Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 16 giugno 2011

Magister insiste nel qualificare "delusi" dal Papa studiosi "propositivi" e dà spazio ad un nuovo testo di Radaelli.

Magister continua a portare elementi ad una discussione tutt'altro che conclusa. Oggi insiste su uno dei cosiddetti "delusi" da Papa Benedetto XVI, Enrico Maria Radaelli. Dal mio punto di vista ho tenuto a rettificare questo appellativo - accompagnato da quello, ugualmente inesatto, di "anticonciliaristi" - da Magister riservato anche a Brunero Gherardini ed a Roberto De Mattei. Affermo infatti che non è esatto attribuire a questi studiosi un sentimento di delusione, mentre è opportuno riconoscere loro un'azione consapevole di valida propositività. [vedi]

Noto che sia de Mattei che Radaelli non sono interessati a rettificare l'appellativo di 'delusi' dal Papa, che a me sinceramente dà piuttosto fastidio, perché la delusione implica un atteggiamento e un 'sentimento' che ha anche una connotazione di negatività, mentre invece uno studioso mette in campo ragione intelletto e conoscenza non per esprimere sentimenti, ma per fornire contributi, possibilmente 'sapienziali', come nel loro caso. Quanto a Gherardini, lo vedo leggermente defilato nei confronti dei media e, al momento, mi sembra più impegnato in due nuove opere che ha già messo in cantiere.

Ora, ho l'impressione che, quanto a Radaelli, si torni alla carica purché se ne parli. Mentre la propositività non manca, arricchita sia dalle suggestioni del suo nuovo libro [vedi] che dai puntuali richiami a Romano Amerio, l'intervento pubblicato inserisce l'opera nel dibattito aperto sul post-concilio e affini e la propone all'attenzione di tutti in occasione delle future celebrazioni del cinquantenario della XXI Assise conciliare.

Pubblico di seguito l'interessante intervento di Radaelli, rinviando con un link all' 'attrattiva' presentazione di Magister immersa tuttavia in un'aura di persistentemente e reiteratamente rimarcata 'delusione':


Una proposta per i cinquant'anni del Vaticano II
LA VIA SOPRANNATURALE PER RIPORTARE PACE TRA PRIMA E DOPO IL CONCILIO
di Enrico Maria Radaelli

La discussione che si sta svolgendo sul sito internet di Sandro Magister tra scuole di diverse e opposte posizioni riguardo a riconoscere nel Concilio ecumenico Vaticano II continuità o discontinuità con la Tradizione, oltre che chiamarmi in causa direttamente fin dalle prime battute, tocca da vicino alcune pagine preliminari del mio recente libro "La bellezza che ci salva".

Il fatto di gran lunga più significativo del saggio è la comprovata identificazione delle “origini della bellezza” con quelle quattro qualità sostanziali – vero, uno, buono, bello – che san Tommaso d'Aquino dice essere i nomi dell’Unigenito di Dio: identificazione che dovrebbe chiarire una volta per tutte il fondamentale e non più eludibile legame che un concetto ha con la sua espressione, vale a dire il linguaggio con la dottrina che lo utilizza.

Mi pare doveroso intervenire e fare così alcuni chiarimenti per chi vuole ricostruire quella "Città della bellezza" che è la Chiesa e riprendere così l’unica strada (questa è la tesi del mio saggio) che può portarci alla felicità eterna, che ci può cioè salvare.

Completerò il mio intervento con il suggerimento della richiesta che meriterebbe essere fatta al Santo Padre affinché, ricordando con monsignor Brunero Gherardini che nel 2015 cadrà il cinquantesimo anniversario del Concilio (cfr. "Divinitas", 2011, 2, p. 188), la Chiesa tutta approfitti di tale straordinario evento per ripristinare la pienezza di quel "munus docendi", di quel magistero, sospesa cinquant’anni fa.

Riguardo al tema in discussione, la questione è stata ben riassunta dal teologo domenicano Giovanni Cavalcoli: "Il nodo del dibattito è qui. Siamo infatti tutti d’accordo che le dottrine già definite [dal magistero dogmatico della Chiesa pregressa] presenti nei testi conciliari sono infallibili. Ciò che è in discussione è se sono infallibili anche gli sviluppi dottrinali, le novità del Concilio".

Il domenicano si avvede infatti che la necessità è di "rispondere affermativamente a questo quesito, perché altrimenti che ne sarebbe della continuità, almeno così come la intende il papa?". E non potendo fare, come ovvio, le affermazioni che pur vorrebbe fare, padre Cavalcoli le gira nelle domande opposte, cui qui darò la risposta che avrebbero se si seguisse la logica "aletica", veritativa, insegnataci dalla filosofia.

Prima domanda: È ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso?

Caro padre Cavalcoli, lei per la verità avrebbe tanto voluto dire: "Non è ammissibile che lo sviluppo di una dottrina di fede o prossima alla fede già definita sia falso". Invece la risposta è: sì, lo sviluppo può essere falso, perché una premessa vera non porta necessariamente a una conclusione vera, ma può portare pure a una o più conclusioni false, tant’è che in tutti i Concili del mondo – persino nei dogmatici – si confrontarono le più contrastanti posizioni proprio a motivo di tale possibilità. Per avere lo sperato sviluppo di continuità delle verità rivelate per grazia non basta essere teologi, vescovi, cardinali o papi, ma è necessario richiedere l’assistenza speciale, divina, data dallo Spirito Santo solo a quei Concili che, dichiarati alla loro apertura solennemente e indiscutibilmente a carattere dogmatico, tale divina assistenza se la sono garantita formalmente. In tali soprannaturali casi avviene che lo sviluppo dato alla dottrina soprannaturale risulterà garantito come veritiero tanto quanto sono già state divinamente garantite come veritiere le sue premesse.

Ciò non è avvenuto all’ultimo Concilio, dichiarato formalmente a carattere squisitamente pastorale almeno tre volte: alla sua apertura, che è quel che conta, poi all’apertura della seconda sessione e per ultimo in chiusura; sicché in tale assemblea da premesse vere si è potuti giungere a volte anche a conclusioni almeno opinabili (a conclusioni che, canonicamente parlando, rientrano nel III grado di costrizione magisteriale, quello che, trattando di temi a carattere morale, pastorale o giuridico, richiede unicamente "religioso ossequio") se non "addirittura errate", come riconosce anche padre Cavalcoli contraddicendo la sua tesi portante, "e comunque non infallibili", e che dunque "possono essere anche mutate", sicché, anche se disgraziatamente non vincolano formalmente, ma "solo" moralmente il pastore che le insegna anche nei casi siano di incerta fattura, provvidenzialmente non sono affatto vincolanti obbligatoriamente l’obbedienza del fedele.

D'altronde, se a gradi diversi di magistero non si fanno corrispondere gradi diversi di assenso del fedele non si capisce cosa ci stiano a fare i gradi diversi di magistero. I gradi diversi di magistero sono dovuti ai gradi diversi di prossimità di conoscenza che essi hanno con la realtà prima, con la realtà divina rivelata cui si riferiscono, ed è ovvio che le dottrine rivelate direttamente da Dio pretendono un ossequio totalmente obbligante (I grado), tali come le dottrine loro connesse se presentate attraverso definizioni dogmatiche o atti definitivi (II grado). Sia le prime che le seconde si distinguono da quelle altre dottrine che, non potendo appartenere al primo gruppo, potranno essere annoverate al secondo solo allorquando si sarà appurata con argomenti plurimi, prudenti, chiari e irrefutabili la loro connessione intima, diretta ed evidente con esso nel rispetto più pieno del principio di Vincenzo di Lérins ("quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est"), garantendo così al fedele di trovarsi anch’esse dinanzi alla conoscenza più prossima di Dio. Tutto ciò, come si può capire, si può ottenere soltanto nell’esercizio più consapevole, voluto e implorato dalla e sulla Chiesa del "munus", del magistero dogmatico.

La differenza tra le dottrine di I e II grado e quelle di III è data dal carattere certamente soprannaturale delle prime, che invece nel terzo gruppo non è garantito: forse c’è, ma forse anche non c’è. Quel che va colto è che il "munus" dogmatico è:
  1. un dono divino, dunque
  2. un dono da richiedere espressamente e
  3. un dono la cui non richiesta non offre poi alcuna garanzia di assoluta verità, mancanza di garanzia che sgancia il magistero da ogni obbligo di esattezza e i fedeli da ogni obbligo di obbedienza, pur richiedendo loro religioso ossequio.
Nel III grado potrebbero trovarsi indicazioni e congetture di ceppo naturalistico, e il vaglio per verificare se, depuratele da tali eventuali anche microbiche infestazioni, è possibile un loro innalzamento al grado soprannaturale può compiersi solo ponendole a confronto col fuoco dogmatico: la paglia brucerà, ma il ferro divino, se c’è, risplenderà certo in tutto il suo fulgore.

È ciò che è successo alle dottrine dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione, oggi dogmi, articoli cioè di fede appartenenti oggi di diritto al secondo gruppo. Fino rispettivamente al 1854 e al 1950 esse appartennero al gruppo delle dottrine opinabili, al terzo, alle quali si doveva nient’altro che "religioso ossequio", pari pari a quelle dottrine novelle che, più avanti elencate qui in breve e sommario inventario, si affastelleranno nel più recente insegnamento della Chiesa dal 1962. Ma nel 1854 e nel 1950 il fuoco del dogma le circondò della sua divina e peculiare marchiatura, le avvampò, le vagliò, le impresse e infine in eterno le sigillò quali "ab initio" già erano nella loro più intima realtà: verità certissime e universalmente comprovate, dunque di diritto appartenenti al ceppo soprannaturale (il secondo) anche se fino allora non formalmente riconosciute sotto tale splendida veste. Felice riconoscimento, e qui si vuol appunto sottolineare che fu riconoscimento degli astanti, del papa in primo luogo, non affatto trasformazione del soggetto: come quando i critici d’arte, dopo averla esaminata sotto ogni punto di vista e indizio utili ad avvalorarla o smentirla – certificati di provenienza, di passaggi di proprietà, prove di pigmentazione, di velatura, pentimenti, radiografie e riflettografie – riconoscono in un quadro d’autore la sua più indiscutibile e palmare autenticità.

Quelle due dottrine si rivelarono entrambe di fattura divina, e della più pregiata. Se qualcuna dunque di quelle più recenti è della stessa altissima mano lo si riscontrerà pacificamente col più splendido dei mezzi.

Seconda domanda: Può il nuovo campo dogmatico essere in contraddizione con l’antico?

Ovviamente no, non può in alcun modo. Infatti dopo il Vaticano II non abbiamo alcun "nuovo campo dogmatico", come si esprime padre Cavalcoli, anche se molti vogliono far passare per tale le novità conciliari e postconciliari, pur essendo il Vaticano II un semplice se pur solenne e straordinario "campo pastorale". Nessuno dei documenti richiamati da dom Basile Valuet alla sua nota 5 dichiara un’autorevolezza del Concilio maggiore di quella da cui esso fu investito fin dall’inizio: nient’altro che una solenne e universale, cioè ecumenica, adunanza “pastorale” intenzionata a dare al mondo alcune indicazioni solo pastorali, rifiutandosi dichiaratamente e ostentatamente di definire dogmaticamente o di colpire d'anatema alcunché.

Tutti i maggiorenti neomodernisti o semplicemente novatori che dir si voglia i quali (come sottolinea il professor Roberto de Mattei nel suo "Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta") furono attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII – teologi, vescovi e cardinali della "théologie nouvelle" come Bea, Câmara, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; König col suo, Küng; Garrone col suo, Daniélou; Lercaro, Maximos IV, Montini, Suenens, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta scuola di Bologna: Dossetti, Alberigo e oggi Melloni – nello svolgimento del Vaticano II e dopo hanno cavalcato con ogni sorta di espedienti la rottura con le detestate dottrine pregresse sullo stesso presupposto, equivocando cioè sull'indubbia solennità della straordinaria adunanza; per cui si ha che tutti costoro compirono di fatto rottura e discontinuità proclamando a parole saldezza e continuità. Che vi sia poi da parte loro e poi universalmente oggi desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile almeno:
  1. dal più distruttivo scempio perpetrato sulle magnificenze degli altari antichi;
  2. dall’egualmente universale odierno rifiuto di tutti i vescovi del mondo tranne pochissimi a dare il minimo spazio al rito tridentino o gregoriano della messa, in stolida e ostentata disobbedienza alle direttive del motu proprio "Summorum Pontificum". "Lex orandi, lex credendi": se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cos'è allora?
Malgrado ciò, e la gravità di tutto ciò, non si può però ancora parlare in alcun modo di rottura: la Chiesa è "tutti i giorni" sotto la divina garanzia data da Cristo nei giuramenti di Matteo 16, 18 ("Portæ inferi non prævalebunt") e di Matteo 28, 20 ("Ego vobiscum sum omnibus diebus") e ciò la mette metafisicamente al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte e spesso i tentativi in atto. Ma chi sostiene un’avvenuta rottura – come fanno alcuni dei maggiorenti anzidetti, ma anche i sedevacantisti – cade nel naturalismo.

Però non si può parlare neanche di saldezza, cioè di continuità con la Tradizione, perché è sotto gli occhi di tutti che le più varie dottrine uscite dal e dopo il Concilio – ecclesiologia; panecumenismo; rapporto con le altre religioni; medesimezza del Dio adorato da cristiani, ebrei e islamici; correzione della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”; unicità delle fonti della Rivelazione; libertà religiosa; antropologia antropocentrica invece che teocentrica; iconoclastia; o quella da cui è nato il "Novus Ordo Missæ" in luogo del rito gregoriano (oggi raccattato a fianco del primo, ma subordinatamente) – sono tutte dottrine che una per una non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma, se si avesse il coraggio di provare a dogmatizzarle: fuoco che consiste nel dar loro sostanza teologica con richiesta precisa di assistenza dello Spirito Santo, come avvenne a suo tempo con il "corpus theologicum" posto a base dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria.

Tali fragili dottrine sono vive unicamente per il fatto che non vi è nessuna barriera dogmatica alzata per non permettere il loro concepimento e uso. Però poi si impone una loro fasulla continuità col dogma per pretendere verso di esse l’assenso di fede necessario all’unità e alla continuità (cfr. le pp. 70ss, 205 e 284 del sopraddetto mio libro "La bellezza che ci salva"), restando così tutte in pericoloso e "fragile borderline tra continuità e discontinuità" (p. 49), ma sempre al di qua del limite dogmatico, che infatti, se applicato, determinerebbe la loro fine. Anche l’affermazione di continuità tra tali dottrine e la Tradizione pecca a mio avviso di naturalismo.

Terza domanda: Se noi neghiamo l’infallibilità degli sviluppi dottrinali del Concilio che partono da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede, non indeboliamo la forza della tesi continuista?

Certo che la indebolite, caro padre Cavalcoli, anzi: la annientate. E date forza alla tesi opposta, come è giusto che sia, che continuità non c’è.

Niente rottura, ma anche niente continuità. E allora cosa? La via d’uscita la suggerisce Romano Amerio (1905-1997) con quella che l’autore di "Iota unum" definisce "la legge della conservazione storica della Chiesa", ripresa a p. 41 del mio saggio, per la quale "la Chiesa non va perduta nel caso non 'pareggiasse' la verità, ma nel caso 'perdesse' la verità". E quando la Chiesa non pareggia la verità? Quando i suoi insegnamenti la dimenticano, o la confondono, la intorbidano, la mischiano, come avvenuto (non è la prima volta e non sarà l’ultima) dal Concilio a oggi. E quando perderebbe la verità? (Al condizionale: si è visto che non può in alcun modo perderla). Solo se la colpisse d'anatema, o se viceversa dogmatizzasse una dottrina falsa, cose che potrebbe fare il papa e solo il papa, se (nella metafisicamente impossibile ipotesi che) le sue labbra dogmatizzanti e anatematizzanti non fossero soprannaturalmente legate dai due sopraddetti giuramenti di Nostro Signore. Insisterei su questo punto, che mi pare decisivo.

Qui si avanzano delle ipotesi, ma – come dico nel mio libro (p. 55) – "lasciando alla competenza dei pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza, per esempio del se e del chi eventualmente, e in che misura, sia incorso od ora incorra" negli atti configurati. Nelle primissime pagine evidenzio in specie come non si possono alzare gli argini al fiume di una bellezza salvatrice se non sgombrando la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza si accompagna unicamente alla verità (p. 23), e tornare a far del bello nell’arte, almeno nell'arte sacra, non si riesce se non lavorando nel vero dell’insegnamento e dell’atto liturgico.

Quello che a mio avviso si sta perpetrando nella Chiesa da cinquant’anni è un ricercato amalgama tra continuità e rottura. È lo studiato governo delle idee e delle intenzioni spurie nel quale si è cambiata la Chiesa senza cambiarla, sotto la copertura (da monsignor Gherardini nitidamente illustrata anche nei suoi libri più recenti) di un magistero volutamente sospeso – a partire dal discorso d’apertura del Concilio "Gaudet mater ecclesia" – in una tutta innaturale e tutta inventata sua forma, detta, con ricercata imprecisione teologica, “pastorale”. Si è svuotata la Chiesa delle dottrine poco o nulla adatte all’ecumenismo e perciò invise ai maggiorenti visti sopra e la si è riempita delle idee ecumeniche di quegli stessi, e ciò si è fatto senza toccarne in alcun modo la veste metafisica, per natura sua dogmatica (cfr. p. 62), per natura sua cioè soprannaturale, ma lavorando unicamente su quel campo del suo magistero che inferisce unicamente sulla sua "conservazione storica".

In altre parole: non c’è rottura formale, né peraltro formale continuità, unicamente perché i papi degli ultimi cinquant’anni si rifiutano di ratificare nella forma dogmatica di II livello le dottrine di III che sotto il loro governo stanno devastando e svuotando la Chiesa (cfr. p. 285). Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa non pareggia più la verità, ma neanche la perde, perché i papi, persino in occasione di un Concilio, si sono formalmente rifiutati sia di dogmatizzare le nuove dottrine sia di colpire d'anatema le pur disistimate (o corrette o raggirate) dottrine pregresse.

Come si vede, si potrebbe anche ritenere che tale incresciosissima situazione andrebbe a configurare un peccato del magistero, e grave, sia contro la fede, sia contro la carità (p. 54): non sembra infatti che si possa disobbedire al comando del Signore di insegnare alle genti (cfr. Matteo 28, 19-20) con tutta la pienezza del dono di conoscenza elargitoci, senza con ciò "deviare dalla rettitudine che l’atto – cioè 'l'‘insegnamento educativo alla retta dottrina' – deve avere" (Summa Theologiae I, 25, 3, ad 2). Peccato contro la fede perché la si mette in pericolo, e infatti la Chiesa negli ultimi cinquant’anni, svuotata di dottrine vere, si è svuotata di fedeli, di religiosi e di preti, diventando l’ombra di se stessa (p. 76). Peccato contro la carità perché si toglie ai fedeli la bellezza dell’insegnamento magisteriale e visivo di cui solo la verità risplende, come illustro in tutto il secondo capitolo del mio libro. Il peccato sarebbe d’omissione: sarebbe il peccato di "omissione della dogmaticità propria alla Chiesa" (pp. 60ss), con cui la Chiesa volutamente non suggellerebbe sopranaturalmente e così non garantirebbe le indicazioni sulla vita che ci dà.

Questo stato di peccato in cui verserebbe la santa Chiesa (si intende sempre: di alcuni uomini della santa Chiesa, ovvero la Chiesa nella sua componente storica), se riscontrato, andrebbe levato e penitenzialmente al più presto anche lavato, giacché, come il cardinale José Rosalio Castillo Lara scriveva al cardinale Joseph Ratzinger nel 1988, il suo attuale ostinato e colpevole mantenimento "favorirebbe la deprecabile tendenza […] a un equivoco governo cosiddetto 'pastorale', che in fondo pastorale non è, perché porta a trascurare il dovuto esercizio dell’autorità con danno al bene comune dei fedeli" (pp. 67s).

Per restituire alla Chiesa la parità con la verità, come le fu restituita ogni volta che si trovò in simili drammatiche traversie, altra via non c’è che tornare alla pienezza del suo "munus docendi", facendo passare al vaglio del dogma a 360 gradi tutte le false dottrine di cui oggi è intrisa, e riprendere come "habitus" del suo insegnamento più ordinario e pastorale (nel senso rigoroso del termine: "trasferimento della divina Parola nelle diocesi e nelle parrocchie di tutto il mondo") l’atteggiamento dogmatico che l’ha sopranaturalmente condotta fin qui nei secoli.

Ripristinando la pienezza magisteriale sospesa si restituirebbe alla Chiesa storica l’essenza metafisica virtualmente sottrattale, e con ciò si farebbe tornare sulla terra la sua bellezza divina in tutta la sua più riconosciuta e assaporata fragranza.

Per concludere, una proposta

Ci vuole audacia. E ci vuole Tradizione. In vista della scadenza del 2015, cinquantesimo anniversario del Concilio della discordia, bisognerebbe poter promuovere una forte e larga richiesta al Trono più alto della Chiesa affinché, nella sua benignità, non perdendo l’occasione davvero speciale di tale eccezionale ricorrenza, consideri che vi è un unico atto che può riportare pace tra l’insegnamento e la dottrina elargiti dalla Chiesa prima e dopo la fatale assemblea, e quest’unico, eroico, umilissimo atto è quello di accostare al soprannaturale fuoco del dogma le dottrine sopra accennate invise ai fedeli di parte tradizionista, e le contrarie: ciò che deve bruciare brucerà, ciò che deve risplendere risplenderà. Da qui al 2015 abbiamo davanti tre anni abbondanti. Bisogna utilizzarli al meglio. Le preghiere e le intelligenze debbono essere portate alla pressione massima: fuoco al calor bianco. Senza tensione non si ottiene niente, come a Laodicea.

Questo atto che qui si propone di compiere, l’unico che potrebbe tornare a riunire in un’unica cera, come dev’essere, quelle due potenti anime che palpitano nella santa Chiesa e nello stesso essere, riconoscibili l’una negli uomini "fedeli specialmente a ciò che la Chiesa è", l’altra negli uomini il cui spirito è più teso al suo domani, è l’atto che, mettendo fine con bella decisione a una cinquantennale situazione piuttosto anticaritativa e alquanto insincera, riassume in un governo soprannaturale i santi concetti di Tradizione e audacia. Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.

Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino "munus docendi" nella sua pienezza.

30 commenti:

Anonimo ha detto...

Noto che sia de Mattei che Radaelli non sono interessati a rettificare l'appellativo di 'delusi' dal Papa, che a me sinceramente dà piuttosto fastidio, perché la delusione implica un atteggiamento e un 'sentimento', che ha anche una connotazione di negatività, mentre invece uno studioso mette in campo ragione intelletto e conoscenza non per esprimere sentimenti, ma per fornire contributi, possibilmente 'sapienziali'.

Quanto a Gherardini, al momento mi sembra più impegnato in due nuove opere che ha già messo in cantiere, che a scendere nell'agone dei confronti.

Icabod ha detto...

per me a caval donato non si guarda in bocca e c'è chi pensa che conviene lasciar correre pur di trovare spazi pubblicitari

Anonimo ha detto...

non si può essere delusi e nello stesso tempo propositivi?

Anonimo ha detto...

Caro Anonimo,
certo che si può essere delusi e, non per questo, anche propositivi.
Ma il riduttivismo e la superficialità di certi commentatori enfatizza, come ho detto, un sentimento rispetto ad un'azione costruttiva che, se è tale, è già andata oltre alla delusione...

O arriva addirittura ad appioppare l'etichetta di anti-conciliaristi, quando, se di 'anti' si può parlare, è solo riferito alla confusione ed al pressappochismo.

Ciò può avvenire in un contesto in cui si viene considerati 'anti', per il solo fatto di esprimere un pensiero "non allineato" alla moda imperante. Questo, oltre ad essere un deficit di libertà di espressione (non nel senso che certe cose non si possano dire, ma per il fatto che viene loro misconosciuto diritto di cittadinanza e vengono rese incapaci di incidere sulla realtà) è anche deficit di senso logico.

Anonimo ha detto...

noto un grande assente tra gli studiosi citati da Magister: Padre Serafino Lanzetta (Fi), che ha prodotto riflessioni di grande spessore e che aprono molte piste di riflessione e di sviluppo di dibattiti costruttivi, insieme a quelle degli studiosi da lui interpellati in occasione del Convegno sul Concilio, la cui disattenzione da parte dei media che vanno per la maggiore già la dice lunga...

Anonimo ha detto...

forse è più logico prendere in considerazione gli studiosi capaci di "fare scuola".

Anonimo ha detto...

caro ultimo Anonimo,

io sono convinta che uno studioso serio, profondo, ben orientato come p. Lanzetta sia ben capace di "fare scuola" alla pari con chi gode di maggiore notorietà.

Credo che lo vedremo alla distanza...

DANTE PASTORELLI ha detto...

L'articolo di Radaelli è illuminante e sintetizza quanto molti di noi hann'esposto in modo più frammentario qua e là sulla carta o nel web.
Io l'ho scritto cento volte: ci vengan imposte solennemente come verità da credere le dottrine conciliari e post-conciliari che ci appaion in contrasto con la Tradizione. Ma nessun Papa per ora l'ha fatto. Un motivo ci sarà pure.
E da qui le contorsioni di un teologismo non convincente.

Quanto al p. Cavalcoli da qualche tempo imperversa in internet a far il controcanto a mons. Gherardini, a p.Lanzetta, a P. Vassallo con il solito mantra: se il Papa dice che c'è continuità bisogna credergli.
E invece la faccenda non è così scontata, perché: 1) l'oggetto del credere dev'esser credibile in sé e quindi non in contrasto con la Tradizione; 2) il Papa deve dimostrare questa continuità o, se non in grado di farlo, deve dichiararla con atto di Magistero infallibile.
Non è più tempo di star a cincischiar con le parole più o meno dotte.

Anonimo ha detto...

Bisognerebbe prestare attenzione a quanto Radaelli propone nella conclusione, che riprendo:

Per ricostruire la Chiesa e tornare a fare bellezza, il Vaticano II va letto nella griglia della Tradizione con l’audacia infuocata del dogma.
Dunque tutti i tradizionisti della Chiesa, a ogni ordine e grado come a ogni particolare taglio ideologico appartengano, sappiano raccogliersi in un’unica sollecitazione, in un unico progetto: giungere al 2015 con il più vasto, consigliato e ben delineato invito affinché tale ricorrenza sia per il Trono più alto l’occasione più propria per ripristinare il divino "munus docendi" nella sua pienezza.


Dovremmo sforzarci di promuovere sinergie perché ciò avvenga e, concretamente, bisognerebbe redigere una ennesima 'supplica' al Santo Padre, affidandola al cuore Immacolato di Maria.

DANTE PASTORELLI ha detto...

Sempre sperando che qualcuno non la faccia sparir prima che arrivi alla sacra scrivania.

Anonimo ha detto...

Magistero sospeso da 50 anni: affermazione terribile, tanto più perché posta come dato di fatto non opinabile. E, a quanto pare, ampiamente condivisa. Dunque la produzione di encicliche, discorsi, documenti, è da ritenersi mero esercizio della parola? Il munus docendi sospeso implica una Chiesa Maestra in aspettativa da 50 anni! Ripeto: affermazione terribile che vorrei avere l’autorità di contestare.
E, a fronte di una tale clamorosa, se vera, anomalia, a fronte dei nodi cruciali, dei punti dolenti indicati dallo stesso Radaelli, la risposta proposta mi sembra quanto meno ingenua. Intanto perché unificare le forze tradizioniste è cosa tanto auspicabile quanto altamente improbabile, vista la divisione che in vario modo le attraversa. Ma soprattutto perché non so immaginare un atto di magistero che risolva con un colpo di spugna la complessità dei problemi sul tavolo. Si allude forse ad un nuovo Concilio, dommatico e definitorio che ponga fine ad ogni incertezza interpretativa e all’anarchia?

Anonimo ha detto...

Magistero sospeso da 50 anni: affermazione terribile, tanto più perché posta come dato di fatto non opinabile.

Anonimo, è lei che fa un'affermazione a prima vista non opinabile, ma che non ha riscontro in nessuna affermazione né di Radaelli né nostra.

Non si parla di "Magistero sospeso", ma della necessità di uno sguardo critico e demitizzante di tutto quanto avvenuto negli ultimi 50 anni.

Si ritiene irrealistico e soprattutto teologicamente insostenibile rifiutare sic et simpliciter il Concilio, e pertanto si invoca lo strumento esegetico, da utilizzare nel senso indicato dal Papa.

Studi come quelli di de Mattei, Gherardini, Radaelli (ed altri) evidenziano i problemi e le ambiguità e rappresentano l'ineludibile premessa per neutralizzare l'imperante mitologia conciliare, cui potrà seguire l’operazione di ricostruzione dottrinale, prima ancora che liturgica, tanto cara al Papa e ad ogni fedele che si riconosca autenticamente cattolico.

Nel Magistero degli ultimi 50 anni non c'è tutto da buttar via; ma ci sono molte cose da bruciare al fuoco del dogma!

Anonimo ha detto...

Il munus docendi sospeso implica una Chiesa Maestra in aspettativa da 50 anni! Ripeto: affermazione terribile che vorrei avere l’autorità di contestare

rilegga meglio. Il "munus docendi" non viene dichiarato sospeso, ma non esercitato nella sua pienezza.

Anonimo ha detto...

"Si allude forse ad un nuovo Concilio, dommatico e definitorio che ponga fine ad ogni incertezza interpretativa e all’anarchia?"

e in questo nuovo concilio chi è che porrebbe fine all'anarchia? La maggioranza dei vescovi modernisti?

Anonimo ha detto...

Non c'è bisogno di un concilio. Basterebbe un uomo solo: un Papa che esercitasse la sua autorità di governo e sottoponesse al fuoco del dogma, prima di proclamarne la formulazione definitoria e veritativa, gli elementi di 'rottura' con la Tradizione introdotti dal Vaticano II.

Enrico Maria Radaelli ha detto...

Bisogna distinguere: possiamo dire che è stato sospeso il munus docendi in sé, cioè proprio in quanto magistero, se intendiamo, come nel mio intervento è spiegato più avanti, che alle strette gli articoli o dottrine da credere de fide (e dunque da insegnare e da imparare per essere cattolici) sono gli articoli o dottrine appartenenti alla Rivelazione (1° grado) o a questi strettamente connessi, definiti da appropriati e formali pronunciamenti della Chiesa (2° grado); in tal senso, strettamente parlando, gli articoli o dottrine appartenenti al 3° grado di insegnamento, per quanto richiedano "religioso ossequio", e dunque per quanto richiedano, in linea di massima, intelligente apprezzamento e obbedienza, non obbligano la coscienza come i precedenti.

In questo senso intendo "sospeso" il munus docendi: perché non si è esercitato l'insegnamento vincolante, anche allorché si insegnano dottrine come quella della medesimezza dello stesso Dio delle cosiddette "tre grandi religioni monoteiste", o quella delle "due salvezze parallele di Chiesa e Sinagoga", quando invece sarebbe opportuno o non insegnare affatto tali nuove dottrine, o insegnarle utilizzando però lo strumento più idoneo per insegnare qualcosa degno di nota e del tutto nuovo, appunto la soprannaturale assistenza dello Spirito santo in tutta la sua pienezza. Nel mio intervento è dimostrato che se si facesse ciò tali dottrine non esisterebbero nemmeno.

Da qui si vede che possiamo dire anche che è stata sospesa la pienezza del magistero, e non il munus docendi , il magistero in sé, se intendiamo ammorbidire la categoricità dell'asserto nel felice e grato riconoscimento che il magistero della Chiesa si è pronunciato su alcuni punti qualificanti della conduzione della Chiesa, per esempio, se pur per metà, il recente Motu proprio Summorum Pontificum ; il genere maschile privilegia ed evidenzia il divario di prospettiva tra l'insegnamento dei Papi post concilio e quelli ante , per il quale è sotto gli occhi di tutti che anche con "semplici" lettere encicliche Pio XII - vedi la Divino Afflante Spiritu , o la Mystici Corporis - ha insegnato con l'autorità dell'habitus dogmatico dottrine precise, chiare e "dispositive", mentre i suoi successori hanno preferito, pur utilizzando i medesimi strumenti (le encicliche), dare ai propri insegnamenti un taglio morbido, "sollecitativo", "pastorale", non affatto dispositivo, così restringendo, come rilevava il Ceronetti, in poco più che "fervorini dell'Angelus" anche i documenti che dovrebbero essere invece impegnativi, quali appunto le encicliche; il genere femminile attenua a mio avviso il divario tra le due prospettive magisteriali e la conseguente responsabilità, dunque dice il medesimo ma con una sfumatura di benignità che, lungi dal volerla del tutto rigettare trattandosi del giudizio (del tutto opinativo: è solo quello di un fedele) dato sull'operato dei Pastori sommi della Chiesa, vuole però far emergere, nelle difficoltà dottrinali in cui la sacra Navicella si sta dibattendo, l'estrema serietà e pericolosità del momento. Polso forte ci vorrebbe, ora, non altro.

In quanto a unificare le forze più o meno tradizioniste, questo è compito che ciascuna di esse dovrebbe avere nell'animus di ogni propria azione, e ciascuno certo si adopererà affinché il tempo anche in ciò non passi invano.

Enrico Maria Radaelli ha detto...

<--- segue

Ultimo punto: come tornare al conforto del munus dogmatico? "Ci vuole forse ancora un concilio?". Non direi: l'autorità papale - come ricordo anche in tutti i miei libri - è sempre e comunque superiore all'autorità di un concilio (v. Vaticano I, costituzione dogmatica Pastor Aeternus), il conciliarismo è un'eresia da allontanare anche allorché si presenta sotto forma di necessità di avere un concilio per definire una dottrina; dunque non c'è bisogno di convocare altre adunanze, ma c'è bisogno che una per una venga esaminata con calma e col tempo e l'attenzione necessarie ogni dottrina di quelle elencate nel mio intervento e che qui non ripeto, e a ciascuna venga data con linguaggio rigoroso e con molteplici argomenti severi (in senso latino) e inoppugnabili la forma teologica appropriata, come fu costume magisteriale di tutti gli ultimi quattro grandi Papi passati alla storia col nome di Pio.

Anonimo ha detto...

... mentre i suoi successori hanno preferito, pur utilizzando i medesimi strumenti (le encicliche), dare ai propri insegnamenti un taglio morbido, "sollecitativo", "pastorale", non affatto dispositivo, così restringendo, come rilevava il Ceronetti, in poco più che "fervorini dell'Angelus" anche i documenti che dovrebbero essere invece impegnativi, quali appunto le encicliche...

In realtà si realizza quella che Amerio chiama la breviatio manus Domini.

Mi scrive un lettore chiedendo se, per effetto dei nuovi movimenti la Chiesa non risulti dimidiata tra "Istituzione e carisma". Mi colpisce l'uso del termine mutuato da Romano Amerio e colgo l'occasione per aggiungere una riflessione ulteriore all'esaustivo e graditissimo intervento del Prof. Radaelli.

Chiesa "dimidiata" non solo perché arbitrariamente si dimentica che la Chiesa è TUTTA carismatica e l'Istituzione è solo la sua parte ordinata gerarchicamente, visibile; ma anche e soprattutto perché, essa risulta 'dimidiata' anche nel senso di 'dimezzata' 'diminuita'nello snervamento della potestà del Sommo Pontefice.

Romano Amerio in "Iota unum", testo tanto magistralmente cattolico, quanto ignorato dai "novatori" sostiene che lo snervamento della potestà, che ha origine nel concilio, nasce anche dall'indole e da atti conseguenti di Papa Montini, dalla inadempiutezza della sua funzione di 'reggimento', cioè di governo, attraverso l'uso di un metodo oratorio e monitorio che indica, richiama e non condanna, cui assistiamo ancora oggi: fenomeno anomalo e patologico, non proprio della religione autentica...
Oggi di fatto il governo della Chiesa è dimidiato e, per dirla biblicamente, "rimane abbreviata la mano di Dio" "breviatio manus Domini" (Is 59,1- "ecco non è troppo corta la mano del Signore da non poter salvare"), che si determina a causa:
. conoscenza imperfetta dei mali
. mancanza di forza morale
. calcolo di prudenza che non pone rimedio ai mali veduti perché stima che così aggraverebbe i mali anziché guarirli.

Cito testualmente: "Di due cose c'è bisogno per custodire la Verità. Primo: rimuovere l'errore dalla sfera dottrinale; il che avviene rifiutando gli argomenti erronei e mostrando che essi non sono convincenti. Secondo: rimuovere la persona in errore, depondendola dalla sua funzione, il che vien fatto con un atto di autorità della Chiesa. Se questo servizio papale non è esercitato, sembrerebbe ingiustificato dire che è stato usato ogni mezzo per custodire la dottrina della Chiesa: siamo in presenza della "breviatio manus Domini". Si diffonde allora, senza incontrare sufficiente impedimento, un concetto minorato dell'autorità e dell'obbedienza, cui corrisponde un concetto maggiorato della libertà e dell'opinabilità." (pag. 143 Ed. Lindau)

Questa affermazione, insieme ad una corretta e profonda disamina di quanto si è infiltrato nella Chiesa già da prima del Concilio, trovando nell'Assise conciliare il passe-partout per esplodervi dall'interno, cui si aggiunge il persistere di una certa 'desistenza' dall'attività di governo da parte del Sommo Pontefice per effetto dello stesso stile indicativo esortativo, monitorio e non prescrittivo, mi trova molto in sintonia.

DANTE PASTORELLI ha detto...

Ieri avevo scritto una risposta all’anonimo delle 12,25, ma per un motivo incomprensibile il blog non l’ha recepita, forse per un momentaneo scollegamento del PC. Però han provveduto MIC e Radaelli in modo estremamente puntuale ed esauriente come io non avrei certo potuto mai fare.
E poco fa, proprio per manifestare la mia adesione convinta ai post sopra citati ho inviato un altro commento ed anche questo s’è sperso per l’etere. Riprovo a ristender un paio di osservazioni.
Non è del tutto vero che il munus docendi non sia stato esercitato nel post-concilio in forma vincolante. Un Papa strettamente conciliare, Paolo VI, ci ha dato la Mysterium fidei, che condanna la transignificazione e la transfinalizzazione, riconfermando la dottrina tradizionale della Transustanziazione, e, in genere, l’intera verità relativa al mistero eucaristico; l’Humanae vitae, che ribadisce la posizione sempre sostenuta dalla Chiesa in materia di morale coniugale; il Credo del Popolo di Dio che puntigliosamente ripete i principi fondamentali del Simbolo della nostra Fede da cui non si può derogare. Si tratta di Magistero chiaramente infallibile, anche se non vi si usan le formule più solenni, perché ripropone a credere verità sempre professate e credute.
Si potrebbero passare in rassegna anche altre encicliche, ad es. l’ Ecclesia de Eucharistia di Giovanni Paolo II, ma non è il caso.
Quel che manca ed è causa di confusione, turbamento e divaricazione, è una definitiva interpretazione dei punti più critici del concilio. Non basta intitolare un documento “costituzione dogmatica” perché esso possa qualificarsi come solenne e vincolante. Nell’economia di un concilio voluto e sviluppato come puramente pastorale quell’aggettivo “dogmatico” può significar soltanto “che tratta del dogma”. E siccome anche nelle costituzioni “dogmatiche” del Vaticano II, e non solo in quelle più modestamente e visibilmente pastorali, ci sono affermazioni discutibili se non erronee in quanto in palese contrasto col Magistero precedente, sarebbe stato dovere dei Papi ed è dovere di quello felicemente regnante pronunciarsi definitivamente indicando ciò che nei vari documenti è obbligante e ciò che merita solo un semplice ossequio, quando lo meriti: ché nella Nostra aetate, ad es., ci son dottrine che ossequio non meritano.
Conosciamo tutti l’ambito del magistero infallibile segnato dalla Pastor Aeternus ed il tono che si deve usare per evidenziar codesto valore, livello di Magistero, che sia solenne o ordinario. Come conosciamo contenuto e forma dl magistero semplicemente autentico.
Ma al di là dell’ambito e della forma (fede e costumi, formule definitorie) è il contenuto in sé ch’è in primis l’elemento che stabilisce il valore di un pronunciamento. Anche se afferente alla fede ed ai costumi, un oggetto di magistero inaudito e non contenuto né nella Rivelazione ma con essa in contrasto, né nella Tradizione e ad essa opposto non può mai esser garantito dall’infallibilità ove pur il Papa o il Concilio usassero formule tipiche del magistero solenne, straordinario. Se tale stortura si verifica è chiaro che è venuta meno l’assistenza dello Spirito Santo, esclusa in partenza dall’oggetto erroneo in sé. Ma lo Spirito Santo promesso a Pietro impedisce che si giunga a tanto. Non impedisce invece che certe storture si verifichino nei pronunciamenti del dottore privato, o del Simone che dimentica d’esser Pietro e che tradisce Gesù e resiste alla voce dello Spirito. E sarebbe l’ora che venisse passata una spugna sul recente costume di Papi che sfornan libri talvolta fuorvianti invece di governar con la debita cura, sino allo spasimo e alla morte la Chiesa loro affidata.

Anonimo ha detto...

Non impedisce invece che certe storture si verifichino nei pronunciamenti del dottore privato, o del Simone che dimentica d’esser Pietro e che tradisce Gesù e resiste alla voce dello Spirito. E sarebbe l’ora che venisse passata una spugna sul recente costume di Papi che sfornan libri talvolta fuorvianti

Il problema è che oggi il munus docendi è esercitato - e perciò dimidiato se non sospeso - prevalentemente se non esclusivamente proprio in tal modo, con l'aggravante dei numerosi fraintendimenti diffusi dalla sempre potente grancassa mediatica, alla quale danno credito ed ascolto la maggior parte delle persone che restano alla superficie delle cose, non esercitano il discernimento né sono dotate di sufficienti strumenti per sviluppare un adeguato sano spirito critico.

DANTE PASTORELLI ha detto...

Ed è in questa battaglia tesa a cercar di chiarir problemi, soprattutto di porli all'autorità competente, supplicandola di esercitar il munus in modo tale da non lasciar ombra di sorta che dia adito a dubbi e deviazioni, che ci siamo incontrati e ci sentiamo vicini persone dotte, teologi di fama, sacerdoti e semplici fedeli come me.

Anonimo ha detto...

Caro Dante,
c'è da dire che la Rete ha fatto da 'moltiplicatore' per questo.
Perché tutto ciò che era silenziato disprezzato irriso -come purtroppo in larga parte è tuttora- ha potuto essere espresso e condiviso in una libertà che la cultura imperante, che è quella della moda del tempo, con conosce e non riconosce.
E, credo, anche per questo qualcosa sta cambiando e le voci e i cuori consapevoli e attenti aumentano e si manifestano.
Qualunque strumento acquista valore da come viene usato e diventa dono nella misura in cui se ne sviluppa la dimensione di 'servizio'...

Certo la Rete non basta e quel che manca oggi è una 'pastorale' che concretizzi le nostre scoperte e le nostre attese e che invece, nel quotidiano, risulta ancora troppo 'sommersa' perché si cerca di soffocarla. Ricordo l'immagine di Gherardini nel suo scritto sulla Passio Ecclesiae in cui denuncia:

- incuria,
- abbassamento della guardia;
- compiacente strizzatina d'occhi all'“inimicus homo” (Mt 13, 25.39),
- desistenza dal dovere della fedeltà e della testimonianza;
- colpevole rimescolamento delle carte fra il sì e il no, per fare scomparire del tutto la discriminante tra il bene e il male;
- “circiterismo” pasticcione e confuso di gran parte della teologia contemporanea, la cui sola unità di misura sembra l'abbandono della Tradizione e quindi della linfa che alimenta la vita ecclesiale;
- burbanzosa autosufficienza che inalbera la coscienza del singolo o di gruppi particolari a giudice supremo della legge di Dio, sia naturale che rivelata e della Chiesa interpretata e proposta;

quanto è dovuto a tutto questo e ad altro ancora, non ha diritto di cittadinanza nella “città di Dio”, essendo antitetico alla costituzione e alla vita di essa. Di tutte queste storture e devianze e ribellioni s'intesse, sì, la passio Ecclesiae, ma è una passione che non s'identifica mistericamente con quella di Cristo, non arricchisce e non dilata la Chiesa come il sangue dei martiri. La mortifica, anzi la strozza, le rifila l'aria che dovrebbe respirare, la riduce al rantolo. Contro questa passio, pertanto, occorre prender posizione, essa va neutralizzata, e l'unica maniera per farlo è quella d'una fedeltà a tutta prova: la fedeltà dei santi.

Anonimo ha detto...

... credo che l'unico modo per trasformarla in passio feconda sia quello di inserire la nostra impotenza e la nostra sofferenza e povertà di questo tempo nel Calice del Sangue di Cristo ed in Lui offrirla al Padre. Ed è così che anche il rantolo e il gemito della Chiesa militante -oggi come ieri e come sempre- diventa preghiera e supplica, offerta e affidamento e può salire fino al Trono dell'Altissimo!

Anonimo ha detto...

Devo scusarmi, temo, per il mio precedente intervento, incauto e frettoloso, perché dettato, non certo da intento polemico, ma dall’allarme che i problemi affrontati non possono non suscitare. Tuttavia è valso all’ulteriore riflessione che avete sviluppato, chiara e feconda. Ve ne sono grata.

In particolare dice il prof. Radaelli con puntuale chiarezza

non c'è bisogno di convocare altre adunanze, ma c'è bisogno che una per una venga esaminata con calma e col tempo e l'attenzione necessarie ogni dottrina di quelle elencate nel mio intervento e che qui non ripeto, e a ciascuna venga data con linguaggio rigoroso e con molteplici argomenti severi (in senso latino) e inoppugnabili la forma teologica appropriata

Questa è la via maestra da ritrovare. Continua ad apparirmi ingenua questa soluzione, perché vivo nella realtà storica di una Chiesa che quella via l’ha smarrita o volutamente elusa, e continuo a chiedermene le ragioni ultime. Tuttavia, mi sembra di capire, è una soluzione senza alternative che non siano ulteriori rinvii o rimedi marginali. Non resta che armarsi di una vigorosa e coraggiosa speranza per crederci e attenderla!
giovanna

Anonimo ha detto...

Non resta che armarsi di una vigorosa e coraggiosa speranza per crederci e attenderla!

Intanto, Giovanna, grazie per i tuoi contributi.

Radaelli, oltre che crederci e attenderla, la soluzione, l'ha promossa.
Noi, oltre a dargli ascolto e spazio siamo con lui e con chiunque cerca di uscire dalla palude in cui siamo, servendoci degli strumenti che la Chiesa, Mater et Magistra, ci offre.

Questi strumenti sono Dottrina, Sacrificio e Sacramenti, di cui purtroppo ci siamo persi qualcosa; ma nonostante tutto continuiamo a custodire e promuovere come possiamo, non senza preghiera impegno, studio e poi ancora preghiera.

DANTE PASTORELLI ha detto...

Ed è importante anche che Giovanna ed altri con lei non credano che per noi esprimer tante perplessità ed osservazioni critiche sia motivo di gioia o che alberghi in noi volontà di divisione: è amore, solo amore di chi soffre per la Chiesa e la vuole trionfante sui nemici esterni e, ahimé, anche interni.

giovanna ha detto...

è amore, solo amore di chi soffre per la Chiesa e la vuole trionfante

ne sono più che certa.

berni ha detto...

a Mic.- del 19/6/!! infatti hai ragione , non c'e' bisogno di un nuovo concilio, basterebbe che il Santo Padre esercitasse la Sua autorita' di governo della Chiesa, per formulare definitivamente gli elementi di rottura con la tradizione introdotti dal Vaticano II.

berni ha detto...

giovanna e' verita',e' amore, solo amore di chi soffre per la Chiesa e la vuole trionfante vederla oggi in queste condizioni.

berni ha detto...

Carissimo Enrico M. Radaelli, dopo aver letto la tua proposta per i 50 anni del V.II, ti do' una mia opinione , all'ultima parte della tua, essendo daccordo con te per tutto l'articolo. Nel 2015 che chiesa avremo e chi ne sar' il Pastore? Come possiamo attenderci che questo unico progetto possa realizzarsi? Questo puo' avvenire solo per opera dello Spirito Santo " ecco perche' dovremmo cantare ogni giorno il Veni Creator Spiritus". Ormai la gerarchia ecclesiastica, sta andando verso il baratro e di questo ne ho centinaia di prove con sacerdoti e vescovi se cosi si possono ancora chiamare. Noi possiamo solo pregare il buon Dio che ci lasci o ci mandi qualche pastore che alla fine dei nostri giorni ci salvi almeno l'anima, altrimenti ci pensera' il vero Padrone dal cielo. Sono un pessimista per natura, ma ormai vedo tutto uguale dappertutto. Ci puo' salvare solo la Santa Chiesa Cattolica di Nostro Signore, ma questa dopo il vaticano II dove sta'? un deferente ossequio.