Costoro respingevano la “corporalità” in quanto tale [considerandola malvagia ed indegna] concependola come apparenza (in greco: dokein) o come una sostanza eterea (corpo astrale)” (Bernard Bartmann, Précis de Théologie dogmatique, tr. fr. di M. Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, I, p. 364). Il “docetismo” si riscontrava presso i cristiani nestoriani, in fuga dall’impero bizantino e diffusi dalla Mesopotamia all’India, tollerati ma anche ripetutamente perseguitati nell’impero persiano, le cui dottrine circolavano anche in Arabia. L’eretico Nestorio, Patriarca di Costantinopoli, condannato ad Efeso (431), sosteneva che la natura divina di Cristo fosse solo una specie di personalità morale, per cui Maria avrebbe generato un uomo e non un Dio. Si avevano allora in Nostro Signore, oltre a due nature, due persone, una umana e una divina, se la sua natura divina doveva concepirsi solo come una personalità morale. Sorta di moderni nestoriani sono quelli che oggi considerano la natura divina di Cristo un mero “significato”, costruito dai Discepoli o dalla c.d. “comunità cristiana primitiva”.
9. Alessandro Bausani, L’Islam, Garzanti, Milano, 1980, pp. 164-166. Il contenuto dell’accusa si deduce dalle risposte che nel Corano vengono date a chi imputava a Maometto di esser un falso profeta. Che egli possa aver avuto uno o più “informatori” tra ebrei e cristiani di fede poco ortodossa, isolati o di passaggio, sembra confermato proprio dall’accusa dei concittadini meccani, accusa che sarebbe antistorico scartare a priori. Il concetto della S.ma Trinità esposto dal Corano è, oltre che blasfemo, indubbiamente “caricaturistico” (Gustav E. von Grunebaum, L’espansione dell’Islam: La struttura della nuova fede, in L’Occidente e l’Islam nell’Alto Medioevo, Atti delle Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, XII, Spoleto, 1965, pp. 65-91; p. 90).
10. Op. cit., pp. 165-166.
11. Per la testimonianza completa, vedi: Bausani, L’Islam, cit., p. 163. Più ampiamente, Nallino, Nel tredicesimo centenario della morte di Maometto, in Gerarchia, anno XII, 6, 1932, pp. 499-506; ora in ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. II, cit., pp. 66-74. Mi sono sempre chiesto perché abbia detto: “Al contrario”. “Al contrario” di che cosa, di quello che stava vedendo mentre sopraggiungeva la morte? E se questo era il caso, cosa gli stava apparendo, sì da fargli dire: voglio “il contrario” di quello che ora mi appare, “contrario” rappresentato dal “Sommo Compagno del Paradiso”? Questa versione della morte di Maometto è negata dagli Sciiti, “partito di Alì”, nemici mortali della vedova in questione, assai attiva tra gli ispiratori del partito opposto proprio ad Alì nella successione a Maometto, in quanto sua nemica personale (vedi: Bausani, op. cit., ivi).
12. Vedi Henri Lammens, L’Islàm. Credenze e istituzioni, 1926, nuova vers. it. di Francesco Gabrieli, Laterza, Bari, 1948, cap. III : Il Corano libro sacro dell’Islàm, pp. 33-56; Carlo Alfonso Nallino, voce Corano, in Nuovo Digesto Italiano, IV, 1938, pp. 242-244, ora in ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. II, cit., pp. 75-81. Othman fu colui che espulse ebrei e cristiani dall’Arabia, con l’eccezione del Yemen. L’espulsione era stata invocata da un detto (hadith) del Profeta, ritenuto autentico: “Cacciate ebrei e cristiani dalla penisola arabica” (Bernard Lewis [a cura di], Islam, from the Prophet Muhammad to the Capture of Constantinople, I, Politics and War, Macmillan, London etc., 1976, p. 212).
13. Nallino, Vita, p. 7. La “commemorazione di Dio” avviene nell’islamismo in modo semplice e nello stesso tempo formalistico. Cinque sono gli obblighi pubblici del credente verso Dio, i cosiddetti 5 pilastri dell’islam: 1. La professione pubblica di fede; 2. La preghiera canonica o rituale; 3. il digiuno nel mese di ramadan; 4. La tassa o decima canonica; 5. Il pellegrinaggio alla Mecca. A tutti questi obblighi, precisa Nallino, “il musulmano adempie direttamente poiché l’islamismo non conosce sacramenti né sacerdozio. Tutte queste pratiche del culto sono formalistiche al massimo grado, talché lo spirito loro ben si può paragonare allo spirito talmudico; esse danno luogo ad una minuziosissima e stucchevole casistica nei trattati. D’altro canto l’inosservanza delle singole norme porta seco la nullità dell’atto intero e quindi, secondo i casi, ripetizione di questo oppure espiazione materiale consistente in elemosine e in sgozzamento d’animali ecc.” (Nallino, Islamismo, in Enciclopedia Italiana, XIX, 1933; ora in ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. II, L’Islām. 15. Dogmatica-Sufismo-Confraternite, a cura di M. Nallino, Roma, Istituto per l’Oriente, 1940, pp. 1-44; p. 37).
14. Op. cit., pp. 7-8.15. Op. cit., p. 9.
16. Presso l’ebraismo postcristiano da un lato si ammette che i Giusti fra i pagani si salvino, dall’altro lo si nega, onde nel Paradiso o Gan Eden entrerebbero solo gli ebrei; da un lato si ammette come eterno il fuoco della Gehenna, dall’altro lo si nega, adombrando comunque per gli israeliti la possibilità di evitare l’eternità delle pene (A. Cohen, Il Talmud, 1931, tr. it. di A. Toaff, Laterza, Bari, 1935, rist. anast. 1981, tutto il capitolo XI: L’al di là, pp. 411-458). Per i mussulmani, invece, l’Inferno sarà eterno solo per gli infedeli. “Nella loro discesa all’Inferno i dannati si dividono in sette schiere, a ciascuna delle quali è assegnata una delle porte dell’Inferno. Queste porte, tra di loro sovrapposte, non assomigliano affatto alle nostre. Lo strato superiore, assegnato ai peccatori della Ummah mussulmana, un giorno sarà completamente vuoto. I tormenti vi sono meno crudeli” (Soubhi El Saleh, La vie future selon le Coran, con prefaz. di Louis Gardet, Vrin, Paris, 19862, p. 46).
17. Op. cit., ivi.18. Op.cit., p. 10.
19. Noja, op. cit., p. 166. La sura della conversione dei jinn è la n. 46 o di al-Ahqât. I folletti non convertiti vanno all’Inferno (sura 6 o del gregge, 128). Dal Corano si trae l’impressione che anche gli animali vengano inclusi nel Giudizio universale: “Non havvi alcuna specie di animali sulla terra, né di uccelli, volanti con le proprie ali, che non costituiscano come voi delle comunità; nulla abbiamo trascurato nel Libro, e tutte le creature verranno riunite, un giorno, avanti al loro Signore” (sura 6 o del gregge, 38).
20. Nallino, Vita, p. 17.
21. Op. cit., pp. 14-16. Su ebrei e cristiani in Arabia, vedi: Nallino, Ebrei e Cristiani nell’Arabia preislamica, in ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. III, cit., pp. 87-156. Inedito. I rapporti degli ebrei con gli arabi erano in prevalenza pacifici, prima dell’islam. Lo erano meno quelli con i cristiani, presenti sopra tutto nell’Arabia meridionale. Nella tradizione araba si ricorda la strage dei cristiani di Nagrān, nel Yemen, da parte di un re locale giudaizzato nell’AD 524, perché non avevano voluto convertirsi al giudaismo; strage che le fonti etiopiche fanno assommare a 4252 vittime e le leggende arabe addirittura a 20.000, mentre le fonti cristiane più vicine ai fatti e più attendibili (lettera del vescovo monofisita Simeone) parlano di 340 persone, i notabili della città, più il vescovo, monaci e laici bruciati nell’incendio della chiesa locale. La lettera incitava anche i vescovi monofisiti “ad agire presso l’imperatore Giustino [a Costantinopoli] affinché facesse cessare gl’intrighi dei rabbini di Tiberiade, che inviavano ogni anno qualcuno dei loro ad eccitare tumulti contro i Cristiani nel regno di Himyar [Yemen]”(op. cit., pp. 92-96). Il Yemen fu per secoli al centro della lotta tra impero persiano e romano (bizantino) per controllare la rotta del lucroso commercio che proveniva dall’India, avente in Yemen uno snodo essenziale. In questa lotta l’Abissinia (monofisita) era la naturale alleata di Bisanzio contro i persiani.
22. Nallino, Vita, pp. 15-16.23. Op. cit., p. 16.
24. Op. cit., p. 22.
25. Op. cit., pp. 22-23.
26. Op. cit., p. 23.
27. Op. cit., pp. 21-22.
28. Op. cit., pp. 23-24.
29. Op. cit., p. 24.
30. Jean-Jacques Rousseau, Oeuvres complètes, t. III: Du Contrat Social – Écrits politiques, ediz. la Pléiade, Paris, 1964, p. 462.
31. Op. cit., pp. 24-25. Al capo delle spedizioni militari tribali (rahīs) spettava per tradizione il quarto del bottino (Nallino, L’Arabia preislamica, cit., p. 37).
32. Op. cit., p. 25.
33. Op. cit., ivi. Nella Prima Parte di questo studio ho ricordato come, a proposito della reinterpretazione coranica della figura di Abramo, Nallino (1872-1938) sviluppi e approfondisca espressamente le brillanti intuizioni di Christian Snouck Hurgronje, Il pellegrinaggio alla Mecca (1880), tr. it. di G. Scattone, Einaudi, Torino, 1989, spec. pp. 22-35.
34 Ivi.
35. Sergio Noja, op. cit., p. 124. Ricordo che le lingue semitiche costruiscono le radici delle loro parole esclusivamente sulle consonanti, tra le quali inseriscono poi le vocali. A seconda delle combinazioni di vocali, dalle stesse radici consonantiche si ottengono parole con significati in tutto o in parte diversi.
36. Nallino, Vita, pp. 26-27.
37. Op. cit., p. 27. Maometto operò la transizione di Allah da “dio etnico” a “dio universale” (Grunebaum, op. cit., p. 67), stravolgendo però l’autentica Rivelazione, a cominciare dal significato della figura di Abramo.
38. Op. cit., pp. 27-28. Si tratta della sura 3 o della famiglia di ‘Imrân, v. 81.39. Op. cit., p. 28.
40. “Di’: chi dunque ha fatto scendere il Libro che Mosé ha portato come luce e direzione per gli uomini e che voi [giudei] scrivete su rotoli che mostrate in pubblico, ma di cui tenete celata una grande parte, benché sia stato insegnato ora, a voi, ciò che non sapevate, né voi né i vostri padri? Dì loro: è Dio; abbandonali quindi e lascia che si compiacciano nei loro discorsi” (sura 6, 91). La sura è meccana, ma gli studiosi occidentali ritengono medinensi i vv. 91-93 (nota di Bonelli a Il Corano, p. 110). Ricordo che il testo canonico del Corano è una compilazione non organica, fatta ordinando le sure secondo il criterio della lunghezza, iniziando da quelle più lunghe (vedi Prima Parte di questo lavoro). Per unanime tradizione, la prima sura in ordine cronologico è la n. 96 o del grumo di sangue, meccana ovviamente, di 19 versetti. La falsa accusa agli ebrei di aver alterato le Scritture era antica, proveniva dalla setta samaritana, estremamente ostile al giudaismo.
41. Op. cit., ivi.
42. John Bagot Glubb, Le grandi conquiste arabe, 1963, tr. it. di R. Lotteri, Aldo Martello ed., Milano, 1964, p. 81. Il tenente generale Sir John Bagot Glubb (1897-1986), meglio noto come Glubb Pascià, comandò dal 1939 al 1956 la famosa Arab Legion, di poi Esercito reale di Giordania, costituita inizialmente da ufficiali britannici e soldati e sottufficiali arabi, fedelissimi alla monarchia hascemita di Giordania. Il suo testo è un classico in materia, ottime e attendibili le ricostruzioni degli eventi , condotte avendo per base principale le tradizioni su Maometto raccolte nella famosa Vita dell’Inviato di Dio di Ibn Ishaq, morto nel 767 AD, come risposta dagli storici posteriori (al Tabari, 838-923). Quest’opera è stata demolita dall’orientalistica occidentale e tuttavia sarebbe sbagliato negare i nuclei di verità che contiene (Noja, op. cit., pp. 91-92). All’epoca della I g.m. l’Arabia era ancora parte dell’impero ottomano. Il colonnello Lawrence e il principe saudita Feisal, appoggiati dagli inglesi, vi organizzarono con successo la guerriglia anti-turca, cominciando proprio con il sabotare ripetutamente la lunga ferrovia da Damasco a Medina. I meno giovani ricorderanno certamente un celebre film su Lawrence of Arabia, con l’attore angloirlandese Peter O’Toole ed altri grandi dello schermo di allora, nel quale il sabotaggio della linea e l’attacco al treno erano tra le scene principali e meglio riuscite del film.
43. Nallino, Vita, p. 28.44. Glubb, Le grandi conquiste arabe, cit., pp. 99-102.
45. Op. cit., p. 102.
46. La tradizione ha conservato le impressioni di un avversario, durante le trattative per l’accordo di al-Hudaybiyah (vedi infra). Nel suo rapporto ai capi coreisciti, costui disse: “Sono stato da Cosroe nel suo regno [l’imperatore persiano] e ho visto Cesare [l’imperatore romano] e il Principe di Abissinia fra i loro sudditi, ma non ha mai visto nessuno trattato col rispetto di cui Maometto gode fra i suoi compagni” (Glubb, op. cit., p. 117).
47. Nallino, Vita, p. 29.48. Op. cit., pp. 29-30.
49. Op. cit., p. 30.
50. Op.cit., ivi. Lo schiavo, tale Sulman, era un persiano, che aveva combattuto nell’esercito persiano.
51. Glubb, op. cit., p. 79. La fonte è sempre la “Vita dell’Inviato di Dio” di Ibn Ishaq, dell’VIII secolo d. C.
52. Bausani, op. cit., pp. 64-68.
53. Glubb, op. cit., p. 110.
54. Op. cit., p. 109.
55. Nallino, Vita, pp. 30-31.
56. Glubb raccoglie una nota tradizione sull’eccidio degli ebrei di Medina. “Residenti a Medina da lungo tempo, gli Ebrei erano amici e alleati degli Arabi e Maometto affidò quindi la decisione circa la loro sorte a Saad ibn Muadh della tribù Aws, uno dei primi Medinesi a convertirsi all’Islamismo, che aveva portato la bandiera della sua tribù nella battaglia di Badr. Ma ora Saad era moribondo in seguito a una ferita da freccia riportata durante l’assedio [fu una delle due vittime mussulmane]. La sua decisione, probabilmente influenzata da una rabbiosa reazione alla ferita subita, fu fatale per i Beni Quraidha, suoi ex-alleati. Dispose infatti che tutti gli uomini fossero uccisi, che le donne e i bambini venissero venduti come schiavi e che tutti i loro averi fossero considerati come bottino. Maometto riconobbe giusto il verdetto e ne ordinò l’esecuzione” (Glubb, op. cit., p. 116). Secondo la tradizione degli hadith o detti attribuiti a Maometto, egli avrebbe detto di aver attaccato gli ebrei dietro improvviso suggerimento dell’Arcangelo Gabriele.
57. Cor., sura 42 o del consiglio, 37-41, meccana. Vedi anche la sura 2, 103 medinense: bisogna perdonare ai giudei oppositori, che vanno però evitati.
58. Nallino, Vita, p. 31.
59. Op. cit., p. 32. Il negoziatore meccano si rifiutò di accettare che Maometto firmasse come “Apostolo di Dio”. Egli dovette firmare come “Maometto figlio di Abdulla”, suo padre (Glubb, op. cit., p. 119).
60. Nallino, op. cit., p. 32.
61. “Nella concezione musulmana tradizionale, lo Stato non crea la legge, che proviene da Dio ed è interpretata e amministrata da chi ha competenze al riguardo. Dovere del sovrano è difendere e sostenere, mantenere e rafforzare la legge, alla quale egli stesso è sottoposto come il più umile dei sudditi. A questi fini può promuovere norme e regolamenti, atti a delucidare e applicare la legge, ma in nessun modo può abrogare o emendare quella legge, o aggiungervi alcunché” (Lewis, Il linguaggio politico dell’Islam, cit., p. 37).
62. Bernard Lewis, Il linguaggio politico dell’Islam, 1988, tr. it. di B. Amoretti Scarcia, Laterza, Bari, 1991, pp. 85-86.
63. Op. cit., pp. 87-88. La tradizione sarà certamente apocrifa, dato che geograficamente “Roma” poteva essere nozione troppo distante dalle cognizioni di Maometto, essendo per lui “Roma” in realtà Costantinopoli (i Rûmi erano i bizantini). Tuttavia la conquista di Roma compare abbastanza presto nei programmi di espansione mediterranea dell’islam. Negli anni 673-678 AD gli arabi assediano ogni estate senza successo e con gravi perdite Costantinopoli, alla fine ritirandosi. Proprio Lewis notò che questa vittoria difensiva dei bizantini salvò l’Europa, non essendoci altra forza militare valida al di là di Bisanzio. Superata Costantinopoli, avrebbero trovato il vuoto. Ciò avvenne 45 anni prima della vittoria di Carlo Martello a Tours, nel 723, che li bloccò dall’altro lato del continente, anche se rimasero ancora lungo tempo nella Francia meridionale. Le incursioni contro la Sicilia iniziarono già nel 652, vent’anni dopo la morte di Maometto. Nell’831 gli arabi catturarono Palermo ed iniziarono le scorrerie piratesche sistematiche sulle coste dell’intera Italia meridionale, un flagello che l’islam ci avrebbe inflitto (a noi e agli altri paesi cristiani mediterranei) per mille anni, sin cioè all’occupazione francese dell’Algeria, nel 1830, conclusasi dopo quasi vent’anni di lotte. Roma tentarono di prenderla nell’estate dell’846, con una movimentata, breve e sanguinosa campagna, finita disastrosamente per loro. Riuscirono a saccheggiare le basiliche fuori le mura (S. Pietro e S. Paolo) ma non a penetrare in città (contrariamente a quanto riportato da tanti manuali di storia), difesa dalla popolazione in armi. Al ritorno la loro flotta fu distrutta dalla tempesta. Nell’ 849 tornarono con truppe dall’Africa, dalla Spagna, dalla Francia meridionale imbarcate su di una grande flotta, annientata nella battaglia navale di Ostia da un flotta cristiana finalmente concorde e ben organizzata, sopra tutto grazie all’impulso dell’energico Pontefice Leone IV. Dal Concilio in poi, sono stati invece proprio i Pontefici i primi ad aprire le porte all’invasione maomettana. Basti pensare a quanto si siano impegnati nel favorire la costruzione della Grande Moschea di Roma!
64. Lewis, op. cit., p. 91. La radice di salām è la stessa di ῾Islām (ivi, p. 92).65. Nallino, Vita, p. 32.
66. Op. cit, pp. 32-33.
67. Noja, op. cit., p. 236. In appendice al volume di Noja (1931-2008), c’è una breve scheda biografica su Caetani, così come su Nallino ed altri illustri studiosi (op. cit., pp. 337-343).
68. Nallino, Vita, p. 33.
69. Op. cit., ivi. Al-Walid fu colui che distrusse la chiesa nella quale secondo la tradizione era sepolto san Giovanni Battista, per costruire in loco la moschea di Damasco, quella dove è andato a pregare Giovanni Paolo II (vedi Prima Parte). Al-Amr fu l’emiro che fece bruciare la famosa Biblioteca di Alessandria. Entrambi avevano guidato i meccani alla vittoria di Huhud (vedi supra).
70. Op. cit., p. 34.
71. Glubb, op. cit., p. 127. Con uomini della Legione Araba, Glubb procedette alla ricostruzione della tomba in rovina del comandante islamico ivi caduto, eretta sul luogo della battaglia. “Gli abitanti di Mota credono ancora che, all’alba di ogni venerdì, un esercito fantasma di Musulmani si riversi dalle alture delimitanti la pianura verso oriente e, sventolando fieramente lo stendardo bianco [impugnato dal portabandiera di un tempo], si lanci in folle carica sul luogo in cui tempo stava l’esercito ‘romano’”(op. cit., ivi).
72, Nallino, Vita, p. 34.
73. “È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi, o se dependano da altri; ciò è, se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare [sono in grado di usare la forza]. Nel primo caso capitano sempre male, e non conducano cosa alcuna; ma, quando dependono da loro proprii e possano forzare, allora è che rare volte periclitano. Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono. Perché, oltre alle cose dette, la natura de’ populi è varia; et è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa fare credere loro per forza” (Niccolò Machiavelli, Il Principe, Introduz. e note di Federico Chabod. Nuova ediz. con aggiornamenti bibliogr. a cura di Luigi Firpo, Einaudi, 1972, p. 28. È il cap. VI sui “principati nuovi che si acquistano con armi proprie e per virtù”).
74. Nallino, Vita, p. 34.75. Bausani, op. cit., p. 69.
76. Nallino, Islamismo, voce della Enciclopedia Italiana, XIX, 1933; ora in: ID., Raccolta di scritti editi e inediti, vol. II, cit., pp. 1-44; p. 41. Sul non chiarissimo testo coranico concernente il velo delle donne: Cor., 24 o della luce, 31 nonché: Bausani, op. cit., p. 66.
77. Nallino, Vita, p. 35.78. Glubb, op. cit., pp. 136-137.
79. Nallino, Vita, p. 38. “L’Apostolo si era sempre dimostrato assai generoso con gl’infedeli e gl’idolatri [che si convertivano], ma spietato con gli apostati. Anche se sopraffatto in combattimento con i Musulmani, era sufficiente che l’idolatra gridasse la sua professione di fede per aver salva la vita e molte volte i Compagni [Emigrati e Ausiliari] si erano lamentati con Maometto per l’evidente insincerità di queste conversioni. Spesso, avendo raggiunto un idolatra fuggiasco, erano stati in procinto di alzare spada e lancia per uccidere quel nemico di Dio quando il grido “non c’è altro Dio che Dio e Maometto è il suo Profeta” li aveva costretti a desistere e a lasciarlo fuggire. Era giusto che, in simili circostanze, si accettasse la professione di fede e che i Musulmani venissero così defraudati del legittimo bottino? Ma il Profeta aveva sempre insistito nel considerare questi convertiti veri Musulmani” (Glubb, op. cit., pp. 159-160).
80. Nallino, Vita, pp. 35-36.
28 commenti:
Non solo teologia, nuovi insegnamenti nelle università pontificie:
Provvidenza in pensione, largo al prete manager di Andrea Zambrano
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-provvidenza-in-pensione-largo-al-prete-manager-13938.htm
Leggi Micromega e scopri un progetto di Chiesa di Stefano Fontana
"prima ancora di leggere il fascicolo, si chiede cosa diranno mai gli autori e poi prova ad indovinare: il Sinodo come un Vaticano III, la svolta di Bergoglio dopo i reazionari Wojtyla e Ratzinger, la Chiesa in uscita secondo la teologia di Johann Batpist Metz, la prassi fa la verità e non la dottrina, le trame della Curia romana sul Papa argentino, il cardinale Müller è un reazionario … Uno riesce perfino a prevedere chi saranno gli autori ospitati: potranno mai mancare Pierluigi Di Piazza e Vinicio Albanesi, Raniero La Valle o don Vitaliano della Sala?
Poi apri il numero di Micromega e trovi esattamente tutto quello che avevi previsto...
Anzi si lamentano pure...
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-leggi-micromega-e-scopri-un-progetto-di-chiesa-13941.htm
Saluto finale al Comitato organizzatore, ai volontari e ai benefattori
" Ringrazio il Signore di aver potuto constatare la fede del popolo di Dio in questo Paese, come si è manifestata nei momenti di preghiera insieme e si è mostrata in tante opere di carità. Gesù dice nelle Scritture: «In verità vi dico: tutto ciò che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Le vostre attenzioni nei miei confronti e la vostra accoglienza sono segno del vostro amore per Gesù e della vostra fedeltà a Lui. E altrettanto lo sono l’attenzione per i poveri, per i malati, i senzatetto e i migranti, la vostra difesa della vita in ogni sua fase, come pure la preoccupazione per la vita familiare. In tutto questo, riconoscete che Gesù è in mezzo a voi e che la vostra cura vicendevole è cura per Gesù stesso.
Nel congedarmi, chiedo a voi tutti, specialmente ai volontari e ai benefattori che si sono impegnati per l’Incontro Mondiale delle Famiglie: non si esaurisca il vostro entusiasmo per Gesù, per la sua Chiesa, per le nostre famiglie e la più grande famiglia della società. Possano i giorni trascorsi assieme portare frutto che rimanga, e la generosità e l’attenzione per gli altri possano continuare! Come abbiamo ricevuto tanto da Dio – doni dati a noi gratuitamente e non per le nostre forze –, così cerchiamo in cambio di donare gratuitamente agli altri.
Cari amici, vi abbraccio tutti nel Signore e vi affido alle materne cure di Maria Immacolata, Patrona degli Stati Uniti. Pregherò per voi e le vostre famiglie, e chiedo a voi, per favore, di pregare per me. Dio vi benedica tutti. Dio benedica l’America!"
Amici miei,
I maomettani saranno il nostro castigo e la fine di questa civiltà e dei suoi valori non degenerati se non si farà nulla per neutralizzare costoro, i 'rivoluzionari' che stanno sfigurando la Chiesa e, sul fronte civile, chi contribuisce con l'irresponsabile inerte connivenza al dissolvimento delle identità nazionali.
ABUSO (LITURGICO) DI SMARTPHONE: SE ANCHE IL SACERDOTE PERDE IL SENNO PER UN SELFIE
Guardatevi le tre fotografie proposte, no comment da parte mia.
http://www.iltimone.org/33683,News.html
Quando la Croce non è vessillo di lotte mondane
Cito:
Papa Francesco nel discorso ai Vescovi USA ha detto:
“Senz’altro è utile al Vescovo possedere la lungimiranza del leader e la scaltrezza dell’amministratore, ma decadiamo inesorabilmente quando scambiamo la potenza della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha redenti. Al Vescovo è necessaria la lucida percezione della battaglia tra la luce e le tenebre che si combatte in questo mondo. Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane, dimenticando che la condizione della vittoria duratura è lasciarsi trafiggere e svuotare di sé stessi (Fil 2,1-11)”.
Questa dichiarazione è stata recepita da tutti i media come un passo indietro nella difesa dei principi non negoziabili, in particolare dell’aborto.(seguono due citazioni di Cascioli e Riotta)
....
Ora ritengo impossibile che il Papa quando dice “Guai a noi, però, se facciamo della Croce un vessillo di lotte mondane” si riferisca alla difesa del principio non negoziabile della vita umana.
Lo ritengo impossibile per un motivo molto semplice: il Magistero della Chiesa dichiara esplicitamente che l’attacco alla vita umana non è (solo) di questo mondo, ma appartiene alla sfera preternaturale. È molto chiaro San Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae.(100,104)
....
(Conclude) A me pare chiarissimo che l’unico modo per sconfiggere l’aborto ed ogni altro attacco alla vita umana sia quella di innalzare il vessillo della Croce.
C’è forse un altro modo?
Kyrie eleison
Vexilla Regis"
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=37789
Maometto, forse nel 751 AD. Emh.. lapsus tastierae? Forse 571, visto che l'egira è 622.
http://www.antoniosocci.com/pastorale-u-s-a-e-getta-per-chi-lavora-il-vescovo-argentino-la-tentata-cancellazione-di-wojtyla-e-ratzinger/
Subito dopo il suo rientro a Roma, Papa Francesco si è recato direttamente dall'Aeroporto di Ciampino alla Basilica Santa Maria Maggiore per una sosta di preghiera (la N° 25 dal giorno della sua elezione) e ringraziare la Madonna inginocchiato di fronte alla “Salus Populi Romani”.
Non vorrei essere ancora più maligna del solito, ma credo che vada in S. Maria Maggiore per incontrare chi lo ha eletto e colui al al quale deve riferire quanto detto e fatto, e concordare le prossime mosse. Poi certo una preghiera ad usum stampae (se Gramaticus mi passa il neologismo) davanti all'immagine di Ns Signora, che costa ?
E le parole alla chiusura dell'incontro ? Beh, bisogna pure ogni tanto dire qualcosa di cattolico. Basta farlo solo a telecamere e microfoni spenti. Davanti a questi, invece, si parla come si fosse una qualsiasi presidente USA
RR
PS: ho letto un interessante articolo di un blogger americano sul provincialismo del VdR. Se interessa, posso o postare il link, o fare un breve riassunto
Ringrazio Prof. Pasqualcci e Mic per la pubblicazione.
Noto che, ovviamente non in modo così approfondito ed accademico, le cose essenziali su Maometto e l'Islam un tempo si insegnavano fin dalle elementari e sicuramente alle medie ed ai licei. Per cui tutte le volte che sento la bestemmia (perchè tale è) che Nostro SIgnore, la SS. Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, Figlio che si è incarnato in Gesù Cristo, sono lo stesso di Allah, mi chiedo: - ma questi, che scuole hanno frequentato ? su quali sussidiari e libri di storia e filosofia hanno studiato ? - Persino su Wikipedia si trovano queste cose !
Rr
Un dubbio: quale sarebbe un peccato più grave di quello commesso da un ipotetico sommo pontefice che nega urbi et orbi un dogma de fide solennemente definito dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, ad esempio, le pene eterne del peccatore grave che muore impenitente?
Rr, chi c'è a Santa Maria Maggiore?
Intendi il cardinal Santos Abril y Castello o come si chiama?
In che senso il vdR riferisce e concorda le mosse...?
humilitas
Sempre giustificandosi con una rivelazione divina (sura 33,36), si prese in moglie anche la moglie del figlio adottivo Zayd, suo segretario.
La quale moglie sembra proprio, che lo riempì pure di corna.
La visita a Santa Maria Maggiore fa "pendant" con la famosa borsa nera esumata solo per la passerella sulla scaletta dell'aereo.
Santa Maria Maggiore nel pre-conclave era il quartier generale dei sud americani. Lì sono avvenuti molti incontri e trattative sotterranee. Non a caso uno dei primi atti del nuovo corso fu quello di eliminare la messa tradizionale del sabato dedicata alla Vergine (nella Basilica papale mariana!) che non siamo riusciti a ripristinare in alcun modo e ci ha fatti sentire stranieri in casa nostra... Anche perché, guarda caso, sempre a Santa Maria Maggiore alligna la genìa dei FI ribelli.
Capito. Nel frattempo mi son riletta l'articolo dell'anno scorso sulla soppressione della Messa VO del sabato.
Grazie
humilitas
http://www.vatican.va/various/basiliche/sm_maggiore/it/capitolo/capitolo.htm
Qui si leggono tutte le informazioni relative all'arciprete, ai canonici, ai penitenzieri,
e come ADDETTI ALLA SAGRESTIA ( Sagristi Minori: Frati Francescani dell’Immacolata )
Alcuni commenti sono "malevoli".
Da parte mia, non posso dubitare della "sincerità d'animo" di chiunque si inginocchi davanti all'altare della "Salus Populi Romani”, per ringraziarLa o per implorarne il soccorso.
Humilitas,
a S. Maria Maggiore ci stava pure, e forse ci sta ancora, il cardinal Bernard Law, "cacciato a fuori di popolo " da Boston, e così sottrato alla giustizia americana (cfr il nunzio Weslowski).
Flora, concordo. Cfr articolo su Bergoglionate
RR
PS: meno male che stavolta non ha portato una mazza da baseball ed un guantone. Troppo Yankees forse ?
Rr, ho letto che Law risiede al palazzo della Cancelleria.
Ma chi è, scandali a parte (economici e di copertura porcherie)? Cosa c'entra con Bergoglio e la cricca che lo ha eletto?
Scusa le mie domande forse ingenue, ma ormai ti ci sarai abituata.
humilitas
@ Errata corrige.
- In effetti, per errore "di tastiera" avevo scritto 751 AD invece di 571. Grazie della segnalazione e correzione.
- La moglie sospettata di tradimento (occasionale) nei confronti di Maometto e' la giovanissima Aisha. Prove non ce ne furono, solo sospetti. Ali, giovane cugino del "profeta", insistette con Maometto perche' la cacciasse. Da qui l'odio feroce della donna per Ali, la quale brigo' poi affinche' non diventasse califfo. Da qui l'origine del "partito di Ali", gli sciiti, che pero' introdussero poi anche varianti sul piano teologico (non credono, p.e., che il Corano sia "increato").
humilitas: Rr, chi c'è a Santa Maria Maggiore?
Intendi il cardinal Santos Abril y Castello o come si chiama?
Qualcuno sa che fine ha fatto l'articolo di "Papale papale", vecchio di un paio d'anni, che ci raccontava un po' di storie interessanti su questo signor cardinale?
Tutti sanno cosa si annida in SMM......sorvolo con eleganza sull'ultima moglie sposata a 9 anni e spero non deflorata a quella età che sennò ce ne sarebbero.....l'occidente si è già ucciso da solo, i mussulmani si impadroniranno delle spoglie di un'antica civiltà un tempo faro e portatrice di leggi morali e civili, ora carcassa maleodorante, governata da mollaccioni oxbridge and skulls and bones e triangolazioni varie e con popolazione rimbambita totalmente e non solo per l' anagrafe, resteranno pochi svegli, speriamo di esserci, game over e sì che la Madonna, né postina né canterina, ce lo aveva detto tante volte, ma non c'è peggior sordo.....fishwrap, nothing more. Anonymous
In Lombarda usano codeste catechesi: non in una Parrocchia, in una cascina, tutto rigorsamente organizzato da laici, ma è interessante per capire l'aria che tira.
"DIO E’ MISERICORDIOSO?
Introduzione al concetto di misericordia nelle religioni principali.
Partecipano Mons. Giovanni Giudici, vescovo di Pavia, il Rabbino Avraham Hazan, leader del movimento chassidico Chabad di Milano, il Sufi Shaykh Mohsen Mouelhi, vicario generale della Confraternita Jerrahi-Halveti in Italia e la Monaca buddista Myoen Rosa Raja, del monastero zen “Il Cerchio” di Milano."
Mi piacerebbe andarci per sentire cosa sparano e fare domande scomode, ma non è il caso, oltretutto è una cosa "chiusa", a inviti, io ricevo la newsletter perché per pura ingenuità ero andata a sentire un ciclo di conferenze anni fa.
E poi ho altro da fare quel giorno...
Come vede, caro prof. Pasqualucci, c'è proprio bisogno che lei continui a scrivere, altrimenti è più facile cascare come pere cotte in siffatti ecumenici consessi.
humilitas
Humilitas,
può darsi che Law risieda alla Cancelleria, certo non dorme in chiesa, ma aveva, ai tempi del conclave, un qualche ruolo ecclesiastico in SMM. Anonymous e' un po' criptico, io meno: si sospetta con qualche fondamento che SMM sia un "covo" massonico.
A prescindere da tutto cio', trovo quantomeno strano che un BdR cosi devoto a NSignora tolleri uno come Bianchi, e non lo " fulmini" dopo le sue ultime esternazioni. Quindi a me sa di devozionismo, tanto critcato dal CVIi e discepoli, e tipico dll' America latina: tutti devoti a NSignora di Guadalupe, ma fanno sesso fin da ragazzini, si drogamo, formano bande criminali, c'e' una corruzione rampante, classismo e razzismo alle stelle, anche se ben mascherato, ...
Rr
Ah, ecco, grazie Rr che parli chiaro, adesso ho capito la faccenda di SMM e quali sono i sospetti che vi gravano sopra.
Non lo sapevo.
Anche io sto aspettando che il vdR tiri il famoso pugno al Bianchi, che gli ha offeso la Mamma, ma forse come dici tu non la considera poi così tanto tale.
Domani è s. Michele, ricordiamoci tutti pregarlo molto...
humilitas
Buongiorno. Leggo questi pregevoli articoli del prof. Pasqualucci dopo molto tempo e mi chiedo se esistano le preannunciate parti III, IV e V. In particolare il tema annunciato della III parte mi interesserebbe molto. Grato per eventuali informazioni, porgo cordiali saluti.
don Mattia Tanel
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