Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 4 maggio 2022

L’epoca dei riti tristi

Ringrazio Res Novae per la segnalazione e volentieri condivido. Da mettere in relazione  con gli articoli su Traditionis custodes [qui]

Manuel Belli, sacerdote della diocesi di Bergamo, insegnante di teologia sacramentaria, s’interroga in L’epoca dei riti tristi[1] sulle diserzioni che si verificano alle assemblee eucaristiche, specialmente da parte dei giovani. Il titolo si ispira al libro di due psicoanalisti, Michel Benasayag e Gérard Schmit, Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale[2] [Le passioni tristi. Sofferenza psichica e crisi sociale] – nell’edizione italiana L’epoca delle passioni tristi[3] -, riguardante il numero crescente di giovani con sofferenze psichiche, in un’epoca sommersa da una tristezza, che attraversa tutti gli strati sociali.

Ne risulta in M. Belli, di capitolo in capitolo, una serie di analisi molto pessimistiche: la logica del mangiare minimo basilare stile fast food o al contrario della bulimia sconsiderata, che attiene all’Eucaristia; c’è una crisi della festività domenicale; il rituale cattolico ha perso la battaglia contro le streghe di Halloween; la liturgia viene percepita prima di tutto come autosoddisfazione, come un mezzo di sviluppo personale; la povera musica liturgica viene soltanto consumata; le discussioni sulla presenza pubblica di presepi e crocifissi mostrano come essi vengano ridotti a sistemi di valori; e così di seguito, con un capitolo sull’applicazione Tinder (applicazione per incontri galanti) comparata alla concezione cristiana dell’amore.

L’autore azzarda alcune «note provvisorie» per rendere i rituali più lieti. Il minimo che si possa dire è che è poco convincente: piccole ricette date nel succedersi dei capitoli, come ad esempio, ad una messa per bambini, fare il pane con loro, fare loro inventare un cantico; o ancora, captare l’irrequietezza della generazione attuale, riscoprendo il senso della processione. L’autore accarezza il progetto mal definito di una «catechesi esperienziale», che andrebbe oltre la pura dottrina, senza tuttavia dimenticarla…

Manuel Belli aveva sin dall’inizio escluso gli «estremi», le messe in cui il prete indossa un naso da clown o il ritorno alla messa in latino. Notiamo di passaggio che, se M. Belli constata come i giovani siano poco attirati dai riti della messa della loro parrocchia, i vescovi di Francia, nelle loro risposte all’inchiesta della CDF sulla messa tradizionale, abbiano rimarcato al contrario – senza piacere – che i giovani sono attratti («affascinati») da questa liturgia antica.

Con Manuel Belli si è nella terra degli antropologi neo-bugninisti, al grado zero della scienza liturgica. Non si troveranno nelle sue osservazioni né riflessioni sistematiche sulla natura del rito liturgico, né sulla sua funzione di velo e manifestazione del divino o ancora sulla sua storia e sul suo carattere intrinsecamente tradizionale: esso viene percepito dai fedeli come tale da veicolare quel che è stato ricevuto fin dall’inizio. Invece le sue osservazioni sono molto interessanti per l’analisi ch’esse compiono: il rituale cattolico oggi – e soprattutto oggi – non «funziona» più; viene considerato come noioso, impregnato com’è di tedio universale.

Ma il criterio stesso di Manuel Belli, quello della tristezza da eliminare, è molto significativo del vicolo cieco in cui si trovano coloro che, come lui, vogliono rivivificare la riforma. Perché d’altronde il rito dovrebbe essere «gioioso»? La morte, il sacrificio, la penitenza sono tristi per natura e la gioia soprannaturale emana dalla tragedia della Croce.

È pur vero del resto che noi ci troviamo nell’epoca delle «passioni tristi», che l’offerta liturgica contemporanea non è concorrenziale: Manuel Belli traccia uno tra i tanti bilanci del fallimento della riforma liturgica. Però non pensa neanche un istante ad uscirne, dimostrando, attraverso l’analisi che compie, ch’essa soffre del fatto d’esser troppo moderna e, attraverso le soluzioni ch’egli propone, di non saper immaginare altro che toppe provvisorie intrinseche alla modernità per porvi rimedio. Ancora più triste il fatto che i riti, benché deprimenti, vengano così insegnati a liturgia, come Manuel Belli, nei seminari e negli atenei pontifici. (Don Pio Pace - Fonte)
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[1] Queriniana, 2021.
[2] La Découverte, 2006.
[3] Feltrinelli, 2013.

12 commenti:

Anonimo ha detto...

I modernisti non ci pensano nemmeno di chiudere con i loro riti! Chissà che cosa si inventeranno per ridare vita ai morti!

Anonimo ha detto...

E' un gatto che si morde la coda. Bisogna proprio uscire, almeno interiormente, dai meccanismi della modernità. Difficile risanare i giovani, se il mondo adulto tutto intorno non solo è malato, ma considera la sua malattia un progresso. Se qui non si comincia a fare una onesta lista dei 'mali della modernità' e se almeno una buona parte degli esseri umani non li riconosce come tali e non sente l'impulso a risanarli in se stessa, si ricadrà sempre nel male, nella lamentazione, nella rinuncia a qualsiasi sforzo perché comunque ritenuto vano.

La tristezza, come la depressione, sono l'altra faccia della euforia, della esaltazione titanica, della superbia satanica. Il superuomo non riesce a superare se stesso, né può essere aiutato, nei fatti interiori, dai suoi simili che gli hanno messo a disposizione ogni progresso materiale a cominciare da una vita materiale più lunga, a cui è preclusa però ogni autentica sapienza, ma alla quale vengono distribuite quantità enormi di ipocrisia, illusioni, sempre nuove correttezze politiche senza anima ed senza intelligenza.

'Essere o non essere'? Forse l'uomo moderno messo davanti alla scelta tra l'essere interiormente libero con fatica, sudore e lacrime e il non essere, tipico della finzione ipocrita del vero, del buono e del bello, in un mondo di beni materiali sempre più perfetti e mensilmente aggiornati da consumare voracemente, l'uomo ha scelto di non essere.

Risulta allora chiara la sua tristezza inconsapevole dell'Unico Bene perduto che il mondo dei suoi simili non può mettere in nessun modo a sua disposizione.

Bah! ha detto...

https://www.catholicnewsagency.com/news/251127/pope-francis-narrows-choice-for-next-leader-of-italy-s-catholic-bishops
Premetto che non intendo ne'voglio essere irriverente, semplicemente quel tabelloneone sullo sfondo mi ha fatto richiamare alla mente il podio/leggìo del presidente americano dove sta scritto "President of the United.."

Copiatoeincollato: ha detto...

3 maggio 1998: nasce l’euro… alcuni dati per capire se per l’Italia sia stato un bene o un male
Il 3 maggio 1998 Jacques Chirac ed Helmut Kohl firmano l’accordo sulla nomina del Presidente della Banca Centrale Europea. E’ la nascita dell’euro.
Forniamo solo alcuni, ma significativi dati, per formarsi un giudizio sull’introduzione dell’euro
Dall’introduzione della moneta unica al 2018 l’Italia ha perso il 20% della produzione industriale.
Dal 2010 al 2018 hanno chiuso ben 158mila esercizi commerciali.
Sono raddoppiati i poveri assoluti.
La disoccupazione giovanile è arrivata al 35%.
Il debito pubblico italiano era già esploso nel 1981 per la sottomissione ai mercati dovuti allo SME.
Inoltre, è stato calcolato che a vent’anni dall’entrata in vigore della moneta unica, la Germania è il Paese che ci ha guadagnato di più e l’Italia è il Paese che ci ha perso di più. In nessun altro Paese l’euro ha porta perdite così elevate di prosperità come in Italia. Precisamente l’Italia ha avuto una perdita totale di 4.325 miliardi euro di PIL ed è di 73.605 euro la perdita economica pro capite degli italiani dal 1999 al 2017. Al contrario per la Germania si calcola un guadagno di 1893 miliardi di euro, ovvero 23.116 euro per abitante.

tralcio ha detto...

La Santa Messa è un sacrificio. Un fare sacro che è offerta di sé.
Il memoriale dell'ultima cena non è finalizzato al mangiare insieme, ma al significato che Gesù fissa in quegli alimenti: il pane è veramente il corpo e il vino è davvero il sangue di Nostro Signore che si offre come Agnello immolato. La comunione si fa nel portare la croce.

Che cosa è successo il venerdì santo al momento della morte di croce di Gesù?
Il cielo che -di pomeriggio- era buio, è tornato luminoso.
Dal costato aperto di Cristo morto sgorgano sangue ed acqua.
Molti presenti si battevano il petto. Il centurione si converte.
Il pesantissimo velo del tempio si è misteriosamente lacerato dall'alto al basso.
I sepolcri si sono aperti e molti corpi di santi morti sono usciti dai sepolcri.
Dopo la resurrezione del Signore entrarono nella città santa e apparvero a molti.

Se vivessimo la liturgia in questa consapevolezza, ne gusteremmo le emozioni forti, i fenomeni impressionanti, l'intervento divino, i significati immanenti e trascendenti, le conseguenze per noi. Avremmo davanti i cori degli angeli che inneggiano al Tre Volte Santo e canteremmo con loro. Ci prostreremmo timorati di Dio di fronte alla portata, alla potenza e alla penitenza che ci sollecitano e ci coinvolgono.

Non è una questione di trucchi scenici o di gioia carpita da capacità istrioniche.
Basta e avanza la PRESENZA DI DIO!

Come sarebbe tutto più semplice se chi lo deve insegnare cominciasse a crederci...

Catholicus ha detto...

Il cristiano non è uno che entra in Chiesa ma uno che è Chiesa

Anonimo ha detto...

Denuncia penale nei confronti del Presidente dell'Ordine dei Medici, presentata del dott. Salvatore Rainò, membro di "Mille medici per la Costituzione", medico chirurgo, specialista in allergologia e immunologia clinica, specialista in medicina interna, omeopata unicista, ricercatore indipendente.
https://gloria.tv/post/1TXi82z9j1xL27i1ubYoHri3J#410

Anonimo ha detto...

Prof. Paolo BellaVite
https://gloria.tv/post/1TXi82z9j1xL27i1ubYoHri3J#100

tralcio ha detto...

a Catholicus

Grazie per la definizione del cristiano, molto bella.

Mi permetto un'aggiunta.

Il cristiano è "uno che è Chiesa dentro" e non "che entra in chiesa".

Perciò la "chiesa in uscita" è un'immane corbelleria (mi trattengo).

Perchè se sono "Chiesa dentro" non posso mai uscire.

Posso uscire solo se sono solamente entrato in un luogo, non in me.
Nel secondo caso potrei uscire solo cessando di essere quel che sono.
Che sia quello l'intento vero di certe prediche?

Vellicare l'anima con l'animazione è diverso da curarne la sua salvazione.

Anonimo ha detto...


Il cristiano è uno che "è Chiesa".

Ma la Chiesa cos'è? È il corpo mistico di Cristo, secondo la definizione tradizionale, nello stesso tempo terrena e celeste.
Consta di tre dimensioni simultaneamente: militante, purgante, trionfante con Cristo in cielo.
Dal punto di vista di questa definizione, che è quella di sempre,
dire che il cristiano è Chiesa non è chiaro, dal momento che non può appartenere simultaneamente a tutte e tre le dimensioni.
In questo mondo, il cristiano appartiene alla Chiesa militante solamente e non si identifica con essa, visto che ne è parte. Non siamo la Chiesa militante,se non in senso figurato: siamo nella Chiesa militante.
Nemmeno appare giusto dire "il cristiano". Abitudine invalsa dal Vaticano II in poi. Bisogna dire "il cattolico" perché ci sono molti cristianesimi ormai e da secoli: protestanti, ortodossi, copti. I non cattolici, tutti scismatici ed eretici, in varia misura, dal punto di vista della dottrina, prescindendo cioè dalle disposizioni soggettive degli individui (battesimo di desiderio, esplicito o implicito).

Ne risulta che dire "il cristiano è Chiesa" confonde le acque perché mescola cattolici e non cattolici e lascia immaginare una nozione sincretistica di Chiesa.
T.

Anonimo ha detto...


"Noi siamo Chiesa" è anche frase usata dai gruppi laici a supporto dei preti e vescovi novatori in Germania e Austria, quelli che vogliono la donna-sacerdote e lo sdoganamento del peccato contro natura.
Una frase che usavano anche i seguaci di Don Giussani?
Influisce anche la nozione errata, propalata dal Vat II, della Chiesa come "popolo di Dio", tanto cara a Karl Rahner? Non più la Chiesa come Corpo Mistico di Cristo ma come "popolo di Dio", equivocando su una frase di S. Pietro in una delle sue lettere - concezione della Chiesa dal basso, come "popolo dei fedeli" innanzitutto, assimilabile alla concezione "democratica" dei protestanti, cioè delle varie sette di tipo calvinista - concezione ora riproposta dalla c.d. "sinodalità" che papa Francesco sta tentando di imporre.
Non bisogna distinguere fra il Tutto e la Parte, al fine di stabilire su basi chiare ed evidenti il loro giusto rapporto?
T.

Anonimo ha detto...

La tradizione non è fare le cose come si sono sempre fatte. E' l'eredità che lascia chi sa come si fanno le cose bene.