Nell'articolo che segue il filosofo Giorgio Agamben spazia dall'estetica alla linguistica con uno sguardo poetico all'essere. Molti interessanti precedenti sono rintracciabili in questo indice. Una piccola chiosa che scaturisce dall'input di questo scritto. Per noi cristiani sono due, in contemporanea, gli avverbi propri del nostro tempo, personale e collettivo, dell'eterno presente nel Signore Risorto: «già» e «non ancora». Ma non basta prenderli a sé: sia l'uno che l'altro hanno una pregnanza e sfumature diverse e infinite, corrispondenti – rispettivamente – alla nostra configurazione a Cristo Signore e all'intensità dell'impegno e della Speranza nel combattere la "buona battaglia" e dell'Attesa della fine della corsa mantenendo la fede...
Mentre
«Per liberare il nostro pensiero dalle panie che gli impediscono di spiccare il volo è bene innanzitutto abituarlo a non pensare più in sostantivi (che, come il nome stesso inequivocabilmente tradisce, lo imprigionano in quella «sostanza», con la quale una tradizione millenaria ha creduto di poter afferrare l’essere), ma piuttosto (come William James ha suggerito una volta di fare) in preposizioni e magari in avverbi. Che il pensiero, che la mente stessa abbia per così dire carattere non sostanziale, ma avverbiale, è quanto ci ricorda il fatto singolare che nella nostra lingua per formare un avverbio basta unire a un aggettivo il termine «mente»: amorosamente, crudelmente, meravigliosamente.
Il nome – il sostanziale – è quantitativo e imponente, l’avverbio qualitativo e leggero; e, se ti trovi in difficoltà, a trarti d’impaccio non sarà certo un «che cosa», ma un «come», un avverbio e non un sostantivo. «Che fare?» paralizza e t’inchioda, solo «come fare?» ti apre una via d’uscita.
Così per pensare il tempo, che da sempre ha messo a dura prova la mente dei filosofi, nulla è più utile che affidarsi – come fanno i poeti – a degli avverbi: «sempre», «mai», «già», «subito», «ancora» - e, forse – di tutti più misterioso – «mentre». «Mentre» (dal latino: dum, interim) non designa un tempo, ma un «frattempo», cioè una curiosa simultaneità fra due azioni o due tempi.
Il suo equivalente nei modi verbali è il gerundio, che non è propriamente né un verbo né un nome, ma suppone un verbo o un nome a cui accompagnarsi: «però pur va e in andando ascolta» dice Virgilio a Dante e tutti ricordano la Romagna di Pascoli, «il paese ove, andando, ci accompagna / l’azzurra vision di S. Marino». Si rifletta a questo tempo speciale, che possiamo pensare solo attraverso un avverbio e un gerundio: non si tratta di un intervallo misurabile fra due tempi, anzi nemmeno di un tempo propriamente si tratta, ma quasi di un luogo immateriale in cui in qualche modo dimoriamo, in una sorta di perennità dimessa e interlocutoria.
Il vero pensiero non è quello che deduce e inferisce secondo un prima e un poi: «penso, dunque sono», ma, più sobriamente: «mentre penso, sono». E il tempo che viviamo non è la fuga astratta e affannosa degli inafferrabili istanti:
è questo semplice, immobile «mentre», in cui sempre già senza accorgercene siamo – la nostra spicciola eternità, che nessun affranto orologio potrà mai misurare.»
Giorgio Agamben su Quodlibet.it.
15 commenti:
«Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.»
(Francesco Petrarca - Rerum vulgarium fragmenta “Canzoniere”. Il sonetto è stato composto tra il 1336 e il 1374)
In principio, alle fondamenta, sta eternamente l’eterno, che non ha tempo. Il Verbo che è Dio sta in un eterno presente: ieri, oggi è sempre. La Santissima Trinità non è nel tempo, con la Sua Volontà detta con amore, una volta per tutte, istantaneamente.
Il tempo nella creazione è conseguenza del peccato d’origine che riguarda prima le creature celesti, con la separazione della luce dalle tenebre e subito dopo la separazione sopra e sotto il firmamento delle creature spirituali fedeli e ribelli. Si comincia a parlare di giorno e di notte, ma non sono ancora i nostri perchè il sole ancora non scandisce il tempo dell’uomo: sarà così dopo il peccato di Adamo ed Eva.
Allora il tempo è la storia sono il mare oscuro che ci riguarda dopo la disobbedienza a Dio, soccorsa e redenta da Dio. A suo tempo, così in Apocalisse, il “mare” non ci sarà più: per Gesù che cammina sulle acque esso è un pavimento trasparente. Per l’uomo peccatore è il periglio di una vita burrascosa. Abbiate fede, dice l’Eterno, che dorme sereno sulla barca.
Siamo immersi nel mito della storia, accecati da quello di un progresso umano, assillati da scadenze, tra cui la morte. Per il Signore è tutto un inganno diabolico, in cui spadroneggia il principe del mondo… nel mentre.
Dal sito Quodlibet di Agamben vi è un bellissimo e profondo articolo dal titolo Requiem per l'Occidente, vi rimando a questo sito per leggerlo anche se invito Mic a pubblicarlo, vi sono interessanti riferimenti alla liturgia delle esequie prima della riforma con l'abolizione della sequenza del Dies irae. Faccio in questa sede i miei complimenti al filosofo Giorgio Agamben che anche se si definisce (almeno mi sembra) non credente, dice delle cose validissime che gettano luce su quello che è avvenuto, ontologicamente parlando, con il Vaticano II e con la "rivoluzione antropologica" che lo ha accompagnato. Ringrazio di cuore il chiarissimo Professore Agamben per quanto mi ha insegnato con il suo articolo e anche con la sua coraggiosa denuncia durante la falsa pandemia del Covid, il suo pensiero mi conferma nelle mie convinzioni sulla tradizione, prego per lui perché possa incontrare la Verità tutta intera a cui, forse inconsapevolmente, ha reso così bene testimonianza, molto meglio di tanti falsi pastori, sciocchi adulatori del mondo e dell'uomo. Grazie professore: lei è un uomo dal cuore puro.
Per Areki44
Grazie per la segnalazione!
"vi sono interessanti riferimenti alla liturgia delle esequie prima della riforma con l'abolizione della sequenza del Dies irae."
Avevi letto questo?
https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2024/07/quando-il-giudizio-universale-fu.html?m=1
Gentile Mic, grazie innanzitutto per il riscontro. Avevo letto l'articolo che hai citato nel luglio scorso sulla liturgia esequiale prima della riforma, ma ho letto da qualche parte anche un articolo che citava la riflessione del prof Agamben, allora sono andato sul suo sito e ho letto direttamente quanto con tanto acume scrive, ti invito se hai tempo, (ne vale assolutamente la pena) a leggere l'articolo del prof. Agamben ed eventualmente a ripubblicarlo, perché tra l'altro conferma e completa quanto riportato da te in luglio.
Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi
Grazie ancora. L'ho già letto e lo pubblicherò, merita...
Il professor Agamben comunica sempre qualcosa di interessante perché la sua sapienza testimonia delle profondità accessibili all’uomo. Un po’ come per Aristotele che alcuni secoli prima di Cristo, senza quello squarcio di Luce nella tenebra del mondo, poneva le basi della metafisica che permise a San Tommaso d’Aquino e a San Domenico di esplorare con la fede quel mistero di salvezza.
Il punto, per tutti, Professor Agamben incluso, è che solo nell’ordine della fede (quindi abbandonandovisi fiduciosi) si può intendere qualcosa dell’attraversamento necessario all’uomo perduto, l’Oltre che supera innanzitutto il tempo è la storia. Nella fede non si capisce tutto, ma si sa che c’è un fondamento all’ordine smarrito… pur se andassi per valle oscura Tu Signore sei con me. Il limite del non credente, anche il più sapiente, è di poter denunciare l’assurdità del tempo presente, persino il tradimento ecclesiale dell’escatologia, che precipita i teoricamente credenti nello stesso funerale disperato dell’Occidente attuale.
Ma solo lo sguardo di fede rende possibile qualcosa di meglio: ed è tutto nel prologo del Vangelo di San Giovanni, in Apocalisse, nella Trasfigurazione. Solo per Cristo, con Cristo è in Cristo.
È il cristianesimo non è solo una religione… la fede cristiana non c’entra con le altre… speriamo che almeno i cristiani se ne rendano conto!
Amen, cosi sia, così è, tralcio. E anche se i cristiani fossero un piccolo resto, il Signore non macherebbe di farsi presente. Sa Lui come...
Condivido pienamente tale commento.
L' avverbio "mentre" ci dà indubbiamente il senso del tempo, inteso soprattutto come simultaneità o contemporaneità di tutto ciò che è nel tempo. Mentre siamo qui, ancora vivi, l'universo nel quale ci troviamo continua ad esistere così come, per la fede, continua ad esistere la dimensione sovrannaturale abitata da Dio e dalle sue Schiere, dimensione per noi invisibile.
Ma in se stesso, cos'è il tempo? Il tempo è la durata. Gli enti, e lo spazio stesso, durano nel tempo. Il senso del tempo che passa ce lo dà anche la successione, inclusa quella dei pensieri, come notava Aristotele. Paradosso non del tempo ma della sua rappresentazione: esser una durata che è anche successione - successione degli enti n e l tempo non del tempo, che non può succedere a se stesso.
P.
Nel pregare l'Ave Maria, ho percepito tutta la pregnanza dell' "adesso" che è, sì, il presente, ma porta in sé e con sé tutto il passato, affidato, insieme al futuro, sperato oltre che affidato, fino a quell'ora...
Interessante anche l'intervento di Agamben in chiave storica sul conflitto russo, tra piccola e grande Russia, o meglio tra Ucraina e Russia.
Evidentemente si ispirano alla “grande Germania”. Allora non andò molto bene, mi pare.
Benedetti siano gli istanti, i millimetri, le ombre delle piccole cose.
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