L'ultimo articolo di don Curzio Nitoglia: La seconda la terza scolastica e il neotomismo ha suscitato alcune critiche in ordine alla sua affermazione sull'inconsistenza delle posizioni metafisiche di Giovanni Duns Scoto. C'è già uno scritto che consente di approfondire. Pubblico di seguito la parte I, relativa a Giovanni Duns Scoto. La parte II (Suarez) e la III (Rosmini), sono consultabili qui.
Da Scoto e Suarez a Rosmini. I pericoli della falsa metafisica
“Parvus error in principio est magnus in fine”
Parte prima. Giovanni Duns Scoto
L’ontologismo o l’immanentismo moderno, che vanno da Cartesio a Malebranche sino a Rosmini e Gioberti, mascherati da “spiritualismo cristiano”, sono una variante del soggettivismo cartesiano e del criticismo kantiano, i quali vengono presentati - soprattutto oggi - come la “nuova” filosofia “perenne”, che avrebbe rimpiazzato la “vecchia” metafisica classica platonico-aristotelica e tomistica nella parte di ‘ancilla theologiae’. Ebbene questa è un’assurdità, evidente per quanto riguarda Cartesio e Kant, più subdolamente nascosta per Malebranche e soprattutto Rosmini. Tuttavia non si sarebbe arrivati al rosminianesimo se non vi fosse stata l’involuzione della metafisica dell’essere tomistica con Scoto e Suarez, i quali aprono la via all’immanentismo e soggettivismo della modernità, pur non essendo in sé immanentisti e soggettivisti in maniera esplicita. Questo breve saggio vuole far capire il pericolo che si corre quando ci si allontana dalla metafisica dell’essere tomistica e ci si abbevera a fonti non ancora avvelenate, ma senza dubbio inquinate e torbide quali sono lo scotismo e il suarezismo, che possono condurre all’avvelenamento.
Introduzione allo scotismo
La vita
Personalmente Duns Scoto (+ 1308) fu un uomo di Dio, un vero mistico, un gran mariologo, specialmente per quanto riguarda la ‘Immacolata Concezione’ di Maria, la sua ‘Corredenzione’ secondaria e subordinata a quella di Cristo e la di lei ‘Mediazione universale’ di ogni grazia[1].
La dottrina scotista
Tuttavia, dal punto di vista strettamente filosofico e più specificatamente metafisico, la dottrina scotista è “alternativa a quella di S. Tommaso, […] più oscura, […] meno ordinata e sistematica”[2]. Le sue opere più famose sono i tre Commentari al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Di questi tre commenti il più importante è il primo o Opus oxoniense[3]. Purtroppo nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannò 219 proposizioni che, secondo lui, avrebbero riassunto la dottrina di S. Tommaso d’Aquino, confusa dal Tempier con il razionalismo di Sigieri di Brabante (+ 1284). La censura metteva in netta contrapposizione filosofia e teologia, ragione e fede[4] e condannava come cattive la filosofia e la ragione naturale per affermare la validità della sola Rivelazione soprannaturale e della teologia. Una sorta di fideismo o “tradizionalismo francese” ante litteram. Assieme a Sigieri di Brabante (una regione divisa attualmente in due parti di cui una appartenente al Belgio e l’altra ai Paesi Bassi) veniva condannato il razionalismo di Avicenna (+ 1037) ed Averroè (+ 1198) e si confondeva l’aristotelismo interpretato in maniera razionalista da questi due pensatori arabi con la metafisica aristotelica e soprattutto tomistica. Il pensiero di S. Tommaso fu frainteso da Stefano Tempier ed accomunato, ingiustamente, a quello di Averroè ed Avicenna.
Partecipazione, causalità e analogia
L’Angelico distingue nell’ente finito o creato l’essenza che ha o riceve l’essere. Mentre l’Ente infinito o increato, che è Dio, è un Essenza che è il suo stesso Essere. Ogni ente creato riceve o partecipa l’essere da Dio.
Da questa prima distinzione reale di essenza ed essere negli enti creati, l’Aquinate arriva alla nozione di causalità[5] (Dio è incausato e Causa prima di ogni ente finito) e al concetto di partecipazione: Dio è partecipato da tutti gli enti, i quali sono partecipanti o effetti di Dio. L’ente finito o causato riceve, ha o partecipa in maniera limitata l’essere da Dio che è incausato. Come ogni effetto anche l’ente creato partecipa alla Causa che è Dio, ossia possiede, ha o riceve solo un effetto dell’Essere infinito (“partem-capere, ricevere una parte”), che è la Causa prima incausata[6].
Partecipazione, causalità e analogia si richiamano a vicenda. Infatti l’analogia entis dice somiglianza relativa e dissomiglianza sostanziale tra causa ed effetto, partecipato e partecipante, Creatore e creature. L’analogia tomistica riprende la distinzione tra analogia di proporzionalità[7], che è di derivazione aristotelica, ed è piuttosto orizzontale in quanto mostra la composizione nella struttura dell’ente, l’ente è composto in ens ab alio ed Ens a se, ossia l’ente la cui essenza è distinta dall’essere e l’Ente la cui Essenza è l’Essere stesso. Il concetto analogo di essere è predicato degli analogati simili solo relativamente al fatto di esistere, ma essenzialmente diversi nella loro sostanza. Per esempio Dio, l’angelo, l’uomo, la bestia, la pianta e il minerale sono simili quanto al fatto di essere/esistere ma la loro sostanza è totalmente diversa. Questa è la composizione nella struttura orizzontale dell’ente. Il Dottore Comune riprende anche il concetto di analogia di attribuzione[8] che è tipicamente platonico ed è piuttosto verticale, in quanto mostra la dipendenza dell’ente dall’essere. In senso stretto l’analogia di attribuzione riguarda un concetto analogo (per esempio la salute) che è predicato di un analogato principale (per es. l’uomo) intrinsecamente e formalmente. Ossia l’uomo è formalmente e in se stesso sano (attribuzione intrinseca). Mentre il concetto analogo è attribuito agli analogati secondari (colorito, passeggiata, clima, bistecca, urina) solo estrinsecamente, cioè la bistecca… non sono sani in se stessi e formalmente, ma la salute è predicata di loro in quanto sono effetto, segno, causa, mantenimento, analisi di essa (attribuzione estrinseca)[9]. Tuttavia per quanto riguarda l’essere l’analogia di attribuzione è chiamata anche analogia mista, ossia l’essere è formalmente in Dio, che lo causa nelle creature, le quali hanno l’essere in maniera limitata e finita, ma intrinsecamente e formalmente (l’angelo, l’uomo, la bestia, l’albero e il minerale) sono enti o hanno l’essere in maniera finita, ma realmente, formalmente, intrinsecamente[10] e non solo per attribuzione estrinseca. Perciò il concetto analogo di essere si trova nell’analogato principale (Dio) formalmente, intrinsecamente ed eminentemente (Dio è l’Essere sommo o a se), mentre esso si trova negli analogati secondari (enti creati) per partecipazione e in maniera limitata o ab alio. Gli enti creati hanno, ricevono o partecipano l’essere in maniera finita, ma reale, intrinseca e formale, però non eminentemente.
L’oblio della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature (v. Scoto e Suarez) porta a dimenticare l’essere come atto ultimo e perfezione di ogni essenza, per focalizzare solo l’essenza dell’ente finito, che senza l’essere partecipato ab alio, ha fatto giungere la speculazione filosofica sino alla modernità (essenza umana scissa da Dio, il “panteismo immanentistico”) e al nichilismo della post-modernità (ente umano contro Dio, la “morte di Dio”). Invece l’essere come atto ultimo di ogni essenza e perfezione ci aiuta a cogliere e a parlare sulla verità oggettiva e reale di Dio, l’Essere stesso per sua essenza, il quale si è definito “Io sono colui che è ” (Ex., III, 14).
Fede e ragione secondo Scoto
Siccome Scoto aveva iniziato a studiare alla Sorbona di Parigi verso il 1280, quasi quando uscì la condanna del Tempier (1277), ne fu influenzato enormemente e si formò in uno spirito eccessivamente anti-filosofico, come se la ragione e la filosofia fossero cattive in sé e non solo imperfette e perfezionabili dalla teologia e dalla Rivelazione. Perciò il sistema scotista fu un’antifilosofia, una ‘sola theologia’, una reductio philosophiae in theologiam ed un anti-tomismo radicale, avendo frainteso la vera dottrina tomistica. Quindi, mentre la metafisica tomistica è opera della ragione naturale, come deve essere la filosofia, ma conforme alla Fede, poiché non esiste una “doppia verità”: una di ragione e una di Fede, contrarie ma entrambe vere, la dottrina filosofica di Scoto, invece, è assorbita dalla Rivelazione quanto alla sostanza, anche se quanto al modo è rigorosamente ‘logica formalmente’, facendo una certa commistione e confusione tra ragione e Fede, filosofia e teologia, le quali invece sono distinte ma non contraddittorie.
La ragione quasi distrutta dal peccato originale
La ragione per il Dottor Sottile dopo il peccato originale è talmente guasta, che può filosofare correttamente solo se sottomessa alla Rivelazione. Invece la dottrina comune cattolica insegna che il peccato adamitico ha ferito l’uomo, ma non ha distrutto le sue facoltà naturali. Quindi la ragione può riuscire da sé a conoscere la realtà e cogliere la verità naturalmente accessibile, senza dover necessariamente essere aiutata intrinsecamente dalla Rivelazione, la quale gioca un ruolo ausiliario estrinseco alla filosofia, come il paracarro di una via aiuta l’automobile a non uscire fuori strada, o come la soluzione riportata alla fine del problema di matematica aiuta lo studente a vedere se nello svolgere il suo compito ha errato o ha colto la verità. Se il professore suggerisse ogni passo del problema allo studente, questi non imparerebbe mai la scienza matematica (al massimo la “crederebbe”) e la sua intelligenza si atrofizzerebbe, e se la guida dell’auto fosse lasciata dall’autista al paracarro, l’automobile non si sposterebbe di un passo. Certamente le circostanze storiche della condanna di S. Tommaso da parte del Tempier hanno influito sullo scotismo, portandolo ad una eccessiva svalutazione della ragione e della filosofia, ad un’erronea comprensione del tomismo, alla confusione di quest’ultimo col razionalismo di Sigieri, Avicenna ed Averroè e quindi ad una falsa lettura dell’aristotelismo concepito in totale contraddizione metafisica colla Fede e del quale si salva solo la ‘logica formale’ o le regole di ragionare correttamente.
Per S. Tommaso[11] la metafisica e la ragione umana non possono conoscere tutta la realtà e verità, poiché esiste una realtà soprannaturale e una verità che supera la capacità della ragione naturale. Quindi la filosofia da sola non basta a conoscere tutto, però può conoscere realmente le sostanze della realtà naturale. La teologia è scienza di Dio: Dio rivelante e rivelato è il suo oggetto. La filosofia ha per oggetto l’esse ut actus omnium formarum, ossia l’ente, che è un’essenza finita habens esse per participationem[12], e come termine arriva all’Essere stesso sussistente, risalendo dagli effetti alla Causa. Ma il Dio della filosofia è solo l’Autore della natura e non è il Dio rivelante e rivelato o Deus sub ratione Deitatis, ossia conosciuto nei suoi Misteri o nella sua Natura intima (Trinità…). Per Scoto, invece, la filosofia non può nulla e tutto si risolve in teologia: «Scoto pensa che il filosofo, […] giungerà fatalmente a risultati intrinsecamente inaccettabili»[13]. Per questo scrive il padre francescano Efrem Bettoni: «Duns Scoto diffida di una filosofia pura o separata [dalla teologia] ed è sempre attento a denunciarne non solo i limiti, ma anche gli inevitabili errori»[14]. Secondo padre Bettoni, Scoto ritiene che «ogni filosofia, la quale si fonda sulle risorse della ragione umana [ha] dei limiti insuperabili […], nella concreta situazione in cui è venuta a trovarsi in conseguenza del peccato originale»[15]. Etienne Gilson dal canto suo ammette che «Scoto prepara l’affacciarsi delle filosofie moderne e la sua dottrina è una spiegazione della loro esistenza»[16].
L’oggetto della metafisica scotistica[17]
Qual è l’oggetto proprio dell’intelletto umano? Per S. Tommaso[18] è l’ente e quindi anche “l’essenza intelligibile della cosa sensibile”, poiché l’uomo è composto di anima e corpo e nihil est in intellectu nisi prius non fuerit in sensu; niente si trova nell’intelletto se prima non sia passato attraverso i sensi. Ossia l’intelletto agente astrae una specie intelligibile dall’immagine sensibile presente nella nostra fantasia e proveniente da un’immagine impressa nei sensi esterni da un oggetto reale ed extramentale. Scoto[19], invece, rigetta la dottrina tomistica sulla conoscenza umana ed insegna che l’oggetto proprio e primario dell’intelletto umano è l’essere in genere o universale, l’essere nella sua totalità [20]. Mentre per S. Tommaso[21] l’uomo conosce anche mediante l’astrazione di idee razionali da immagini sensibili perché è naturalmente composto di anima e corpo[22]. La dottrina del Dottor Sottile[23], perciò, può portare all’errore (che Scoto non ha esplicitato) secondo cui anche Dio e l’Angelo, siccome sono enti, possono essere conosciuti naturalmente per sé e direttamente dall’intelletto umano (ontologismo), senza un sillogismo o dimostrazione che risale dall’effetto alla Causa per quanto riguarda Dio o con un argomento di pura convenienza per quanto riguarda gli Angeli (conviene che tra Dio ‘Atto puro’ e l’uomo, composto di materia e forma o ‘atto misto’, vi sia una forma senza materia, ma non pura da ogni potenza, bensì composta di atto e potenza, che è l’Angelo)[24]. Padre Efrem Bettoni riconosce che se l’oggetto proprio dell’intelletto umano è l’essere nella sua totalità «l’intelligibilità coincide con la realtà e nessun essere, sia pure l’Essere immateriale per eccellenza, l’Essere divino, è, in linea di diritto, escluso dall’orizzonte intellettuale dell’uomo»[25].
È per questo motivo che padre Efrem Bettoni scrive: «Questa è la ragione per cui molti storici del pensiero del medioevo si sentirono autorizzati a vedere in Duns Scoto il primo responsabile della decadenza della scolastica»[26]. Mentre S. Tommaso nella sua metafisica si basa sul concetto forte e intensivo di essere (esse ut actus) come atto ultimo di ogni essenza e perfezione di ogni perfezione, Scoto si basa sul concetto debole di essere (esse commune seu in genere; l’essere comune o generale)[27].
Debolezza della ‘teologia naturale’ scotista
Da tutto ciò segue la debolezza della “teologia naturale” o teodicea scotista, che non riesce, come invece S. Tommaso (S. Th., I, q. 2, a. 3), a provare positivamente l’esistenza e la conoscenza di qualche attributo di Dio mediante l’analogia dell’essere[28]; anzi Scoto mette eccessivamente in rilievo la Trascendenza di Dio così da renderlo assolutamente inaccessibile alla ragione umana. Ora il Concilio Vaticano I (sess. III, can, 2) ha definito di Fede divina e cattolica che “la ragione umana può dimostrare con certezza l’esistenza di Dio mediante un ragionamento, che risale dalle creature o effetti al Creatore o Causa”. In breve la Chiesa ha canonizzato le “cinque vie” di S. Tommaso, che provano l’esistenza di Dio, come si trova anche rivelato nella Sapienza, cap. XIII, e in San Paolo, Rom., cap. I.
Volontarismo scotista
D’altro canto «Scoto ritiene che l’uomo non può vedere naturalmente l’essenza di Dio a causa di un decreto della Volontà divina. Infatti per Scoto Dio avrebbe potuto volere che l’intelligenza umana potesse vederlo naturalmente e che il Lumen gloriae e la Visio beatifica fossero una proprietà della nostra natura, ma di fatto Dio non l’ha voluto. Così la distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale sarebbe contingente e si fonderebbe sopra un libero decreto di Dio (cfr. D. Scotus, In Ium Sent., dist. 3, q. 3, nn. 24-25)»[29]. Anche il francescano padre Efrem Bettoni ammette: «La dimostrazione [scotista su Dio] farà capo, invece che all’esistenza, alla possibilità dell’Essere in-causabile. […] Scoto lascia S. Tommaso per proseguire in compagnia di S. Anselmo: se un Essere in-causabile è possibile […], dobbiamo concludere che esiste di fatto»[30]. Inoltre per la concezione volontaristica di Scoto «la volontà dell’uomo non è necessitata da nessun oggetto, neppure dalla Beatitudine, che è un bene senza difetti»[31]. Sempre volontaristicamente Scoto scrive che “è bene ciò che Dio vuole e comanda”[32].
Desiderio naturale di Dio secondo Scoto
Infine, secondo Scoto, «c’è nell’anima nostra un appetito innato e naturale della Visione beatifica (cfr. D. Scotus, Prologus Sent., q. 1, In IVum Sent., dist. 49, q. 10). Un residuo di questa dottrina scotista peggiorata si trova nella potenza obbedienziale attiva di Suarez (cfr. F. Suarez, De gratia, Lib. VI, cap. 5)»[33]. La dottrina tomista[34], insegna, invece, che l’appetito naturale della Visione beatifica è inefficace da parte dell’uomo e condizionato da parte di Dio, ossia se Dio vuole liberamente chiamare l’uomo alla Grazia santificante e alla Gloria del Cielo tramite la Visione beatifica, allora l’uomo può giungervi non con le sue forze naturali, infinitamente sproporzionate all’ordine soprannaturale, ma solamente aiutato dalla mozione soprannaturale di Dio. Questa dottrina è stata ripresa dal Magistero ecclesiastico già nella condanna (1567) da parte di San Pio V di Michele Bajo, che parlava di esigenza naturale della Grazia, la quale sarebbe dovuta e non gratuita (DB, 1001-1080), poi nella condanna del modernismo (S. Pio X, Pascendi, 1907) e infine del neo-modernismo (Pio XII, Humani generis, 1950) e specialmente del libro Le surnaturel di padre Henry de Lubac del 1946 (v. sì sì no no, 30 novembre 2009, pp. 1-4), che riprendeva la tesi scotista e suareziana sulla potenza obbedienziale non passiva, ma in atto imperfetto. Inoltre il concetto scotista di desiderio naturale della Visione beatifica[35] e il concetto suareziano di potenza obbedienziale attiva sono contraddittori nei termini. Infatti essi sarebbero nello stesso tempo essenzialmente naturali e soprannaturali. Quod repugnat, per il principio di non-contraddizione. Quindi la potenza obbedienziale è puramente passiva e giunge all’atto solo se mossa da Dio (“ens in potentia non reducitur ad actum nisi per ens in actu; l’ente in potenza passa all’atto solo per mezzo di un ente già in atto”; “omne quod movetur ab alio movetur; tutto ciò che si muove è mosso da un altro”)[36]. Da tale errore filosofico, oltre Bajo, i modernisti e i neo-modernisti, anche Antonio Rosmini (v. sì sì no no, 15 ottobre 2009, pp. 1-5 e 15 giugno 2011, pp. 1-6) ha tratto delle conclusioni dogmaticamente erronee. Per esempio Rosmini pensava che l’uomo con la ragione naturale può dimostrare positivamente la possibilità della SS. Trinità (e non solo la sua non-ripugnanza o non-impossibilità). Invece il Magistero ha definito che ciò che è essenzialmente soprannaturale non può essere dimostrato naturalmente. Infatti i Misteri soprannaturali quanto alla sostanza superano infinitamente la capacità dei princìpi della ragione naturale (DB, 1816 e 1795).
L’univocità dell’ente secondo Scoto
«Scoto si discosta nettamente dall’intera tradizione metafisica sia classica che scolastica quando sostiene che quello di ente non è un concetto analogo ma univoco»[37]. Padre Bettoni scrive: «I concetti univoci sono lo strumento logico, che mette l’intelletto umano in condizioni di […] conoscere l’essere nella sua totalità»[38].
“Il principio da cui Scoto prese le mosse per negare la distinzione reale tra essenza ed essere[39] è l’univocità dell’essere”[40]. Scoto intende l’essere come essere comune o generale e indeterminato, che sta alla base di ogni ulteriore determinazione; esso è predicabile di tutto ciò che è, quindi di Dio come di tutte le creature, dall’Angelo alla pietra. Esso è anche univoco: “esse est unius rationis, l’essere ha un solo significato” ed “è predicato allo stesso modo di ogni cosa; ens dicitur per unam rationem de omnibus de quibus praedicatur”. Scoto «tende ad ammettere, anzi ammette un certa univocità fra Dio e le creature (Opus oxoniense, I, dist., 3, q. 2, n. 5 ss; dist. 5, q. 1; dist. 8, q. 3)»[41], mentre S. Tommaso ha come oggetto della sua metafisica l’esse ut actus omnium formarum[42], inteso come perfezione massima, determinata e determinante, specifica. L’Esse ha un primato ontologico sull’ente, che è un’essenza la quale ha l’esse ut actus, cioè che l’attua e la rende ente realmente esistente. S. Tommaso studia l’ente, ma sempre in rapporto alla sua perfezione, l’essere: quindi studia l’esse intensivo e non comune o indeterminato, ossia come atto ultimo dell’essenza. L’essere tomistico supera e perfeziona originariamente e ultimamente l’essenza. In ciò l’Aquinate supera lo Stagirita. Certamente il primo concetto che ci formiamo è l’essere comune o universale dell’ente[43]. Ma l’Angelico ha capito subito che quest’essere comune e universale è un concetto vago e indeterminato, che abbraccia tutti gli enti e non dà loro la perfezione ultima. Quindi l’Aquinate scruta a fondo l’esse dell’ens e vede che vi è l’esse come atto ultimo, il quale, a differenza dell’esse commune, ha un valore intensivo e una perfezione, che supera tutte le altre perfezioni, forme, essenze, sostanze ed enti. L’esse ut actus è l’actualitas omnium actuum, è la più perfetta di tutte le cose [44]; l’essere come atto, e non quello comune, è veramente la perfezione ultima e la radice di ogni altra perfezione. Scoto, invece, mette al centro del suo pensiero l’esse commune seu in genere[45], ossia una perfezione minima, indeterminata, universale e generale o comune a tutte le cose. Ora l’essere comune è condiviso da tutti gli enti, da Dio sino al minerale, e quindi l’errore filosofico scotista può aprire le porte al monismo panteista, mentre la metafisica tomistica dell’essere come atto ultimo di ogni perfezione le sbarra inequivocabilmente.
Dimostrazione scotista dell’esistenza di Dio[46]
Scoto definisce Dio come Ente infinito in atto[47]. Ma, «pur cercando di costruire una prova rigorosamente razionale, il contesto in cui Scoto si colloca è quello religioso: Dio è già pienamente riconosciuto in tutta la sua grandezza […] sul piano della Fede. Così l’esordio del De principio di Scoto[48] presenta molte analogie con quello del Proslogion di S. Anselmo»[49]. La prova scotista è o vuol essere una rielaborazione scientifica o strettamente filosofica della conferenza di spiritualità di S. Anselmo ai suoi monaci contenuta nel Proslogion e chiamata “prova ontologica”, poiché dall’idea dell’Essere perfettissimo, cui nulla può mancare (neppure l’essere), si risale alla Sua esistenza reale. I filosofi e S. Tommaso in primis hanno obiettato che non è valido il passaggio dall’idea alla realtà (passaggio su cui si fonda la filosofia di Rosmini dell’idea di essere) e che inoltre l’uomo, il quale ha idee e concetti finiti e limitati, non può avere come punto di partenza un’idea (la quale coglie l’essenza della res) di Dio che è Ente infinito[50]. Quindi si può arrivare all’esistenza di Dio e alla conoscenza di qualche sua proprietà, e non della sua Essenza, solo per un ragionamento che risale dagli effetti alla Causa. Scoto, però contrappone filosofia e teologia[51], ragione e Fede. Ora la ragione umana possiede dell’in-finito solo un concetto negativo (come di ciò che è ‘non-limitato’) e perciò non può dire nulla di positivo sull’esistenza di Dio e sui suoi attributi o qualità, ma solo che Egli è in-finito o non-limitato.
Apofatismo scotista
La prova dell’esistenza di Dio in Scoto, quindi, rischia di far scivolare verso l’apofatismo maimonideo o il nichilismo teologico[52] (v. sì sì no no, 31 gennaio 2010, pp. 1-4): nulla si sa su Dio, tranne che Egli è l’In-finito. Per sapere qualcosa di positivamente più consistente su Dio, occorre la Rivelazione e la Fede[53]. Inoltre Scoto nega la possibilità di provare razionalmente l’immortalità dell’anima[54]. Infine Scoto, come poi Francisco Suarez (v. sì sì no no, 15 febbraio 2011, pp. 1-5), «si rifiuta di ammettere la distinzione reale tra essenza ed esistenza, tranne che in Dio»[55]. Scoto riprende da Avicenna la concezione della non-distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature e con tale teoria prelude a Suarez e alle involuzioni antimetafisiche della modernità[56]. Secondo Gilson - che è stato uno dei più grandi studiosi dal punto di vista storico/filosofico della filosofia medievale[57] e di Scoto - lo scotismo è il diffusore di una metafisica dell’essenza, che segna un ritorno ad Aristotele ed un’involuzione rispetto alla metafisica dell’esse ut actus di S. Tommaso, la quale dà il primato all’essere; una metafisica “agli antipodi di quella del primato dell’esse come era quella di S. Tommaso d’Aquino”[58]. Gilson ha colto bene l’essenzialismo o il ritorno alla metafisica della sostanza o dell’essenza di Aristotele da parte di Scoto e l’abbandono dell’ascesa tomistica alle vette della metafisica come filosofia dell’esse quale “perfezione suprema di ogni perfezione, atto ultimo di ogni atto, essere ultimo di ogni essenza e forma”. Tutto ciò a partire dalla negazione scotista della distinzione reale tra essenza ed essere nelle creature, dichiarata da S. Tommaso, come insegna anche la XXIII Tesi del tomismo: “L’Essenza di Dio è identica al Suo Essere, cioè Dio è lo stesso Essere per Sé Sussistente”[59].
Beatificazione di Scoto ma non dello scotismo
Per quanto riguarda la beatificazione di Scoto, avvenuta nel 1991, Gilson nel 1953, dopo aver concluso la sua opera di oltre ottocento pagine su Scoto, scriveva: “Si riuscirà a far beatificare Scoto, nella misura in cui non vorranno cercar di far canonizzare anche lo scotismo o la dottrina dell’uomo Duns Scoto”[60]. Infatti già nel 1920 la ‘Congregazione dei Riti’ aveva respinto la Positio super scriptis presentata dal Postulatore generale della causa di beatificazione di Duns Scoto[61]. Scoto come uomo è stato un vero cristiano ed ha sviluppato la vita della Grazia pienamente, ma come filosofo ha partorito una dottrina lontana dalla realtà e dalla verità, anche se come teologo non ha errato esplicitamente nella Fede. Gilson concludeva: “Giacché devo scegliere tra l’ens ut ens senza l’esse e l’ens come essentia habens esse, scelgo quest’ultimo. Lo scotismo è una posizione dottrinale in opposizione alla vera metafisica dell’essere di S. Tommaso. Resto contrario alla metafisica scotistica dell’essere universale. […]. Sentiendum est de theologia Scoti, sicut sentit Romana Ecclesia”[62]. Ora la Chiesa, come vedremo oltre, ha approvato ufficialmente e magisterialmente le ‘XXIV Tesi del Tomismo’.
Considerazioni conclusive su Scoto
Scoto con il suo volontarismo, il suo criticismo, il suo fideismo, «si trova a cavallo tra la grande scolastica e quella decadente, spalanca le porte alla ‘via moderna’»[63]. Secondo Van Steenberghen Scoto apre le porte sia al nominalismo di Occam (+ 1350)[64] sia al falso misticismo apofatico di Eckhart (+ 1327)[65]. Il padre francescano Efrem Bettoni valuta criticamente e severamente lo scotismo: «Scoto [ha] l’onore di essere considerato il Dottore più rappresentativo della scuola francescana. In cambio però i punti deboli e i compromessi del suo sistema […], oggi rendono molti studiosi assai perplessi sull’intrinseca coerenza e solidità del suo pensiero. Scoto più che insegnare, incita a pensare»[66].
Perciò se vogliamo veramente e non solo verbalmente sentire cum Ecclesia dobbiamo ire ad Thomam, non a Scoto e Suarez, e volgere le spalle a Rosmini. «Molti teologi quando giungeranno all’altro mondo, si renderanno conto di aver disconosciuto il valore della grazia fatta da Dio alla sua Chiesa dandole il Doctor Communis»[67].
__________________________[1] Cfr. R. Zavalloni – E. Mariani, La dottrina mariologica di G. Duns Scoto, Roma, 1987; cfr. sì sì no no, 30 settembre 2011, pp. 1-8.
[2] B. Mondin, Storia della metafisica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1998, II vol., p. 664.
[4] S. Tommaso d’Aquino, C. G., I, 3 e 7; S. Th., I-II, q. 2, a. 4; De Ver., q. 14, a. 10. Contro cui, Duns Scotus, Opus ox., Prol., q. 3, a. 8, n. 25.
[5] Per il concetto di “causalità” in San Tommaso d’Aquino v. S. Th., I, q. 14, a. 8; ivi, q. 19, a. 4; q. 44; q. 65, a. 3; II-II, q. 9, a. 2; ivi, q. 45, a. 1; q. 46, a. 2; III, q. 7, a. 1; II Phys., lect. X, n. 240; I Sent., d. 18, q. 1, a. 5; IV Sent., d. 3, q. 1, a. 1, sol. 1; De Pot., q. 5, a. 1.
[6] Per la nozione di “partecipazione” in San Tommaso v. In Johann., Prol., n. 5.
[7] Per l’analogia di proporzionalità in san Tommaso v. S. Th., I, q. 13, a. 5 e 10.
[8] Per l’analogia di attribuzione in s. Tommaso v. S. Th., I, q. 5, a. 6; ivi, I-II, q. 61, a. 1; q. 88, a.1.
[9] Cfr. S. Th., I, q. 13, a. 10, ad 4.
[10] Cfr. S. Th, I, q. 13, a. 6, ad 3.
[11] S. Th., I, q. 1, a. 1, ad 2um.
[12] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 37, q. 1, a. 1, sol.; S. Th., I, q. 4, a. 2, ad 3; I, q. 5, a. 1, ad 1; I, q. 29, a. 2; C. Gent., II, 15.
[13] B. Mondin, cit., p. 672.
[14] E. Bettoni, Duns Scoto filosofo, Milano, Vita e Pensiero, 1966, p. 35.
[15] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia” del ‘Centro di Studi Filosofici di Gallarate’, II ed., Roma, Lucarini, 1982, VII vol., col. 526.
[16] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947.
[17] S. Tommaso d’Aquino, De Pot., q. 7, a. 2, ad 9; C. G., I, 26;
[18] S. Th., I, q. 84, a. 7.
[19] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, Prol. q. I, art. 1., ibidem, I, d. 3, p. 1, n. 113; In Ium Sent., dist. 3, q. 5.
[20] D. Scotus, Ordinatio, I, d. 3, p. 1, n. 126, 137 e 186.
[21] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 80, 82-83; De Malo, qq. 3 e 6; De Ver., q. 22.
[22] S. Tommaso d’Aquino, S. Th. I, q. 85, a. 1; De Anima, 4; Quodl., VIII, q. 2, a. 2. Al contrario, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 6, n. 2, 5, 8, 9-14.
[23] D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 3, a. 1, n. 2, 4 e 7.
[24] S. Tommaso d’Aquino, De spirit. creat., S. Th., I, qq. 54-64, 98-103; Comp. Theologiae, cap. 73-78.
[25] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 526.
[26] E. Bettoni, cit., p. 44.
[27] D. Scotus, Opus oxoniense, II, d. 3, q. 1, n. 8-9.
[28] Cfr. T. Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Bologna, ESD, 1991; rist., Verona, Fede & Cultura, 2009; S. Tommaso d’Aquino, S. Th. .I, q. 3, a. 1, ad 3; I. Sent., d. 19, q. 5, a. 2, ad 1; ivi, d. 8, a. 1, ad 4.
[29] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 89.
[30] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 529. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 2, q. 2, n. 11 e 16.
[31] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932, p. 41.
[32] D. Scotus, Reportatio parisiensia, IV, dist. 28 (“Voluntas divina est causa boni et ideo eo ipso quod Deus vult aliquod, ipsum est bonum”); cfr. Opus oxoniense, 3, dist., 37.
[33] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, pp. 92-93.
[34] S. Th., I, q. 12, a. 1.
[35] S. Tommaso d’Aquino, C. Gent, III, 26; S. Th., I-II, q. 62, a. 1; III Sent., d. 27, q. 2, a. 2, ivi, d. 33, q. 1, a. 2, sol.; De Ver., q. 28, a. 8, ad 2.
[36] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, cit., pp. 91-94; Id., L’appetit naturel et la puissance obédientielle, in “Revue thomiste”, n. 35, 1928, pp. 474-478; P. Parente, voce ‘Desiderio di Dio’, in “Dizionario di teologia dommatica”, Roma, Studium, 1947.
[37] B. Mondin, cit., p. 676. Cfr. D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 3, p. 1, n. 26; ib., I, d. 3, q. 2, n. 5-6, 8, 10; ib., I, d. 3, q. 3, n. 6, 8-9, 12; ib., I, dist., 8, q., 3.
[38] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 527. Cfr. D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 7, n. 20 e 26; Id., Quaestiones in Metaph., l. VII, q. 18, n. 11
[39] S. Tommaso d’Aquino, I Sent., d. 19, q. 2, a. 2; De Ver., q. 27, a. 1, ad 8.
[40] P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., pp. 64-65.
[41] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 94.
[42] S. Tommaso d’Aquino, III Sent., d. 6, a. 2; C. Gent., I, 12; S. Th., I, q. 3, a. 4, ad 2. Invece, D. Scotus, Opus ox., I, d. 3, q. 7; Op. ox., d. 3, q. 4, ibidem, I, d. 39, q. unica, n. 13, ib, IV, d. 43, q. 2, n. 10.
[43] De ente et essentia, cap. VI.
[44] De pot., VII, 2, ad 9; De ente et essentia, cap. VI; De pot., II, 2, ad 9; In I Sent., XVII, 1, 2, ad 3; C. G., III, 56; In I Sent., XIX, 2, 2; C. G, I, 36; S. Th., I, q. 7, a. 1; Quodl., XII, 5, 1; S. Th., I, q. 4, a. 1, ad 3. Invece, D. Scotus, Op. ox., d. 3, q. 2, n. 24; ib., I, d. 3q. 3, n. 8, 12, 24.
[45] D. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 6, n. 17; Quaest. in Metaph., Prologo, n. 5 e 9; Q. in Metaph., lib. II, q. 3, n. 22; ibid., lib. IV, q. 1, n. 5.
[46] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 2, a. 3.
[47] d. Scotus, Op. ox., I, d. 3, q. 2, n. 5; ib., I, d. 3, q. 2, n. 6-17; ib., I, d. 2, n. 43, 53, 57-58, 71-73, 118, 130-133, 136, 147.
[48] D. Scotus, De primo principio, I, 1; III, 42; IV, 80; IV, 155.
[49] B. Mondin, cit., p. 682.
[50] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 7, aa 1-2.
[51] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 1; I Sent., Prol, aa. 1-5; De Trin., q. 2, aa. 1-3; C. G., I, 3-8; Quodl., IV, q. 9, a. 3; De Pot., q. 9, a. 5.
[52] Contro cui cfr. S. Tommaso d’Aquino, In De Trin., q. 1, a. 2, ad 1; De Pot., q. 7, a. 5, ad 13 e 14; I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4.
[53] D. Scotus, Ordinatio oxoniensis, I, d. 2, p. 1, q. 1; q. 2, n. 43; ivi, nn. 111-113 e 125; ivi, nn. 130-131 e 137; De primo principio, IV, nn. 134-135.
[54] D. Scotus, Opera omnia, Ed. Vivès, vol. XIII, p. 66; vol. XIII, p. 79; vol. XX, p. 26; vol. XXIV, p. 499; Opus ox., II, d. 17, q. 1, n. 3. Cfr. M. Cordovani, Il Salvatore, Roma, Studium, II ed., 1946, p. 399. S. Tommaso invece la prova nel suo De anima, XIV, ad 16 e ad 18; C. G, II, 55 e 79; S. Th., I, , q. 75, a. 6; ivi, q. 104, a. 4.
[55] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica (1950), tr. it., Brescia, Queriniana, 1953, p. 88.
[56] Cfr. E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, pp. 119-131.
[57] E. Gilson, La filosofia medievale (1922), tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1947; Id., Lo spirito della filosofia medievale (1932), tr. it., Brescia, Morcelliana, 1947. Cfr. il magistrale articolo di padre G. Perini, Thomae doctrinam Ecclesia suam fecit, in Aa. Vv., L’Enciclica “Aeterni Patris” nell’arco di un secolo, vol. I degli “Atti dell’VIII Congresso Tomistico internazionale”, Città del Vaticano, 1981, pp., 89-121.
[58] E. Gilson, L’essere e l’essenza (1948), tr. it., Milano, Massimo, 1988, p. 122.
[59] Cfr. E. Gilson, Giovanni Duns Scoto (1952), tr. it., Milano, Jaca Book, 2008, pp. 222-227.
[60] L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991, p. 143.
[61] Cfr. P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, cit., p. 80.
[62] Cfr. L. K. Shook, Etienne Gilson (1984), Milano, Jaca Book, 1991, p. 451.
[63] B. Mondin, cit., p. 698.
[64] Cfr. C. Giacon, Occam, Brescia, La Scuola, 1945.
[65] F. Van Steenberghen – A. Forest – M. De Gandillac, Il movimento dottrinale nei secoli IX-XIV, in Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche – V. Martin, Milano, Siaie, vol. XIII, p. 496.
[66] E. Bettoni, voce ‘Scoto, Giovanni Duns’, in “Dizionario Enciclopedico di Filosofia”, cit., col. 531.
[67] R. Garrigou-Lagrange, La sintesi tomistica, cit., p. 410.
Chi volesse approfondire il tema dello scotismo può consultare:
C. Balic, “La scolastica post-tomistica: Giovanni Duns Scoto”, in Grande Antologia filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. IV, p. 1349; Id., voce “Scotismo”, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1953, vol. XI, coll. 151-162; G. Lauriola, Introduzione a Duns Scoto, ‘Antologia’, Alberobello, 1996; G. Zavalloni, Giovanni Duns Scoto, maestro di vita e pensiero, Bologna, 1992; D. Scaramuzzi, D. Scoto. Summula scelta di scritti coordinati in dottrina, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1932; O. Todisco, Lo spirito cristiano della filosofia di Giovanni Duns Scoto, Roma, 1975; Id., La nozione metafisica di essere nell’ascesa a Dio del beato Giovanni Duns Scoto, Napoli, 1966; M. Damiata, I e II tavola. L’etica di G. Duns Scoto, Firenze-Pistoia, 1973; B. Bonansea, L’uomo e Dio nel pensiero di Duns Scoto, Milano, 1991; P. Stella, L’ilemorfismo di Duns Scoto, Torino, 1955; Antonio Coccia, Attualità di Duns Scoto: conoscere per amare, in “Ideali politici e problemi religiosi in alcuni grandi Filosofi”, Roma, Miscellanea Francescana, 1977; Id., L’uomo di fronte all’Infinito, Palermo-Roma, Mori, 1969; Id., Contributi scotistici. Storia, dottrina, spiritualità, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; L. Jammarrone, Il problema della creazione nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Contingenza e creazione nel pensiero di Duns Scoto, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1966; Id., Giovanni Duns Scoto metafisico e teologo, Roma, “Miscellanea Francescana”, 1999; S. Vanni-Rovighi, La Filosofia Patristica e Medievale, Giovanni Duns Scoto, in “Storia della Filosofia”, diretta da C. Fabro, I vol., Roma, Coletti, 1954, pp. 242-247; S. Vanni-Rovighi, L’immortalità dell’anima nel pensiero di Giovanni Duns Scoto, in “Rivista di Filosofia neoscolastica”, Milano, 1931, pp. 78-104; G. Pini, Scoto e l’analogia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2002; P. De Töth, Errori e pericoli dello scotismo, Firenze, Mealli & Stianti, 1932; N. Petruzzellis, Studi sull’etica di Scoto, in “Archives de Philosophie”, Parigi, 1940, pp. 68-87; Andrea Dalledonne, Duns Scoto, in “Grande Antologia Filosofica”, Milano, Marzorati, Aggiornamento bibliografico*, vol. XXXII, 1984, pp. 675-682. Il più acuto confutatore dello scotismo è Johoannes Capreolus (+ 1444), chiamato princeps thomistarum, che nelle sue Defensiones theologiae Divi Thomae Aquinatis (ultima edizione Tours, 1900-1908) accosta al ‘Commento alle Sentenze’ di Pietro Lombardo’ fatto da S. Tommaso i testi della ‘Somma Teologica’ e delle ‘Questioni disputate’ dell’Angelico, difendendoli contro gli scotisti e i nominalisti, tanto che gli scolastici hanno creato il motto scherzoso: “si Scotus non sonasset, Capreolus non saltasset; se Scoto non avesse suonato, Capreolo non avrebbe danzato”; cfr. R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, Roma, Ferrari, 1918: sull’univocità dell’ente secondo Scoto, vol. I, pp. 303, 363; sul Desiderio naturale efficace di veder Dio, vol. I, p. 390; sulla confusione tra ordine naturale e soprannaturale, vol. I, p. 340, 365, 482.
27 commenti:
"La storia non può esser fatta dal disordine gnostico e nichilista, non ci si può limitare a osservare e dare opinioni che risultino gradite dalla cultura dominante, non ci si può occupare di consolare e non di insegnare, di far pregare, di riaffermare e impartire Sacramenti." (Gotti Tedeschi)
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-la-terza-guerra-e-gia-scoppiata-contro-la-chiesa-13698.htm
Don Curzio mette qua il dito nella piaga.
A proposito dell'univocità dell’essere scotista, breve riflessione.
Credo si trovi in Scoto la genesi del terribile equivoco della modernità: al di là delle intenzioni, si è sempre più svalutata l’«analogia» dell’essere e sostituita con una frenetica ricerca di univocità - poi trasformata in Cartesio dalla smania per le idee «chiare e distinte».
È come se l’analogia metafisica avesse creato una sfiducia nella disciplina da parte di Scoto e successori. La metafisica, in tal modo, fu vista come vaga, astratta, inconcludente, incapace di univocità, di certezza.
Non si è voluto vedere che già nell’analogia c’era univocità, poiché analogo non vuol dire equivoco: l’analogia comprende anche l’univoco. Scoto, involontariamente o meno, fece scattare una presa di distanza, che si concretizzò nella modernità. La foga dell’univocità travolse anche la religione, la cui ragionevolezza poggiava sulla metafisica.
E fu il disastro…
La falsa metafisica ha fatto tanti frati ignoranti della loro vera vocazione francescana...
https://exffi.wordpress.com/2015/09/03/torniamo-a-seguire-le-orme-del-nostro-serafico-padre/
Osservatore d'Assisi
Grazie, Osservatore, per il suo servizio.
Speriamo e preghiamo che siano in tanti a seguirla.
Leggere questa lettera di SS. Benedetto XVI sulla dottrina di Duns Scoto
https://scotusweb.wordpress.com/lettera-apostolica-italiano/
Estratti della lettera apostolica "Laetare Colonia" di Benedetto XVI:
«Egli [il beato Duns Scoto] infatti, associando la pietà con la ricerca scientifica, secondo quella sua invocazione: “Il primo Principio degli esseri mi conceda di credere, gustare ed esprimere quanto è gradito alla sua maestà e innalza la nostra mente alla sua contemplazione”[1], con il suo sottilissimo ingegno è penetrato nei segreti della verità naturale e rivelata e ne ha ricavato una dottrina tale da essere chiamato “Dottore dell’Ordine”, “Dottore Sottile” e “Dottore Mariano”, divenendo così il capostipite della Scuola Francescana, luce ed esempio a tutto il popolo cristiano.
Desideriamo pertanto richiamare gli animi degli uomini dotti e di tutti i credenti e non credenti al cammino che Scoto ha seguito per evidenziare l’armonia tra fede e ragione, nel definire in tale maniera la natura della teologia da esaltarne costantemente l’azione, l’operazione, la prassi, l’amore, piuttosto che la pura speculazione; nel compiere questo lavoro, egli si fece guidare dal Magistero della Chiesa e da un sano senso critico in merito alla crescita nella conoscenza della verità, ed era persuaso che la scienza ha valore nella misura con cui viene realizzata nella prassi».
Essendo tra coloro i quali provarono un certo disagio nel leggere quelle critiche così tranchant all'indirizzo del Dottor Sottile, e avendo poi approfondito sul sito di don Curzio le ragioni di quel giudizio così severo, ora qui riportate, mi permetto ancora due parole.
Il punto critico dell'impianto scotista è anche a mio parere lo scarso conto, quando non addirittura la contrarietà, in cui è tenuta l'analogia. Ritengo anch'io essere questa figura centrale nell'economia dell'edificio metafisico Aristotelico, quindi tomista, ma più semplicemente realista. Quindi essenziale tout court. Quando parlai con Marchesi, esperto di Scoto e allievo di Efrem Bettoni e Sofia Vanni Rovighi, di questo tema, il caro Professore tenne a specificare che il Doctor Ordinis ricusava l'analogia in sede logica, non ontologica, e che faceva un gran torto al filosofo francescano chi confondesse i due piani.
Ora, la questione in effetti è "sottile", vale a dire che sotto il profilo logico chiaramente l'univocità è preferibile e forse addirittura necessaria, rispetto all'analogia, ma una logica univocista pura, cesserebbe di essere sensata in senso proprio, non essendo più logica di ... quindi la soluzione univocista dell'essere "logico" non tiene.
Nondimeno, se ci rivolgiamo ad autori "preconciliari" di sicura dottrina che hanno studiato a fondo il tema dell'analogia, mi riferisco specificatamente a padre E. Przywara e a l suo analogia entis, troviamo una apprezzamento inaspettato anche per il filone platonico-agostiniano ... aggiungo io scotista, definendo queste filosofie come filosofia dell'immanenza trascendente, polari rispetto alla trascendenza immanente di conio tomista, laddove il ritmo tra queste due apparentemente incociliabili metafisiche è dato appunto dal principio di analogia.
La questione, evidentemente è complessa, non trattabile nello spazio di un commento ad un post, nè in un post, per quanto esteso. Quello che vorrei rimarcare è che, se è pur vero che non necessariamente dottori della Chiesa anche importanti sono infallibili in tutto ciò che hanno detto, non è neppure corretto rottamarne il pensiero in termini e modi spicci. Una critica seria e ragionata al pensiero di Duns Scoto è chiaramente possibile, ma richiede una comprensione e un'estensione di argomenti esuberante quella che questo tipo di mezzi permette, a mio modesto avviso.
Capisco e apprezzo la vis apologetica di don Curzio e ammiro il suo sforzo di ricostruire la storia degli errori filosofici, metafisici e dunque teologici dei secoli scorsi. Guardo con viva stima il vigore teoretico con cui si ristabiliscono i diritti della philosophia perennis contro la sofistica e la demagogia attuali, non sono però convinto che gli autori, non tutti quanto meno, che non rientrano in questa categoria siano allo stesso titolo sofisti, demagoghi, falsi amici o peggio. Lo spirito più genuino della Scolastica era appunto quello di discutere con la massima libertà teoretica le proprie premesse e i propri argomenti, Scoto stesso si avvalse di questa libertà per discutere alcune posizioni di S. Tommaso, ma ancor più spesso per difenderle da attacchi speciosi. Fa parte della normale dialettica del pensiero filosofico.
Un caro saluto a tutti.
non sono però convinto che gli autori, non tutti quanto meno, che non rientrano in questa categoria siano allo stesso titolo sofisti, demagoghi, falsi amici o peggio. Lo spirito più genuino della Scolastica era appunto quello di discutere con la massima libertà teoretica le proprie premesse e i propri argomenti, Scoto stesso si avvalse di questa libertà per discutere alcune posizioni di S. Tommaso, ma ancor più spesso per difenderle da attacchi speciosi. Fa parte della normale dialettica del pensiero filosofico.
Grazie, Giampaolo per questa limpida esposizione chiarificante quel tanto che è possibile, appunto, con strumenti come questo.
Condivido la conclusione quotata e penso che i lettori più attenti, nel rendersi conto della complessità delle questioni, ma anche delle basi indispensabili per addentrarsi in riflessioni non semplicistiche ma sufficientemente divulgative, saranno invogliati ad approfondire ulteriormente.
Per chi non e' della materia, si potrebbe avere una spiegazione comprensibile di concetti difficili come "analogia entis" e "essere in atto"? Una spiegazione, diciamo, terra terra, se possibile? Grazie.
Mi permetto di dire, scusate (innanzitutto per l'anonimo: vi seguo saltuariamente), che il punto critico è a mio giudizio proprio il citato "edificio metafisico aristotelico, quindi tomista, ma più semplicemente realista; quindi essenziale tout court", elevato e specie in certi ambienti, a unico paradigma del ragionare. È certo che la nostra mente non sfugga all'analogia, che è il conoscere per similitudini, ma è sentenza razionalistica che questa sia di proporzionalità, cioè che la ragione percorra gli universali. Se noi andiamo all'etimologia delle parole che usiamo, vedremmo che il nome non si distingue dalla definizione della cosa riferita che ipoteticamente, ossia che la nostra mente conosce e associa le proprietà degli enti e non di più, e che perciò il concetto di "sostanza" è un portato di quella formalizzazione del linguaggio che prelude alla superbia della ragion-ragionante. Si conoscono, a questo punto, le obiezioni dei tomisti, quasi le sento: "scettico, relativista, occamista". Preciserei innanzitutto che Scoto è ancora uno scolastico. Quello infatti che obietta la scuola platonico-agostiniana è che il principio della conoscenza non è "realistico", ma una misura mentale, interiore, ideale che è innata ed è il mezzo pel trascendimento del reale, il quale reale non è, essendo la "natura" su cui tanto studiano i filosofi, una natura decaduta a seguito del PO. Questo dico, e spero di averlo fatto in maniera sufficientemente chiara. L'uomo semplice, schiettamente religioso, ha il senso immediato di Dio proprio perché riconosce nell'analogato principale (dico di un'analogia di attribuzione) un infinito non di ampiezza ("universale") ma di perfezione, e quindi un non definibile e un vero Assoluto.
Temo che una spiegazione terra terra dell'analogia entis non sia possibile. Quello che è possibile è rimandare all'opera omonima in cui l'autore, Erich Przywara, ha sviluppato questo concetto: Analogia entis Metaphysik. Ur-struktur und All-rhitmus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1962. La prima versione è però del 1932. Esiste anche una buona traduzione italiana curata da Paolo Volonté per i tipi di Vita e Pensiero pubblicata nel 1995, ma credo ancora disponibile (Analogia entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico.
Se trovo qualche minuto in più, nel pomeriggio tenterò comunque una sintesi sicuramente insufficiente.
@ All'anonimo "relativista" (11:25), che sembra negare il concetto della sostanza.
Se la sostanza e' solo il prodotto di una nostra "formalizzazione linguistica" (ho capito bene?) allora la differenza "di sostanza" tra le cose (la carne dal frutto, il frutto dal vino, etc.) non sarebbe di natura ma solo linguistica, e quindi posta da noi? Questo pero' non puo' essere perche' bisogna ammettere che la differnza e' reale, esiste cioe' nella natura (nella mela che non e' in se' un'albicocca) e non e' posta da noi ma da noi solo percepita e riconosciuta. La differenza di sapore e colore profumo tra i diversi tipi di frutta non inerisce forse ad ogni tipo? E allora che esista una "sostanza" caratteristica di ogni frutto, che lo fa essere l'ente particolare che e', come si fa a negarlo? Cos' la "sostanza" del pane e' quella di esser pane e non esser, poniamo, vino. La "sostanza" cioe' la natura intrinseca, che ne costituisce l'essenza, cio' che lo fa essere cio' che e'. Parvus
Cerco di saldare il debito incautamente contratto quest'oggi.
L'analogia entis è la struttura originaria dell'essere in quanto ente. Vale a dire che ogni ente, tutto ciò che c'è, è in una qualche misura, dipendente dalla sua propria capacità d'essere, simile e dissimile all'Essere che crea, così come è simile e dissimile agli altri esseri creati. Nel pensiero di Przywara, che si vuole però in questo fedele prosecutore sella filosofia di S. Tommaso, esiste un'analogia orizzontale: la somiglianza di tutti gli enti, che differiscono l'un dall'altro, ma appunto per poter differire devono prima convergere in un qualche genere, così come ad esempio pere e mele differiscono le une dall'altre, ma convegono quanto al genere frutta che le accomuna; mentre, per restar nell'esempio, tra una mela e un quarzo, non essendoci un genere comune evidente, non si può parlare di differenza, ma di diversità.
Ora, dicevo, c'è però anche un'analogia verticale, ovvero una somiglianza dissomiglianza con Dio in ogni ente, e qui, in linea con in Concilio Laterano IV del 1215, occorre ribadire che la dissomiglianza sarà sempre superiore a qualsiasi somiglianza si possa rintracciare nella creatura.
Questo punto è nevralgico, spiega Przywara, ed è anche la cima di displuvio tra la teologia cattolica e quella protestante, non a caso Barth la definì l'invenzione dell'anticristo. Ovviamente la ragione sta dalla parte di Pryzwara. Cerco di chiarire. Mentre per il protestantesimo l'unico modo di dire Dio è simbolico, non avendo la ragione umana alcuna capacità di speculare sensatamente sul divino (per Lutero il peccato originale ha sfigurato completamente l'uomo), per il cattolicesimo invece Dio si può dire per analogia, vale a dire che è possibile per via razionale cogliere, seppur "sicut spaeculum in aenigmate" per dirla con S. Paolo, alcuni tratti della Sua essenza. Questa possibilità di "dire" Dio ci è data da Dio stesso, che, in quanto Logos, ci partecipa secondo la misura propria a ciascuna creatura del Suo essere.
Così come in filosofia l'analogia era la via media tra l'identità parmenidea dell'essere è e l'equivocità eraclitea del panta rei, allo stesso modo in teologia l'analogia si costituisce come via media tra la via apofatica e quella catafatica, tra la via negativa e quella affermativa, pur con la preminenza della via negativa. Ridetto più chiaramente, spero, l'analogia permette di dire cosa/Chi è Dio, specificando Chi e cosa non sia.
Detto questo, mi scuso per non essere in grado di fare di meglio, ma davvero sono temi difficili, che richiedono un vocabolario molto preciso e che non si possono esaurire in poche (ma comunque troppe, per spazi come questi) battute. Spero di essere stato un minimo di aiuto.
Ciao
Vengo ora all'anonimo delle 11.25 (un nom de plume aiuterebbe, poi se si è occamisti i nomi non dovrebbero far paura ;)
Premetto che io mi riconosco, indegnamente ça va sans dire, nella scuola aristotelico-tomista, quindi tengo in gran conto l'analogia che è proprio l'antidoto al razionalismo occamista e moderno.
Entro subito con questo in medias res, l'analogia è sia d'attribuzione che di proporzione, oltre che di proporzionalità (non mi inoltro negli ulteriori dettagli di propria, impropria, intrinseca o estrinseca, perché a questo livello non serve una grana così fine). Proprio volendo restare sul terreno etimologico il prefisso anà di cui si compone l'ana-logia dicenodo "stare sopra", dall'anw greco, spiega questa come logos più alto, in grado comprendere elementi altrimenti distanti.
Se è vero che l'analogia come concetto nasce in ambito matematico pitagorico con Archita di Taranto, quindi in riferimento alla proporzionalità, è però altrettanto vero che il medio proporzionale in grado di esprimere in unità due grandezze altrimenti incommensurabili era appunto un numero di un altro ordine di grandezza, un po' com il princeps analogatus lo è in relazione agli analogati secondari. Certo occorrerà S. Tommaso per esplicitare i nessi tra questi due generi di relazioni e raccordarli nell'analogia dell'essere, nondimeno l'analogia da qui in poi raccoglie tanto le istanze della logica che oggi definiremmo lineare, ovvero proporzionale, quanto quelle dell'attribuzione partecipativa, ovvero di attribuzione.
Con questa dinamica in mente il concetto di sostanza, che è eminentemente analogico, è tutto meno che il portato della formalizzazione successiva, suareziana aggiungo io. Il fatto che oggi non si comprenda più l'idea di sostanza, ma ancor più quello di forma sostanziale, è spia dell'incapacità di concepire l'analogia adeguatamente. La scienza moderna poi è l'esempio più chiaro di questa difficoltà, attestata sul solo piano quantitativo (proporzionale, se vogliamo tenere il vocabolario adottato sin qui), incapace di comprendere gli aspetti qualitativi degli enti.
Rigetto invece decisamente la tesi secondo cui il filone platonico agostiniano non fosse realista. Quando Agostino, parafrasando la Scrittura, spiegava che il creato è stato fatto secondo pondus, numerus et mensura, si riferiva alla realtà della creazione, non alla sola coscienza umana, che semmai è stata fatta per riconoscere e corrispondere a questi principi "universali" della creazione.
Semmai la differenza con il tomismo è sui modi di pervenire a questa realtà, ma non certo sulla sua esistenza e sulla sua accessibilità. Il fatto la natura sia decaduta dopo il peccato originale non significa che sia caduta ... nel nulla, né che sia stata corrotta in modo irreparabile (tesi luterana appunto). La natura dopo il PO è ferita, quindi curabile (mediante la Redenzione), tra corruzione e ferita c'è una differenza, che può sembrare sottile, ma è un abisso teologico e antropologico.
Per concludere, l'analogia ci dà i termini per parlare dell'Assoluto nell'unico modo possibile, non meramente equivoco o simbolico, nè pretenziosamente e razionalisticamente univoco, ma appunto analogico, dove si custodisce la sempre eccedente alterità, partendo da una familiarità partecipativa che ci è comunicata nell'atto di essere garantitoci da Dio stesso. Niente ganz Andere, ma neppure nessun immanentismo, appunto parola che ripete la Parola.
Un saluto a tutti.
@ Grazie per la cortese spiegazione, che ho trovato molto interessante, anche se per forza di cose non sono riuscito a seguirla in tutto (ma per colpa mia).
E' un concetto importante perche' riguarda anche il nostro modo di credere in Dio, per la parte accessibile alla ragione umana. La parte accessibile alla ragione non si basa sempre sul concetto espresso da S. Paolo in Rm 1, 19-21 ?: "...poiche' quel che si puo' conoscere di Dio e' cosa a loro nota, avendolo Dio manifestato ad essi. Infatti, le sue invisibili perfezioni, come la sua eterna potenza e la sua divinita',appariscono chiare dal mondo creato, quando si considerino nelle sue opere; quindi non sono scusabili, perche', dopo aver conosciuto Dio, non gli hanno dato gloria come Dio...". S. Paolo parla qui per divina ispirazione e quindi e' come se Nostro Signore ci facesse sapere il modo giusto (per la nostra ragione) di conoscere Dio: dalle sue opere. Per chi non ha studiato filosofia o non ha una mentalita' speculativa, basta e avanza. Quali sono le "opere di Dio"? L'uomo, la natura, il mondo, l'universo, l'ordine che appare nel piccolo e nel grande (la diade fondamentale per Platone), un ordine che tiene tutto insieme e sembra render funzionale a se stesso anche il disordine.
Pero', se ci mettiamo ad indagare, partendo dal basso, dall'esperienza nostra quotidiana, potremmo trovare delle difficolta' per arrivare dal piccolo al grande ossia dall'ente singolo a Dio. E qui ci puo' aiutare questo concetto della "analogia dell'ente", come l'ho capito io. Tutto cio' che esiste, da cosa dipende? Prima di tutto dipendera' dalla sua propria "capacita' di essere". Che vuol dire? Che l'ente chiamato essere umano sara' il risultato della sua capacita' di essere cio' che deve essere secondo la sua natura, gia' inclusa nel seme dal quale nasce. Questa "capacita' di essere", lo e' per un fine, grazie al quale l'ente si forma per quello che e' e deve essere. Ma tutto il processo nel quale si attua la "capacita' di essere" non puo' essere autogenerato, dal nulla o per caso, deve a sua volta risultare, nel suo essere ed attuarsi, da una "capacita'" superiore, la quale agisce analogamente all'ente che (nell'esempio) e' l'essere umano; analogamente nel senso che anch'essa si attua secondo il proprio fine. Pero' l'attuarsi secondo il proprio fine e' qui l'attuarsi del nous, di Dio secondo le "sue perfezioni"; un attuarsi che e' l'essere stesso di Dio creatore, il quale nella creazione opera indubbiamente per un fine.
Nella creazione appare allora l'assoluta trascendenza di Dio rispetto a tutta la realta'(esiste solo perche' Dio l'ha creata pur restando Dio del tutto separato da essa) e nello stesso tempo quella "capacita' di essere" che ritroviamo per analogia nel "piccolo" rappresentato dall'uomo, creato inizialmente "ad immagine e somiglianza di Dio". Confondiamo allora natura umana e Sovrannaturale? No, perche' si tratta solo di analogia dell'ente non di identita'. Giuste o sbagliate che siano queste riflessioni, grazie per gli spunti offerti. Parvus
Grazie a Giampaolo e a Parvus :)
Il sottoscritto non nega il concetto di "sostanza", ma che questa sia accessibile alla speculazione umana. Ritenendo, poi, che all'uomo non sia dato di possedere colla mente gli universali sì, ma nemmeno i singolari, essendo le due cose collegate, assolutamente non gli si può dare dell' "occamista", e se l'ha scritto l'ha fatto solo perché conosce il vostro modo di etichettare chi non sta al verbo aristotelico. E dicasi lo stesso dell'accusa di "spiritualismo", con annesso "relativismo" (e te pareva!), quella secondo cui il mio richiamo all'interiorità agostiniana sarebbe il metodo rituale di mascheramento del soggettivismo filosofico (ma da quali elementi, questa deduzione?).
Il punto critico della metafisica tomistica è la pressoché totale messa in parentesi del problema del male. Il suo limite consiste proprio nel punto di forza, il fatto di essere un sistema intero, filosoficamente straordinario (lo riconosco), al quale però la fede si aggiunge praticamente come un "+ qualcosa", e non come un che di capitale. Dico a Parvus che per la conoscenza del vero Dio (attenzione all'aggettivo) non bastano gli alberi e i fiumi o le mele e le pere, ma occorre la Rivelazione, ossia il nesso PO-Divina Redenzione, o almeno il senso riconosciuto della propria debolezza e distanza attuali da Dio. E questo è S.Agostino, non Lutero.
Da anti-modernista fermo, io mi limito semplicemente a notare la ristrettezza di vedute del mondo "cattolico-tradizionale", i duri e puri alla Don Nitoglia, ciò che mi convince, pure nello scempio attuale, a non fare gli scismatici.
Un saluto.
Lieto di aver provocato le interessanti riflessioni di Parvus. Concordo vivamente con l'osservazione paolina che vi sono anche conoscenze di Dio meno enigmatiche e disponibili all'intelletto naturale. Del resto la teologia precede la filosofia non solo sotto il profilo ontologico (Dio, platonicamente, è prima dell'essere, essendo colui che è) ma anche sotto quello più semplicemente cronologico. L'analogia entis è preziosa perché di ogni ente mette in valore l'ordinamento al Creatore così come il suo posto nella gerarchia degli enti.
Mi spiace che l'anonimo delle 15.17, che assumo sia lo stesso del 5 settembre h. 11.25 e che, ripeto, aiuterebbe lo scambio, se adottasse almeno uno pseudonimo, se la sia presa sparando nel mucchio di un un non meglio precisato tradizionalismo.
S. Tommaso ha dedicato alla Quaestio de Malo lo studio più maturo ed esteso dei suoi tempi, che è stato paradigmatico non solo per tutto il medioevo, ma per la canonistica successiva, questo per dire che, se c'è un punto debole nel suo edificio filosofico teologico, non è certo quello del male, che è ben al centro della speculazione dell'Angelico. Dico di più, per smentire una certa storiografia che mi pare allignare nel suo ragionamento: la fonte patristica più citata da S. Tommaso, e non solo nel de Malo, è proprio S. Agostino, a dimostrazione del fatto che i due "sistemi" di pensiero sono tutto meno che incompatibili, anzi. Sulla questione in oggetto, poi, il pensiero dell'Ipponate e quello dell'Aquinate coincidono, per entrambi il male è privatio boni, con buona pace degli esistenzialisti moderni o dei vari Pareyson che fraintendono Dostoevskji (ma questo è un altro discorso).
Che la fede poi sia un'aggiunta, quasi accidentale, al "sistema" di S. Tommaso è serenamente falso. Le categorie della fides qua e fides quae, così come quella del Lumen Gloriae e potrei continuare per qualche ora sono tutte di squisito conio tommasiano, neppure tomista, e sono categorie di fede tutt'oggi centrali, ancorché neglette. Basterebbe poi semplicemente leggere, o meglio ancora ascoltare in gregoriano, gli inni eucaristici composti dall'Angelico per capire come fosse compenetrata e ispirata dalla fede la filosofia e la teologia tommasiana.
Se c'è una cosa che si apprende alla scuola di S. Tommaso è che il criterio per giudicare della bontà o meno di un sistema filosofico è la sua permeabilità al dato rivelato, tutto il contrario quindi dell'idea che mi pare se ne sia fatta lei. Non dubito che alcuni pessimi ripetitori della sua filosofia possano aver dato o dare ancora quell'impressione di ripetizione asfittica di formule mal imparate, la realtà però è ben altra.
Quanto alla Rivelazione e alla sua priorità sulle prove dell'esistenza di Dio, a posteriori o a priori che siano, anche qui basti considerare che per l'Aquinate quelle prove erano poco più che un esercizio di logica, propedeutica alla filosofia vera e propria, mentre l'architettura stessa della Summa Theologiae aveva nell'Incarnazione il Suo baricentro.
Continuo a non capire chi o cosa sia questo fantomatico mondo "cattolico tradizionale" dalle vedute così ristrette, faccio notare che S. Pio X, colui al quale dobbiamo la Pascendi contro il modernismo, ribadì esplicitamente l'ammonimento di Leone XIII che nella Aeterni Patris del 1879 disse: Ite ad Thomas, per contrastare il pensiero debole già serpeggiante nella curia e nella teologia del tempo. Se si vuol corroborare la causa antimodernista, S. Tommaso non può essere lasciato in soffitta. E' l'alletato più prezioso.
Un caro saluto a tutti.
@ A Giampaolo e all'anonimo irascibile
Grazie a Giampaolo per le ulteriori precisazioni. All'anonimo irascibile (ma perche', che motivo c'e'?) rispondo in questo modo.
1. Il concetto della sostanza possiede una sua validita' intrinseca per comprendere la natura delle cose, indipendentemente dalla questione dell'esistenza di Dio. Si tratta della comprensibilita' razionale della natura, tanto per cominciare. Il neoatomismo contemporaneo (fisica quantistica) nega nel modo piu' radicale tale concetto e persino quello della causalita'. Risultato: deve dire che l'ordine della natura (cosi' meravigliosamente indagato) dipende dal caso. In pratica, la stessa conclusione cui erano giunti gli atomisti antichi, con l'azione del loro "clinamen", se ben mi ricordo. Dov'e' allora il progresso nel sapere? E' evidente che bisogna riappropriarsi del concetto della sostanza, come essenza degli enti o loro natura intrinseca, secondo il fine per cui esistono gli enti stessi, se si vuol tornare a dare un senso alla realta'. Qui il complesso concetto della "analogia dell'ente" puo' indubbiamente aiutarci.
2. Esiste una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio, anteriore alla Rivelazione e sempre presente nell'uomo, in quanto essere appunto razionale. Se vogliamo, non appare gia' nel nous di Anassagora? E san Paolo nel primo cap. della Lettera ai Romani non si appella forse ad essa, per accusare i pagani miscredenti del loro errore? Quei pagani non conoscevano la Rivelazione eppure avevano l'obbligo razionale di conoscere Iddio, riflettendo con il loro intelletto sulle sue opere. Rileggiamo: "poiche' quel che si puo conoscere di Dio e' cosa a loro nota, avendolo Dio manifestato ad essi [ e come, prima della Rivelazione? Con le sue opere, che debbono parlare all'intelletto]. Infatti, le sue invisibili perfezioni...appariscono chiare [chiare, dice] dal mondo creato, quando si considerino nelle sue opere..." 1, 19-21.
3. Irascibile: in che senso la mente, oltre a non poter conoscere gli universali, non potrebbe conoscere nemmeno i singolari? Ho interpretato bene? Parvus
Chiedo ulteriormente scusa, innanzitutto al gestore del blog, che gentilmente mi permette di comunicare in Anonimo, ma non per altro, perché sono semplicemente di passaggio e non molto avvezzo ai mezzi. Giampaolo e Parvus, sono ancora l'occamista irascibile.
Sig.Giampaolo, il sottoscritto è stato almeno due anni "alla scuola di S.Tommaso" d'Aquino, lo ha letto in originale, in seconda e in terza Scolastica, da Caetano a Tyn e da Lagrange a Fabro, non ne ha una conoscenza superficiale e in questa sede ha sempre usato l'aggettivo "tomista", non "tommasiano", incentrando la sua obiezione sulla di lui "scuola": lei mette in dubbio la mia fede cattolica se mi fa dire che per San Tommaso (santo) la ragione viene avanti la fede, cosa mai lontanamente da me pensata.
Come non lo penso dei tomisti. Il mondo "tradizionalista" (aggettivo improprio e brutto, ma dobbiamo pur capirci) ha il limite di assolutizzare la contingenza della Chiesa di metà Ottocento, che nella temperie dei tempi razionalistici ha dovuto (cosa inaudita!) nientemeno che scegliersi un sistema filosofico. Dello stesso S.Pio X si fa un fastidioso uso ideologico.
Personalmente, dopo tanto meditare S.Tommaso, dovetti concludere, per dirla con Petrarca, che quegli studi mi avevano reso più dotto ma non migliore, e perciò mi allontanai dal tomismo, alla ricerca di un supporto alla fede più adeguato. Il male messo in parentesi, l'ottimismo conoscitivo (cosa che non ha riscontro umano), la pressoché totale assenza di una teologia della storia (e qui come obietta?), la visione politica (molto interessante sarebbe discuterne, ma non è la sede), tutto questo mi ha fatto virare sulla Patristica latina. Fin qui il mio percorso, che giustamente non interessa a nessuno.
Ma se io mi sono permesso l'appunto polemico, è proprio perché venendo da quell'ambiente, ne conosco la sottile presunzione da unici detentori dell'unica formulazione possibile della fede. E dispiace vedere (ma è opinione mia, ripeto) un blog che tanto ci conforta fare una così netta scelta di campo, perché di questo si tratta scegliendo don Nitoglia.
Scusatemi. Buon proseguimento.
E dispiace vedere (ma è opinione mia, ripeto) un blog che tanto ci conforta fare una così netta scelta di campo, perché di questo si tratta scegliendo don Nitoglia.
Per Giampaolo e Parvus,
perdonatemi se dopo le vostre chiare e appassionate osservazioni, che ho molto apprezzato e ve ne ringrazio (sono preziose per noi tutti), mi soffermo o po' terra terra: ho avuto l'impressione che, più che essere "uno di passaggio", alla fine è qui che il nostro Anonimo voleva andare a parare...
Ma guardi, senza fare dietrologie, voi avete una linea ed è giusto che la portiate avanti. Io che vi leggo senza scrivere, ho voluto meglio valutare quanto fosse granitica la vostra tenuta filosofica. E devo dire che lo è, ciò che a suo modo è un bene e fa di voi una bella unità, come d'altronde quella che si riscontra fra i domenicani (ripeto che so di cosa parlo). Ne è uscito un confronto e tutto qui. Certo non mi dispiacerebbe ricevere almeno l'onore delle armi anziché alternativamente le etichette di relativista e irascibile e anti-tommasiano, ma fa niente.
Che Cristo regni.
@ All'Anonimo, solo per precisare, non per polemizzare.
Nel mio primo intervento ho usato "relativista" fra virgolette, nell'ambito di una domanda di chiarimento.
"irascibile" era detto in tono scherzoso, evidentemente, anche se si notava una punta polemica nella sua risposta. Non e' comunque un peccato grave.
Nel suo appunto finale su S. Tommaso, trovo interessante lo spunto sulla mancanza di una teologia della storia in san Tommaso. Non sono una specialista di san Tommaso, sia chiaro.
Possibile risposta: non sara' che l'Angelico trovava la necessaria teologia della storia gia' ben delineata nella agostiniana Civitas Dei? Almeno nei tratti generali. Comunque, e' un fatto che il pensiero medievale non era storicista. Una eccezione sembra costituita da Gioacchino da Fiore, ammesso che si possa parlare in lui di una vera filosofia della storia. Qui Loewith ha scritto pagine interessanti a suo tempo. La ripartizione triadica della storia in tre epoche fondamentali comincia proprio con Gioacchino, con uno schema che sfocia inevitabilmente in una visione che appare difficile accordare con la "filosofia della storia" di impostazione agostiniana. Cordiali saluti e alla prossima, Parvus
Ben trovati (sono sempre Giampaolo, ma scrivo da un Pc diverso, dove non ho le credenziali solite).
All'anonimo di passaggio, che chiede l'onore delle armi, replicherei che senz'altro quello gli è reso, solo non mi ero accorto fossimo alla pugna. Forse giova ricordare un paio di elementi di questa, comunque interessante, interlocuzione: il post di cui stiamo parlando nasce dalle proteste/richieste (tra gli altri anche mie) di chiarificazione rispetto ad un giudizio spiccato nei riguardi del dott. Sottile che ci è parso quanto meno affrettato. Ripeto, nei limiti della mia conoscenza filosofica io mi rifaccio alla scuola di Tommaso, dunque sono tendenzialmente d'accordo con i contenuti critici riguardo a certi aspetti della filosofia di Duns Scoto, e un po' più d'accordo sulla critica ad un certo scotismo, nondimeno, come facevo notare, se non altro proprio per quell'onore delle armi di cui sopra, protestavo per un trattamento più generoso nei riguardi del dott. Ordinis. Da tomista (si parva licet) difendo e difenderò sempre l'"antagonista" da attacchi ingenerosi, ancorché magari fondati.
Detto questo, mi compiaccio per le sue letture primarie e secondarie di e sull'Angelico, mi spiace sia incappato nei detentori di verità di cui scriveva, ma le chiederei se può dire la stessa cosa per quello che è accaduto qui, dove non mi pare che ci sia stata alcuna supponenza (o almeno lo spero, nel caso io lo sia stato me ne scuso) o complesso da primi della classe. Questo per dire che l'arroganza, la chiusura al confronto, la pretesa di avere l'unica ed esclusiva verità in tasca non sono appannaggio dei tomisti, dei domenicani o dei "tradizionalisti" tout court, ma sono miserie umane comuni purtroppo a tutte le latitudini filosofiche, teologiche, culturali etc.
Ad rem. Lei mi accusa di averle implicitamente dato dell'infedele, mettendole in bocca la tesi risibile secondo la quale S. Tommaso sarebbe stato un razionalista ante litteram; Respondeo che replicavo alla sua affermazione, che a questo punto preferisco riportare verbatim, così da evitare fraintendimenti, per cui :" [...] la fede si aggiunge praticamente come un "+ qualcosa", e non come un che di capitale". Io ribadivo come fosse assolutamente capitale la fede nel "sistema" filosofico tommasiano, portando alcuni esempi, e come pertanto quel giudizio fosse infondato. Non era mia intenzione mancare di riguardo, ma soprattutto non era un obiezione ad hominem, ma ad rem. […]
[…] Rispetto agli altri punti osservo questo. Se è vero che il tradizionalismo ottocentesco nacque e si sviluppò in relazione ad una temperie culturale ben precisa, non è vero né che quella temperie sia mutata essenzialmente, né che le verità affermate in forma anti-tetica cessino di essere tali. Faccio un esempio che porta sul tavolo anche un altro punto della sua replica. S. Pio X, quando scrisse la Pascendi e la Lamentabili, certamente aveva di fronte il modernismo e indirizzava le sue parole a quell'eresia, ma quell'eresia era ed è versipelle quant'altre mai, si è riciclata dai tempi di Pio IX ad oggi, così che quanto scritto allora, mutatis mutandis, vale anche oggi. Nessun uso ideologico di un Santo Pontefice. La campagna portata avanti da don Curzio sul valore della philosophia perennis, che per inciso è un cavallo di (buona) battaglia squisitamente tommasiano, mira a ristabilire quest'ordine, quell'ordine cioè che è stato impresso dal Creatore al creato (vedi tutto il tema dell'analogia Entis appunto).
Ribadisco poi con forza che è scorretto sia dal punto di vista storiografico che da quello più propriamente contenutistico dire, come lei insiste a ripetere, che il male sia una parentesi nella filosofia-teologia dell'Aquinate. Non è così. Il de Malo di S. Tommaso raccoglie interamente l'eredità di S. Agostino e la questione del male è sviscerata con la maggior acribia possibile. Si possono avere sensibilità diverse e preferire alcuni Santi ad altri, è perfettamente legittimo, ma non lo è attribuire noncuranze inesistenti a coloro che si è scelto di non seguire. Non è necessario professarsi anti-tomisti per essere agostiniani. Io stesso ho letto, leggo e continuerò a leggere l'Ipponate con grande frutto, e se anche alcune sue tesi non mi convincono del tutto, non mi permetterei mai di sminuirne il valore o, peggio ancora, di obliterarne il contenuto.
[...] Tertia et ultima pars.
Rispetto all'ottimismo conoscitivo tomista resto perplesso: il realismo gnoseologico, che è poi la categoria filosofica più propria per definire quell'ottimismo, è il timbro di fabbrica sia della filosofia platonica che di quella aristotelica, così come dei loro epigoni cristiani Agostino e Tommaso, e se vogliamo il filone platonico agostiniano su questo punto era molto più spregiudicato di quello aristotelico-tomista, così che non capisco come si possa "non dirsi ottimisti" (gnoseologici), per parafrasare quel tale. Ma soprattutto: cosa vorrebbe dire che non ha riscontro umano il realismo gnoseologico? Se fosse vera questa sua affermazione, ovvero che siamo condannati a non conoscere la realtà, allora la stessa "affermazione" di pessimismo conoscitivo sarebbe falsa, essendo appunto un'ipotesi non verificabile stante il presupposto di inconoscibilità stabilito a monte. Questa tesi del pessimismo radicale, gnoseologico in primis, fu luterana, giammai cattolica, e se Lutero era agostiniano, certamente Agostino non è mai stato luterano né mai avallò un'idea così manichea.
Sull'assenza di una teologia della storia in S. Tommaso non ho nulla da obiettare, così come non avrei da obiettare alcunché a chi, peraltro correttamente, mi facesse notare che in Agostino non c'è una cosmologia sviluppata. And so what? Non vedo che problema ci sia nel fatto che un autore non sviluppi tutte le branche della disciplina di cui si occupa; mi preoccuperei piuttosto del contrario. E' vero il detto per cui cave hominem unius libri, ma vale anche l'opposto, cave hominem omniscientem.
Per concludere, don Curzio è certamente molto netto nei suoi giudizi e reagisce alla vaghezza e confusione che regnano sovrane purtroppo nell'"intellighenzia" cattolica. Ripresentarne i pensieri e le riflessioni non significa avallarne per forza ogni apice e i toni, ma appunto offrire elementi di studio. Al netto comunque della forma, forse un po' apodittica, va poi rilevato che non ci sono errori o scorrettezze formali in ciò che scrive, o quanto meno ancora nessuno è stato in grado di rilevarle con la precisione e l'accuratezza necessarie per questo genere di appunti.
Un caro saluto a tutti.
Giampaolo
Purtroppo, caro Giampaolo, capita di frequente (tolti gli interlocutori più seri e ferrati) che la discussione si trasformi in obiezioni ad hominem piuttosto che ad rem.
Grazie per i tuoi preziosi contributi.
Siamo grati anche all'Anonimo perché ha animato il dibattito consentendo i tuoi ulteriori interventi e quelli di Parvus, altrettanto interessanti.
Ricambio i tuoi saluti, sperando di incontrarti più spesso, compatibilmente con i tuoi impegni :)
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