Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 25 marzo 2025

Dante, l'Annunciazione e la parentela tra bellezza e speranza

Dante, l'Annunciazione e la parentela tra bellezza e speranza

Il 25 marzo del 1300 ha inizio il viaggio di Dante nell’inferno. Trovandosi smarrito nella selva oscura, il poeta è investito da un bagliore luminoso:
Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle; sì ch’a bene sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
(Erano le prime ore del mattino, e il sole sorgeva con quelle stelle [la costellazione dell’Ariete] che erano con lui quando l’amore di Dio suscitò per la prima volta il moto degli astri: e perciò l’ora e la stagione primaverile mi davano motivo di sperare per il meglio rispetto a quella bestia [la lonza] dal pelo screziato).
“Dante fa coincidere l’inizio del suo viaggio con lo scoccare della primavera. Perché? Il 25 marzo è la festa dell’Annunciazione, che nel Medioevo si riteneva coincidesse con l’inizio della primavera, essendo questo il momento in cui si compie la Creazione della Genesi, con la ri-creazione del mondo attraverso l’annuncio dell’Incarnazione del Verbo Eterno nel grembo della Vergine.
Tipico dell’equinozio di primavera è che il Sole si trovi nella costellazione dell’Ariete.

Dante ci dice che quel momento di Creazione e ri-creazione del mondo, benché si trovi nell’oscurità tenebrosa della selva, è il momento della sua rinascita. In ogni momento della nostra storia personale, anche il più buio, è sempre operante un barlume di luce che può diventare rinascita. Anzi, paradossalmente proprio quel momento di oscurità nasconde la possibilità di entrare in contatto con quella luce che potrebbe salvarci, perché la tenebra ci costringe ad eliminare tutto ciò che ci allontana dalla Fonte principale della nostra esistenza e ci aiuta a riscoprirla.
Ma c’è di più. Dante ci dice che la speranza gli viene proprio dal fatto che il suo viaggio sta cominciando in quel giorno così speciale. Il principio di speranza che scopre, Dante lo associa alla bellezza. Ricorda che questo è il momento in cui “l’amor divino/ mosse di prima quelle cose belle”. Il verbo “muovere” ha un ruolo essenziale in tutta la Divina Commedia, tanto che il Creatore viene definito, nell’ultimo verso del Paradiso, come “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. C’è in questo movimento impresso nella Creazione una continua presenza del Dio Amore che fa le cose, mettendole in movimento, ed imprimendo in esse un moto.
Questo movimento è un movimento amoroso, che nulla ha che vedere con la creazione di un orologiaio che fa le cose una volta per tutte e poi le abbandona alla loro esistenza, ma si tratta di una continua messa in movimento delle cose verso il loro compimento.
Nelle cose che non hanno libertà, questo compimento avviene secondo le leggi della natura (il movimento degli astri, il ritornare regolare delle stagioni, le gemme sui rami in primavera, ecc.): a prescindere dalla nostra volontà, si verifica sempre e comunque nelle cose un movimento razionale che le porta nella direzione di un compimento, che è bellezza.
Noi umani percepiamo la tensione istintiva delle cose come la pienezza delle cose stesse, e questa bellezza, razionalità, regolarità che c’è nelle cose del Creato provoca in noi la domanda: “io che sto facendo di questo compimento dei doni della vita?”.
Se è vero che nelle cose che non hanno libertà questa tensione di compimento avviene in maniera istintiva e spontanea secondo leggi razionali che l’uomo, affascinato, cerca di scoprire, nel caso delle creature libere questo non è scontato, perché questa tensione verso il compimento è qualcosa che l’uomo può scegliere o a cui può sottrarsi. Perché allora Dante torna a sperare? Perché riconosce in quella luce primaverile, in quella bellezza della vita che rinasce, un principio che, nonostante la sua tenebra personale, non può essere scalfito. Riconosce cioè nella realtà che Qualcuno sta custodendo la bellezza delle cose a prescindere dallo smarrimento momentaneo di ciascuno di noi. Torna a sperare perché quella bellezza è operante: c’è un movimento, momento per momento impresso nelle cose dall’origine, che si realizza poi nel quotidiano vivere per chi sappia riconoscere in quell’istante che questo movimento amoroso è impresso in tutte le cose e nella propria vita, e che nessuna difficoltà esteriore, caduta o fallimento può arrestarlo. Per Dante questo principio di fiducia per cui Dio non solo ha creato il mondo ma lo ricrea in ogni istante, e interviene in ogni istante in aiuto di chi questa bellezza non riesce più a vederla, è fonte di speranza. C’è dunque una stretta parentela tra bellezza e speranza: se non percepiamo ogni giorno almeno un frammento di bellezza in cui il movimento della Creazione ci riporta ad un principio amoroso che ci spinge verso un compimento, non possiamo sperare, perché senza bellezza non ci può essere speranza. La bellezza è il baluardo che viene posto di fronte alla nostra disperazione per dire che c’è sempre una possibilità di compimento.
Per chi non è credente, questa possibilità di compimento può essere accettata come semplice evidenza della bellezza e della razionalità del mondo, e ciò comunque è rassicurante. Per chi è credente, c’è un salto grandioso in più, che è quello di riscoprire che quel compiersi costante della bellezza nonostante tutto ha un Garante, e quel Garante è “l’amor che move il sole e l’altre stelle” che, se garantisce la bellezza delle cose inanimate in questo modo, figuriamoci come è impegnato a garantire la bellezza di chi può esserne addirittura consapevole”.
Salvatore Scaletta
Nell’immagine, l'Annunciazione di Ascoli, Carlo Crivelli. 1486, National Gallery.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Se Papini potesse dirci la sua sul #DanteDì

«Alcuni adulatori di loro stessi e dell'Italia contemporanea hanno inventato questa legge: quando l'Italia è stata grande ha studiato molto Dante.
Corollario: il nostro tempo si occupa moltissimo di Dante, dunque il nostro tempo è grande e noi, che ci occupiamo di Dante, partecipiamo di questa grandezza.
Questo ragionamento implicito dei nostri dantisti è molto confortante e per loro e per l'Italia, ma si vede subito ch'è costruito sopra una parola equivoca: quella di studio.
Leviamo dunque di mezzo, una buona volta, questo equivoco, per quanto gradito e fruttuoso possa essere. Se per studiare Dante s'intendesse comprendere, intuire, rivivere la Divina Commedia; se volesse dire accostarsi alla grande anima dell'Alighieri e, starei per dire, imitarlo come i cristiani fanno con Cristo; se significasse sentire davvero quel che c'è di titanicamente sovrumano nella concezione di questo uomo di penna, di questo priore fiorentino che ad un tratto si fa giudice di tutte l'età e creatore d'un altro mondo, allora capirei che si chiamasse grande una nazione capace di produrre simili intenditori, i quali mostrerebbero di possedere almeno qualche riflesso dell'enorme genio dantesco.
Ma se guardiamo attorno e vediamo quello che s'intende per studio di Dante; se ci inoltriamo per qualche tempo nella macchia di bibliografie, di esegesi, d'interpretazioni, di raffronti, di chiose, di rivelazioni, di commenti, di rompicapi che i dantisti hanno fatto crescere intorno al terribile Poema; se penetriamo un poco i motivi, le origini, i fini e i risultati di tutto questo fervore filologico e storico; se riconosciamo in tutti una mentalità null'affatto dantesca ma semplicemente dantista o dantomaniaca allora siamo costretti a sorridere degli adulatori e degli adulati. Bisogna pur avere il coraggio, una volta o l'altra, di proclamare che l’Italia d’oggi non può comprendere la Divina Commedia. E non perché manchino ingegni ma perché mancano proprio gli ingegni del tipo dantesco, e perché il clima spirituale dei nostri tempi è ormai troppo diverso da quello del secolo decimoterzo. Dante, già nel tempo suo, non era uno spirito tipicamente italiano.
La sua triste fierezza, la sua fede imperiale, la sua grandiosità di visione e soprattutto la sua serietà suggeriscono qualcosa di etrusco o di germanico piuttosto che di latino.
Dante non era uomo pratico: era uomo di visioni e di visioni soprattutto etiche e mistiche, cioè religiose.
Basta confrontarlo con le anime della dinastia paganeggiante della letteratura italiana — Petrarca, Boccaccio, Ariosto — per accorgersi subito del contrasto che c'è fra la sua anima cupa, austera, credente e quella gaia, leggera, un po' scettica, che ha dato il tono all'Italia fino a noi. La dinastia degli spiriti danteschi è stata più breve: soltanto Michelangiolo ha saputo pareggiar l'Alighieri dipingendo nella Sistina l'unica illustrazione degna che abbia avuto la Divina Commedia. In tempi più vicini s'è visto qualche baleno della tradizione dantesca sotto il cipiglio di Foscolo e nell'ira giacobina del Carducci, ma non c'è stato uomo che abbia potuto dirsi il continuatore se non l'eguale di quei due massimi modellatori dell'arte e della mente nostra.

Anonimo ha detto...

Segue/1
L'anima dell'Italia presente è piuttosto pratica e irreligiosa, prudente e leggera, amante delle melodie eleganti, delle sciocchezze decenti, delle facezie eleganti, dei rapidi guadagni e della politica del raggomitolamento. Il Cristianesimo non è più una grande forza viva, ma non c'è neppure abbastanza fede anticristiana per produrre, in fatto di arte, qualcosa di meglio dell'Inno a Satana. L'anima italiana vive di compromessi e di mezzi sentimenti.
Quelli che fanno parte da sé stessi e hanno il coraggio di condannare con acerbe parole, come fece Dante, i loro antenati e contemporanei, sono tenuti in sospetto e designati all'ignominia.
Il libro sacro dell'Italia contemporanea non è la Bibbia, non è la Divina Commedia, ma il Galateo, l'arte di far sudicerie senza che gli altri se ne accorgano.
Come volete adunque che un popolo siffatto possa innalzarsi a Dante? Arriverà a far commenti zeppi di sofismi e di citazioni, conferenze capaci d'attirar le signore, riviste di quisquilie e di rebus, vocabolari utili, edizioni critiche, manuali bibliografici; arriverà, forse, anche a gustare la sobria bellezza di certe terzine famose, ma resterà sempre lontano da quel mondo di fedeli e di santi che trovò la sua voce nella rude poesia del visionario fiorentino. Per entrarci bisogna avere un'anima seria e coraggiosa, nemica delle mezze misure e dei complimenti, e soprattutto cristiana. Bisogna rifarsi una virilità spirituale, odiare molte cose che oggi si amano, lasciare i perditempi delle controversie sottili e delle interpretazioni cabaliste.
I nostri dantisti, dal primo all'ultimo, sono incapaci di tali ascensioni.
Il loro amore per Dante non va molto più in là del loro schedario.
Tra i moderni soltanto Carlyle, De Sanctis e Carducci hanno saputo scrivere qualche pagina su Dante che valga la pena di esser ricordata.
Tutti i nostri dantisti celebri, il Del Lungo, lo Scartazzini, il Torraca, il Casini, il Parodi, lo Zingarelli, il D'Ovidio, fanno della storia, dell'erudizione, della bibliografia, dell'ermeneutica, della filologia, della casuistica, dell'enimmistica, tutto quello che volete, ma non certo della penetrazione dantesca. Essi preparano le loro povere fascine di frùscoli intorno al tempio, ma non hanno il fuoco necessario per incendiarle sì da illuminare colle fiamme le tre misteriose navate fino all'altare del loro Dio.

Anonimo ha detto...

Segue/2
Come si spiega dunque l'innegabile operosità dantistica del nostro paese? Si spiega facilmente quando si comprenda quello ch'è veramente il dantismo, cioè non passione effettiva di una razza per il poeta che le ha dato un de' primi posti nel regno dello spirito, ma semplice trasformazione di attività dedicate prima ad altri scopi. Queste attività si son manifestate in passato in queste forme: Casuistica, Accademia e Filologia classica.
C'è sempre, in un paese di vecchia coltura come l'Italia, un certo numero di persone adatte allo spaccamento dei capelli, alla soluzione degli enimmi, ai giochi di prestigio delle glosse, alla scoperta dei doppi e dei triplici significati.
Queste persone si sono esercitate, un tempo, intorno al diritto, alla teologia, alla morale, ai testi classici ma in tutte queste esercitazioni hanno mantenuto il loro gusto per quella specie di casuistica dialettica e capziosa che si compiace delle questioni difficili, dei passi oscuri e dei problemi insolubili.
Oggi che la teologia e la morale son meno popolari e meno remunerative, una parte di queste persone ha trovato la sua pastura nella Divina Commedia, ed è a loro che dobbiamo le infinite ciarle sul piè fermo, sul Pape Satan aleppe, sul disdegno di Guido, su colui che fece il gran rifiuto e simili. I discettatori di codesta sorta sono i responsabili di quella fallacia di prospettiva estetica nella quale molti cadono leggendo il Poema. L'attenzione viene attirata sui passi più oscuri e scabrosi e si forma così l'idea, vedendo tutto il lavoro che vi si consacra, che quelli siano i più importanti mentre altri, meno tormentati e spesso più belli, vengon passati via senza la necessaria meditazione. A questa classe di sotterratori della Divina Commedia appartengono anche coloro che, golosi di allegorie e di simboli, cercano le porte nascoste del gran poema, il cifrario segreto della Minerva oscura, come ha fatto anche Giovanni Pascoli.

Anonimo ha detto...

Segue/3
Le forme oratorie e teatrali del dantismo si spiegano poi con un altro gusto ch'è stato sempre molto vivace in Italia dopo il quattrocento: quello delle accademie.
Ai nostri tempi le accademie letterarie sono state sopraffatte nella stima della gente da quelle scientifiche.
Ma i letterati non hanno potuto perdere a un tratto i vecchi vizi e il dantismo, colle sue conferenze, le sue letture pubbliche, le sue società di specialisti ha tornito bella e vasta materia d'espettorazioni accademiche.
La "Lectura Dantis" che s'è sparsa rapidamente per tutta l'Italia e alla quale hanno preso parte tutti i dantologi di cui si vanti o si vergogni l'Italia, è stata una delle nuove incarnazioni dell'eterno accademico professionale. Dante è stato uno dei pretesti per rinfrescare gli arsenali e i repertorii dei nostri rivenditori di rettorica. L'altra attività che ha deviato verso il dantismo è stata, come ho detto, quella filologica. Fin dal tempo dei primi umanisti l'arte della chiosa è stata fiorente in Italia. Nell'ultimo secolo la Germania ci ha riconfortati agli studi minuti e precisi attorno ai testi, alle edizioni critiche, alle comparazioni, alle spiegazioni delle opere del lontano passato.
Fino a un certo tempo s'era creduto che solo gli antichi fossero degni di tali fatiche, ma col crescere dell'offerta di lavoro erudito gli antichi non son bastati più e allora s'è costituita, accanto alla filologia classica, una filologia moderna della quale il dantismo è una delle sezioni più frequentate.
Certuni che in tempi più remoti si sarebbero consacrati a ristabilire il testo di Pindaro o a ricostruire la biografia di Plauto, oggi, per la cresciuta concorrenza, raccolgono le varianti del “De Vulgari Eloquio” e seguono le tracce dell'Alighieri nel Casentino. Che codesta gente, cioè, non è chiamata allo studio di Dante da qualche istinto prepotente e profondo, ma unicamente dalla necessità di farsi dei titoli per concorsi e cattedre, senza curarsi troppo se valga la pena di studiare Dante piuttosto che un grammatico alessandrino.
Alcuni di questi eruditi in cerca d'occupazione formano quella società che sta preparando l'edizione critica e definitiva delle opere dell'Alighieri, la quale non riuscirà, temo, a darci una gioia di più, malgrado le oscure fatiche di un Rajna o di un Vandelli; e vi appartengono quei professori di scuole medie, nonché neo-dottori e laureandi, che ammonticchiano le loro note, le loro memorie e i loro contributi nel «Giornale dantesco» e in altri simili magazzini della «dantologia esatta».
Il dantismo, dunque, studiato nei suoi fattori, non è manifestazione di un ritorno sincero al mondo dantesco e all'altitudine dell'anima dantesca ma nient'altro che la rifioritura o il prolungamento di abitudini letteratesche e pedantesche che da molti secoli infieriscono in Italia.
Tutto questo, naturalmente, vale per il dantismo in buona fede.
Se si dovesse denunziare tutto quello che c'è di vanità puntigliosa, d'interesse personale, di amor della moda, di rivalità di carriera dietro molti libri e molti scritti di dantisti bisognerebbe essere anche più severi.
Ma son cose che non accadono solo per il dantismo e solo in Italia.
Quello ch'è più particolare al dantismo, e soprattutto al dantismo italiano, è quella ridicola superbia di essere un segno di grandezza nazionale e una grande officina di alta coltura spirituale.
Superbia non del tutto ridicola in quanto superbia, ma in quanto è sproporzionata alla misura delle piccole anime dei professori che
si occupano di cose dantesche.
Io non pretendo che questi dotti signori smettano di commentare Dante secondo i loro deboli mezzi.
Ma che non vengano a dirci, in nome d'Iddio, che ponzando le loro note essi capiscono il grande veggente e lo fanno capire agli italiani.
Fra un tal poeta e simili scoliasti c'è una siepe di fiamme simile a quella che il loro Dante seppe attraversare sulla vetta del Purgatorio.»

{Giovanni Papini, "Dante Vivo", 1933}

mic ha detto...

Dante è autenticamente “nostro”: è autenticamente italiano, è autenticamente cristiano. Dante è il padre della nostra identità. Un’identità che vogliamo difendere, a partire dalla nostra lingua.

mic ha detto...

https://www.finestresullarte.info/attualita/dantedi-2025-nasce-prima-banca-dati-digitale-dedicata-a-commenti-antichi-divina-commedia

Camera dei deputati ha detto...

Nel giorno dedicato a Dante, il Dantedì, Montecitorio accoglie idealmente il Sommo Poeta.

Proprio in prossimità dell’ingresso principale della Camera si può ammirare "L’incontro di Dante con frate Ilario", opera del 1845 di Giuseppe Bertini, in deposito temporaneo dall’Accademia di Belle Arti di Brera.

Nel dipinto, Dante, con sguardo intenso, affida al frate parte del testo della Divina Commedia.

La scheda del quadro: https://bit.ly/DanteFrateIlario

Oronzo Cilli ha detto...

=== OGGI SI FESTEGGIA IL 'DANTEDÌ' MA ANCHE IL 'TOLKIEN READING DAY'. E NON A CASO. ===

Oggi è il 25 marzo, giorno in cui si celebra l'Annunciazione del Signore.
È anche la ricorrenza di San Dismas, noto come il "buon ladrone", che, secondo il Vangelo, si pentì dei suoi peccati mentre era crocifisso accanto a Gesù e ricevette la promessa di essere con Lui in Paradiso (Luca 23,39-43).

Ma questa data è cara anche ai dantisti e ai tolkieniani, poiché si celebrano il Dantedì e il Tolkien Reading Day.
Il primo coincide con l’inizio del viaggio ultraterreno della Commedia, mentre il secondo segna la distruzione dell’Unico Anello.
Tra Dante e Tolkien esiste un legame particolare che va oltre la semplice coincidenza di questa giornata.
L’accademico inglese, prima ancora che romanziere, fu profondamente legato al Poeta toscano e alla sua opera, come dimostra la sua decennale adesione alla Oxford Dante Society. Questa prestigiosa società dantesca, attiva dal 1876, è composta da soli 15 membri, tutti docenti dell’Università di Oxford. Tre volte l’anno i suoi membri si riuniscono per un pranzo nel collegio dell’ospitante di turno, seguito da un discorso su un tema dantesco e dalla lettura e discussione di alcuni versi della Commedia.

Tolkien entrò a farne parte nel 1945 e vi partecipò fino al 1955, condividendo questi momenti con illustri colleghi come C. S. Lewis, autore delle Cronache di Narnia, e gli italiani Lorenzo Minio-Paluello e Alessandro Passerin d'Entrèves. Tra gli ospiti occasionali figurò anche Tommaso Gallarati Scotti, all’epoca Ambasciatore italiano a Londra e autore della Vita di Dante (1921).

Possiamo dunque definire Tolkien un dantista, dato il suo profondo interesse per la Commedia, testimoniato anche dai suoi studi su opere di commento come quella dell’italiano Attilio Momigliano, di cui possedeva una copia.

Nel 1947 Tolkien lesse un suo componimento durante una riunione della Oxford Dante Society. Un manoscritto, oggetto dei miei studi da alcuni anni, che ho avuto la fortuna di esaminare e trascrivere nel giugno 2018, durante un soggiorno alla Bodleian Library di Oxford.

Il testo, lungo dieci pagine, analizza il tema della lusinga in Dante, con riferimenti ai Canti XVIII dell’Inferno e I del Purgatorio. Oltre a citare in italiano passi della Commedia, Tolkien riportò estratti, sempre in italiano, di Giovanni Boccaccio e fece riferimenti alla poesia medio-inglese del XIV secolo, come il poema Pearl, e a Geoffrey Chaucer, autore dei Racconti di Canterbury.

Particolarmente interessante è il richiamo a Chaucer, spesso considerato il padre della letteratura inglese (non da Tolkien, ma questa è un’altra storia). Questo dettaglio, scoperto durante lo studio del manoscritto, mi ha suscitato un’emozione profonda.

Tolkien scrisse a proposito della diffusione della cultura italiana in Europa e della sua influenza sull’Inghilterra medievale, allora periferia della Cristianità latina: "Though Chaucer was not read in Italy, Dante was read in 14th century England."
(tr. Sebbene Chaucer non venisse letto in Italia, Dante era ben letto nell’Inghilterra del XIV secolo.) [MS. Tolkien A13/1, fol. 170r., Special Collections, Bodleian Library, Oxford]

Un grande tributo alla grandezza del Sommo Poeta!

Anonimo ha detto...

Vergine Madre, Figlia del tuo Figlio,
umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio.

Tu sei colei che l´umana natura
nobilitasti, sì che il suo fattore,
non disdegnò di farsi tua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l´amore,
per lo cui foco nell'eterna pace,
così è germinato questo fiore.

Qui sei a noi meridiana face,
di caritate e giuso intra i mortali
sei di speranza fontana vivace.

Donna, sei tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disianza vuol volar senz´ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi dimanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietade,
in te magnificenza, in te s´aduna,
quantunque in creatura è di bontade.

25 marzo, Solennità dell'Annunciazione, Dantedì

Da Fb ha detto...

Oggi, 25 marzo è il Dantedì, giorno in cui, secondo gli studiosi, nella primavera del 1300 Dante intraprese il viaggio nell’aldilà. E oltretutto quest’anno cade anche il settecentesimo anniversario della sua morte.

Credo che per tutti gli amanti della lingua italiana, possa essere interessante sapere che molte espressioni che usiamo quotidianamente escono dalla Divina Commedia.

Dante lo evochiamo più spesso di quanto crediamo, anche senza saperlo. Lo facciamo quando consigliamo a qualcuno di lasciare perdere gli stupidi, di non dare spago agli hater, agli invidiosi, gli diciamo: Non ti curar di loro, ma guarda e passa, parole che differiscono un po’ rispetto alla forma originale contenuta nel canto III dell’Inferno, che Dante fa pronunciare al suo Maestro Virgilio, colui che gli ha insegnato il bello stilo: «non ragionan di lor, ma guarda e passa» (verso 51).

Quando diciamo a qualcuno che il suo modo di fare e le sue frecciatine non ci scalfiscono minimamente, non ci toccano, usiamo l’espressione non mi tange. Siamo nel canto II, e a parlare questa volta è Beatrice, la Donna amata ed elevata da Dante, che il poeta ha visto pochissime volte e alla quale forse non ha mai rivolto parola: «I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange» (versi 91-92).

Per non parlare del meraviglioso canto V, quello di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, dove la parola amore apre quegli otto endecasillabi che tutti almeno una volta abbiamo letto, amato e sentito citare o declamare da altri: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte: / Caina attende chi vita ci spense» (versi 100-107). È un canto straziante, che racconta una storia drammatica. I due innamorati furono scoperti e brutalmente uccisi dal fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, marito di Francesca.

Quando Dante chiede a Paolo e Francesca (Francesca parlerà sempre per entrambi) come si sono innamorati, come scoccò la scintilla, Francesca gli risponde che stavano leggendo di come Lancillotto si innamorò di Ginevra. Un certo Galeotto (Galehaut nel romanzo), amico sia di Ginevra sia di Lancillotto, fece da tramite e avvertì l’uno dei sentimenti dell’altro. Ecco perché Francesca dice a Dante: «Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante» (versi 137-138). Durante quella lettura Paolo e Francesca si baciarono, rispecchiandosi nella passione di Ginevra e Lancillotto.
Anche oggi galeotto viene usato per indicare qualcuno o qualcosa che ha avuto il merito di far incontrare e unire due cuori.

Da Fb ha detto...

Segue
E ancora, quando una situazione ci fa paura, ci fa tremare le vene e i polsi («ch’ella [la lupa] mi fa tremar le vene e i polsi»; canto I dell’Inferno, verso 90). Quando una situazione non si può più cambiare diciamo che ormai cosa fatta capo ha («Capo ha cosa fatta»; canto XXVIII dell’Inferno, verso 107).

Il sinonimo d’Italia è da sempre Bel Paese («del bel paese là dove ’l sì suona»; canto XXXIII dell’Inferno, verso 80), appellativo che si è guadagnata per il clima mite, per i paesaggi, per la cultura e la storia; a volte questa espressione viene usata anche con una sfumatura ironica o negativa.

Senza infamia e senza lode («coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo»; canto III dell’Inferno, versi 35-36) è il marchio delle acque tiepide; dei mediocri, di coloro che non si sbilanciano, non prendono una posizione, fanno il loro e non eccellono in niente.

Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate («Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate»; canto III dell’Inferno, verso 9), scritta incisa sulla porta dell’Inferno, verso celeberrimo che veniva affisso spesso fuori dai licei occupati o scritto genericamente sui muri d’ingresso delle scuole, per scoraggiare o mettere paura alle matricole. Questo verso dantesco è stato usato anche a mo’ di striscione da alcune tifoserie per incutere timore agli avversari.

Stai fresco o stai fresca («là dove i peccatori stanno freschi»; canto XXXII dell’Inferno, verso 117) diciamo al nostro amico o alla nostra amica che aspettano la chiamata o il messaggino dalla persona che interessa loro e che non arriverà mai.

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Mi piace chiudere con queste parole di Ulisse contenute nel canto XXVI dell’Inferno (versi 119-120), che ricordano all’uomo di ogni tempo che il suo intelletto è stato creato per accogliere il sapere e coltivare la virtù, contro ogni forma di brutalità e irrazionalità.