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I fini ultimi: Considerazioni su di una questione irrisolta
1. Un argomento da molto tempo trascurato e scarsamente diffuso
Per decenni, l’insegnamento sui fini ultimi nella Chiesa è stato trascurato. Così Paolo VI osservava nel 1971: «Si parla raramente e poco dei fini ultimi[1]». Sulla base dell’analisi di 280 omelie sui fini ultimi, pubblicate tra il 1860 ed il 1990, Michael Ebertz ha posto in evidenza l’erosione, poi la progressiva dissoluzione del codice escatologico tradizionale, tanto che della tripartizione paradiso/purgatorio/inferno non resta praticamente che il paradiso[2]. Ebertz ha notato in particolare il legame tra tale menomazione dei fini ultimi e l’abbandono di un’immagine di Dio controversa a favore della rappresentazione di un Dio languido, che ha compassione di tutto, amorevole e dolce[3].
2. Tipologia dei principali deficit nella presentazione dei fini ultimi
Le gravi negligenze sul piano della presentazione dei fini ultimi nella catechesi, nella teologia e nella predicazione hanno contribuito alla diffusione di numerose opinioni erronee tra i fedeli. Padre Philippe-Marie Margelidon OP ha rilevato i seguenti quattro punti problematici[4]: in primo luogo, i discorsi sull’anima, sulla sua immortalità e sulla sua distinzione dal corpo vengono fugati o minimizzati. In secondo luogo, la scomparsa o la negazione della paura di Dio, del giudizio e delle pene eterne dell’inferno, conseguenza dell’abbandono o della relativizzazione della nozione di peccato mortale. In terzo luogo, l’oblio della relazione tra peccato e punizione, così come quello della necessità di riparazione e penitenza, ciò che rende incomprensibile l’idea di purgatorio. In quarto luogo, l’universalismo escatologico, su cui torneremo: si pensa che non vi sia l’inferno o che l’inferno sia vuoto; i dannati ed i demoni, se esistono, verranno salvati alla fine (apocatastasi).
Aggiungiamo altri due errori. Il primo riguarda la resurrezione, che viene a volte collocata immediatamente dopo la morte, per mancanza di una corretta antropologia cristiana, comprendente la permanenza dell’anima nel tempo intermedio tra la morte e la resurrezione alla fine dei tempi (cfr. CCC, n. 1001). Così Padre Gregory Gay, Superiore generale della Congregazione della missione, ha annunciato nel 2009 la celebrazione dell’«anniversario della morte e della resurrezione del nostro fondatore san Vincenzo de’ Paoli e santa Luisa de Marillac[5]». Essendo i corpi di questi due santi ancora presenti sulla terra, tali aberranti argomenti presuppongono l’assenza di qualsiasi legame d’identità tra il corpo storico ed il corpo resuscitato. Ora, ciò è contrario alla definizione dogmatica del IV concilio Lateranense (1215), secondo la quale «tutti risusciteranno con il proprio corpo, quello che hanno ora, per ricevere […], gli uni un castigo senza fine col diavolo, gli altri una gloria eterna con Cristo» (cap. 1 : DzH, n. 801).
Il secondo errore consiste nel pensare che l’uomo possa ancora scegliere per o contro Dio dopo la morte. Contro questa opzione finale[6], che relativizza le scelte compiute qui sulla terra, bisogna affermare che «la morte mette fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accettazione o al rifiuto della grazia» (CCC, n. 1021). Infatti, ciascuno viene giudicato in base alle opere compiute «mentre era nel proprio corpo» (2 Co 5, 10). Sapendo che «con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diviene definitiva[7]», «è […] durante la sua vita che bisogna pentirsi. Farlo dopo non serve a niente[8]». Questa dottrina implica che il purgatorio non deve essere concepito come una sorta di seconda possibilità per passare dalla perdizione alla salvezza: «Lo stato di purificazione non è un prolungarsi della situazione terrena, come se, dopo la morte, venisse data un’altra possibilità di cambiare il proprio destino[9]».
3. Il problema dell’automatismo della salvezza
Tuttavia oggi il problema principale, che minaccia la dottrina cattolica sui fini ultimi, è la presunzione di salvezza. In passato si dava per scontato che non tutti gli uomini si sarebbero salvati, senza ignorare o negare per questo che Dio volesse la salvezza di tutti. Il Dottor comune ha scritto così, in modo conciso: «”Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” [1 Tm 2, 4]. Ma questo non avviene[10]». I dibattiti non riguardavano quindi il fatto della riprovazione, bensì il numero di quanti ne sarebbero stati oggetto o piuttosto la proporzione tra eletti e dannati. Così, non è che nel corso del XIX secolo che la presa di posizione relativa al piccolo numero (relativo) di eletti, fino a quel momento preponderante tra i teologi, ha iniziato a diminuire[11].
Facciamo notare come la dottrina di una salvezza soltanto parziale si trovi anche nei testi del magistero. Il concilio di Trento così dichiara: «Sebbene lui [il Cristo] sia “morto per tutti” [2 Co 5, 15], non tutti però ricevono il beneficio derivante dalla sua morte, ma solo coloro ai quali il merito della sua Passione viene comunicato[12]». Da parte sua, il Catechismo romano del 1566 affermava: «Se noi ne consideriamo la virtù, siamo obbligati ad ammettere che il sangue del Signore è stato versato per la salvezza di tutti. Ma se noi esaminiamo i frutti che gli uomini ne hanno tratto, comprendiamo facilmente che soltanto molti, e non tutti, ne abbiano profittato[13]». Un catechismo celebre, pubblicato nel 1905, insegnava a sua volta: «Gesù Cristo è morto per la salvezza di tutti, ma non tutti si sono salvati perché non tutti vogliono riconoscerlo, non tutti osservano la sua legge, non tutti si servono dei mezzi di santificazione, ch’egli ci ha lasciato[14]».
Il consenso in merito ad una salvezza parziale s’è sgretolato a partire dalla metà del XX secolo. Tre gesuiti possono essere indicati qui come i precursori dell’idea, che riduce la dannazione a ipotesi: Teilhard de Chardin (circa 1926-1927), Otto Karrer (nel 1934) ed Henri Rondet, che si domandava nel 1943: «Ci sono demoni all’inferno, ma ci sono degli uomini?[15]». Da allora, in particolare Karl Rahner ed Hans Urs von Balthasar – sempre gesuiti – hanno diffuso il pensiero detto della «speranza per tutti», secondo il quale non sarebbe solo permesso, ma si dovrebbe sperare nella salvezza di tutti gli uomini, senza poterla affermare. Questa presa di posizione è stata definita «largamente dominante tra i più grandi teologi d’oggi[16]», sebbene autori importanti come i cardinali Charles Journet e Leo Scheffczyk, il domenicano Jean-Hervé Nicolas o il gesuita Cándido Pozo abbiano sostenuto che, di fatto, gli uomini si dannano.
In realtà, il punto di vista della «speranza per tutti», che serve almeno tendenzialmente ad aggirare la dottrina dell’inferno, benché mantenga a parole la possibilità della dannazione, viene superata da molti teologi – senza parlare dei sacerdoti e dei fedeli di rango – nel senso di un’esclusione della dannazione (i gruppi conservatori o tradizionalisti, per non parlare dell’islam, si discostano tuttavia da tale tendenza). Il teologo Bernhard Lang ha concluso in questo modo: «Chi prenda sul serio il messaggio del perdono non può credere ad alcun inferno[17]». La salvezza diviene così un dato di fatto per tutti, dato che ha come corollario la negazione teorica o pratica dell’inferno, com’è in effetti in Yves Congar[18]. Come minimo, l’iper-accentuazione contemporanea della misericordia divina a scapito della giustizia riduce all’estremo la probabilità della perdizione, come scrive Gustav Martelet: «Mai il Vangelo ci presenta un simile rifiuto [della salvezza] come una virtualità plausibile, di cui Gesù possa mostrarsi soddisfatto. […] Questo ci sembra affrontare […] ciò che si può chiamare l’impensabile o l’assurdo[19]».
4. Conseguenze di questa posizione
È evidente come la presunzione di salvezza abbia conseguenze disastrose per la totalità del cristianesimo, così degradato ad una religione senza posta in gioco, quindi inutile. Si pensi, tra l’altro, alla soppressione d’un potente freno contro il peccato grave, alla rovina della nozione di stato di grazia, all’inutilità della conversione e della penitenza, al naufragio della disciplina sacramentale, al calo dello zelo e delle vocazioni per la missione ed alla conversione delle anime, ecc. Questa problematica è stata riconosciuta da molto tempo ai più alti livelli, senza che i pastori abbiano dato purtroppo una risposta adeguata. Così, già Paolo VI osservava: «Oggi, la secolarizzazione ci fa perdere la coscienza del terribile rischio che il nostro destino futuro sia in gioco[20]», mentre Benedetto XVI deplorava che «molti nostri fratelli vivano come se non vi fosse un aldilà, senza preoccuparsi della propria salvezza eterna[21]».
5. Breve accenno ad alcuni rimedi
Contro l’automatismo della salvezza e del perdono divino, conviene innanzi tutto ricordare che questi sono legati a condizioni, in particolare alla fedeltà ai comandamenti (cfr. Mt 6, 14-15; 7, 21; 19, 16-17). Mentre l’idea di un Dio “automa del perdono” lo fa rassomigliare ad «un gatto che fa le fusa sul termosifone[22]», sarebbe urgente recuperare un’immagine di Dio più equilibrata, che unisca bontà e severità (cfr. Rm 11, 22), come raccomandava già il concilio di Trento: «Poiché “tutti pecchiamo in molte cose” [Gc 3, 2; can. 23], ciascuno di noi deve avere davanti agli occhi non solamente la misericordia e la bontà, ma anche la severità ed il giudizio[23]».
Inoltre, bisogna far sapere che la separazione tra salvati e dannati, operata dal giudizio, è una verità rivelata. La tesi della speranza in una salvezza universale può e deve pertanto essere confutata, mentre è possibile rispondere alle principali obiezioni contro la sussistenza della dannazione[24].
Per concludere, è indispensabile ristabilire finalmente l’ortodossia dottrinale nella predicazione in occasione dei funerali, oggi penosa, soprattutto ponendo fine alla “canonizzazione” quasi sistematica dei defunti.
Mons. Christophe J. Kruijen
Autore di una tesi di dottorato presso l’Università dell’Angelicum,
pubblicata col titolo: Peut-on espérer un salut universel?[24]
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[1] Paolo VI, Udienza generale, 8 settembre 1971.
[2] Vedere in merito Michael N. Ebertz, Die Zivilisierung Gottes. Der Wandel von Jenseitsvorstellungen in Theologie und Verkündigung [La civilizzazione di Dio. Il cambiamento delle idee sull’aldilà nella teologia e nell’annuncio], Ostfildern, Schwabenverlag, 2004.
[3] Cfr. Michael N. Ebertz, «Die Zivilisierung Gottes und die Deinstitutionalisierung der “Gnadenanstalt”. Befunde einer Analyse von eschatologischen Predigten» [«La civilizzazione di Dio e la deistituzionalizzazione dell’“istituzione della grazia”. Risultati di un’analisi delle omelie escatologiche»], Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie. Sonderhefte 33 (1993), pag. 92-125, qui pag. 112 e pag. 119.
[4] Cfr. La Nef, n. 352, novembre 2022, pag. 18.
[5] Gregory Gay, «Lettera alla Famiglia Vincenziana», 13 maggio 2009, ripresa in Nuntia. Bollettino mensile d’informazione della Curia generalizia della CM, n. 6, giugno 2009, pag. 1.
[6] Per una confutazione di questa pericolosa teoria, vedere la tesi di Padre Pius Mary Noonan, L’option finale dans la mort. Réalité ou mythe? [L’opzione finale nella morte. Realtà o mito?], Parigi, Téqui, 2016.
[7] Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 45.
[8] Benedetto XVI, Angelus, 30 settembre 2007.
[9] Giovanni Paolo II, Udienza generale, 4 agosto 1999.
[10] Tommaso d’Aquino, Sum. Theol., I, q. 19, a. 6, arg. 1.
[11] Cfr. Guillaume Cuchet, «Une révolution théologique oubliée. Le triomphe de la thèse du grand nombre des élus dans le discours catholique du XIXe siècle» [«Una rivoluzione teologica dimenticata. Il trionfo della tesi del gran numero di eletti nel discorso cattolico del XIX secolo»], Revue d’histoire du XIXe siècle 41 (2010), pag. 131-148.
[12] Concilio di Trento, 6a sessione, 13 gennaio 1547, Decreto sulla giustificazione, cap. 3 (DzH, n. 1523).
[13] Catechismus Romanus, 2, 4, 24.
[14] Catechismo di san Pio X, Bouère, Dominique Martin Morin, 2004, pag. 112.
[15] Henri Rondet, Y a-t-il un enfer? [C’è un inferno?], Le Puy, senza editore, 1943, pag. 23.
[16] Bernard Sesboüé, La résurrection et la vie. Petite catéchèse sur les choses de la fin [La resurrezione e la vita. Piccola catechesi sulle cose della fine], Parigi, Desclée de Brouwer, 2004, pag. 163.
[17] Bernhard Lang, art. «Hölle», Neues Handbuch theologischer Grundbegriffe [Nuovo manuale dei termini teologici di base], t. 2, ed. P. Eicher, Monaco, Kösel, 2005, pag. 173.
[18] Deplorando la ripresa letterale dei testi evangelici sulla dannazione nel Catechismo della Chiesa Cattolica, Congar aggiunge, a proposito dell’inferno: «Ce n’è uno cui io non credo affatto, cioè quello di una pena eterna, completamente vana poiché non porta ad alcuna conversione» (prefazione al libro di Jean Elluin, Quel enfer? [Quale inferno?], Parigi, Cerf, 1994, pag. 7).
[19] Gustave Martelet, L’au-delà retrouvé. Christologie des fins dernières, Parigi, Desclée, 1975, pag. 182. Ed. it. : L’aldilà ritrovato. Una cristologia dei novissimi, Queriniana, 1977.
[20] Paolo VI, Udienza generale, 8 settembre 1971.
[21] Benedetto XVI, Omelia durante i vespri a Fatima, 12 maggio 2010.
[22] Marie Balmary e Daniel Marguerat, Nous irons tous au paradis. Le Jugement dernier en question, Parigi, Albin Michel, 2012, pag. 23. Ed. it. : Andremo tutti in paradiso, Paoline, 2013.
[23] Concilio di Trento, Décret sur la justification [Decreto sulla giustificazione], cap. 16 (DzH, n. 1459).
[24] Cfr. Christophe J. Kruijen, Peut-on espérer un salut universel ? Étude critique d’une opinion théologique contemporaine concernant la damnation [Si può sperare in una salvezza universale? Studio critico su di un’opinione teologica contemporanea concernente la dannazione], Parigi, Parole et Silence, 2017.
7 commenti:
Dopo una prima lettura in corsa: bisogna osservare con più attenzione la propria vita e quella altrui, senza angosce, seriamente; del tutto sempre dimenticato il famoso esame di coscienza serale che aiuta a tenere sotto controllo la superbia e a capire che fondamentalmente da ché nasciamo fino a quando moriamo non è che facciamo chissà quali progressi; il peccato altera, distorce l intelligenza, la virtù la chiarisce, la migliora, la potenzia e così tutte le altre potenze dell anima e dello spirito si potenziano col vero bene, si intorpidiscono col male. Una chiara immagine la si trova tra gli orientali che prevedono reincarnazioni animalesche, bestiali, ecco se anche ci salvassimo tutti di ognuno resterà solo il bene che ha compiuto tipo esser umani resuscitati/ fusa con quella sola caratteristica, con quella sola capacità di fare le fusa. Un po' come è oggi tutti leccatisissi ma la zucca è vuota, il cuore di pietra e le mani pappamolla. Di là sarà un po' diverso, ma non troppo.
Circa il numero degli eletti e dei dannati.
È inutile che ci mettiamo noi credenti a disquisire su di esso. In ogni caso, non sta a noi stabilirlo.
Possiamo solo dire che, nei Vangeli, intanto la realtà dell'Inferno come pena eterna è proclamata in modo chiaro, assoluto. Inoltre, che l'Apocalisse ci fa vedere in visione un gran numero di eletti, dai quattro angoli della terra. Ma il Signore ha detto "molti sono chiamati pochi gli eletti" e fatto capire che molti percorreranno la "via larga" andandosene in perdizione.
Molti, tanti, da entrambi i lati, sia tra gli eletti che tra i dannati. Più di questo non si può dire, sperando che comunque il numero degli eletti sia il più grande possibile.
È comunque certissimo, di fede, che una parte del genere umano perirà, sarà in eterno dannata dalla divina Giustizia. Dio vuole che tutti si salvino ma si salveranno solo coloro che risponderanno alla Grazia, cercando di fare la volontà di Dio nella loro vita. La divisione finale del genere umano in eletti e reprobi, articolo di fede, dimostra anche l'assurdità dell'attuale promozione dell'unità del genere umano da parte della Chiesa cattolica.
Il genere umano non sarà mai unito nella pace e nel progresso, avanzerà nel male, tra guerre e catastrofi, fin quasi ad annientare la Chiesa di Cristo: e allora verrà la fine, con il ritorno del Cristo, in veste di giudice universale.
Questo dice la fede di sempre.
T.
LA SOFFERENZA SECONDO Padre MATTEO LA GRUA
Non ci dobbiamo abbattere nelle prove, a volte diciamo io sono buono, io osservo la legge di Dio, sono una persona onesta, eppure, tutte queste tribolazioni, tutte queste prove, io non me li merito che male ho fatto.
È tutto il contrario, dice Pietro, quando vengono le prove, le seduzioni, le malattie, le tribolazioni, le sofferenze di ogni genere, non dovete sorprendervi, perché questo è il segno della vostra partecipazione alla sofferenza di Cristo, perché, come siamo partecipi alle Sue sofferenze, così saremo partecipi della Sua gloria, quindi la sofferenza non è motivo di scoraggiamento ma motivo di gioia e di speranza.
( P. Matteo La Grua)
Questo commento non l'ho capito
# Questo commento non l'ho capito
Il concetto è quello della Imitazione di Cristo, che deve costituire per noi cristiani il modello continuo e perenne.
Le prove della Passione il Signore le ha forse fuggite? Ha avuto inizialmente un umanissimo moto di ripulsa (Padre, allontana da me questo calice.."). Ma poi si è subito ripreso ("sia fatta la tua volontà").
La volontà del Padre è chiara: dobbiamo accettare le prove e le sofferenze, inevitabili nella nostra vita, che si conclude in genere con la malattia e la morte, più o meno dolorose -- in cambio otterremo la vita eterna e la gloria, nella visione beatifica.
Dopo la Passione con i suoi terribili eventi e dolori, la Resurrezione, appunto la Gloria.
Questo, in sintesi. Il commento del P. La Grua è assolutamente pertinente, c'è tutto il senso dell'esser cristiani. Il nesso Passione-Resurrezione (sofferenza, ingiustizie, morte, accettate con spirito cristiano -- resurrezione nella Gloria dopo il giudizio individuale) è presente in tutte le Lettere apostoliche.
T.
Fabrizio Fabbri
Lo spaventoso islam, i lugubri calvinismo e luteranesimo sono eccessi pessimistici inaccettabili in risposta agli eccessi ottimistici inaccettabili dell'illuminismo e del liberalismo progressista tecnologico.
Il cattolicesimo è equilibrio contrario a tutti questi eccessi, in cui la prioritaria fede non annulla la ragione, ma la perfeziona
Nemo ad factum praecise cogi potest
Letteralmente “nessuno può essere costretto a compiere un'azione”. Al di là dei significati propri dell'antico brocardo romano secondo cui, quando l'obbligazione corrispettiva è un “facere”, cioè un fare, nessuno può essere costretto all'adempimento. Non si può essere costretti a compiere un'azione contro la propria volontà; salvo poi l'obbligo di risarcimento. Trovo interessante l'insito richiamo al libero arbitrio, espressione che, da sant'Agostino in poi, è usata in teologia per indicare la capacità della volontà di attuare libere scelte. Dio ha posto l'uomo nelle condizioni di operare decisioni non vincolate alla Sua Divina Volontà. La creatura non è obbligata nemmeno a Credere all'esistenza del Creatore, tuttavia questa facoltà di determinare per scelta autonoma, grazie all'uso della ragione, il fare o il non fare, l'amare o il non amare, l'agire o il non agire, ecc. ha delle conseguenze molto serie se non irreparabili. Nessuno è costretto a compiere una buona azione, quindi, ma le azioni cattive e le omissioni relative costringeranno il ribelle, salvo pentimento, a pentirsene eternamente.
tratto da "Elucubrazioni latine" di Roberto Bonaventura
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