Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 19 marzo 2025

Paolo Pasqualucci : Riflessioni sulla Decadenza - I

"Riflessioni sulla decadenza", un tema quanto mai attuale, la recente analisi di Paolo Pasqualucci. Gli argomenti sul tappeto sui quali riflettere e discutere sono fin troppi. Seguiranno, quindi, altre puntate. In particolare, sulla decadenza della Chiesa visibile. Qui l'indice degli articoli sulla realtà distopica.

Paolo Pasqualucci :
Riflessioni sulla Decadenza - I

Continuano ad ammorbarci con il mito del progresso continuo mentre siamo da tempo immersi, in Occidente, nella decadenza più profonda. Queste riflessioni vogliono contribuire alla comprensione delle6 cause di questo triste e grave fenomeno, per cercare di combatterlo, per quanto possibile, e, in ogni caso, di come comportarsi nei suoi confronti.
§ 1. Decadenza dei singoli e dei popoli
1. Guardando alla storia, la decadenza di popoli ed istituzioni sembra inevitabile al pari della vecchiaia del corpo umano, che si indebolisce nelle malattie, nella sofferenza, per giungere infine a scomparire nella morte. La nostra decadenza fisica, in quanto uomini, non è un fatto accidentale: appartiene alla natura. Tutto ciò che è vivente, in quanto ente determinato nello spazio e nel tempo, ossia realtà finita, in modo ordinario si mantiene in un arco che va dall’infanzia alla giovinezza alla maturità alla vecchiaia all’estinzione completa grazie all’indebolimento progressivo di tutte le componenti della sua specifica natura.

2. Un processo simile lo possiamo riscontrare nella vita dei popoli e degli Stati. Come se fossero individui, ben definiti dal punto di vista sociale e storico, presentano un arco di sviluppo che va appunto dalla giovinezza alla maturità alla morte. Il modo di essere di un popolo si presenta connaturato ad una determinata forma di Stato, che lo caratterizza nella sua individualità storica. Questa forma non è costante nel tempo ma tende a mutare nel lungo periodo. Pensiamo al popolo romano, la cui forma statale è stata inizialmente la monarchia, soppiantata dalla Repubblica ovvero da una forma oligarchica di democrazia. La crisi della forma repubblicana ha portato, dopo guerre civili, alla fondazione dell’impero, inizialmente come principato: il governo di uno solo, temperato dalla collaborazione (consultiva) del Senato – successivamente cristallizzatosi nella figura dell’imperatore, monarca assoluto cui si dovevano onori di tipo divino ancor prma dell’avvento del Cristianesimo. Uno sviluppo istituzionale durato quasi mille anni, comprendente fasi di ascesa e decadenza della vita civile. Non lineare, quindi, ma ad alti e bassi.

3. La decadenza che ci interessa direttamente non è quella individuale, intesa cioè quale crisi esistenziale del singolo. È la decadenza dei popoli, degli Stati, delle istituzioni, dei costumi, della cultura, di un’intera civiltà. È in questa situazione di decadenza che ci troviamo a vivere, questa è oggi la funesta temperie nella quale dobbiamo lottare. Ma si può fare un paragone tra la decadenza (psico-fisica) come fatto naturale cui l’individuo non può sottrarsi e la decadenza dei popoli e degli Stati? Sono forse questi ultimi da concepirsi come individui in grande?

In passato ci furono dispute sulla validità di questo parallelo. Si negava che lo Stato o lo stesso popolo potessero esser concepiti come un “uomo in grande” o che il concetto della decadenza intrinseca alla natura finita dei singoli si potesse applicare alle vicende dei popoli e degli Stati. Simile prospettiva veniva liquidata come limitata visione “naturalistica” o “meccanicistica” dei popoli e degli Stati, non corrispondente al loro autentico essere.

Quali sono allora i tratti della decadenza dei popoli e degli Stati? Bisognerà cercare di delineare questi tratti.

4. Una prima domanda è sempre stata la seguente: la decadenza dei popoli, sino a che punto dipende dalla decadenza della loro forma di Stato o governo? Questi due aspetti della decadenza si intrecciano ma non è detto debbano coincidere. Montesquieu sosteneva che i popoli sono come li fanno le loro leggi o comunque le loro istituzioni. Il che è indubbiamente esatto. Ma è anche vero (e Montesquieu ne era ben conscio) che le leggi e le istituzioni sono fatte dai popoli e non solo per loro, tant’è vero che istituzioni di un popolo difficilmente sono imitate con successo presso un altro popolo. Le leggi si fondano sui costumi, i costumi sulle leggi (vedi il libro XIX de L’Esprit des Loix).

Concretamente, l’azione formatrice e pedagogica delle istituzioni è sempre l’azione di una élite di governo, di una classe dirigente, aristocratica o borghese o popolare che sia, la quale dirige ed educa il popolo secondo i suoi valori.

Se questi valori vengono condivisi dal popolo allora prevale l’armonia sociale. Ma il mantenimento dell’ordine dipende sempre dalla classe dirigente, dalla sua capacità di conservare i propri valori, in quanto capaci di realizzare il bene comune e non solo di mantenere la classe dirigente al potere. Onde si può affermare che la decadenza, quando inizia, si inizia sempre da una crisi di valori che percuote la classe dirigente cominciando a corromperne gli ideali e i costumi, facendola quindi venir meno nel suo fondamentale ruolo di esempio di conoscenza e di virtù per il popolo.

5. Il significato del parallelo tra la decadenza naturale, psico-fisica del soggetto umano individuale e la decadenza del soggetto collettivo, delle istituzioni da esso create, sino allo Stato, può essere il seguente: le istituzioni create dall’uomo, proprio in quanto umane sono fatalmente caduche al pari degli uomini che le creano. Trascendono la vita dei singoli, durano per generazioni ma si rivelano anch’esse una realtà finita, destinata a scomparire nel tempo. Ciò significa che la decadenza è come tale un fenomeno fisiologico, ad essa è impossibile sfuggire.

All’ineluttabilità della decadenza gli uomini hanno invano cercato di porre rimedio col tentare di escogitare una forma perfetta di Stato ossia di costituzione, tale da resistere in eterno agli assalti del tempo e alle mutevoli vicende della storia. Ma tale forma non è stato possibile vederla in azione né elaborarla, come si evince dalla discussione delle varie forme di costituzione condotta da Aristotele nel II libro della Politica. Dalla sua analisi si deduce che le forme di costituzione storicamente operanti sono state quasi sempre delle forme miste, sempre imperfette rispetto all’ideale per quanto efficaci in un’epoca storica data, anche lunga.

La decadenza appare simile nei vari popoli e Stati purtuttavia si presenta con caratteristiche proprie nelle varie forme di Stato. Sulle diverse forme di decadenza della Res publica si diffonde notoriamente Platone nel Libro VIII del suo dialogo La Repubblica, dedicato allo Stato ideale, distinguendole tra di loro. Una cosa essenziale nel ragionamento platonico è costituita dal nesso tra decadenza di una forma di Stato e la nascita di una forma nuova, che scaturisce per naturale sviluppo o anche reazione dalla malattia della precedente. Il concetto fu ripreso da Polibio nella sua teoria della connessione circolare delle forme classiche di governo, ognuna delle quali scaturisce dalla decadenza della precedente. Per esempio: dalla corruzione della democrazia nasce la tirannide, per opporsi alla quale si afferma una oligarchia, la cui decadenza viene risolta dal passaggio alla monarchia. La decadenza della monarchia può far ripartire il ciclo con il riaffermarsi della democrazia.

La polibiana teoria ciclica delle forme di governo (anakyklosis) fu studiata anche da Machiavelli, pur nell’ambito di una diversa visione dello Stato e della politica[1].
§ 2. La decadenza attuale dell’Occidente è tipica della dissoluzione della democrazia nella licenza e nell’anarchia.
Noi cerchiamo qui di chiarire concetti che spieghino il principio della decadenza in generale. Tuttavia ci dobbiamo concentrare sul fenomeno della decadenza come si caratterizza oggi nelle nostre società, tutte democratiche. Si tratta per l’appunto dell’involuzione radicale della democratica civitas o Respublica euro-americana. La descrizione che Platone fa della degenerazione della democrazia ateniese del suo tempo, V secolo a. C., presenta sicuramente aspetti ancor oggi attuali. Questo famoso testo di Platone contiene alcune tesi inaccettabili, quali ad esempio la comunanza delle donne e l’allevamento collettivo dei figli, quali modelli di “famiglia” nello Stato ideale platonico. Ma non dobbiamo guardare alla parte caduca e persino sconcertante della visione platonica bensì alla validità di certe sue analisi, capaci di cogliere in profondità gli aspetti essenziali della realtà e di trarne concetti universali. Ne La Repubblica si discute anche di altre cose, per esempio del concetto della giustizia, con pagine belle e profonde, sempre valide.

“SOCRATE. Ora, non nascono in maniera pressappoco identica la democrazia dall’oligarchia e la tirannide dalla democrazia?

– Come?

-- Quel bene, dissi, che i cittadini si erano proposti come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia, era la ricchezza eccessiva, non è vero?

– Sì

--A rovinare l’oligarchia furono dunque l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata dall’avarizia.

– È vero, disse.

-- Ora, a distruggere anche la democrazia non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene?

– Secondo te, che cosa definisce così?

– La libertà, risposi. In uno Stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero.

– Sì, ammise, è una frase molto comune.

– Ebbene, feci, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto non mutano anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide?

-- Come? chiese.

– Quando, credo, uno Stato democratico, assetato di libertà, è alla mercé di cattivi coppieri e troppo s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai miti e non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come scellerati e oligarchici.

-- Sì, si comporta così, disse.

-- E coloro, continuai, che obbediscono ai governanti, li copre d’improperi trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile che in uno Stato siffatto il principio di libertà si allarghi a tutto?

– Come no?

– E così, mio caro, dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino alle bestie.

-- Come possiamo dire una cosa simile? chiese”[2].

Dunque, in uno Stato democratico il male nasce quando non si pone un freno alla libertà ed anzi l’eccesso di libertà domina incontrastato. In effetti, se tutti i cittadini hanno diritto ad esser liberi come credono, nessuna autorità sarà moralmente legittimata ad imporre loro il rispetto delle norme, sia delle legge giuridica che di quella morale. L’autorità costituita cessa di funzionare, in quanto tale, ossia: viene accettata solo in base alla convenienza, se si piega ai desideri della massa, composta di individui che si considerano tutti uguali nella loro pretesa di libertà assoluta. In termini attuali: non più il government come potere esecutivo ben delineato, i cui decreti possono essere impugnati secondo le leggi ma vanno obbediti. Al suo posto la governance, termine intraducibile in italiano, ovvero un governare attraverso compromessi di ogni ordine e grado, senza mai imporre nulla bensì mediando sempre.

E questa è una situazione di anarchia, ci spiega Platone. Può sembrare strano il suo accenno agli animali, coinvolti anche loro nell’anarchia generale, ossia sempre più liberi, in quanto animali. E tuttavia l’accenno è meno strano di quanto possa sembrare se solo pensiamo al culto degli animali che la nostra democrazia decadente ci ha imposto: guai a far del male ad una bestia, si rischiano anni di galera; sono stati proclamati i “diritti degli animali” (multare in modo proporzionato chi compie atti di crudeltà sugli animali è giusto, ma non in base ai loro supposti “diritti”, una vera e propria aberrazione giudica, non potendo un essere privo di ragione e linguaggio esser titolare di diritti); libertà di movimento degli animali, anche selvatici e feroci come orsi, cinghiali, lupi, che si vorrebbe assoluta, anche a danno degli esseri umani, nelle periferie degli insediamenti a contatto con boschi e foreste abitati da quelle bestie.

Ma torniamo al testo. Si continua con la dimostrazione dei vari aspetti dell’anarchia in cui è decaduta la democrazia.

“Per esempio, risposi, nel senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter esser libero; e che il meteco si parifica al cittadino e il cittadino al meteco, e così dicasi per lo straniero.

– Sì, avviene così, rispose.

– A questo si aggiungono, ripresi, altre bagattelle, come queste: in un simile ambiente il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In generale i giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici.

– Senza dubbio, disse.

– Però, mio caro, feci io, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha quando uomini e donne comperati sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci tra uomini e donne. – Ebbene, fece, con Eschilo non ‘diremo quel che è venuto alle labbra’?

– Senza dubbio, risposi, così dico anch’io. Consideriamo le bestie soggette agli uomini: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di quanto siano più libere qui che in un altro Stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano. E dappertutto c’è questa libertà […]”[3].

Dunque, l’anarchia prodottasi con l’eccesso di libertà comporta la crisi della famiglia, il cui aspetto più evidente è costituito dalla mancanza di rispetto dei figli per i genitori. Su di essa crisi incide anche la grande libertà che si instaura nei rapporti tra i sessi, posti ora su un piano di uguaglianza nella libertà. Implicita qui la condanna della libertà sessuale, in quanto causa di corruzione dei costumi. A questo proposito gioverà ricordare che nel suo ultimo ed incompiuto dialogo, Le Leggi, Platone condanna senza mezzi termini l’omosessualità, sia maschile che femminile, quale grave disordine contro natura.

“ ATENIESE. Par difficile, ospiti, che tutto ciò che riguarda le costituzioni, ancora com’è discorso così come sul piano dei fatti, riesca in qualche modo ad avere una validità indiscussa. C’è il pericolo, come per i corpi, di non poter prescrivere a uno di questi una pratica senza che questa stessa risulti da una parte dannosa, dall’altra utile ai nostri corpi. Perché anche questi “ginnasi” e i “pasti in comune” sono ora di giovamento in moltissimi casi allo stato ma nelle sedizioni sono una difficoltà, lo mostrano i figli dei Milesi e dei Beoti e dei Turii. E ancora pare che quest’uso abbia corrotta una antica legge di natura che dovrebbe sempre governare i piaceri sessuali non solo degli uomini ma anche delle bestie.

E di questi mali si potrebbero accusare primi i vostri stati e tutti gli altri poi che fanno uso larghissimo dei “ginnasi”; e sia che di questo argomento si pensi per gioco o seriamente, bisogna riconoscere che tale piacere sembra esser stato attribuito dalla natura al genere femminile e a quello dei maschi in quanto fra loro si uniscano per la generazione, ma l’unione dei maschi coi maschi o delle femmine con le femmine è contro natura [parà physin], atto temerario, creato fin da principio da disordinato piacere”[4].

Non sono stati quindi i Padri della Chiesa, sulla base dei Vangeli e delle Lettere di san Paolo, i primi a condannare il peccato contro natura proprio perché contro natura, turpe perversione dei rapporti sessuali naturali tra il maschio e la femmina, stabiliti dal Creatore, fonte di grave decadenza dei costumi. I “ginnasi” erano soprattutto luoghi per gli esercizi corporali, addestramento alla lotta, palestre; i “pasti in comune” (sissizie), pasti pubblici separati per i due sessi, cui essi orano obbligati in Stati come quello spartiate. Queste attività in comune, in palestra e nei pasti, dovevano sviluppare un corpo sano, il cameratismo e lo spirito d’appartenenza alla polis, ma, come faceva notare l’Ateniese, ad un certo punto favorirono lo sviluppo dell’omosessualità, il che non era certo nelle intenzioni del legislatore[5]. Si trattava quindi di istituti da prendere con le molle, dati gli imprevisti effetti negativi.

Ma torniamo ai caratteri della decadenza della democrazia. Quando l’anarchia prende il sopravvento in nome della libertà, crolla anche l’autorità del maestro nei confronti dei suoi scolari. Il rapporto tra giovani e anziani è rovesciato: essi sono ora su un piano d’uguaglianza ed anzi gli anziani si danno ad imitare e rincorrere i giovani nei loro immaturi atteggiamenti. Nello Stato democratico corrotto si tende persino a far spadroneggiare gli animali, in nome della loro libertà, mentre la gerarchia sociale viene stravolta dall’uguaglianza di fatto provocata dalla libertà indiscriminata.

Gli Stati greci, come in tutto il mondo antico, presentavano divisioni sociali rigide anche se non insuperabili, almeno in molti di loro. Accanto ai cittadini, c’erano gli schiavi (“uomini e donne comperati”) e i meteci. Si trattava di forestieri che “divenivano ‘coabitanti’, meteci […] mediante un atto di ammissione, al quale in molti luoghi erano persino obbligati in base alla durata del domicilio, diversa probabimente secondo i singoli stati. In origine si trattava esclusivamente di Greci; a partire dal IV secolo ci fu anche una certa percentuale di non Greci. Venendo assunti come meteci, i forestieri acquisivano il domicilio, la protezione legale della loro persona, il diritto di partecipare a culti e feste e la libertà di esercitare la loro professione; d’altra parte erano obbligati a versare un modesto testatico e a partecipare agli oneri pubblici, talvolta anche a prestare servizio militare. Ma rimanevano non-cittadini, in giudizio erano rappresentati da un cittadino…”[6].

Ora, notava il protagonista del dialogo platonico, nella decadenza anarchica della democrazia le differenze tra straniero, meteco, cittadino e persino servo e padrone, erano di fatto annullate, come se la gerarchia sociale non esistesse più. Ma questo non era ovviamente ammissibile. Nessuna società può reggersi senza una struttura sociale gerarchica, mantenuta dal principio d’autorità, riconosciuto come tale ed effettivamente operante secondo i principi stabiliti nelle leggi.

Un processo di dissoluzione sociale e morale del tipo di quello descritto qui da Platone, non l’abbiamo forse vissuto in tutti questi anni e non lo stiamo ancora vivendo? Ed anzi, sperimentandolo al quadrato se non al cubo, anche a causa del progresso materiale che permette alla malvagità umana di fabbricarsi nuovi ed impensati strumenti per compiere il male. Ma la natura dell’uomo non sembra esser sempre la stessa? Nel senso che vizi e virtù sono sempre gli stessi, variando solo la forma della loro attuazione pratica per via del mutamento delle condizioni materiali di vita nelle varie epoche?

Prima di approfondire il discorso sulla natura umana che al dunque rimane sempre la stessa, sempre gravata dalle conseguenze del peccato originale mentre il mondo si dimostra sempre essere “il Regno del Principe di questo mondo”, completiamo la nostra citazione di Platone.

“SOCRATE. Ecco, dunque, mio caro, ripresi, qual è a mio parere l’inizio, bello e gagliardo, donde viene la tirannide.

– Gagliardo, sì, rispose; ma che cosa viene poi?

– Quell’identico morbo, dissi, che, sorto nell’oligarchia, l’ha portata a rovina, sorge anche nella democrazia, nascendo dalla licenza, e, più intenso e forte, la riduce schiava. In realtà ogni eccesso suole comportare una grande trasformazione nel senso opposto: così nelle stagioni come nelle piante e nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni.

– È naturale, disse.

– L’eccessiva libertà, sembra, non può che trasformarsi in eccessiva schiavitù, per un privato come per uno Stato.

– È naturale, sì.

-- È naturale quindi, continuai, che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce.

– È logico, ammise.

-- Però, risposi, secondo me non domandavi questo. Tu chiedevi quale sia il morbo che, nascendo identico nella democrazia e nell’oligarchia, riduce schiava la prima.

– Dici il vero, ammise.

– Ebbene, ripresi, parlando di quel morbo intendevo dire la classe degli uomini oziosi e spendaccioni. Di essi il gruppo più coraggioso dirige, il più codardo segue; e sono quelli che paragonavamo a fuchi, gli uni forniti, gli altri sforniti di pungiglioni.

– E con ragione, rispose.

– Ora, feci io, questi due gruppi, quando sorgono, producono turbamenti in qualunque costituzione, come nel corpo il catarro e la bile…”[7].

Ai tempi di Platone la decadenza della democrazia dipendeva soprattutto dal pessimo uso della libertà individuale. Ai nostri, tale decadenza è peggiore poiché all’ideale della libertà si è affiancato quello dell’uguaglianza, a partire dalla Rivoluzione Francese. L’uguaglianza, intesa oggi in modo radicale quale norma di vita di tutti gli individui liberi che compongono la società, norma che i poteri costituiti devono rispettare in modo assoluto; tale uguaglianza così male intesa viene a costituire con l’idea della libertà senza limiti, un cocktail micidiale, cui nessuna società e Stato sono in grado di resistere.

Dalle osservazioni sempre attuali di Platone e dall’esperienza storica concreta, possiamo quindi dedurre che la decadenza di un popolo e di uno Stato, di una società, si inizia quando il principio ispiratore della costituzione si corrompe. E questa corruzione si inizia dall’interno. L’ideale della libertà al pari di quello dell’uguaglianza non sono certo cattivi in se stessi. Ma, se non vengono mantenuti entro precisi limiti e disciplinati efficacemente dalle leggi, entrano in contraddizione con se stessi, provocando effetti pessimi per tutti. La libertà si trasforma allora in licenza, nella quale prevalgono i più astuti e i più forti, facendo in tal modo sparire anche l’uguaglianza, trasformata in un grimaldello per imporre privilegi di ogni tipo, anche sordidi, e distruggere le istituzioni. Le vere vittime di una situazione del genere sono soprattutto i cittadini più deboli ed indifesi: la vita in generale, anche quella professionale, diventa una sorta di “guerra per bande”. In una situazione del genere, con l’anarchia che predomina nella vita pubblica e privata, il collasso finale dell’ordinamento esistente è solo questione di tempo.
§ 3. Conclusioni provvisorie.
Le prime conclusioni provvisorie che si possono trarre da queste riflessioni mi sembrano dunque le seguenti:
1. La decadenza definitiva di una forma di Stato e di un’intera società, con tutti i suoi valori, è un fenomeno complesso in tutte le sue articolazioni e può prolungarsi nel tempo: appare tuttavia inevitabile. Nessuna opera dell’uomo, per quanto geniale e poderosa, è destinata a durare in eterno.

2. La decadenza si inizia quasi sempre dall’interno di una società e di uno Stato, in genere dalla classe dirigente. Tale classe comincia ad un certo punto a non praticare le virtù che l’avevano innalzata, tende all’egoismo e all’edonismo, si indebolisce moralmente ed intellettualmente, non riesce più a difendere il popolo dai nemici interni ed esterni, lascia che i costumi generali si corrompano ed anzi ne dà essa stessa l’esempio, cosa che comporta la crisi irreversibile della famiglia, la denatalità, l’inizio dell’estinzione fisica del popolo – il tutto contrabbandato (nel caso della decadenza delle democrazie) come progresso della libertà nell’uguaglianza, slogan con il quale, ad esempio, sono stati imposti alle nostre società democratiche i dogmi della subcultura femminista. Nel processo di decadenza possono concorrere cause esterne, quali ad esempio le guerre o le crisi economiche, ma in genere esse sono con-cause: la pressione negativa dall’esterno trova spazio all’interno proprio quando all’interno è già cominciata la decadenza della classe dirigente.

3. La decadenza segna spesso il trapasso da una forma di Stato ad un’altra, l’affermarsi di forze nuove, il che non significa necessariamente che in questo trapasso il popolo e lo Stato rinascano a nuova vita: potrebbero anche cadere sotto un dominatore straniero, portatore di una nuova forma di governo e artefice del mutamento radicale, anche razziale, del popolo sottomesso. Pensiamo ad esempio alla rapidissima ed imprevista espansione mussulmana, nel VII secolo della nostra èra. I due massimi imperi del tempo in questa parte del mondo, il bizantino e persiano, si erano reciprocamente esauriti in lunghissime campagne militari, l’un contro l’altro. Gli eserciti arabi ebbero buon gioco a sconfiggere entrambi in poche, decisive battaglie. L’impero bizantino riuscì a resistere, nonostante le grandi mutilazioni territoriali (il Nordafrica e il medio Oriente, tutti cristiani, furono perduti e l’Islam fece tabula rasa), ed anzi in un secondo tempo riuscì a bloccare l’avanzata mussulmana vero l’Europa continentale, passando poi al contrattacco in Anatolia. Invece l’impero persiano crollò completamente, di schianto, dovette subire l’invasione dei beduini del deserto, diventò mussulmano, cambiando pertanto cultura e modo di vivere: una mutazione rapida e radicale, che presuppone un processo di decadenza in atto, anche se non immediatamente apparente.

4. La decadenza di una forma di Stato e di vita che provoca una rivoluzione dalla quale nasce, sempre ad opera del medesimo popolo, una nuova forma di Stato e di vita, può presentare un problema dal punto di vista del concetto della decadenza. Infatti, qui non abbiamo il crollo definitivo di una civiltà ma solo la scomparsa di un mondo, rappresentato da certe classi, mondo che era evidentemente in decadenza, altrimenti avrebbe saputo resistere all’assalto delle forze eversive. In questo caso, se le forze eversive rappresentano un mondo sociale nuovo che doveva trovare ad un certo punto spazio, la decadenza sarebbe solo parziale, riguarderebbe cioè solo il vecchio mondo roso dalle tarme, che doveva esser spazzato via.

Un esempio storico: la mancanza di senso della realtà dimostrato dallo zar Nicola II, di fronte alla crisi irreversibile dell’autocrazia che la sconfitta militare comportava, sempre più devastante nei suoi effetti. Vale a dire: Nicola II era anche comandante in capo dell’esercito. La Duma o Consiglio, un parlamento su base ristretta convocabile ad nutum del sovrano, creato dopo la rivoluzione del 1905, Nicola II l’aveva sentito poco e di malavoglia. In essa predominavano i monarchici e i liberali fedeli alla monarchia. La guerra aveva creato di fatto una rappresentanza alla borghesia patriottica, creata dallo sviluppo economico impostato dagli zar dopo il 1905, ostile alla rivoluzione e ancora dotata di buon nerbo. Bisognava che lo zar si rassegnasse a governare di fatto da monarca costituzionale, pur mantenendo le sue prerogative autoritarie (per esempio, il diritto di veto). Doveva pertanto coinvolgere la Duma nella direzione della guerra ed eventualmente nella discussione sulla sua prosecuzione, appoggiarsi ad essa, assieme ad essa affrontare anche la grave crisi economica connessa alla guerra, sulla quale speculavano a man bassa le sinistre rivoluzionarie. In tal modo lo zar non sarebbe diventato il capro espiatorio della crisi e la monarchia, come istituzione, non ne sarebbe stata travolta. Da un anno almeno i capi della borghesia russa premevano in questo senso sul sovrano. Essi erano ben decisi ad appoggiare lo zar, che però avrebbe dovuto mutare atteggiamento ed impostazione politica, conferire ai rappresentanti borghesi una rappresentanza politica pubblica, un potere effettivo di governo.

Nicola II era intelligente e capiva perfettamente i problemi. Purtroppo, era un indeciso. Si lasciava influenzare dalla moglie, tedesca, ferrea sostenitrice sino all’ultimo della necessità di mantenere intatta l’autocrazia, senza alcun compromesso. E così fu. Alla fine Nicola II ebbe un ripensamento e accennò ad aderire alla proposte dei liberali ma era troppo tardi: le cose al fronte andavano sempre peggio mentre già cominciavano gli scioperi e gli ammutinamenti che lo avrebbero costretto ad abdicare.

Sia lui che il fratello, il Granduca Nicola, anch’egli poi assassinato dai bolscevichi, i quali, per volontà di Lenin, sterminarono meticolosamente tutta la famiglia regnante, compresi i parenti più lontani, davano l’impressione di vivere in un altro mondo, pur capendo la gravità dei problemi e la necessità di risolverli. Qui appunto si può parlare di una forma di decadenza che si manifestava soprattutto nella paralisi spirituale e nell’incapacità a decidere da parte dei membri più rappresentativi della classe dirigente. L’atmosfera surreale che regnava nelle alte sfere zariste, sin dall’inizio della Grande Guerra, la rende bene Solgenitzin nel suo famoso primo romanzo del ciclo storico sulla rivoluzione russa: Agosto 1914.

Tutti questi aspetti potranno esser (si spera) approfonditi in séguito. Fin d’ora annoto che un posto a parte meriterà l’analisi della presente decadenza della religione cattolica, della Chiesa, inusitata per la profondità e l’estensione del tradimento della fede che essa rivela. Un’analisi a parte, essendo la Chiesa cattolica un’istituzione di origine divina, il che rende il discorso sulla sua decadenza assai più complesso.
Paolo Pasqualucci,   -  Fonte
17 marzo 2025,
Festa di S. Patrizio, Patrono dell’Irlanda.
________________________________
[1] Vedi: Gennaro Sasso, La teoria dell’anacyclosis, in: ID., Studi su Machiavelli, Morano, Napoli, 1967, pp. 161-222.
[2] Platone, La Repubblica, in ID., Opere, II vol., Laterza, Bari, 1966, pp.390-391, (VIII 561, 562). Tr. it. di Franco Sartori.
[3] Op. cit., pp. 391-392 (VIII, 563, 564).
[4] Platone, Leggi, in ID., Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. II, p. 624 (I, 634), tr. it. di Attilio Zadro.
[5] Presso gli Spartani, “era permesso amare ragazzi di buon temperamento, ma era considerato disonorevole avere dei contatti fisici con loro, perché questo significava amare il corpo e non l’anima. Chiunque fosse accusato di avere rapporti poco onesti con un ragazzo, era privato per sempre dei diritti civili” (Plutarco, Le virtù di Sparta, Introduzione di Dario Del Corno, tr. it. di Dario Del Corno e Giuseppe Zanetto, Adelphi, Milano, 20052, p. 146.
[6] Victor Ehrenberg, Lo Stato dei Greci, tr. it. di Ervino Pocar, La Nuova Italia, 1967, 1980, p. 57. Meteco era colui che praticava la metoichia, che significava “cambiar casa, oikia”; il métoikos si trasferiva in terra straniera e vi veniva accolto a certe condizioni, come co-abitante.
[7] Platone, La Repubblica, tr. it. cit., p. 392 (VIII, 564). In nota il traduttore cita un antico proverbio greco: “I fuchi mangiano le fatiche altrui” (ivi, p. 393; VIII, 565).

8 commenti:

Difficile da credere ha detto...

Ho letto qualcosa del discorso di Draghi Mario. Ogni volta che parla e/o che di lui si parla mi tornano in mente le parole del Professor  Caffè  di cui Draghi fu allievo alla Università  La Sapienza di Roma. Allievo come molti altri diventati quasi figli adottivi del Professore, cioè sue  'speranze' per il presente e per il futuro dell'economia italiana. 

Quando Draghi andò  in America  il Professor Caffè disse: Draghi ci ha lasciato. Verbo strano da usare per uno che va in un altro  paese a studiare, a lavorare, a cercare fortuna.Tra i sinonimi di lasciare, vi è abbandonare che ha molto il sapore di tradimento. Certamente il Professor Caffè si sentì tradito anche da questo studente/figlio. 

Oggi il discorso di Draghi. Un discorso che riecheggia l'insegnamento del Professor Caffè, ma Draghi lo mischia poi con quella mentalità che ha fatto la sua fortuna mondana. 

Questa sera un amico mi ricordava che i defunti a volte si avvicinano ai vivi nel Bene e nel Male. Forse il Professor Caffè,  amatissimo e stimatissimo dai suoi studenti, dal Cielo sta cercando di salvare quel figlio adottivo che ha tradito la religione Cattolica, la Patria, i suoi connazionali , l'Economia a favore del bene comune ed anche lui stesso. 
m.a.

Il Santo del giorno ha detto...

Il primo Giuseppe

No, nessuno mai al mondo potrà comprendere le grandezze di Giuseppe. Per perpetrarne la profondità, bisognerebbe abbracciare tutta l’estensione del mistero col quale la sua missione lo mise in rapporto quaggiù, quale strumento necessario. Non ci meravigliamo perciò che il padre putativo del figlio di Dio sia stato raffigurato nell'Antica Alleanza sotto le sembianze d’un patriarca del popolo eletto. San Bernardo Spiega molto bene tale relazione: «Il primo Giuseppe egli dice _ venduto dai fratelli e per questo figura di Cristo, fu portato in Egitto; il nuovo, che sfugge alla gelosia di Erode, porta Cristo in Egitto. Il primo Giuseppe, serbando fedeltà al suo padrone, rispettò la sposa di costui; il secondo, non meno casto, fu il custode della sua sovrana, della madre del suo Signore, e il testimone della sua verginità. Al primo fu data l’intelligenza dei segreti rivelati nei sogni; al secondo furono confidati gli stessi misteri del cielo. Il primo conservò le provviste del grano non per sé ma per tutto il popolo; il secondo ebbe in sua custodia il Pane vivo disceso dal cielo, per sé e per il mondo intero.

Tratto da l'anno liturgico di Dom Prospèr Gueranger

Laurentius ha detto...

O San Giuseppe, padre putativo di Gesù e vero sposo di Maria Vergine, pregate per noi e per gli agonizzanti di questo giorno.

(Giaculatoria della Pia Unione del Tránsito di San Giuseppe).

Anonimo ha detto...

Molto interessante e di piacevole lettura l'intervento del prof. Pasqualucci, voce lucida e autorevole.
A mio modesto avviso l'eccesso di libertà, soprattutto a partire dalla metà anni sessanta, è anche figlio del nuovo processo rivoluzionario in seno alla Chiesa cattolica (non si può non vedere il nesso tra i risultati per certi versi sconvolgenti del CVII e il successivo movimentismo libertario nella società civile occidentale), che ha rotto gli steccati, le dighe, sino ad arrivare a pensare l'impossibile: l'evoluzione del Dogma. Quindi, la gerarchia neomodernista ha agevolato il moto rivoluzionario civile e ora la Chiesa cattolica è in ritirata su tutti i fronti.
¥¥¥

Anonimo ha detto...

# YYY -
Ringrazo per il generoso apprezzamento.
L'anticipazione dell'eccesso di libertà e in definitiva della contestazione del principio d'autorità è sicuramente cominciata con il Vaticano II, grazie alla complicità attiva di Giovanni XXIII e Paolo VI. Di questo "anticipo" hanno fatto menzione a volte autori legati alla Tradizione, già in anni lontani. Forse lo stesso mons. Marcel Lefebvre.
Per quanto mi riguarda, spero di poter trattare quest'aspetto nell'ambito del discorso sulla decadenza della Chiesa cattolica, in preda dal Concilio appunto ad un processo di "auto-annientamento", un autentico "cupio dissolvi".
pp

Catholicus ha detto...

Auto annientamento, ben detto professore. Altri hanno scritto di autidemolizione della Chiesa da parte della sua gerarchia, e poi, a seguire, dell'intero corpo ecclesiale (il pesce, che puzza sempre dalla testa). Per tale motivo non li definisco più " religiosi", ma solamente ecclesiastici, in un quadro di verosimile nuovo cesaropapismo, stavolta però di origine ed ispirazione luciferina; si sono infatti alleati con i nemici storici di Cristo, per combattere assieme la battaglia finale del diavolo (cfr "The last devil's battle", del reverendo Paul Kramer), o forse erano già infiltrati, provenienti dalle fila del Nemico di Cristo e dellintera umanità.

Caholicus ha detto...

Scusi la mia lungaggine, professor Pasqualucci, vorrei precisare che mi riferivo al saggio seguente : Quirino Maestrello : “ L’autodemolizione della Chiesa Cattolica.”
(ciò che un Cattolico ha diritto di sapere) -
L’opera in questione, difficilmente rintracciabile in rete, fa parte della mia antologia “Il modrenismo nella Chiesa Cattolica" (dalle origini al 2017), a disposizione di chiunque desideri riceverla via mail (in forma “zippata”, data la sua pesantezza informatica).
Inoltre consiglio vivamente l’ottimo saggio di Agostino Nobile
“Quello che i cattolici devono sapere. Almeno per evitare una fine ridicola” . Edizioni Segno, 2015. Grazie della cortese attenzione. J.H.S.

Anonimo ha detto...

# Catholicus
Grazie delle cortesi informazioni. Cercherò di aggiornarmi nel senso da lei indicato.
pp