Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 22 novembre 2021

Crisi della Chiesa - Perché continua il silenzio su 7Q5, il frammento papiraceo di Qumran databile al 50 d.C. circa, contenente Marco 6, 52-53 ?

Paolo Pasqualucci affronta un tema molto importante perché, anche se a prima vista sembra materia per eruditi e specialisti, ha a che fare con la storicità dei vangeli. 
I documenti di Qumran, venuti alla luce dal 1947 al 1956 in undici grotte del deserto di Giudea, accanto al Mar Morto, sono considerati la scoperta archeologica più importante del secolo scorso nel settore biblico e hanno cambiato profondamente la nostra conoscenza della Scrittura e del giudaismo antico. Da decenni, i diversi settori di Qumran (storia, archeologia, testi, dottrine, rapporto con il NT, ecc.) vengono studiati con grande interesse. Le scoperte hanno rappresentato certamente un fatto della più grande importanza per la miglior comprensione della Sacra Scrittura e dell'ambiente storico nel quale si è sviluppata la Chiesa della prima ora. La comunità di Qumran era una sorta di monastero in cui, secondo l'opinione dei più eminenti specialisti, una parte della famiglia degli Esseni conduceva una vita dedicata al lavoro e alla preghiera. I suoi abitanti appartenevano a uno dei principali gruppi religiosi in cui si divideva il giudaismo, prima della distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C.
Solo la grotta 7, scoperta nel 1955, presenta la particolarità di contenere, nella sua totalità, dei papiri. È precisamente questa grotta che ha richiamato l'attenzione dell'esperto papirologo José O'Callaghan, sacerdote gesuita spagnolo, che iniziò la sua ricerca su di essa quando stava elaborando un catalogo dei papiri contenenti sezioni della cosiddetta versione dei LXX (una traduzione dell' A.T. in greco, eseguita ad Alessandria, da dei giudei, nel III secolo a.C., per l'utilizzo da parte dei correligionari più familiarizzati con il greco che con l'ebraico o l'aramaico. (M.G.)

Crisi della Chiesa - Perché continua il silenzio su 7Q5, il frammento papiraceo di Qumran databile al 50 d.C. circa, contenente Marco 6, 52-53 ?
di Paolo Pasqualucci

Con la montiniana riforma liturgica è invalsa la cattiva abitudine di recitare nella Nuova Messa testi evangelici mutilati delle parti sgradite alla laica e miscredente mentalità moderna. Ben 22 tagli sono stati identificati da un eminente studioso tedesco. Inoltre, le traduzioni in volgare dei testi delle Orationes da recitarsi durante la suddetta Messa, hanno maltradotto od omesso ad abundantiam, sempre al fine di introdurre una visione edulcorata e quindi falsa del cattolicesimo, in teoria più gradita all’uomo contemporaneo.[1] La cattiva abitudine del far passar sotto silenzio parti della Rivelazione e dell’Adorazione essenziali alle verità di fede si è applicata, possiamo dire, anche al campo esegetico. Infatti, si è sepolta nell’oblío una scoperta, scientificamente ineccepibile, che conferma quanto sempre sostenuto dagli studiosi cattolici, già sulla base della stessa analisi interna dei testi: esser cioè i Sacri Testi che riferiscono i detti e i fatti del Signore di poco posteriori alla conclusione della sua vicenda terrena e comunque sicuramente anteriori alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme, iniziatasi il 29 agosto del 70 d.C. da parte dell’esercito romano assediante la città.

La scoperta di cui stiamo parlando è avvenuta all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Divenne nota al grande pubblico all’inizio degli anni Novanta per poi sfilacciarsi nell’oblío di fronte all’opposizione tetragona dell’esegesi accademica. Si tratta dei famosi Rotoli di Qumran, località sul Mar Morto non lontana da Gerusalemme, trovati casualmente nel 1947 in alcune grotte presso questa località, dove anticamente esisteva una Comunità di Esseni. Le grotte, hanno stabilito gli archeologi, furono chiuse nel 68 d.C. Due anni dopo che era iniziata la ribellione giudaica contro l’occupante romano, conclusasi con l’Apocalisse del 70. L’insediamento degli Esseni, in zona desertica presso il Mar Morto, abbastanza vicina a Gerusalemme, constava di un complesso di edifici circondati da mura, una vera e propria cittadella quadrata, simile a un articolato complesso conventuale o ad un accampamento militare. All’indagine archeologica il complesso appare esser stato distrutto, quasi sicuramente dai romani.[2]

I diciotto testi della settima grotta, tutti frammenti di papiri in greco, sottoposti ad accuratissime analisi, con i più perfezionati sistemi moderni, hanno rivelato un frammento essere con certezza praticamente assoluta Vangelo di Marco 6, 52-53. Inoltre, secondo lo studioso scopritore, Padre José O’ Callaghan SI, 1922-2001, uno dei frammenti (7Q4) contiene un passo di una Lettera di san Paolo: 1 Tim 3, 16 – 4, 3. Il papirologo gesuita propose anche la natura neotestamentaria di altri otto frammenti: tre di Marco, uno degli Atti, quattro di Epistole degli Apostoli (Thiede, pp. 49-53, vedi infra).

La scoperta del frammento di Marco, come si è detto, è di enorme importanza: essa inficia praticamente l’esegesi predominante ormai da quasi cinquant’anni, fondata sull’ipotesi non dimostrata che i Vangeli siano tutti posteriori al 70 d.C. Tale ipotesi, come si sa, è presente nell’ambito del razionalismo protestante sin dal XIX secolo, e si è affermata anche in campo cattolico, dagli anni Sessanta del secolo scorso. Inevitabile che su una scoperta che di per sé everte la metodologia dominante, il mondo accademico ecclesiastico e non abbia opposto la strategia del dileggio e del silenzio.

Il passo di Marco riportato dal frammento è il seguente :
“Ed erano tutti stupiti dentro di sé perché non avevano capito circa i pani, ché il loro cuore era insensibile. E compiuta la traversata , giunsero nella contrada di Gennesaret e presero terra. Sbarcati che furono…” (Mc 6, 52-53)
La versione italiana utilizzata è quella della Sacra Bibbia delle Edizioni Paoline, anteriore al Concilio Vaticano II, leggermente modificata da me. Il testo in corsivo è quello ricostruibile in base al frammento, il cui effettivo contenuto ho cercato di rendere (per dare l’idea) nelle parti di parole in grassetto e sottolineate. La parola-chiave, che ha permesso l’identificazione è stata : Gennesaret.

Per rinfrescare la memoria su questo importante evento, pubblico qui di seguito tre documenti: 1. una breve intervista al gesuita autore della scoperta, effettuata nel 1996; 2. un articolo di mons. Francesco Spadafora, 1913-1997, ordinario di esegesi alla Lateranense, apparso su un numero di sì sì no no del 1995; 3. Estratti dal breve saggio del prof. Carsten Peter Thiede, 1952-2004, linguista e filologo, studioso del Nuovo Testamento, archeologo, papirologo di fama internazionale, luterano convertitosi all’anglicanesimo, pubblicato nei Subsidia biblica nel 1987, n.10, nel quale egli confermava autorevolmente la scoperta di Padre José O’ Callaghan, grazie anche alla sua eccezionale capacità di usare tecniche paleografiche ultramoderne, che permettevano di intendere correttamente caratteri altrimenti poco leggibili.
1. Intervista a P. José O’ Callaghan, gesuita spagnolo, papirologo dell’Istituto Biblico, apparsa sulla rivista ‘Teologica’, n. 2 (I), Marzo-Aprile 1996.
“Il frammento di Marco tra i manoscritti del Mar Morto” è stato il tema di una conferenza organizzata dall’istituto italiano “Jacques Maritain” presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma. Sull’argomento il Sir ha intervistato P. José O’ Callaghan, papirologo del Biblico e autore dell’identificazione di alcune parole del Vangelo di Marco su un piccolo frammento di papiro del 50 d.C. proveniente dalle grotte di Qumran, l’ormai celebre località sulle rive del Mar Morto dove furono ritrovati nel 1947, nascosti in alcune giare, numerosi rotoli con testi religiosi risalenti all’epoca di Cristo.

D. Qual’è l’importanza di questa scoperta?

R. Il potere avere qualche papiro dell’anno 50 che corrisponde al capitolo 6 di Marco è molto importante perché rende minimo il distacco tra i primi documenti del cristianesimo e la vita del Signore sulla terra. Praticamente “tocchiamo” il Signore, perché ci troviamo a pochi anni dalla sua morte come uomo.
La datazione al 50 d.C. al massimo e l’identificazione delle venti lettere contenute nel frammento con una sequenza del Vangelo di Marco è confermata da molti studi, in particolare, la possibilità che non si tratti del Vangelo di Marco, secondo un’analisi di tipo matematico effettuata dallo studioso catalano Dou, è di 1 contro 36 milioni di miliardi.

D. Questo può servire a controbattere le tesi secondo le quali Gesù sarebbe stato mitizzato nel tempo trascorso tra la sua morte e le prime stesure scritte dei Vangeli?

R. Arrivando a pochi anni dalla morte di Gesù dobbiamo accettare sempre una tradizione orale, ma non così lunga da far pensare che, a causa delle esagerazioni nel tramandare i racconti della sua vita, essi siano stati amplificati fino a trasformarlo da uomo molto grande in Dio. In altre parole, viene consolidata la storicità dei racconti evangelici.

D. Il frammento potrebbe confermare l’esistenza della “fonte Q”, un protovangelo utilizzato nella stesura dei sinottici?

R. Non lo so! Molti me lo hanno domandato. Alcuni pensano che il Vangelo di Marco sia stato scritto nel 40 o nel 42. Io dico soltanto che questo papiro, questo brano, è dell’anno 50 e potrebbe essere anche una fonte primitiva o la fonte Q, ma siamo nel terreno delle ipotesi.

D. Qual è il senso scientifico e religioso di queste ricerche?

R. Anche se la nostra fede non è modificata da queste scoperte, è importante vedere che il cristianesimo non è soltanto una fede fideista.”

Osservazione del relatore, Paolo Pasqualucci : con l’espressione “fede fideista”, che potrebbe sembrare ripetitiva, lo studioso spagnolo voleva sicuramente dire che il cristianesimo, oltre a basarsi sulla fede nell’autenticità della Rivelazione, si fonda su fatti sicuri, storicamente accertabili ed accertati, con metodo scientifico.
2. Articolo di mons. Francesco Spadafora apparso il 30 settembre 1995 su ‘sì sì no no’, con il titolo : “7Q5 s’impone” la firma ‘Paulus’, poi ristampato nel volume: Mons. Francesco Spadafora, La ‘Nuova Esegesi’, Les Amis de saint François de Sales, Sion, CH – diffusione in Italia: Fraternità San Pio X, V. Trilussa 45, 00041 Albano Laziale (Roma), pp. 327-335. Questo volume raccoglie 27 articoli di Mons. Spadafora apparsi su ‘sì sì no no’, dedicati alle deviazioni dottrinali e metodologiche inquinanti l’esegesi cattolica, diventata succube dei metodi del razionalismo protestante a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.
Avvenire venerdì 31 maggio 1995, p. 21: “Al convegno di Venezia sui manoscritti di Qumran, padre O’ Callaghan spiega ai biblisti la ‘prova matematica’. Il frammento papiraceo 7Q5 sigillo dell’infinito.” Finalmente! Nel resoconto utilissimo che del suddetto convegno ha offerto ai lettori in sintetica esposizione, il quotidiano raccomandato dalla CEI dà il risultato definitivo degli studi sulla identificazione 7Q5 = Mc 6, 52-53 ovvero sulla identificazione del quinto frammento papiraceo scoperto nella settima grotta di Qumran sul Mar Morto con i versetti 52-53 del sesto capitolo del Vangelo di San Marco.

L’importanza della scoperta è così illustrata: “Se 7Q5 è davvero Mc 6, 52-53, verrebbe confutata la tradizionale ipotesi [del… Bultmann, 1920 appena, di moda ad opera dei neo-modernisti cattolici solo dal 1960!] della datazione “tardiva” del Vangelo, che sarebbe non più il frutto di una elaborazione della comunità dei credenti…Già, perché quando ancora il nostro frammento [indecifrato] era uno dei ventuno trovati nella settima grotta, era stato dissipato il dubbio sulla loro data di nascita: 50 d.C.”.

In altri termini: viene (non “verrebbe”) distrutta scientificamente la base sulla quale poggia l’intero castello fantastico dei due ultimi sistemi razionalistici Formengeschichte e Redaktionsgeschichte [storia delle forme letterarie e storia della redazione del testo - ndr], che ritardano, contro la tradizione (essa, sì, tale) della Chiesa cattolica, la data di composizione degli Evangeli al 70-100 dopo Cristo.

A Venezia, il padre O’ Callaghan a conferma della sua scoperta, “abbandona le deduzioni della sua amata papirologia, per rimettersi alla esattezza delle cifre: ‘Ora posso dire con assoluta certezza che quel frammento di papiro del 50 d.C. riporta un brano dell’Evangelo di Marco’. La possibilità infatti, che un qualsiasi altro brano letterario registri la stessa sequenza di lettere è di una su 900 miliardi e, nell’ipotesi più realistica, una su 36 milioni di miliardi.

Lo studio del padre O’ Callaghan apparirà tra due mesi in Spagna e in Germania col titolo: Le testimonianze più antiche del Nuovo Testamento. In Italia già circola un volume (Vangelo e storicità, ed. Rizzoli), nel quale sono raccolti articoli decisamente favorevoli alla scoperta del padre O’ Callaghan S.J.

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La relazione del gesuita ha avvinto l’attenzione e i cuori del folto e qualificato pubblico veneziano, in particolare quando ha narrato il suo stato d’animo allorché giunse alla decifrazione del quinto frammento: “Personalmente cercai di dimenticarmi di questa identificazione: la consideravo inaccettabile; ‘questo non può essere’, dicevo. E dopo aver lavorato nella biblioteca del Biblico, tornai nella mia stanza, nella quale poco dopo entrò un mio collega…uno scienziato molto bravo in glottologia, al quale timidamente proposi la possibilità di aver rintracciato un papiro di Marco, databile all’anno 50…Immediatamente mi interruppe, dicendomi: ‘ È impossibile’. Mi mancava soltanto questo per perdere ogni coraggio. Non volevo più pensarci, ma di fatto non riuscivo ad evitare quel pensiero; e se per un caso fortuito tutto quello era vero? Io proseguivo nei miei lavori accademici, le mie lezioni, i miei seminari, all’Istituto Biblico; ma quasi con ossessione s’impadroniva di me quel pensiero al quale cercavo di resistere. Infine, dopo una settimana, tornai con maggior calma a verificare l’identificazione con il frammento di Marco.”

È stato il Signore che ha voluto venire incontro alla sua Chiesa, a conferma dell’autenticità e storicità dei quattro santi Evangeli, contro lo smarrimento che dal 1960 ha indotto alcuni ad accettare i due ultimi sistemi razionalistici tedeschi: Formengeschichte e Redaktionsgeschichte.

Il padre O’ Callaghan ha rievocato nei dettagli il lungo iter che lo portò finalmente alla pubblicazione della soprendente identificazione 7Q5 = Mc 6, 52-53 (v. Biblica 1972) dando risposta esauriente alle tre difficoltà che sembravano opporsi e delle quali parleremo.

Solo nel 1986 l’intervento del papirologo Carsten Peter Thiede ruppe la greve coltre di silenzio, calata sulla sensazionale scoperta per suggerimento di Carlo Maria Martini S.J. Dal 1990 in poi si sono moltiplicati i consensi dei competenti. La pubblicazione della relazione del padre O’ Callaghan al convegno di studio di Venezia del 30-31 maggio 1995, a compimento delle celebrazioni per il nono centenario della traslazione del corpo di San Marco (1090-1094), toglierà ogni residuo dubbio sulla provvidenziale scoperta 7Q5 = Mc 6, 52-53.

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Nello stesso numero di Avvenire, G. Ravasi in “Marco il giornalista” si dilunga sulle caratteristiche del vivido stile di Marco. Questa volta concede che “è giusto discutere sul celebre frammento 5 della grotta 7 di Qumran per decidere se esso contenga o no Mc 6, 52-53”, ma con distacco parla del dibattito già tenutosi a Eichstätt nell’ottobre 1991 sulla questione e le cui relazioni sono state pubblicate a Regensburg, ed. Pustet 1992. È comunque già un progresso per il Ravasi, se si considera la sua opposizione aprioristica e …”viscerale” all’identificazione del padre O’ Callaghan ancora pochi giorni prima sul quotidiano Il Sole – Ventiquattro ore, di domenica 14 maggio 1995, p. 38: “Ci sono alcuni opliti che conducono personali battaglie. Uno lo vogliamo citare per nome e cognome: è il tedesco Carsten Peter Thiede che, impugnando come clava l’esilissimo papiro 7Q5 di Qumran con quelle poche lettere greche [in un primo momento il Ravasi parlò di lettere ebraiche!] ritenute dal gesuita O’ Callaghan appartenenti al testo di Marco (6, 52-53), volle colpire il tradizionale [solo dal 1960…!] pattuglione degli esegeti storico-critici” (e cioè neo-modernisti ex alunni del Biblico nuovo-corso, dal 1950 in poi). Con in testa i 20 “esperti” che usurpano attualmente il nome della già gloriosa Pontificia Commissione Biblica, ufficialmente sepolta nel 1971 dall’amletico papa Montini. Gianfranco Ravasi ne fa parte, con l’amico Segalla, per il quale San Giovanni non ha scritto nessun Evangelo (v. sì sì no no, 15 giugno 1992, pp. 1 ss.), con l’amico Byrne, per il quale Lazzaro non è risorto (v. sì sì no no, 28 febbraio 1995), e l’ex rettore del Biblico, Albert Vanhoje S.J., per il quale Gesù è un semplice laico! (v. sì sì no no, 15 marzo 1987). Ecco perché il Ravasi si è dato da tempo a propagandare e a difendere quel misero libretto L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (novembre 1993), parto infelicissimo della “nuova” Commissione Biblica (v. sì sì no no, 31 dicembre 1994).

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Altre due “novità” del Ravasi. La prima: “Vorremmo ora parlare dell’”anima” dei Vangeli, anzi del primo dei Vangeli, Marco (65-70 o 50 d.C., secondo le differenti su accennate ipotesi cronologiche)”. La priorità di Marco su Matteo è creazione del secolo scorso, contro l’antichissima tradizione (già Papia, 125 d.C.), che attesta al prmo posto l’Evangelo di S. Matteo, scritto in ebraico (o aramaico) per i fedeli di Palestina, prima di partire per l’evangelizzazione delle genti (a. 40 circa). Come per tutte queste novità, ci si è serviti della critica interna, fondata sull’esame del testo, con esclusione arbitraria delle testimonianze storiche. Si veda Höpfl-Gut-Metzinger, la più classica introduzione speciale per il Nuovo Testamento (Introductio specialis in N.T. , ed. V. Napoli, Roma, 1949, pp. 166 ss. § 202), dove questi pretesi “argomenti” sono esposti, vagliati e respinti. Si veda anche la ricca introduzione al Vangelo secondo S. Marco, dei padri conventuali Uricchio e Stano, ne La Sacra Bibbia: Nuovo Testamento, Marietti, Torino-Roma, 1966, pp. 1-161, che così conclude: “L’ingenua convinzione dell’assoluta, totale priorità di Marco rispetto agli altri due sinottici – nel complesso e nei particolari – è risultata inesatta, giacché in diversi casi la narrazione di Matteo-Luca risulta più vicina alle origini di quella di Marco” (p. 42). Inoltre l’esegesi di pericopi strettamente sinottiche, condotta sui testi originali, conferma l’esattezza della tradizione unanime sulla priorità di Matteo (F. Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme, II edizione, IPAG, Rovigo, 1971, pp. 1-160; Mt 24; Mc 13; Lc 21, dalla domanda v. 3, v. 4, v. 7, alla conclusione vvv. 32-35; vv. 28-31; vv. 29-33).

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L’altra novità del Ravasi è il suo scetticismo, espresso in modo sibillino, sulla nota testimonianza di Papia: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente tutte quante le cose che ricordava, non però con ordine, sia le cose dette sia le cose fatte dal Signore…”. Il Ravasi aggiunge: “…il nesso di Marco con Pietro a Roma è dedotto dalla prima lettera di Pietro dove si legge: ‘Vi abbraccia la comunità radunata in Babilonia (Roma?) e Marco figlio mio” (5, 13).

Veramente “il nesso di Marco con Pietro” è evidente dalle testimonianze storiche dallo stesso testo evangelico, che conferma la verità della testimonianza di Papia, come rileva il padre Andrés Fernandez S.J. nella introduzione alla Vita di Gesù, (Roma 1954), illustrando le caratteristiche dell’Evangelo di San Marco (v. anche l’introduzione già citata dei padri Uricchio-Stano).

Il 18-19 aprile 1994 si sono celebrate aa Torino le Giornate patristiche sul tema Cristianesimo antico e istituzioni politiche. La relazione di Maria Sordi, professore ordinario di storia greca e romana all’Università Cattolica di Milano, ha suscitato il maggiore interesse ed ha monopolizzato il dibattito nella tavola rotonda che ha chiuso il convegno. La relazione è stata pubblicata in 30 Giorni, maggio 1994. La dottoressa Maria Sordi presenta i risultati delle sue accurate ricerche sugli inizi del cristianesimo nella capitale dell’impero. Mi limito a qualche passo essenziale:

“L’allontanamento di Pietro da Gerusalemme è registrato dagli ‘Atti degli Apostoli’ (12-17) dopo la miracolosa liberazione dalla prigionia di Erode Agrippa I, con un laconico “uscito, se ne andò in un altro luogo”. Agrippa I morì nel 44 e questo è il “terminus ante quem” per la partenza di Pietro: la data del 42 per l’arrivo a Roma si trova nella traduzione latina di Gerolamo, al Chronicon di Eusebio (pag. 179, ed. Helm). Ma le testimonianze più importanti, riferite dallo stesso Eusebio nella sua ‘Storia ecclesiastica’ sono quelle di Papia di Gerapoli (vissuto nell’ultimo quarto del I secolo e la prima metà del II), di Clemente di Alessandria e di Ireneo, ambedue della seconda metà del II secolo. La testimonianza di Papia è conservata da Eusebio in due citazioni distinte. Nella prima (“Storia ecclesiastica” II, 15), dopo aver detto che Pietro predicò a Roma all’inizio del regno di Claudio [41-54 AD - ndr], e che i suoi ascoltatori chiesero a Marco di mettere per iscritto l’insegnamento che avevano ascoltato a voce e che essi furono così responsabili della stesura del Vangelo detto di Marco, osserva: dicono che Pietro avendo conosciuto il fatto per rivelazione dello Spirito, godette dell’entusiasmo di quegli uomini e confermò lo scritto facendolo leggere nelle chiese. Ed Eusebio aggiunge che la vicenda è raccontata da Clemente nel VI libro delle “Hypotyposeis” e da Papia vescovo di Gerapoli. La seconda citazione di Papia è invece testuale (III, 39, 15): ‘ Marco interprete di Pietro scrisse con esattezza ma non in ordine le cose che ricordava, ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore né lo aveva seguito ma più tardi, come ho detto , aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore. Cosicchè Marco non sbagliò, avendo scritto alcune cose così come le ricordava”.

Qui Papia sembra voler rispondere alle critiche fatte da Luca ai suoi predecessori nel prologo del suo Vangelo: lo rivela la ripresa quasi testuale di alcune parole (Lc 1,3: akribas kathekses = con esattezza e in ordine ), con cui Papia vuole giustificare il “disordine” di Marco, che, diversamente da Luca, consapevole del metodo storiografico greco e delle sue esigenze, non aveva la pretesa di esporre in ordine la narrazione degli avvenimenti (anataksasthai diéghesin perì tou….pragmátou) ma solo di dare gli insegnamenti (tàs didaskalias) secondo i bisogni e come ricordava, preoccupandosi solo di non tralasciare nulla di ciò che aveva udito e di non falsificare nulla. [3]

Oltre a Papia e a Clemente anche Ireneo, Adversus Haereses (III, 1, 1,; cfr. Eusebio, Storia eccl., V, 8, 3 ) ricorda che Matteo aveva scritto il suo Vangelo mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e osserva che, dopo la loro partenza (metà…tèn tutou éksodon), Marco, discepolo e interprete (ermeneutés) di Pietro, trasmise anche lui per iscritto il Vangelo da lui (Pietro) annunciato (tó yp’ ekeinou kerussomenon euanghélion). Ireneo, associando la predicazione di Pietro e di Paolo, si rivela sui fatti più generico e meno preciso di Papia e di Clemente; il termine éksodos, inoltre, aveva fatto pensare che egli collocasse il Vangelo di Marco dopo la morte di Pietro e di Paolo. Ma éksodos, come è stato dimostrato di recente, non significa in Ireneo morte ma partenza: secondo Ireneo, dunque, Marco e Luca, di cui parla subito dopo, scrissero i loro Vangeli seguendo rispettivamente la predicazione di Pietro e di Paolo e dopo la partenza dell’uno e dell’altro da Roma.

Così intesa la notizia di Ireneo, per quel che riguarda Marco, conferma pienamente la notizia che Eusebio ricavava da Papia e da Clemente, secondo cui il Vangelo di Marco fu scritto a Roma, mentre Pietro era vivo, ma dopo la sua partenza.

L’arrivo a Qumran da Roma di un testo di Marco scritto prima del 50, non solo non contraddice la tradizione della Chiesa primitiva, ma la conferma con l’autorità di un documento contemporaneo. Dal punto di vista storico non esistono obiezioni valide ad accogliere l’identificazione di 7Q5 con un frammento di Marco e a riportare a prima del 50 la composizione di questo Vangelo”.

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I neo-modernisti, però, non demordono. Sullo stesso mensile 30 Giorni luglio-agosto 1994, si ritornava sulla identificazione del papiro n. 5 della settima grotta di Qumran (7Q5) coi vv. 52-53 del cap. 6 dell’Evangelo di San Marco, assegnato con assoluta certezza al 50 d.C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù. L. Brunelli illustrava la moda invalsa “nel mondo dei biblisti di datare gli evangeli ad un periodo oscillante tra gli anni 70 e 100 dopo Cristo”, mentre 7Q5 “non può essere posteriore al 50 d.C.”.

La sorprendente identificazione (1972) con Marco 6, 52-53, fu un vero colpo di fulmine contro la moda (spacciata dal Ravasi per “tradizione”): “Fredda fino al sarcasmo, è stata la reazione dei più in voga tra i biblisti cattolici [nuovo corso…dal 1960 in poi]”. “Congettura assurda e ridicola di un povero gesuita”, la liquidò Pierre Grelot (giù membro della nuova e fasulla Commissione Biblica) dell’Institut Catholique di Parigi. Scettica e infastidita la reazione di Gianfranco Ravasi, che ridicolizzò l’ipotesi di O’Callaghan e…se stesso parlando di lettere “in ebraico” mentre i papiri della settima grotta sono scritti in greco! Caso limite: don Vittorio Fusco, che, “docente di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia meridionale, dedica alla scoperta 7Q5 soltanto una nota, un po’ sprezzante, nella lunga introduzione (pp. 100) al recentissimo volume sui Vangeli sinottici del ‘Corso di studi biblici’, pubblicato da poche settimane dall’ed. LDC”. Sulle riviste Il Regno (aprile 1993) e Jesus (luglio 1993) egli contesta la datazione del frammento, rimandandolo alla fine del I secolo e attribuendo allo stesso padre O’ Callaghan una tale stupidaggine storica. La grotta di Qumran, infatti, fu chiusa dagli Esseni prima che arrivassero le legioni di Roma a cingere d’assedio Gerusalemme e cioè prima del 68 [del 70 – ndr]! Deus quos vult perdere, dementat.

A Venezia il padre O’ Callaghan ha ricordato l’autorevole risposta della papirologa Orsolina Montevecchi, docente emerita di papirologia all’Università Cattolica di Milano, alle tre difficoltà che sembravano opporsi all’identificazione di 7Q5 con Mc 6, 52-53:

“Si tratta di “varianti normali” nella trascrizione dei papiri. Sarei tentata di dire che sarebbe sospetto se non ci fossero”. Nel papiro mancano tre parole (epì ten ghen = verso terra) rispetto al brano di Marco: “Avendo attraversato il lago verso terra”. Ma questo “verso terra” è superfluo. Dopo lo stesso verbo, l’omissione è frequente…Altri casi ne sono stati citati dal padre O’ Callaghan a Venezia. Altra fonte di opposizione: una tau (t) al posto di un delta (d). “Ma anche questo è un errore frequente. I testi venivano dettati e frequenti erano gli errori di pronuncia” è la risposta della papirologa, che conclude: “Ci sono state molte conferme date da papirologi ed altri esperti, come quelle ascoltate durante il primo simposio scientifico sul frammento 7Q5 svoltosi a Eichstätt, in Baviera, nell’ottobre 1991…L’identificazione fa progressi, anzi la scoperta era stata così combattuta all’inizio, che anche molti esperti non ne erano a conoscenza [la concertata e vile congiura del silenzio!]. Adesso più se ne discute, più se ne trovano prove interdisciplinari a conferma” (30 Giorni cit.).
3. Estratti da: Carsten Peter Thiede, Il più antico manoscritto dei Vangeli? Il frammento di Marco di Qumran e gli inizi della tradizione scritta del Nuovo Testamento, tr. it. dall’inglese di Suor Cecilia Carniti, Rome, Biblical Institute Press, 1987, pp. 63.
“La settima grotta, scoperta e aperta nei mesi di febbraio e marzo del 1955, non offriva a prima vista nulla di così sensazionale come i rotoli della prima grotta [contenenti ampie parti dell’Antico Testamento in ebraico - ndr], scoperti nel 1945 e divenuti famosi nel 1947, con cui era iniziata la scoperta e valorizzazione di Qumran. Ci vollero addirittura sette anni prima che i frammenti della settima grotta venissero pubblicati nel 1962. Tuttavia già il resoconto della scoperta, del 1962, sottolineava un fatto che se fosse stato subito osservato, avrebbe dovuto suscitare la massima attenzione: tutte le grotte di Qumran, con pochissime eccezioni, contenevano esclusivamente testi ebraici (e aramaici) – sia di libri veterotestamentari, sia di scritti della comunità di Qumran – e quasi mai si trovava papiro come materiale usato. Invece la grotta 7 aveva solo testi greci, ed esclusivamente papiri (ed inoltre, il frammento 19: l’impronta a rovescio di un frammento di papiro, indurita nel terreno).

Questa scoperta, in sé e per sé già sensazionale, rimase tuttavia senza conseguenze. C’era il compito urgente di decifrare i frammenti, diciannove complessivamente. Per la verità, i papirologi incaricati di questo, M.E. Boismard e P. Benoit, non andarono molto lontano. Per la maggior parte i frammenti erano troppo piccoli, contenevano troppo poche parole o combinazioni di lettere per potere – semmai – venir ordinati abbastanza rapidamente. Così Benoit e Boismard si limitarono alla decifrazione di due dei cinque maggiori frammenti: 7Q1, Esodo 28, 4-7 e 7Q2, Baruc (Lettera di Geremia) 6, 43-44; per i frammenti 3-5 avanzarono solamente l’ipotesi che si potesse ancora trattare di testi biblici. Per il frammento 5 si accennava al fatto che la singolare combinazione – nnēs – nella quarta riga poteva forse far parte della parola eggenēsen [generò - ndr] e dunque provenire da una sezione genealogica.

Gli inutili tentativi di localizzare anche questi frammenti nell’Antico Testamento greco, compresi gli “Apocrifi” dei Settanta, portarono ad un’interruzione del lavoro. All’idea che tra i “testi biblici” ci potessero essere frammenti neotestamentari naturalmente non si arrivò: il Nuovo Testamento, l’annuncio di Gesù Cristo, non aveva niente a che fare con gli Esseni di Qumran, e il fatto storicamente ed archeologicamente attestato che le grotte di Qumran con i loro manoscritti fossero state sigillate nell’anno 68, quando gli abitanti dell’insediamento fuggirono di fronte alle truppe romane guidate da Vespasiano contro Gerusalemme (cfr. nota 35), consolidò questa opinione: tutto quello che si sarebbe trovato in queste grotte doveva essere stato scritto prima dell’anno 68. Secondo la convinzione comune [tale solo a partire dagli anni Sessanta del XX secolo, vedi sopra – ndr] questo poteva riguardare solo le “lettere autentiche di Paolo” (Thiede, op. cit., pp. 12-13).

La data di chiusura della grotta rappresenta ovviamente il punto essenziale. Nella nota n. 35 del suo saggio, il prof. Thiede cita il resoconto ufficiale del direttore degli scavi della settima grotta, il domenicano Padre R. De Vaux, il quale, nel 1962, senza sapere ancora nulla di (futuri) ritrovamenti di frammenti dei Vangeli, aveva concluso con assoluta certezza che “il termine ultimo per l’utilizzazione della grotta è da porre nell’anno 68; la grotta in seguito non fu dunque più aperta neppure una volta” (op. cit., p. 27). Dopo le vittorie iniziali dei rivoltosi ebrei, nel 66-67, proprio nel 68 – ricordo - era iniziata la controffensiva romana, che cominciò col soggiogare le province per poi “ripulire” metodicamente tutte le zone che gravitavano verso Gerusalemme, in previsione del suo assedio, iniziatosi nella primavera del 70 e drammaticamente conclusosi tra fine agosto e l’inizio di settembre.[4] L’anno 68 doveva dunque ritenersi una data certa e immodificabile.

Ma dov’era il problema? Nessun problema, dal punto di vista archeologico: tutto quello che si trovava di scritto nella grotta doveva esser anteriore al 68. Il problema nasceva per gli esegeti del Nuovo Testamento, una volta accertato che nella grotta c’era un frammento di un Vangelo: un problema terrificante. Infatti, come si è visto, la teoria dominante originatasi in ambito razionalista protestante era quella che poneva l’origine dei Vangeli in epoca molto tarda, comunque d o p o la distruzione del Tempio e di Gerusalemme, avvenuta nel 70. Una teoria che rifiutava a priori le testimonianze della Tradizione dei Padri (vedi articolo di mons. Spadafora). Tale teoria, non credendo in realtà al soprannaturale doveva negare validità alle profezie di Nostro Signore sulla distruzione del Tempio e di Gerusalemme, che dovevano pertanto ritenersi fabbricate a posteriori, ben dopo i fatti, dalla c.d. “comunità primitiva” dei fedeli nel suo tentativo di divinizzare Gesù di Nazareth. Così ragionavano eruditi di origine luterana come Bultmann, il quale voleva “demitizzare”, come diceva, i Vangeli per farne un documento adatto alla mentalità dell’uomo moderno, per natura scettico di fronte ad ogni forma di profezia o miracolo ed anzi intrinsecamente ostile alla religione in quanto tale. Ora, nel Vangelo di Marco, che raccoglie i ricordi del Beato Pietro, la profezia sulla distruzione del Tempio e della Giudea (e, implicitamente, di Gerusalemme) era chiaramente documentata (Mc cap. 13). Scoprire un frammento di Marco in un papiro scritto con certezza prima del 68 d. C., costringeva ad ammettere che quella profezia era testimoniata in uno scritto ben anteriore al 70 d.C.! Un colpo mortale per l’impalcatura lambiccata ed artefatta dell’esegesi dominante. Se gli Esseni ne avevano una copia, di quel Vangelo, ciò significava che esso doveva esser stato scritto diversi anni prima, che doveva esser in circolazione da anni! Altro che profezie inventate dalla c.d. “comunità primitiva” dei fedeli!

Ma chi erano gli Esseni? Gli E s s e n i , forse da “haššaim”, “i silenziosi”, erano una confraternita ebraica, forse già esistente al tempo dei Maccabei (attiva pertanto dal 150 a.C. al 70 d.C.). Praticavano in modo strettissimo le regole della purità legale, come i Farisei, ma vivevano in comune, mettendo in comune anche i loro beni, sotto dei superiori cui si obbligavano con giuramento. Erano celibi, tranne alcuni, e prendevano i pasti in comune. “Lo scopo di questa vita è religioso e morale. Il primo oggetto del loro impegno è la venerazione della divinità. Inoltre, l’obbligo di praticare la giustizia, la verità, le regole della confraternita, che esigono continenza, lavoro, vita sobria, studio dei libri santi.”[5] La Confraternita di Qumran deve aver avuto rapporti pacifici con gli ebrei convertitisi al cristianesimo o comunque aver avuto interesse per esso, sì da studiarne i relativi papiri, che circolavano da tempo presso i cristiani (Thiede, op. cit., pp. 53-55, per ulteriori dettagli).

L’opinione dominante sull’origine dei Vangeli era dunque quella erronea, volutamente contraria alla Tradizione dei Padri; un vero dogma, che tuttora resiste, contro l’evidenza e il buon senso. Essendo in pratica condivisa da tutti, nessuno poteva pensare di decifrare il frammento 7Q5 andando a pescare nel Nuovo Testamento.

“Anche J. O’ Callaghan – continua il prof. Thiede – che riprese il lavoro dieci anni dopo la pubblicazione dei reperti, non mirava assolutamente a trovare un frammento di Marco o di qualunque altro testo neotestamentario. Lavorava ad un catalogo di manoscritti dei Settanta, e cercava quindi ancora di scoprire passi nell’Antico Testamento almeno per i maggiori frammenti della settima grotta. Solo dopo aver sperimentato l’insuccesso come i suoi predecessori, gli venne l’idea che quella singolare combinazione nella quarta riga del quinto frammento, - nnēs - , non fosse forse parte di un termine genealogico, ma della parola Gennēsaret. Ora, il lago o territorio di Genesaret nell’Antico Testamento, compresi gli Apocrifi, ricorrono una sola volta con questa grafia: 1 Maccabei 11, 67, Gennēsar (di solito si trova Chenereth o Chenara). Ma nessun’altra delle lettere sicure del frammento corrisponde a questo passo, per non parlare degli altri segni. Prima di rinunciare, però, O’ Callaghan, più per curiosità scientifica che per vera convinzione, tentò quello che era da considerare impossibile a priori: esaminò il Nuovo Testamento.

Chi ha provato, in un ambito qualunque, a seguire una traccia del tutto inverosimile, e poi ha constatato che proprio quella ha portato al risultato in cui ormai non si sperava più, potrà facilmente immaginarsi la reazione di O’ Callaghan quando constatò che nel Nuovo Testamento c’era effettivamente un passo a cui tutto corrispondeva: il gruppo di lettere – nnēs – da “Gennesaret”, come pure le altre particolarità del frammento: uno spazio nella riga 3, chiamato paragraphos, che negli antichi manoscritti divideva due sezioni del testo (in certo modo, quello che anche oggi chiamiamo un “paragrafo” [ossia un “capoverso”, che in inglese si dice appunto “paragraph”- ndr], e la frase dopo questo paragrafo, che comincia con un kai (“e”). In Marco 6, 52-53 col versetto 52 finisce il racconto di Gesù che cammina sulle acque e al versetto 53 inizia quello delle guarigioni a Genesaret – ed inizia con kai, la forma stilistica della paratassi (“coordinazione”) caratteristica proprio di Marco.

Quando risultò che anche le altre lettere conservate concordavano con questa identificazione, O’ Callaghan pubblicò il suo risultato. E sebbene avesse ogni fondamento per pubblicare un risultato sicuro, fu abbastanza cauto e volle prima avviare un dibattito internazionale tra esperti. Espresse questo nel titolo del suo articolo con un punto di domanda: “¿Papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumrân?” (Thiede, op. cit., pp. 13-14).

Le reazioni, continua il prof. Thiede, furono di segno opposto tra loro. Non lo dice, ma anche violente, in senso negativo. Furono queste a prevalere. Bisogna capire: tante carriere accademiche ecclesiastiche costruite sui presupposti errati del razionalismo, dalla famosa, ottocentesca Scuola di Tubinga a Bultmann e ai suoi epigoni nel Novecento, venivano a perdere seriamente di prestigio a causa della rivoluzionaria scoperta del gesuita spagnolo. In un altro dei suoi articoli apparsi su Sì sì no no, mons. Spadafora riportava le dichiarazioni dello stesso padre O’ Callaghan al settimanale Il Sabato, il 25 maggio 1991: “Nel caso di 7Q5 ho avuto più attacchi personali che controversie scientifiche… Più che una controversia scientifica è stato un calvario”, soggiungendo: “troppi dovrebbero capovolgere posizioni assunte da sempre sulla datazione dei Vangeli”.[6]

Istruttivo sapere come il dibattito fu lasciato cadere nei paesi di lingua tedesca. Torniamo al prof. Thiede.

“Nei paesi di lingua tedesca si lasciò cadere il dibattito sulle identificazioni dopo che Kurt Aland, il direttore dell’Istituto per la ricerca sul testo del Nuovo Testamento di Münster, coeditore dell’edizione “Nestle-Aland” del Novum Testamentum Graece e del Greek New Testament, prima in diverse interviste e comunicazioni alla stampa e poi in due lunghi articoli, aveva preso una posizione decisamente contraria. L’autorità di Aland, indiscussa sul piano internazionale, si impose; i neotestamentaristi non fecero molto caso al fatto che, come già M. Baillet e P. Benoit alle cui critiche sostanzialmente si appoggiava, egli non aveva lavorato da un punto di vista papirologico con tutta la precisione dovuta: come si mostrerà in seguito, erano stati trascurati criteri di O’ Callaghan essenziali e caratteristiche decisive dei papiri, soprattutto del papiro 7Q5 con il suo paragraphos.

Successivi tentativi, negli Stati Uniti, di sottolineare la correttezza della decifrazione trovarono dunque fuori dell’ambito anglofono poca considerazione. Eppure uno storico del testo che senza preconcetti prenda in considerazione quanto di fatto un papiro presenta, soprattutto per l’unica identificazione di cui anche secondo O’ Callaghan in primo luogo si trattava, restano pochi dubbi: 7Q5 corrisponde a Marco 6, 52-53” (Thiede, op. cit., pp. 14-15).

Perché il prof. Thiede sottolineava il ruolo del capoverso, nel frammento? Perché, grazie ai calcolatori elettronici, si sono potuti scannerizzare tutti i testi del Nuovo Testamento, oltre a quelli della traduzione dei Settanta dell’Antico, compresi gli Apocrifi dell’uno e dell’altro. Pertanto, padre O’ Callaghan è stato in grado di trovare rapidamente il capoverso che calzava a pennello con il frammento, quello appunto di Mc 6, 52-53.

Un altro elemento è da tener presente. Come poteva il prof. Thiede affermare che il testo del frammento risaliva molto probabilmente al 50 d.C.? Grazie alla precisa determinazione paleografica del tipo di caratteri usato, detto “stile ornato”: questo stile permetteva per l’appunto di risalire a quegli anni. Si tratta di un tipo di scrittura presente anche in altri papiri. Pertanto, per la copia di Marco in possesso degli Esseni, “paleograficamente la data più probabile è la metà del I secolo d.C.”.[7]

Aggiungo, infine: si noterà come il testo del frammento di Marco, pur nella sua brevità, sia in sostanza identico a quello giunto sino a noi.

Ben ha detto mons. Spadafora: con questa formidabile scoperta, “è stato il Signore che ha voluto venire incontro alla sua Chiesa, a conferma dell’autenticità e storicità dei quattro santi Evangeli”.

Battiamoci, per quanto è possibile a noi fedeli, affinché questa preziosa scoperta venga di nuovo riproposta all’attenzione, come merita, per la Gloria del vero Dio, Uno e Trino, la rinascita della Chiesa, la Salvezza delle anime, la restaurazione della vera scienza biblica.
Paolo Pasqualucci
Sabato, 13 novembre 2021
S. Diego, Confessore
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[1] Tutto ciò è stato messo in rilievo da Rudolf Kaschewski, Tendenzen in den Orationen des Neuen Missale, II, ‘Una Voce Korrespondenz’, 12, Heft 2 und 3, Marz-Juni 1982, pp. 89-115; spec. pp. 111-115. Quest’articolo fu citato da Romano Amerio, Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Ricciardi, Milano-Napoli, 19862, § 288, intitolato : Bibbia e liturgia (si trova nel cap. XXXVIII, La riforma liturgica).
[2] Vedi: Herschel Shanks, Of Caves and Scholars. An Overview, in: Hershel Shanks (ed.), Understanding the Dead Sea Scrolls. A Reader from the Biblical Archaelogy Review, Random House, New York, 1992, pp. XV-XXXVIII. Si tratta di una antologia di interventi di intellettuali e di studiosi qualificati sui Rotoli del Mar Morto. Le grotte erano undici. Il totale dei testi rinvenuti supera gli ottocento, gran parte dei quali in frammenti, anche piccolissimi.
[3] Il Chronicon è opera di Eusebio di Cesarea, morto nel 339, noto soprattutto come storico della Chiesa: una compilazione di tabelle sincronistiche della storia dei popoli, a partire da Adamo. Opera rimasta in forma frammentaria in greco, la seconda parte fu rielaborata in latino da san Girolamo. Le Hypotyposeis sono uno scritto perduto di Clemente di Alessandria, morto prima del 215, otto libri di schizzi o considerazioni a commento di passi scelti di tutta la S. Scrittura. Ci sono state tramandate solo delle citazioni e alcune parti in latino. Papia, vescovo di Gerapoli in Asia Minore, “fu uditore dell’Apostolo Giovanni e compagno di Policarpo”. Nel 130 scrisse cinque libri di Spiegazioni delle sentenze del Signore, tratte in maggioranza dall’insegnamento orale dei discepoli degli Apostoli . Ne restano pochi frammenti, “tra i quali uno concernente l’origine dei due primi Vangeli”. Fonte: Berthold Althaner, Patrologia, tr. it. delle Benedettine del Monastero di S. Paolo in Sorrento, riveduta dal dr. Sac. S. Mattei, aggiornata e corretta dall’Autore, Marietti, 1940, sotto i nomi dei Padri indicati. Papia, cristiano della terza generazione, la fonte più antica sull’origine dei Vangeli, si abbeverava direttamente ai discepoli degli Apostoli. Le sue informazioni erano di prima mano. Da esse recepì, per ciò che riguarda il vangelo di Matteo, che il santo evangelista aveva “riunito in lingua ebraica i logia [I detti del Signore] e ciascuno li intese [o tradusse, hermeneuse] come era capace” (vedi: Jean Carmignac, La nascita dei Vangeli Sinottici, tr. it. dal francese di Rosanna Brichetti, Edizioni Paoline, 1985, pp. 63-66. Il Padre Carmignac, 1914-1986, è stato uno specialista indiscusso dei manoscritti di Qumran, che ha edito e tradotto.)
[4] Vedi: Giuseppe Ricciotti, Storia d’Israele. II. Dall’Esilio al 135 dopo Cristo, SEI, Torino, 19355, tutta la parte dedicata a “La guerra di Vespasiano e Tito”, pp. 471-521, ampiamente basata su La guerra giudaica di Flavio Giuseppe. Vedi anche: Pierre Prigent, La fine di Gerusalemme, tr. dal francese di G. Gandolfi, Edizioni Paoline, Roma 1972, spec. pp. 31-50.
[5] Vedi: Dizionario Biblico, diretto da Francesco Spadafora, Editrice Studium, Roma, 19633, voce Esseni.
[6] Mons. Francesco Spadafora, op. cit., p. 314, nell’articolo: La ‘Formengeschichte’ non si tocca! Il prof. Carsten P. Thiede e la datazione degli Evangeli, pp. 311-318.
[7] Thiede, op. cit, p. 32. L’analisi puntuale delle caratteristiche di 7Q5, viene fatta alle pagine 27-44 del suo breve saggio.

4 commenti:

Viator ha detto...

Tutti gli oppositori di O' Callagan sono biblisti, non papirologi. Alcuni sferrarono incredibili attacchi, anche personali, verso O’ Callaghan e Thiede, uscendo completamente dal campo scientifico.  Se ne accorse anche il prof. Paolo Sacchi, docente di Ebraico e Aramaico all’Università di Torino, che disse: «sulla datazione dei vangeli avvengono fatti sconcertanti. Certi criteri scientifici che si usano per altri testi, quando si arriva al Nuovo Testamento non valgono più» (p. 254).

Anonimo ha detto...

L’attribuzione di 7Q5 al Vangelo di Marco è importante ma non fondamentale per la storicità degli scritti evangelici, che mantengono intatta la loro attendibilità storica anche se fossero scritti non prima del 70 d.C.
Occorre infatti considerare le fonti pre-sinottiche e quelle orali, sviluppatesi e messe per iscritto subito dopo la morte di Cristo (per diversi studiosi anche durante la sua stessa vita).
Come giustamente ha spiegato la papirologa Orsolina Montevecchi, presidente dell’Associazione Internazionale Papirologi, «non c’è nulla da difendere: anche se quello trovato a Qumran non fosse un frammento del vangelo di Marco, il cristianesimo non perde niente. Tuttavia, dal punto di vista testuale e paleografico, che è la mia specialità, è praticamente impossibile che possa trattarsi di un altro testo, magari sconosciuto. Ci sono ben cinque righe di testo sul quale basarci! Al massimo, quindi, questo frammento del vangelo di Marco è databile 20 anni dopo la morte di Cristo».

Anonimo ha detto...

Anche Paolo VI chiese all'allora padre Carlo Maria Martini (che dal 1969 al 1978 è stato rettore del pontificio istituto biblico) informazioni su tale frammento ed il gesuita iper modernista gli rispose che non essendoci certezza era meglio tacere..... In realtà a Martini non interessava altro, come ad ogni modernista, che di annegare ogni possibile elemento che dimostrasse la redazione molto antica degli scritti neotestamentari. I modernisti vogliono far credere che il nuovo testamento fu scritto molto tempo dopo la morte di Cristo e che sia frutto di una elaborazione dei primi cristiani. Insomma i modernisti negano valore storico al Nuovo Testamento e quindi devono necessariamente demolire ogni elemento che distrugga tale loro asserzione. E se non possono demolire allora usano il metodo del silenzio. Come in questo caso. Ma la verità viene sempre a galla. E quando ciò avviene getta discredito sui modernisti. Che bella figura che fa il modernista Martini oggi che è morto!

Unknown ha detto...

Il papiro del Magdalen College di Oxford: "Mentre Gesù si trovava a Betania in casa di Simone il lebbroso..." (Mt.26,6-7) studiato da Carsten Peter Thiede...prova la tradizione cattolica circa la datazione dei vangeli nella sequenza vera. San Matteo scrisse 7 anni dopo la Risurrezione, San Marco intorno all'anno 50, San Luca nel 62 e San Giovanni nel 90. È scientificamente provato.