Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 13 maggio 2013

Musica e partecipazione nella Liturgia. Il Gregoriano

Oggi ci ritroviamo con un trittico. Avevo deciso di programmarlo più in là, ma mi accorgo che è bene agganciare il testo che pubblico di seguito ai due precedenti di Mattia Rossi.
In questo percorso di approfondimento nell'incontro col Gregoriano, ho scelto anche l'articolo, che mi è parso molto significativo, di G. Baroffio, di cui abbiamo parlato qui. Noto tuttavia che l'Autore mette l'accento sulla necessità di curare anche oggi quel che avveniva nel passato: "In ogni Chiesa locale la vita concreta della comunità suggeriva a poeti e musici nuove espressioni capaci di cantare la fede nel presente". Ritengo questo principio valido, sia nel senso che lo "sviluppo organico della liturgia" vale anche per la Musica sacra e dunque per il gregoriano, sia nell'ottica che "chi si illude di poter edificare il presente amputando il passato, di solito brutalmente con vera foga iconoclasta, è come chi volesse costruire un edificio senza fondamenta". Tuttavia, credo occorra fare molta attenzione alle espressioni che si innestano nelle affermazioni precedenti, che ritengo  altrettanto valide ma da prendere cum grano salis non senza un discernimento a 360°. Cito: "Passato, presente e futuro sono i tre poli che da sempre autenticano il linguaggio musicale e poetico nella celebrazione. Omettere o limitare anche una sola di queste tre istanze significa costruire sul vuoto: chi si abbarbica al passato chiudendosi ai presente è un archeologo nostalgico senza speranza che non crede nel presente perché fondamentalmente non ha fiducia in se stesso. Non ha il coraggio del rischio, è convinto di sopravvivere scimmiottando il passato, come se l’esperienza dei nostri predecessori valesse automaticamente per noi, oggi, qui. Ogni esperienza è positiva soltanto a condizione che sia vissuta in prima persona. Il passato senza presente è un sogno fantastico". E, alla fine, arriva a concludere: "tutto ha senso se si svolge in un clima orante: di ascolto della Parola per trasmetterla alle comunità, di ascolto di queste ultime per esprimere con la musica a Dio la preghiera della Chiesa".
Bene, nessun vero tradizionalista è chiuso alle novità e ciò, ovviamente, vale anche in questo campo. Ma, nelle novità occorre discernere. E qui è il grande dilemma in cui ci troviamo. Chi oggi si fa interprete di un presente innestato in un passato da consegnare al futuro? Cosa viene preso dal passato e vissuto nel presente per esser consegnato al futuro se le comunità di cui parla il nostro dotto e competente autore sono quelle antropocentrate che anziché vivere il Sacrificio del Signore, vivono il convivio-fraterno, presieduto anziché celebrato dal sacerdote e che diventa Actio dell'Assemblea e del suo presidente, piuttosto che del Signore? Credo che l'interrogativo che resta aperto sia abbastanza serio, non dico angosciante perché so che c'è anche chi custodisce nella fedeltà, che non è nostalgico arroccamento, ma fedeltà-e-basta. Purtroppo credo che questo nostro presente sia orfano - ma spero che questo sia frutto della mia ignoranza - di grandi interpreti che siano esegeti autentici capaci di cogliere nelle sottolineature dell'oggi-della-storia la fede viva della comunità credente. Ebbene, nel dubbio, io mi radico in quel che conosco e amo e che sento "vivo" anche in me e non frutto di nostalgici arroccamenti. E credo che il sacrosanto "sviluppo organico" sia della liturgia che dei suoi aspetti attinenti alla musica sacra debba scaturire dalla fede viva dalla preghiera e dalla 'sapienza' di chi ha dimestichezza e conoscenza anche storica - in riferimento alla Tradizione (non solo conciliare, bensì bimillenaria) - ma soprattutto spirituale delle “cose sacre” e della Liturgia, che davvero è la fonte e il culmine della nostra Fede e, poiché lex orandi è lex credendi, ogni innovazione deve rifuggire sia dalle improvvisazioni, sia dalle sperimentazioni, sia dagli spiriti che hanno perso il contatto con la Tradizione e che purtroppo in questo nostro tempo non mancano di darcene drammatiche riprove. Mi piacerebbe poter sciogliere questi dubbi con l'autore, così capace di toccare corde vibranti e profonde. E - perché no? - anche col contributo di Mattia Rossi, che sento molto consonante col nostro 'sentire cum ecclesia'.

Musica e partecipazione nella liturgia
Giacomo Baroffio

Giacomo Baroffio nasce a Novara nel 1940. Studia materie musicologiche e medievistiche in Germania (Köln, Erlangen, Bonn) e si laurea a Köln nel 1964 con una tesi sul canto ambrosiano. Vive una lunga esperienza monastica nell'ordine benedettino. Professore ordinario di Storia della musica medievale presso la Facoltà di musicologia dell'Università di Pavia (Cremona).
Il discorso sulla musica e la partecipazione nella liturgia ha un fondamento storico nella centralità della Parola di Dio e dell’azione con cui si accompagna questa Parola nella storia quotidiana. Momento critico in questa situazione è l’accoglienza da parte dell’uomo della Parola che va recepita, compresa e vissuta quale essa è: Parola di Dio.

Ogni momento dell’esistenza è segnato dalla presenza o dall’assenza della Parola in un alternarsi continuo di luci e di ombre, di spazi vitali e di zone in cui la morte sembra regnare sovrana. Questa precarietà che segna il cammino glorioso della Parola nella storia non è dovuta a limiti della Parola stessa, ma alla povertà umana: povertà che è insieme mancanza di docilità allo Spirito, incapacità di aprire il cuore, paura di ascoltare provocazioni che mettono in crisi e che comunque esigono un’accettazione incondizionata di Dio e del suo messaggio.
La storia della musica nella liturgia cristiana segna una tappa di un lungo cammino iniziato nell’esperienza orante di Israele, quando si è compreso che solo il linguaggio musicale era adeguato per trasmettere la Parola di Dio nella celebrazione liturgica. Due i motivi principali:
  1. un fatto puramente fisico esigito dalla necessità di far pervenire il messaggio divino a una cerchia vasta di uditori presenti in uno spazio ampio. La semplice pronuncia parlata in casi del genere non permette a un discorso di raggiungere lunghe distanze. Il gridare ad alta voce distorce i suoni e rende incomprensibile il messaggio. Di qui la scoperta di un tono di voce che canta il parlato su una corda di recita ricca di armonici che permettono alla voce stessa di correre e raggiungere un vasto uditorio.
  2. un fatto di rilevanza spirituale: ogni proclamazione è sempre anche un’interpretazione di quanto viene annunciato. Il tono della voce, il mutare del timbro, la fluidità o gravità nella pronuncia, il tono sommesso o forte sono tutte componenti che a livello istintivo, in modo intuitivo e quasi sempre al di là di un processo razionale voluto coscientemente, rivelano ciò che è realmente percepito quale nucleo centrale del discorso che si pronuncia o della parola che si legge.
Quest’ultima è forse la ragione principale per cui i nostri padri nella vita liturgica di Israele hanno elaborato un sistema di proclamazione della Parola di Dio - la cantillazione - che è costituito da una serie di segmenti musicali con particolari caratteristiche atte a permettere di identificare le grandi sezioni del pensiero e del discorso con cui tale pensiero viene espresso. Ci sono pertanto formule di intonazione che evidenziano l’inizio di ciascun periodo, formule di cadenza che esprimono la conclusione intermedia o definitiva del discorso e altre strutture musicali tutte elaborate al fine di rendere comprensibile la Parola nel suo dispiegarsi verbale. In tale modo essa è sottratta alla proclamazione-interpretazione di chi la pronuncia; in tale modo essa è libera di dire se stessa a quanti l’ascoltano nella fede senza condizionamenti dei mediatori (i lettori, i salmisti).

Come hanno affermato i padri della Chiesa, il Verbo di Dio è nato dal silenzio eterno del Padre. La Parola nella liturgia esige di essere cantata, ma il suo orizzonte vitale, il contesto che permette di risuonare e di essere un fatto di fede è il silenzio della preghiera. Silenzio che - come diceva Madeleine Delbrel - talvolta è tacere, è sempre ascoltare. La musica nella liturgia - a maggior ragione rispetto ad altre situazioni come opere sinfoniche e corali, dove le pause hanno un significato che non sì può mai sottovalutare - vive di silenzio, scaturisce dal silenzio che nell’adorazione scava nel cuore lo spazio adeguato ad accogliere la Parola. Parola e silenzio, silenzio e Parola in musica sono chiamati a tessere nella liturgia un contrappunto armonico con momenti inalienabili di un silenzio anche solo materiale che troppo spesso manca, rischiando di banalizzare ogni aspetto della celebrazione.

La primitiva comunità cristiana ha costruito l’edificio liturgico con riti, testi e musiche derivati in un primo momento dalla tradizione ebraica. Con il passare dei secoli, ogni generazione nei diversi ambienti culturali si è innestata sull’esperienza precedente compiendo però lo sforzo di vivere in prima persona, sui piano individuale e comunitario, l’incontro con Dio. Esito tra i tanti possibili di questa epopea, radicata nell’ascolto della Parola, è la risonanza che tale incontro provoca nel cuore umano. Si possono ammirare, sotto questo aspetto, i tanti e diversi monumenti dell’arte cristiana dalle basiliche alle pitture murali, dai mosaici e dalle miniature dei codici liturgici ai poemi e agli scritti traboccanti una infinita adorazione per il Dio crocifisso. Tra questo mondo di incanti, che ancora oggi lasciano attoniti, pieni di stupore, senza parole, le melodie liturgiche sono una testimonianza privilegiata della fede vissuta. La storia ci insegna a discernere tutta una serie di stratificazioni complesse e affascinanti a livello di ricerca. Ma ancora più grande è il fascino che le melodie comunicano nella preghiera, facendo trapelare, tra le parole dei testi sacri, bagliori incandescenti: le scintille dello Spirito che mettono a fuoco i cuori ottenebrati e paralizzati dall’abitudine, dal formalismo.

In ogni epoca, per quanto c’è dato di conoscere a partire dall’età carolingia, nel mondo della liturgia la musica, ma non solo essa, ha trovato continuamente un fecondo equilibrio tra il patrimonio che le veniva consegnato con rispetto e riverenza dal passato e le istanze contemporanee. In ogni Chiesa locale la vita concreta della comunità suggeriva a poeti e musici nuove espressioni capaci di cantare la fede nel presente. Un equilibrio estremamente fecondo perché, mentre preparava il cuore all’ascolto della Parola, dischiudeva la mente a prospettive nuove, metteva la persona mistica della Chiesa in grado di varcare la soglia del futuro. Passato, presente e futuro sono i tre poli che da sempre autenticano il linguaggio musicale e poetico nella celebrazione. Omettere o limitare anche una sola di queste tre istanze significa costruire sul vuoto: chi si abbarbica al passato chiudendosi ai presente è un archeologo nostalgico senza speranza che non crede nel presente perché fondamentalmente non ha fiducia in se stesso. Non ha il coraggio del rischio, è convinto di sopravvivere scimmiottando il passato, come se l’esperienza dei nostri predecessori valesse automaticamente per noi, oggi, qui. Ogni esperienza è positiva soltanto a condizione che sia vissuta in prima persona. Il passato senza presente è un sogno fantastico. Confortante forse, ma è un sogno alienante che trascina fuori della realtà chi si illude di poter edificare il presente amputando il passato, di solito brutalmente con vera foga iconoclasta, è come chi volesse costruire un edificio senza fondamenta. L’immagine è eloquente, ma purtroppo in campo musicale, e prima ancora, nel solco della tradizione liturgica, spesso si è verificata. In parte tale atteggiamento è dovuto semplicemente all’ignoranza delle cose, in parte perché si intuisce che quanto si vuole costruire nel presente non regge il paragone con il passato. Non sono certamente d’oro tutto il canto gregoriano e tutta la polifonia classica; ma di fronte ad autentiche opere d’arte balza agli occhi in modo inequivocabile la miseria di tanta produzione musicale odierna destinata alla liturgia perché in altre sedi non avrebbe accoglienza. È questo anche il frutto di una moda banale che richiama una lapidaria sentenza del cardinal Suenens: “Chi sposa la moda oggi, domani è vedovo”.[Strano, detto da un progressista!] Ciò spiega la sterilità di tante sperimentazioni odierne condannate a non aver futuro.

C’è anche chi si balocca con un futuro che non ha nessun retroterra nel passato e neppure nel presente. Siamo anche qui di fronte a un mondo di sognatori che progettano l’irreale, vittime di programmatori abili soltanto a pubblicizzare il vuoto totale. La novità per la novità: un miraggio utopistico che affascina e stordisce quanti non reggono l’urto con la storia reale e cercano uno spazio qualsiasi pur di sottrarsi alla difficile concretezza del presente, spesso causa di sofferenze e smarrimento.

Un primo problema di fondo nella vita musicale all’interno della liturgia è ricuperare con rispetto e cognizione di causa l’equilibrio tra passato, presente, futuro. Poi è assolutamente necessario ricuperare il linguaggio musicale, dato che di fatto oggi la celebrazione nella maggior parte dei casi è amusicale.
Le parti del presidente sono totalmente recitate: si pensi alle orazioni, alla preghiera eucaristica. Anche la proclamazione del Vangelo, che spetterebbe a un diacono, solitamente è parlata senza nessuna modulazione. Gli interventi sporadici dell’assemblea sono anch’essi recitati, spesso in modo disordinato.

Entrando in una chiesa durante il servizio liturgico di solito non si ascolta nessun brano in canto. Nel medioevo, al contrario, non c’era parola che non fosse cantata, compresa la preghiera eucaristica. Certo, la struttura melodica dei brani strettamente musicali, quali un introito e un alleluia, era diversa rispetto a quella di altri generi di testi. Ma si ricordi che sia le orazioni che le letture erano modulati in base a tutta una serie di repertori di canti destinati appunto ai recitativi liturgici dell’eucologia e alla proclamazione delle letture (cantillazione).

Della situazione attuale la responsabilità non ricade principalmente sulla pastorale liturgica ancorché in tante parrocchie essa sia latitante o del tutto inesistente. La causa/colpa è da attribuirsi piuttosto alla cultura diffusa del nostro tempo, un’epoca che vede la fruizione passiva di molta musica - perlopiù riprodotta su disco - mentre negli ultimi decenni è sensibilmente diminuito il fare musica in modo attivo, vuoi con il canto, vuoi a livello strumentale. Una situazione diffusa di analfabetismo musicale - si consideri, ad esempio, la preparazione musicale totalmente insufficiente a livello scolastico - peggiora notevolmente la condizione della musica nella liturgia perché di fatto le assemblee, almeno in Italia, non sono capaci di cantare. L’insufficiente cultura musicale produce inoltre un’incoscienza artistica che si esprime nella mancanza di giudizio critico sui prodotti commercializzati. In altre parole, si canta poco o niente, e quel che si canta spesso non è consono alla dignità della celebrazione liturgica.

Per poter programmare un repertorio liturgico-musicale appropriato, occorre tenere presente due istanze:
  1. la preparazione musicale dell’assemblea sotto il profilo tecnico. A questo livello s’incontrano molte difficoltà perché la ricordata carenza di educazione musicale non permette l’impiego di canti che superino una soglia pur minimale di difficoltà. Ciò significa che è altamente negativo il principio caldeggiato in maniera entusiastica da alcuni gruppi nell’immediato postconcilio, cioè di far cantare tutto da tutti. Questo principio comporta necessariamente l’esclusione non solo delle musiche tradizionali - in primo luogo il canto gregoriano e la polifonia classica - ma anche di una gran parte della buona musica di recente produzione.
  2. Più importante tuttavia è la seconda istanza: nel programmare un repertorio liturgico, la questione di fondo non è mai in primo luogo di ordine musicale, bensì riguarda la vita di fede. Nella scelta dei canti non devo domandarmi per prima cosa quale pezzo l’assemblea esegua volentieri o voglia cantare, ma piuttosto devo chiedermi quale brano e dal punto di vista testuale e sotto il profilo musicale possa aiutare l’assemblea liturgica a pregare.
È evidente che le possibilità di scelta variano in ogni Chiesa locale e ancora diversa è la scelta del repertorio a seconda che si tratti di piccoli gruppi omogenei per formazione culturale oppure che ci si trovi di fronte a una comunità di vaste proporzioni. Mentre nel primo caso è possibile fare delle scelte mirate che possono prevedere l’esecuzione di brani di una certa difficoltà tecnica, nell’ultimo caso si devono affrontare indubbi ostacoli che tuttavia evidenziano diversi aspetti dell’esperienza spirituale legata alla musica. Se è vero che chi canta prega due volte - ammesso che si canti la fede e, nella fede, la lode di Dio per l’edificazione della comunità orante -, non si può negare l’incidenza di questa espressione sonora della vita nello Spirito in quanti non sono in grado di cantare. Questi ultimi in un silenzio di adorazione si pongono tuttavia in ascolto della Parola e l’accolgono nella semplicità del cuore: senza avere la pretesa di cantare - perché di fatto ne sono incapaci - ma con l’ansia di non lasciarsi sfuggire nulla di quanto lo Spirito oggi detta alla Chiesa attraverso la voce dell’angelo, cioè del cantore che proclama la parola di Dio.

L’essere-preghiera costituisce l’unico parametro valido per giudicare l’autenticità della musica nella liturgia: un’esperienza di fede illuminata dalla gioia estetica che scuote le fibre più profonde dell’esistenza. Non si tratta affatto di sentimentalismo e di emotività superficiale perché, di nuovo, il carattere orante della musica - cantata o ascoltata che sia nella fede - è a sua volta autenticato unicamente da una vita che si fa carità, che diviene nel mondo “testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace.

Alla luce di quanto si è detto, la situazione della musica nella liturgia appare oggi in Italia assai precaria. Due serie di condizioni negative incidono fortemente.
  1. in primo luogo l’infimo livello di cultura musicale a cui è stato condannato il popolo italiano dalla dissennata politica statale con la mancata e insufficiente formazione scolastica. A questo panorama triste si aggiunge la diffusione caotica di suoni e di rumori che impediscono la formazione nei bambini della lingua musicale materna: la struttura fondamentale della coscienza musicale, un chiaro rapporto tra i suoni (note) in un preciso e articolato sistema (strutture modali e/o scale tonali). Il risultato è evidente: la massima parte dei bambini, ragazzi e giovani italiani non riesce più a cantare. Non si può dire che siano stonati perché di fatto sono amusicali: emettono lamenti animaleschi, non suoni. Si aggiunga la popolarità di “cantanti” realmente stonati e sgradevoli che sono presi come modello di riferimento: la catastrofe sembra inevitabile.In realtà il risultato finale di tutta questa serie di fatti negativi è che la musica è qualcosa di estraneo, non è più il linguaggio quotidiano per esprimere le emozioni profonde. Fino a pochi decenni or sono era possibile sentire cantare - al limite fischiare - per le strade, nelle botteghe artigianali. In riferimento alla liturgia la domanda di fondo risulta disperata: una persona -cioè la quasi totalità di quanti costituiscono le assemblee liturgiche - che non canta mai, che non esprime mai con il canto la propria gioia e il proprio dramma sofferto nell’intimo del cuore, come potrà pregare cantando, come potrà esprimere la propria fede con un linguaggio sconosciuto e totalmente estraneo, come se le fosse imposto di “recitare” le preghiere in cinese o in arabo? Si assiste cioè impotenti a un appiattimento barbarico della società dove si lascia che tutti i valori spirituali e culturali siano distrutti da mille consumismi alienanti, dove la persona scompare inghiottita dal deserto del vuoto che lascia indifferenti, senz’anima, dove ciò che riesce a fare ancora presa è soltanto il miraggio della droga e del mondo spettrale che essa sa alimentare. Certo, questa prospettiva è un caso limite, purtroppo relativamente diffuso specie nel mondo giovanile, ma fiorisce e si diffonde sull’onda di una diffusa insensibilità che oscilla tra l’amoralità e l’amusicalità. Distrutta la poesia che c’è nella persona umana, rimane solo un animale selvaggio in balia dei burattinai di turno.
  2. A questa situazione oltremodo penosa che si riflette sullo squallore di tante, troppe celebrazioni, si aggiunge la mancanza di sensibilità dei pastori. Sembra a volte che si possa applicare a vescovi e preti ciò che Abraham Joshua Heschel diceva di rabbini statunitensi: si preoccupano di riempire le sinagoghe (= chiese) di fedeli, ma non pensano a riempire il cuore delle persone con l’unico nutrimento che sostenta nella vita: la Parola di Dio. Se si osservano tante Messe domenicali ci si accorge che molte “intenzioni” si sovrappongono e ipotecano la partecipazione dei fedeli; si tratta spesso di “intenzioni” nobili quali possono essere gli interventi di solidarietà. Purtroppo non ci si accorge che si finisce per distrarre il popolo di Dio dall’ascolto della sua Parola dimenticando che chi l’ascolta diventa anche facitore della Parola e sacramento del Verbo, mentre tante iniziative sociali e culturali possono risolversi in meri atteggiamenti di aggregazione e di sintonia psicologica senza un reale atto di fede.
La preoccupazione primaria nei confronti della Parola renderà i pastori attenti a quei linguaggi che la possono meglio mediare in modo tale che Dio possa far giungere la propria voce al cuore dei suoi figli e che questi ultimi abbiano i mezzi più adeguati ad alzare al Padre dei cieli il proprio cuore. La storia della musica liturgica di circa 4000 anni, dalle prime esperienze di Israele a oggi, mostra l’importanza della musica quale mezzo pedagogico e strumento di comunicazione che permette di esprimere la totalità di sé in quei momenti nei quali la semplice parola parlata ammutolisce.

A fronte di una situazione precaria che si avvicina all’abisso della disperazione, è necessario promuovere con tutte le forze e con ogni sforzo possibile ogni iniziativa che permetta di ricuperare la dimensione poetica e musicale della persona umana. Occorre un largo movimento di opinione pubblica che scuota dal torpore le autorità civili affinché intervengano a livello scolastico, dagli asili alle università e ai conservatori. Nella Chiesa è necessario ricostituire le scuole diocesane e zonali di musica sacra con un serio impegno di formazione - cioè un impegno faticoso e costante, lungo nel tempo - di quanti possono assumersi la responsabilità di aiutare la comunità orante sapendo che per cantori e strumentisti vale ancora oggi la formula espressa dalla Chiesa molti secoli or sono: “Sforzati di cantare con le labbra ciò che nel cuore vivi nella fede e traduci canto e fede in carità operosa”. Occorre cioè bandire soluzioni facili e immediate solleticate da una vana demagogia, mentre urge costruire tutto dalle fondamenta, a partire da una formazione biblico-liturgica sino all’istruzione tecnica musicale a servizio della liturgia, facendo comprendere che tutto ha senso se si svolge in un clima orante: di ascolto della Parola per trasmetterla alle comunità, di ascolto di queste ultime per esprimere con la musica a Dio la preghiera della Chiesa.
[Fonte]

14 commenti:

Anonimo ha detto...

poiché lex orandi è lex credendi:
questo detto non c'entra nulla con quanto hai tu in mente.

Anonimo ha detto...

Dopo aver espresso la perplessità su "chi si fa interprete oggi", non posso fare a meno di aggiungere: chi garantisce, oggi?

Con un Sommo Pontefice che "nec rubricat nec cantat" (Lombardi dixit), che non si inginocchia alla consacrazione e che ha fatto della sciatteria anche liturgica il suo stile inconfondibile?
Certo un papa non è onnisciente e deve servirsi di collaboratori validi.

Ma i collaboratori all'altezza della situazione, a giudicare dagli otto saggi che intanto si è scelto come "consiglio della corona" dove caspita sono, in naftalina?

E, quali collaboratori qualificati potrà scegliersi se la sua spiritualità e prassi appare tutta centrata in termini conciliaristi?

Anonimo ha detto...

Condivido in pieno le perplessità dell'attenta curatrice di questo blog e aggiungo una mia domanda, sempre sul "chi si fa interprete oggi",
CHI GARANTISCE, oggi?

Anonimo ha detto...

poiché lex orandi è lex credendi:
questo detto non c'entra nulla con quanto hai tu in mente


Sarebbe interessante conoscere cosa crede che io abbia in mente questo anonimo interlocutore e
sarebbe anche necessario che dimostrasse perché mai la Lex orandi, lex credendi non vi abbia attinenza...

Anonimo ha detto...

Chiedo scusa, non avevo letto il post che precede il mio: CHI GARANTISCE...

Perplesso ha detto...

"consonante col nostro 'sentire cum ecclesia'."

Quale Ecclesia?

Anonimo ha detto...

Sarebbe interessante conoscere cosa crede che io abbia in mente questo anonimo interlocutore e
sarebbe anche necessario che dimostrasse perché mai la Lex orandi, lex credendi non vi abbia attinenza.
Cosa tu abbia in mente lo sappiamo da quasi un decennio. Il significato autentico dell'espressione è questo:
"affinchè il comando di pregare(voglio che ovunque si levino suppliche per tutti gli uomini) stabilisca (nel mondo) la legge della fede. Per questo nell'anafora Eucaristica si prega per la salvezza di ogni uomo."

Anonimo ha detto...

Cosa tu abbia in mente lo sappiamo da quasi un decennio.

L'anonimo interlocutore deve riferirsi al mio impegno, non programmato e del tutto fortuito nei confronti delle storture del cammino neocatecumenale, che comunque non esaurisce ogni mio interesse che riguarda tutto ciò che accade alla e nella mia Chiesa.

l significato autentico dell'espressione è questo:
"affinchè il comando di pregare(voglio che ovunque si levino suppliche per tutti gli uomini) stabilisca (nel mondo) la legge della fede. Per questo nell'anafora Eucaristica si prega per la salvezza di ogni uomo."


Lo ha preso da qui? (Cito il CCC)

1124 La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l'antico adagio: « Lex orandi, lex credendi » (oppure: « Legem credendi lex statuat supplicandi », secondo Prospero di Aquitania [secolo quinto]). La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione (Dei Verbum, 8)

Louis Martin ha detto...

Occorrerebbe ricordare (soprattutto al nostro anonimo) che la liturgia della Chiesa, la sua preghiera pubblica, non si esaurisce nella Messa, ma contempla anche l'Ufficio divino.
Provi l'anonimo ad osservarlo per intero, anche per un solo giorno: il mattutino nel cuore della notte e i sette uffici nelle ore canoniche.
Gli sarà più chiaro cosa significa "lex orandi, lex credendi", gli sarà più chiaro se pensa che questa vita di preghiera è (o almeno dovrebbe essere!) per i consacrati la prima opera di Dio, a cui nulla anteporre: "Ad horam divini officii, mox auditus fuerit signus, relictis omnibus quaelibet fuerint in manibus, summa cum festinatione curratur, cum gravitate tamen, ut non scurrilitas inveniat fomitem.
Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (Regola di san Benedetto, XLIII)
Il legame tra liturgia e fede non è solo un legame concettuale, ma è al cuore della stessa vita cristiana, nella quale la preghiera deve essere per tutti (anche se in modi diversi) il primo dovere.

Se il nostro anonimo, invece, già recita o ha provato a recitare l'Ufficio, allora non resta che pregare per lui ...

Anonimo ha detto...

"chi si fa interprete oggi",
CHI GARANTISCE, oggi?

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"c'è del metodo in questa follia"

Renzo T. ha detto...

Molte volte, amo liberamente parafrasare Prospero d'Aquitania così: Fammi sentire come preghi e canti e ti dirò in che cosa credi".
Ecco allora che ascoltando certi canti in chiesa, testualmente e musicalmente banali e sciatti (quando nel testo non contengono addirittura proposizioni eretiche), mi vien da pensare che non si creda più in nulla se non a sé stessi e nell'uomo in generale. Del resto, anche nei citati articoli della Sacrosancum Concilium, che ad una lettura veloce sembrano a difesa del canto gregoriano e della polifonia, nei loro incisi e nelle loro subordinate nascondono tutta la loro ambiguità. Ambiguità prevista dalle commissioni dei novatori per poter meglio gestire il post concilio e lasciare aperta qualsiasi interpretazione.

Anonimo ha detto...

Ambiguità prevista dalle commissioni dei novatori per poter meglio gestire il post concilio e lasciare aperta qualsiasi interpretazione.

E' questo è il vizio di fondo, ormai smascherato; ma nell'impotenza più totale, al momento e sul piano umano, visto che la generazione dei novatori è quella che le innovazioni le ha applicate e che ora le va consolidando.

Oltre che nella mano potente del Signore, non c'è che da sperare nel 'piccolo resto' che custodisce e che cerca di trasmettere il Tesoro che ha ricevuto anche nelle nuove generazioni post-concilio.

rocco ha detto...

tradidi quod me placuit si potrebbe dire di oggi... e scusate il maccheronico!

Giuseppe M. ha detto...

Sottoscrivo in pieno il commento di Mic delle 12.32.