Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 6 marzo 2025

R. Garrigou-Lagrange - «La nouvelle théologie : oú va-t-elle? Elle revient au modernisme». Redazione e “Note di commento” di Paolo Pasqualucci

Ripubblico - a richiesta e in riferimento a questa analisi - la nota e il commento di Paolo Pasqualucci ad un testo di R. Garrigou Lagrange, non facile ma molto rivelatore dei prodromi della temperie attuale, inviatoci nell'originale francese. Il commento è opportuno al fine di render più chiare alcune verità di fede, del resto così ben illustrate da Garrigou-Lagrange. Pasqualucci si è soffermato, ad esempio, sul concetto di "causa formale". Infatti, chi lo comprende, oggi, che si è rinunciato al principio di causalità in tutte le sue forme?  Non mancano alcuni agganci polemici con la triste attualità della Chiesa, ineludibili, anche per far vedere la continuità tra gli errori del recente passato e quelli del presente.
Lo ringrazio toto corde, sia per il testo che per l'accurato e proficuo lavoro che mette a nostra disposizione.
Metto il corposo documento a disposizione [qui] per i lettori francofoni e per i molti altri che leggono agevolmente il francese; ma vi anticipo che sarà presto disponibile anche la traduzione in italiano, che metterò in evidenza tra le Pagine fisse consultabili nella colonna in alto a destra del blog, nel novero del nostro costante impegno di allargare l'attenzione all'orizzonte internazionale, sia nell'intento di superare l'autoreferenzialità, che per l'esigenza di arricchire i nostri contenuti con l'approfondimento di temi e testi di particolare rilievo. 

GARRIGOU-LAGRANGE, Réginald : La nouvelle théologie :
oú va-t-elle?  Elle revient au modernisme


Note di commento, di Paolo Pasqualucci

Queste “note” riguardano solo alcuni punti dell’articolo di Garrigou-Lagrange.

1. La necessaria aggiunta nel titolo.  La frase “elle revient au modernisme”, di cui al titolo dell’articolo, non si trova nel titolo originale ma nel testo, ove il concetto che essa esprime è ribadito più volte.  L’ho aggiunta al titolo al fine di  render subito chiaro il contenuto dell’articolo.

2. La nuova traduzione italiana dell’importante libro di Garrigou-Lagrange sul “senso comune”.   Ricordo che l’opera sua propria citata dall’autore alla nota n. 2, ossia “Le Sens commun, la philosophie de l’être et les formules dogmatiques”,  è stata di nuovo tradotta in italiano nella Biblioteca di Sensus communis, n. 10, fondata e diretta da mons. Antonio Livi:  Réginald Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, Nuova edizione italiana a cura di Antonio Livi e Mario Padovano, Casa Editrice Leonardo Da Vinci, Roma, 2013, pp. 296, € 23,00.  Si  tratta di un testo importante, essenziale per coloro che vogliono partecipare con cognizione di causa alla lotta in corso per la difesa del dogma della fede.  Nella Nota editoriale del volume, mons. Livi sottolinea opportunamente quanto segue:  “Il dogma – sostiene giustamente l’autore di questo trattato – è una formulazione della verità rivelata che implica la verità del senso comune (perché la rivelazione divina si rivolge all’intelletto di ogni uomo) e allo stesso tempo adopera necessariamente le categorie concettuali della metafisica. Di conseguenza, l’unica ermeneutica corretta delle “formule dogmatiche” è quella che non adotta schemi concettuali incompatibili con il senso comune, quali sono – e qui Garrigou-Lagrange si limita a indicare quei sistemi filosofici che ai suoi tempi inficiavano la riflessione teologica e mettevano a rischio l’ortodossia – l’agnosticismo kantiano, l’idealismo hegeliano, il pragmatismo e l’intuizionismo bergsoniano” (op. cit., pp. 7-9; p. 8; vedi anche, più estesamente, il Saggio introduttivo di Mario Padovano, ivi, pp. 11-23). A quei “sistemi”, dobbiamo oggi aggiungere le variegate e sempre più deteriori forme dello scientismo contemporaneo e dell’esistenzialismo, promotrici di un risorgente e sempre più aggressivo ateismo.

3.  L’errore del falso ecumenismo appare già diffuso negli scritti anonimi dei neomodernisti degli anni Trenta del XX secolo. L’articolo dell’illustre teologo prende in esame il fenomeno, al tempo evidentemente diffuso, dei ciclostilati anonimi che venivano divulgati ad arte tra il clero, fin nei seminari, per diffondervi dubbi e tesi eterodosse di ogni tipo, propalate in tono più accorto nei lavori a stampa dei vari Bouillard, de Lubac, Teilhard de Chardin. Era la vecchia e consolidata tecnica di infiltrazione dei modernisti, di qualche decennio prima:  stroncati da san Pio X, stavano rialzando la testa. Ma di chi potevano essere i ciclostilati in questione? Uno dei maggiori indiziati era Teilhard de Chardin, facilmente riconoscibile per il carattere peculiare delle sue “visioni” sul “Cristo cosmico”, diffuse da alcuni di quei ciclostilati. Riconducibili in parte, quelle visioni, al “pancristismo” di Blondel, cioè al Cristo eone cosmico che, con l’Incarnazione, avrebbe già salvato tutti senza bisogno di conversione alla Chiesa cattolica. L’errore pazzesco del “Cristo cosmico” sembra anche preludere alla falsa dottrina rahneriana dei “cristiani anonimi”: se il Cristo, incarnandosi, ha per ciò stesso già salvato tutti, allora si può dire che nasciamo tutti “cristiani” senza saperlo. Questo singolare errore, che annullava la distinzione tra natura e Grazia (tra il Sovrannaturale e la natura), rendendo superflua l’esistenza stessa della Chiesa visibile e gerarchica, ora anzi ostacolo da abbattere, faceva strame, oltre che del Nuovo Testamento e dell’insegnamento della Chiesa, anche del senso comune dal momento che attribuiva la salvezza a priori all’intero genere umano, a prescindere (quale assurdità!) dal libero arbitrio, dall’intenzione, dalla volontà e dalla condotta di ciascuno.  In tal modo, il Cattolicesimo diventava una cosa poco seria: non più l’austera e grandiosa religione del vero Dio, Uno e Trino, che ci concede la salvezza e la vita eterna dopo averci messo alla prova nella lotta quotidiana contro noi stessi e aver sorretto con la Grazia il nostro intelletto e la nostra volontà in questa terribile lotta, ma una forma di religiosità formato pappa del cuore,  incline perciò ad ogni latitudinarismo, alla democrazia universale e ai “diritti umani”, alla realizzazione in qualche modo di una sorta di regno di Dio in terra, con la partecipazione di tutte le religioni.
Altri indiziati degli scritti anonimi dovevano ritenersi lo stesso de Lubac e comunque tutti coloro che propalavano dottrine errate sul significato dei Sacramenti, diffuse in particolare nel Movimento Liturgico tra le due guerre.  Nelle esternazioni anonime di Teilhard de Chardin compare dunque il principio del falso ecumenismo professato oggi dalla Gerarchia cattolica, a partire dal pastorale Vaticano II ossia dall’indirizzo “pastorale” imposto al Concilio dal “buon Papa Giovanni”, elevato da poco alla gloria degli altari non si sa con quali criteri, visto che né risulta una sua particolare santità di vita né che si possa attribuirgli alcun miracolo, per tacere del ruolo nient’affatto positivo da lui svolto nella fase iniziale del Vaticano II, in quanto supremo defensor fidei. Il principio del falso ecumenismo compare nella frase dell’anonimo che recita: “Una convergenza generale delle religioni verso un Cristo universale, che, al fondo, le soddisfa tutte; tale mi sembra essere la sola conversione possibile per il Mondo e la sola forma immaginabile di una Religione dell’avvenire”. Era l’aspirazione esaltata dei modernisti ad una Chiesa cattolica che si identificasse per l’appunto con  l’umanità e si dissolvesse in essa e nella democrazia universale, ad esser qui riproposta.  Teilhard de Chardin innestò l’evoluzionismo darwiniano sul pancristismo di Blondel: da qui le demenziali sue esternazioni sull’umanità in marcia unitaria verso il “punto omega” di una cosiddetta “noosfera”, rappresentato il punto dal “Cristo cosmico”. L’attuale Gerarchia postconciliare usa un linguaggio meno esplicito, in questo senso, ma l’utopia (non cattolica) di un’unità del genere umano da realizzarsi all’insegna del cosiddetto “Cristo universale”, pur vi compare, anche se in una forma linguistica che rinvia alle utopie millenaristiche del passato. Ciò risulta dalla Allocutio ‘Gaudet Mater Ecclesia’, con la quale Roncalli inaugurò il Concilio, l’11 ottobre 1962. Proponendosi di realizzare l’unità tra i cristiani, non esitò egli a dire, il Concilio “quasi prepara e consolida la via verso quell’unità del genere umano, che si richiede quale necessario fondamento, perché la Città terrestre si componga a somiglianza di quella celeste” (AAS, 54, 1962, pp. 786-795; p. 793-794. Corsivi miei. Si veda anche l’art. 1 della costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa.). Il Vaticano II sarebbe stato la Nuova Pentecoste che avrebbe aggiornato la missione della Chiesa, indirizzandola, invece che alla conversione delle anime, alla realizzazione dell’unità del genere umano, nella pace e nella fratellanza universali!

4.  Il pensiero di san Tommaso sistematicamente deformato. Colpiscono le ripetute deformazioni del pensiero di san Tommaso da parte di questi neomodernisti, colte implacabilmente da Garrigou-Lagrange. È difficile dire se si trattasse di ignoranza o malafede.  In ogni caso il loro pregiudizio verso la Scolastica e Aristotele appare tipico di chi non vuol capire perché animato dall’odio inguaribile dell’eretico per la verità rivelata e (conseguentemente) per la metafisica basata sulla recta ratio e il  senso comune, donatici dal Creatore affinché potessimo, tra le altre cose, comprendere le verità da Lui rivelate, per quanto possibile al nostro intelletto sorretto dalla Grazia.

5.  Il falso concetto di verità dei neomodernisti, ripreso dalla “filosofia dell’azione” di Blondel.  È evidente come i neomodernisti traessero ispirazione dalla “filosofia dell’azione” di Blondel, la cui condanna, pur firmata dal cardinale Merry Del Val, restò confinata a fonti di secondaria importanza. Non posso qui dilungarmi sulla filosofia dell’azione di Blondel.  Mi corre tuttavia l’obbligo di sottolineare la superficialità e la vaghezza del concetto di verità proposto da quel filosofo. Egli accusa il tradizionale concetto aritostelico-tomistico della “adaequatio rei et intellectus” di essere “chimerico”.  Non “chimerico” ed invece “realistico” sarebbe, al contrario, quello da lui proposto: “adaequatio realis mentis et vitae”.  Ora, se c’è un concetto esemplarmente “chimerico” nella sua ondivaga vaghezza è proprio quello di “vita”.  Che vuol dire?  Ci si può far rientrare di tutto. La “vita” sarebbe poi soprattutto “azione”, per Blondel.  Ma “azione”, come?  Come comportamento razionale secondo princìpi morali che trascendono l’azione stessa, rispondente ai canoni della causalità, del principio di contraddizione e di ragion sufficidente, o come “slancio vitale” che produce il proprio principio ispiratore per il fatto stesso del suo “slancio” e quindi sulla base del sentimento, del cuore, dell’indeterminato accavallarsi delle passioni e degli impulsi? La “filosofia dell’azione”, in quanto fondata sulla categoria della “vita”, sul “vitalismo”, appare del tutto irrazionale. Rimanda alla “filosofia della vita” di pensatori come Schleiermacher, al tendere indeterminato e narcisistico dei Romantici verso l’indefinibile Assoluto.  In Germania, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fu articolata in particolare da pensatori come Wilhelm Dilthey, che costruì il concetto dello spirito come “vita” nel senso di “esperienza vissuta” (Erlebnis) dalla coscienza individuale, da interpretarsi sempre storicamente e quindi secondo lo spirito del proprio tempo, la temporalità nella quale il soggetto si trova sempre immerso.  Da ciò un concetto storicistico di verità, sempre condizionata dal proprio tempo, le  esigenze del quale si riflettono nell’esperienza vissuta, nella “vita” appunto.  Tale concezione risulta chiaramente incompatibile con l’idea stessa di una verità rivelata da Dio, in quanto tale immutabile, perché le verità religiose e morali che essa annunzia (per esempio, l’indissolubilità del matrimonio) non possono per definizione esser sottoposte alla temporalità, ossia al giudizio che ne possa dare, nel tempo storico determinato, la mutevole coscienza dell’esperienza vissuta dal soggetto.
Si può dire che, storicamente, le filosofie della “vita”, dello “slancio vitale”, dell’azione abbiano rappresentato una reazione inevitabile contro i dogmi angusti e superficiali del positivismo dominante a fine Ottocento, con il suo scientismo, il suo materialismo, il suo determinismo, la sua irreligiosità, la sua generalizzata aridità spirituale.  Tuttavia, al di là di un’azione di rottura, cosa offrivano esse di costruttivo, soprattutto per il cattolico? Nulla, a ben vedere. Non rifiutavano il mito positivista del progresso, lo rinverdivano in una spiritualità confusa, narcisistica e sincretistica, incompatibile con il vero spirito religioso.  Inoltre, contribuivano ad inquinare la giusta concezione della verità, sia metafisica che religiosa, dissolvendo l’una e l’altra nell’irrazionale dello “slancio vitale” fine a se stesso e quindi nel soggettivismo  del sentimento, ivi incluso il “sentimento religioso”, in nome di una spiritualità fasulla che azzerava tutte le religioni, riducendole a mere istanze del sentimento individuale della “vita”.
 Va ribadito, invece, ad ulteriore sostegno degli ottimi argomenti di Garrigou-Lagrange, che il concetto del vero come “adaequatio “ o “concordantia rei et intellectus” ha un valore universale, immutabile, paradigmatico.  Nella scienza, esso resta fondamentale.  Albert Einstein non ha avuto il premio Nobel per la sua teoria della relatività ma per la sua teoria (all’epoca rivoluzionaria) sulla trasmissione della luce in pacchetti di energia o “fotoni”, presenti nel treno d’onde elettromagnetiche che pur costituisce il raggio di luce.  E questo, perché?  Perché la sua ipotesi sull’esistenza dei fotoni è stata sperimentalmente comprovata mentre la teoria della relatività è rimasta una teoria, per quanto geniale e stimolante anche per chi non la condivida.  È mancata per quest’ultima la conferma sperimentale ossia “la concordanza tra l’intelletto [l’ipotesi] e la cosa [qui la realtà esteriore, in una sua determinata configurazione]”.
Noi applichiamo questo concetto del vero (nel quale la res, quale essa sia, rappresenta una realtà oggettivamente diversa dal pensiero che la indaga e della quale esso deve dimostrare l’effettiva natura) nella vita di tutti i giorni, nella nostra filosofia pratica, nelle previsioni contenute nei giudizi con i quali ci conduciamo nei negozi quotidiani, verificate o meno queste previsioni dal loro avverarsi o meno secondo lo schema causale adoperato dal nostro intelletto: “se A, allora B”.  Secondo uno schema causale che considera sempre e la causa efficiente (chi l’ha fatto questo, cosa l’ha prodotto) e quella finale (perché, a qual fine). Non secondo un’idea indeterminata di “vita”, cioè di realtà in continuo e magmatico progresso, posseduta da un movimento che l’intelletto sia sempre costretto a rincorrere, registrandone magari a caso ciò che via via vi appare, come se costituisse l’unico vero da esso conoscibile.  E questo falso concetto di verità, che rende il nostro intelletto del tutto passivo di fronte alla cosiddetta “vita”, dominata dalle forze dell’azione, comprese le più oscure, si dovrebbe applicare anche alle verità di origine sovrannaturale della nostra religione!
Ma valga il vero:  la concezione evolutiva della verità, che la concepisce come un riflesso della “vita” in (supposta) perenne evoluzione, comporta per logica conseguenza il rifiuto di accettare il carattere immutabile del dogma e quindi, a ben vedere (magari anche senza rendersene conto) il dogma in quanto tale, dato che per quella concezione l’esistenza del dogma non impedisce affatto la ricerca costante del soggetto verso una “verità ulteriore”, che contenga “nuovi significati” e pertanto la possibilità di continue rettifiche. Si è visto che la dodicesima delle proposizioni della filosofia dell’azione condannate, recitava: “Anche se possiede la fede, l’uomo non deve adagiarsi nei dogmi della religione, e aderirvi in modo fisso ed immobile, ma darsi sempre pena di progredire ad una verità ulteriore, sia facendo evolvere verso nuovi significati sia correggendo ciò in cui crede”.  Ora, i modernisti affermavano in genere la loro fede nei dogmi insegnati dalla Chiesa e tuttavia li volevano mantenere aperti alla possibilità di “nuovi significati”, da esplorare con il contributo del pensiero moderno, forte delle sue metodologie scientifiche. Ma un dogma che ammetta, da parte di teologi e fedeli, la ricerca continua di una “verità ulteriore” rispetto a quella da esso proclamata, non è più un dogma.  I modernisti non sembravano rendersi  conto dell’intima contraddizione nella quale erano caduti, irrisolvibile per chi aveva fatto causa comune con il soggettivismo e l’immanentismo del pensiero moderno, nemico del principio di identità e non-contraddizione. Essi si trovavano anche disarmati di fronte all’empirismo brutalmente positivista della scienza moderna, che dovevano subire acriticamente, rifugiandosi nell’irrazionale (si pensi alla popolarità che godeva presso di loro quella torbida manifestazione della “vita” rappresentata dalla teosofia).
Oggi, AD 2015 agli inizi, l’errato concetto di verità come semplice adattamento alla “vita” e quindi ai costumi del Secolo miscredente, anche i peggiori, viene professato dalla parte deviata della Gerarchia cattolica (non si saprebbe quale altro aggettivo attribuirle) in modo solo in apparenza differente. Infatti, non si parla di adottare nuovi concetti o di ricavare “verità ulteriori” dai dogmi; anzi, si proclama l’intangibilità della dottrina. Tuttavia, si invoca l’applicazione di una pastorale che la contraddice apertamente, come è evidente nel caso clamoroso della recente proposta di amministrare la S. Comunione ai divorziati risposatisi, cioè a fedeli viventi consapevolamente ed apertamente in una situazione di peccato mortale e di pubblico scandalo, in spregio al Vangelo e agli insegnamenti del Magistero, situazione dalla quale non intendono uscire e che vogliono anzi veder riconosciuta proprio mediante atti quali la somministrazione della Comunione. Concedere la Comunione a costoro vorrebbe dire disconoscere nei fatti l’indissolubilità del matrimonio, stabilita ipsis verbis da Nostro Signore Gesù Cristo, legittimare il tradimento e l’adulterio, violare la dottrina cattolica sul Sacramento della Comunione, che prescrive l’aver ricevuto l’assoluzione dei propri peccati nella confessione auricolare, prima di accostarsi all’Ostia consacrata, se non si vuol commettere sacrilegio. Ora, invocare una pastorale che contraddice apertamente la dottrina della fede, che altro è se non proporre una nuova dottrina, svincolata dal dogma e ad esso contraria? La nuova dottrina è già nell’infame proposta!  E questa nuova dottrina che altro è se non una “perversione della nozione dell’eterna verità”, come spiegava san Pio X a proposito dei modernisti da lui giustamente condannati e cacciati dalla Chiesa?
 
6. Il tentativo di eliminare il concetto di “causa formale” dalla definizione del dogma della giustificazione.  Si è visto che  Bouillard dichiarava apertamente nel 1944 potersi ed anzi doversi sostituire la nozione aristotelico-tomistica di “causa formale”, impiegata dal Concilio di Trento nella definizione del dogma della giustificazione (sess. 6, capp. 6, 7 e can. 10).
“Forse per il fatto stesso – scriveva – dell’impiego di questo termine, il Concilio di Trento ha conferito un carattere definitivo alla nozione di grazia come forma [à la notion de grâce-forme]?”  In nessun modo, rispondeva. E perché? Perché “non era certamente intenzione del Concilio canonizzare una nozione aristotelica e nemmeno una nozione teologica concepita sotto l’influenza di Aristotele. Esso voleva solamente affermare, contro i protestanti, che la giustificazione è un rinnovamento interiore [mentre per gli eretici essa resta esteriore, dipendendo solamente dalla nostra fede nei meriti della Croce, senza che ad essa consegua il nostro rinnovamento interiore, ritenendo erroneamente Lutero esser l’uomo irrimediabilmente corrotto dal peccato originale]”.  Perciò il Concilio di Trento, continuava il Nostro, si era limitato ad “utilizzare nozioni comuni alla teologia del tempo. Ma ad esse se ne possono sostituire delle altre, senza modificare il senso dell’insegnamento del Concilio”.
Dunque, l’uso di nuovi concetti (che sono sempre quelli del “proprio tempo”, come percepito nell’esperienza “vitale” del soggetto) non modificherebbe il senso dell’insegnamento e quindi non inciderebbe sul dogma. Si tratterebbe di cambiare la forma senza incidere sul contenuto, il rivestimento esteriore non la sostanza della dottrina, per esprimermi nel posteriore linguaggio della roncalliana Allocutio, sopra ricordata (essa propugna anche quest’ulteriore e pericoloso, non cattolico principio, come tutti sanno). Bouillard riteneva evidentemente possibile trovare dei nuovi concetti teologici, svincolati dalla metafisica classica, che non modificassero il senso dell’insegnamento.
La concezione di Bouillard implicava chiaramente una concezione evolutiva della verità, da applicarsi al dogma. Perché proponeva il cambiamento di concetti? Perché – questo era il suo principio generale – ogni definizione dogmatica si esprime sempre secondo concetti del proprio tempo: ne consegue, allora, che il Concilio di Trento ha usato la categoria aristotelica in questione solo perché era corrente al suo tempo, non perché volesse dare un “carattere definitivo” alla sua definizione. Ma far intendere una cosa del genere, non è come dire – osservo – che non esiste un concetto di verità che sia indipendente dalle necessità e dalle idee dominanti al proprio tempo e quindi che possa esser definito in modo da acquistare un “carattere definitivo”? E se non può mai acquistare tale carattere, allora la verità è perpetuamente in evoluzione. Dovremmo poi ritenere che anche i Padri di Trento fossero convinti del fatto che il concetto del vero è sempre figlio delle necessità del proprio tempo e quindi non può acquisire mai un carattere “definitivo”, dal momento che essi hanno usato della categoria aristotelica solo perché era ancora in voga a quell’epoca? Sembrerebbe di sì, dalle parole di Bouillard.
Ma attribuir loro, anche implicitamente, un’intenzione simile è palesemente assurdo, come ognuno può ben capire.  E difatti Garrigou-Lagrange ha buon gioco nel replicare che il Tridentino non si preoccupava di canonizzare concetti artistotelici in quanto tali. Invece, esso approvò l’impiego di quel concetto (della “causa formale”) “come una nozione umana stabile, nel senso nel quale noi tutti [senza saper nulla di Aristotele] indichiamo ciò che costituisce formalmente una cosa: qui, la giustificazione. In questo senso il Tridentino parla della grazia santificante [che è la causa formale della giustificazione] distinta dalla grazia attuale, specificando che essa è un dono sovrannaturale, infuso, che inerisce all’anima e per il quale l’uomo è formalmente giustificato [cioè considerato alla fine giusto da Dio e accolto nel Suo Regno: DS, 1529,1560]. Se i Concili, prosegue Garrigou-Lagrange “definiscono la fede, la speranza, la carità come delle virtù permanenti, il loro principio radicale (la grazia abituale o santificante) deve anch’esso esser inteso come un dono infuso permanente e pertanto distinto dalla grazia attuale [che è temporanea] o da un influsso [motion] divino transitorio”.
La replica di Garrigou-Lagrange mi sembra ineccepibile.  Il Tridentino non voleva certamente mettersi a filosofare e tuttavia voleva giustamente servirsi di una “nozione umana stabile”, non soggetta a mutamenti od evoluzione checchesia. E questa nozione è quella di “ciò che costituisce formalmente una cosa”.  Formalmente, in che senso? Non nel senso di esteriormente, l’ unico oggi attribuito all’espressione, ma in quello della compiutezza di ciò  che si configura come esistente, si tratti di realtà sensibile o spirituale. E quindi, nel senso di ciò che si costituisce secondo la sua forma specifica, quella che ne esprime compiutamente la natura o essenza.  Come quando diciamo che la forma-uomo, nella quale si esprime la sua natura di uomo, individua l’uomo rispetto a tutto il resto (forma dat esse rei).
È stato Aristotele a cogliere questo significato nel concetto della forma.  Nelle celebri pagine della Fisica nelle quali espone i quattro tipi di causalità, egli dice che nella natura si ha sempre la “forma e il modello” grazie al quale ciò che è nella natura è ciò che è (Aristotele, La Fisica, tr. it. di A. Russo, Laterza, Bari, 1968, p. 36; Phys., 194 b, 25).  La “forma” di una cosa è, pertanto, da un certo punto di vista, “causa” di una cosa.  Gli Scolastici hanno poi chiamato “causa formale” l’azione causale di questa “forma”.  Nell’esempio di scuola, la forma della coppa d’argento è l’idea o modello in base al quale viene plasmato l’argento, che è causa materiale della coppa stessa, essendone nell’esempio la materia da cui viene tratta.  La materia viene costituita in un ente od oggetto secondo una forma che è il modello (qui, la coppa) su cui la materia si plasma, ad opera dell’artefice (causa efficiente) per un determinato fine (causa finale). Essa è dunque causa del fatto che l’argento assume quella determinata forma, la forma di quella coppa.
La causa formale non è qualcosa di secondario o accidentale, che può esserci o non esserci:  la forma è intesa qui nel senso dell’idea o modello, di quell’immagine in base alla quale la materia viene organizzata (l’immagine o idea ha infatti necessariamente una forma).  Senza di essa la materia resterebbe appunto informe, un caos senza capo né coda e non potrebbe nemmeno esser causa di nulla.  La causa formale è all’opera in tutta la realtà sia organica che inorganica ed opera già dentro il mondo della materia.  L’elettrodinamica quantistica ha rivelato la straordinaria stabilità della materia (secondo precise simmetrie) anche nel suo più intimo sostrato, costituito dal mondo delle particelle subatomiche, stabilità che è il risultato di un ordine (una forma) che può originarsi solo dall’azione di una causa formale e quindi dall’azione consapevole di un Agente.  Pertanto, possiamo dire che la realtà materiale, biologica, della pianta implica l’idea o la forma ad essa anteriore della pianta; la realtà fisica, biologica dell’uomo, l’idea dell’uomo.  La materia necessita di una forma determinata nella quale attuarsi e quindi di una causa formale che, come tale, è qualcosa di diverso dalla materia stessa e la precede.  Infatti, una cosa è la materia di cui è fatta la coppa, altra cosa l’idea stessa della coppa, per cui la coppa reale va concepita come una sintesi di materia e forma.
Tornando al nostro argomento, la “materia “ è qui del tutto spirituale, è l’anima dell’uomo. Essa deve assumere quella forma gradita a Dio, che è costituita dalla perfezione interiore, se vuole esser giustificata e salvarsi. E come raggiunge l’uomo questa forma, come riesce ad essere ciò che deve essere in relazione al fine per il quale  l’uomo è l’uomo? Ovvero in relazione al fine della salvezza, che gli consente di godere per l’eternità della Visione Beatifica? Con le sue sole forze?  Impossibile, ci insegna la dottrina della Chiesa. L’ottiene mediante l’opera della “grazia santificante”, causa formale della giustificazione. La Grazia santificante, inerendo gratuitamente alla nostra anima, integra in modo decisivo l’azione del nostro libero arbitrio, costituendoci formalmente come ciò che dobbiamo essere secondo la nostra vera natura, di esseri creati da Dio per regnare un giorno con Lui “in patria”, cioè in Cielo:  costituendoci cioè come giusti, secondo la terminologia tradizionale.
Ora, si chiede Garrigou-Lagrange, come è possibile mantenere il senso di questo insegnamento del Tridentino, cioè che “la grazia santificante è la causa formale della giustificazione”, se “si sostituisce una diversa nozione a quella di causa formale?”.  Non è possibile.  Lo possiamo ben confermare noi, dopo cinquant’anni di interpretazioni pastorali del dogma, aggiornate alle esigenze della “vita” ossia del sentimento e del pensiero del “proprio tempo”, che è il sentire, il pensare moderno, improntato al principio d’immanenza, notoriamente avido di ogni sperimentazione e novità, anche in campo etico: la maggioranza dei cattolici crede oggi che il male non esista, che tutti gli uomini siano già stati giustificati dall’Incarnazione di Cristo Nostro Signore.  Tutti salvati. Todos caballeros.  La salvezza si è già realizzata per tutti e l’Inferno (se esiste) è in realtà vuoto.

7.  Domanda finale: perché l’autorità suprema non ha saputo combattere il risorgente modernismo, di chi soprattutto la colpa?  Risposta:  del successore di Pio XII, Giovanni XXIII.  Il lettore si chiederà a questo punto:  ma l’autorevole e documentata denuncia di Garrigou-Lagrange è rimasta inascoltata? In realtà, non lo è stata.  Il Papa allora regnante, Pio XII, intervenne dopo qualche anno con la famosa enciclica Humani generis, del 12 agosto 1950, definita da qualcuno (Romano Amerio) “il terzo sillabo”. In essa, il Romano Pontefice denunciava “alcuni gravi errori contro la fede cattolica, particolarmente dannosi se professati o insegnati da docenti cattolici, nelle scuole cattoliche”. L’enciclica, come è noto, censurava numerosi indirizzi del pensiero moderno e metteva sotto accusa, pur non chiamandoli per nome, quei teologi che avevano l’errata ed assurda pretesa di “esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema”. Riprovava inoltre altre storture che si professavano in campo esegetico e liturgico.  Invitava infine le autorità competenti a prendere gli opportuni provvedimenti. E difatti, i vari de Lubac, Bouillard, Rahner, Congar, Küng e sodali furono costretti al silenzio, sospesi dall’insegnamento, le loro opere tolte dalla circolazione. Ma il linguaggio dell’enciclica era moderato, non si pronunciavano condanne solenni, non si facevano nomi, i provvedimenti contro i teologi fedifraghi furono in genere presi in modo informale. Costoro si misero comunque a recitare la parte dei perseguitati senza abiurare uno che fosse uno dei loro numerosi e gravi errori. Tacquero ed attesero, forti delle protezioni che pur avevano. E difatti le cose cambiarono completamente con il pontefice successivo,Giovanni XXIII, l’uomo del “dialogo”. Asceso al sacro soglio nell’autunno del 1958, nel gennaio del 1959 indisse il Concilio, in seguito, disse, ad un’improvvisa ispirazione dello Spirito Santo.  Ora, il concilio preparato in tre anni di duro lavoro dai teologi della Curia, ascoltati i pareri di tutti i vescovi che avessero voluto darli, sotto la supervisione del Papa, del cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio e del segretario di quella Congregazione, il gesuita olandese P. Sebastian Tromp, non si contrapponeva di certo alla Humani generis; anzi, ne ampliava e perfezionava l’impostazione.   In almeno due degli schemi di costituzione dogmatica, la condanna degli errori moderni, sui quali faceva leva il risorgente modernismo, era ampia, articolata, netta e radicale, anche se espressa con i toni sfumati imposti dall’irenismo professato da Roncalli. E ugualmente netta era la censura delle deviazioni che si andavano profilando nell’esegesi e nella teologia cattoliche. Si batteva in breccia anche la corruzione dei costumi che cominciava a diffondersi nella società consumistica (edonismo di massa e rivoluzione sessuale agli inizi). Se il Concilio avesse potuto seguire il suo naturale e doveroso corso di concilio dogmatico, ben preparato com’era stato dai migliori teologi ortodossi, sì da potersi concludere con le opportune condanne solenni degli errori, per i neomodernisti sarebbe stata una disfatta di proporzioni immani, forse definitiva.  Invece essi, rappresentati in Concilio dai ben noti cardinali della cosiddetta “Alleanza europea” (e più esattamente renana: franco-belga-olandese-tedesca-austriaca) con appendici in Italia (Montini, Lercaro), Sud America (Câmara) e NordAmerica; pur essendo una minoranza, riuscirono a rovesciare la situazione grazie all’acquiescenza complice di Papa Roncalli.  Ciò risulta dai seguenti fatti, che espongo qui succintamente:
  1. Giovanni XXIII permise che nella fase preparatoria fossero inseriti tra gli esperti o “consultores” della commissione che si occupava dello schema di costituzione  sulla riforma liturgica, proprio i teologi censurati e costretti al silenzio sotto Pio XII per le loro cattive e mai ritrattate dottrine.  Notò lo storico Levillain:  “La composizione di questa commissione faceva vedere che si era praticata una larga apertura.  Tra i consultori si notava la presenza dei Padri Congar, de Lubac, Hans Küng etc.  Tutta la squadra dei teologi condannati implicitamente dall’enciclica Humani generis nel 1950 era stata chiamata a Roma per volontà di Giovanni XXIII.  Il Concilio si apriva in un’atmosfera di riconciliazione…” (Ph. Levillain, La mécanique politique de Vatican II.  La majorité et l’unanimité dans un concile, con prefaz. di R. Rémond, Beauchesne, Paris, 1975, p. 77).  Di “riconciliazione” con l’errore, bisognerebbe dire, visto che nessuno degli erranti “riconciliati” si era pentito e pubblicamente ritrattato!
  2. Lasciò che i cardinali novatori, con una serie di iniziali e ben studiati colpi di mano procedurali, alterassero illegalmente lo svolgimento del Concilio, riuscendo a conquistare la maggioranza nelle dieci commissioni incaricate di redigere gli schemi dei documenti da votare in aula.  In tal modo furono mandati al macero tutti gli schemi preparatori, tranne quello sulla liturgia perché parzialmente gradito ai novatori, grazie anche alla massiccia presenza nella fase preliminare della sua elaborazione della torva genía appena menzionata qui sopra, al § 1. Le nuove commissioni cominciarono a riscrivere i documenti da votare secondo un’impostazione che rivelava l’infiltrazione neomodernista. Cominciò così una dura, triennale battaglia contro la minoranza “conservatrice”, mentre la palude, cioè la stragrande maggioranza dei vescovi, stava a guardare, cercando di capire da quale parte si sarebbe schierato il Papa. Paolo VI, proseguendo nel solco tracciato da Roncalli, si schierò con i neomodernisti, dei quali per temperamento e sensibilità faceva parte (era un devoto ammiratore di de Lubac, come del resto Giovanni Paolo II, suo amico personale, che lo fece addirittura cardinale). Tuttavia, come Papa e per salvaguardare almeno in parte il potere che gli derivava (per diritto divino) dal primato petrino, Paolo VI dovette intervenire più volte per temperare certi eccessi (anche se in genere questi suoi interventi non erano spontanei ma provocati dalla pressione della minoranza che difendeva il dogma). Alla fine, pur costretta a qualche compromesso, vinse, come sappiamo tutti, la “nouvelle théologie” vanamente denunciata a suo tempo da Garrigou-Lagrange, improntando di sé non solo lo stile, l’atmosfera dei documenti conciliari ma anche le loro dottrine, ambigue ed erronee su punti essenziali della nostra fede.
Tutti quelli che credono poter rinascere un domani la Chiesa senza dover preliminarmente mettere in discussione e riformare o cassare il pastorale Vaticano II; senza dover passare per le fiamme di un’autentica e radicale purificazione dottrinale, errano grandemente.  Sono come il moscone che va a sbattere continuamente ed inutilmente contro i vetri trasparenti della finestra chiusa che lo separa dalla libertà, non rendendosi conto della loro esistenza.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

"Il tentativo di eliminare il concetto di “causa formale” dalla definizione del dogma della giustificazione."

La dichiarazione della Comissione Teologica Internazionale di cattolici é luterana del lontano 1999 mantiene il concetto di causa formale?

Anonimo ha detto...

FT, sul primo articolo della giornata.
Qualcuno ha chiesto ieri lumi sulle affermazioni secondo le quali nel Donbass occupato dai russi la Chiesa cattolica sarebbe duramene perseguitata. Dove sono le fonti?
Una fonte la troviamo in un articolo apparso su Life Site News del 20 febbraio 2025. Chi conosce l'inglese lo può reperire facilmente: prema "Search" sulla home page del sito e nel primo rettangolo in alto a sinistra scriva: "Archbishop of Kiev Report". Poi clicchi. Tanto basta per veder apparire l'articolo. Di cosa si tratta?
Di un recente intervento dell'Arcivescovo Maggiore di Kiev, mons. Sviatoslav Shevchuk (capo della Chiesa greco-cattolica ucraina) ad una Preghiera Ecumenica per la pace in Ucraina tenutasi nella Cattedrale Basilica di San Pietro e Paolo a Philadelphia.
In sintesi: l'arcivescovo ha ripetuto quanto da lui detto in precedenza in simili eventi. La Chiesa cattolica ucraina per 45 anni è sopravvissuta nelle catacombe. Ogni volta che la Russia occupa l'Ucraina, la Chiesa cattolica viene perseguitata. Oggi la storia si sta ripetendo. "Quasi tutte le nostre parrocchie sono state distrutte, chiese e monasteri sono stati occupati e le loro proprietà confiscate".
L'articolo citava un rapporto del Dipartimento di Stato, del 2023, che riferiva di un appello al Consiglio di Sicurezza dell'ONU da parte di tutte le religioni presenti in Ucraina (Ortodossi, Cattolici di rito greco e latino, Protestanti, Musumani, Ebrei) : "la guerra ha apportato enormi sofferenze a tutti. In undici mesi i russi hanno distrutto o saccheggiato più di 270 chiese ed edifici sacri, ucciso e torturato a morte dozzine di sacerdoti [Clergymen]. Dove arrivano i russi, cessa la libertà di religione. Essi torturano gli Ortodossi "sbagliati", dileggiano i Cattolici, mettono in prigione i Musulmani, cacciano i Protestanti, perseguitano i Testimoni di Geova". Sono state bandite anche associazioni cattoliche come i Cavalieri di Colombo e la Caritas.
Molte le chiese distrutte.
L ' articolo ricordava che il governo ucraino ha proceduto anch'esso alla persecuzione degli Ortodossi fedeli al Patriarcato di Mosca. Nel marzo del 2023 l'Alto Commissario ONU per i diritti umani, ha criticato il governo ucraino per aver invaso le proprietà del clero ortodosso filomoscovita e aver arrestato alcuni sacerdoti ortodossi.
Si possono trovare anche altri fonti.

Anonimo ha detto...

La famigerata Dichiarazione Congiunta con i Luterani sulla Giustificazione mantiene forse il concetto di "causa formale"?
Giusta domanda. Per rispondere deve prima rileggermi l'infausta Dichiarazione Congiunta
pp

Anonimo ha detto...

FT - ancora sulle fonti della persecuzione della religione cattolica nel Donbass preso dai russi.

Nello stesso articolo LSNews rinvia ad una delle fonti in materia, lo Institute for Religious Freedom, che è filoucraino. Il rapporto citato si intitola : "630 luoghi di culto distrutti o danneggiati dalla guerra [in Ucraina]".
Si apprende che la maggior parte delle distruzioni prodotte dai russi fu dovuta a cause belliche : missili, drone kamikaze, colpi d'artiglieria, inclusi quelli che miravano ad obbiettivi civili [nelle vicinanze, si suppone]. Alcuni luoghi di culto furono deliberatamente saccheggiati dai soldati russi oppure chiusi o convertiti dalle autorità d'occupazione in centri amministrativi.
Segue un breve elenco dettagliato, regione per regione.
Le chiese ortodosse sono quelle che hanno sofferto le maggiori distruzioni e/o danni.
Secondo il rapporto, nelle zone occupate le autorità filorusse stanno procedendo ad una russificazione intensiva, in tutti i campi. Esse impongono una ideologia che si chiama "mondo russo" (Russkij Mir) e non lascia spazio alle minoranze. Tale ideologia viene giustificata con la necessità di "denazificare" e "desatanizzare" l'Ucraina.

Anonimo ha detto...

LA CHIESA DELLE SFUMATURE DI GRIGIO.
LA CHIESA DEL BIANCO E NERO.

"Negli ultimi anni molti ecclesiastici cattolici hanno avuto la tendenza a trattare come grigie questioni che la Chiesa ha sempre ritenuto in bianco e nero, e come bianche e nere questioni che la Chiesa ha sempre ritenuto grigie. Si pensi, ad esempio, a questioni come: Possono ricevere la Santa Comunione coloro che hanno una relazione adulterina e che non hanno un fermo proposito di emendarsi? Le coppie omosessuali o fornicanti possono ricevere la benedizione?

La Chiesa ha sempre insegnato "Assolutamente no", anche se ha cercato di trattare con delicatezza coloro ai quali ha dovuto dire questo fermo No. Ma molti ecclesiastici oggi pretendono che ci siano delle sfumature che impediscono una risposta così inequivocabile, anche se in realtà è la risposta che la dottrina della Chiesa comporta.

Consideriamo ora domande come: È mai lecito giustiziare un criminale colpevole dei reati più gravi? È lecito deportare chi è entrato illegalmente in un Paese? La Chiesa ha sempre insegnato che si tratta di questioni di giudizio prudenziale che richiedono la ponderazione di una serie di considerazioni. Ha affermato che la pena di morte non è intrinsecamente sbagliata, ma che bisogna tener conto anche delle considerazioni sul fatto che sia un deterrente, che la giustizia e la sicurezza possano essere mantenute senza di essa, ecc. e che si tratta di questioni sulle quali persone ragionevoli possono essere in disaccordo. E ha affermato che, mentre in generale gli immigrati dovrebbero essere accolti, una nazione ha il diritto di porre dei limiti all'immigrazione alla luce di considerazioni sul benessere economico del Paese ricevente, sulla possibilità di assimilazione, ecc.

Ma molti uomini di Chiesa oggi si rifiutano di riconoscere qualsiasi sfumatura in queste questioni, e pretendono invece che la risposta sia "Assolutamente no", anche se nessuna risposta così inequivocabile può essere giustificata in riferimento ai principi dottrinali pertinenti. E non mostrano alcuna gentilezza nei confronti di coloro che non sono d'accordo, attribuendo loro solo le peggiori motivazioni.

L'unico schema coerente in questo caso è che l'incoerenza riflette sempre un orientamento politico di sinistra - mentre coloro che si oppongono a questo schema, anche se stanno semplicemente sostenendo ciò che la Chiesa ha detto per due millenni, sono accusati di fare in qualche modo politica di destra."

Edward Feser, autore e professore di filosofia

Anonimo ha detto...

Trump vuole introdurre la pena di morte per quelli che ammazzano gli agenti di polizia, fatto non raro nel far west che sono diventate molte città americane.

Anonimo ha detto...

Risposta alla domanda: "La Dichiarazione congiunta con i luterani sulla Giustificazione" mantiene forse il concetto di "causa formale"?

Sono andato a rileggermi il testo in questione. NO, non la mantiene, nel modo più assoluto. La Dichiarazione consta di 44 paragrafi, seguiti da qualche pagina di citazione delle fonti, in prevalenza luterane.
Su questo documento, un unicum nella storia della Chiesa, bisognerebbe fare un discorso articolato. Qui posso solo limitarmi a riportarne alcuni passi.

1. Innanzitutto, la Dichiarazione Congiunta non riconosce più il valore dogmatico dei dogmi stabiliti dal Concilio di Trento.
Infatti: "...la Dichiarazione congiunta permette di formulare un consenso su verità fondamentali della dottrina della giustificazione alla luce del quale le condanne dottrinali del XVI secolo [Conc. Tridentino] ad essa relative oggi non riguardano più la controparte" (par. 13).
"Con ciò, le condanne dottrinali del XVI secolo, nella misura in cui esse si riferiscono all'insegnamento della giustificazione, appaiono sotto una nuova luce: l'insegnamento delle Chiese luterane presentato in questa Dichiarazione non cade sotto le condanne del Concilio di Trento. Le condanne delle Confessioni luterane non colpiscono l'insegnamento della Chiesa cattolica romana così come esso è presentato in questa Dichiarazione" (par. 41).
"Con questo non si vuole duttavia togliere nulla alla serietà delle condanne dottrinali legate alla dottrina della giustificazione. Alcune di esse non erano semplicemente senza fondamento [!!!]. Per noi, esse mantengono 'il significato di salutari avvertimenti' di cui dobbiamo tenere conto nella dottrina e nella prassi (part. 42).
Quindi: dagli anatemi ai "salutari avvertimenti", espressione citata dagli scritti confessionali dei luterani. Con affermazioni del genere tutto l'impianto dogmatico non solo del Tridentino ma dell'intero plurisecolare magistero viene a cadere. Non aveva ragione la FSSPX nel 2004 ad accusare l'insegnamento di Giovanni Paolo II di aver posto in essere una "apostasia silenziosa"? I principali responsabili ad alto livello di questa Dichiarazione scandalosa sono stati Papa Wojtyla e l'allora cardinale Ratzinger.

2. Ci sono poi alcuni paragrafi che a mio modesto avviso emanano un tanfo d'eresia lontano un miglio.
Par. 15 : "Insieme confessiamo che non in base ai nostri meriti, ma SOLTANTO per mezzo della grazia, e NELLA FEDE nell'opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere".
Par. 17 : "Condividiamo anche la convinzione che [...] essa [l'azione salvifica di Dio in Cristo] ci dice che noi, in quanto peccatori, dobbiamo la nostra vita nuova SOLTANTO alla misericordia di Dio che perdona e che fa nuove tutte le cose, misericordia che noi possiamo ricevere SOLTANTO COME DONO DELLA FEDE ma che NON POSSIAMO MERITARE MAI IN NESSUN MODO".
Par. 19 : "Insieme confessiamo che l'uomo dipende INTERAMENTE per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio [...] La Giustificazione avviene SOLTANTO per opera della grazia".
Par. 37: Insieme confessiamo che le buone opere - una vita cristiana nella fede nella speranza e nell'amore - sono la CONSEGUENZA della giustificazione e ne rappresentano i frutti...".
pp

Gederson Falcometa ha detto...

Caro PP,

Grazie per la risposta (la domanda era mia).

Alla luce di ciò che già abbiamo parlato, questa dichiarazione appare più problematica. Quando parlano di grazia, ad esempio, non se capisce che la dottrina di fondo sia quella della grazia dovuta alla natura? Se la grazia è dovuta alla natura abbiamo ancora il bisogno di avere fede?

Nel post Da Pio X a Francesco: dal modernismo espulso al modernismo intronizzato - https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2025/02/da-pio-x-francesco-dal-modernismo.html?m=1#comment-form - ho fatto una serie di commenti cerca il libro di "Rivelazione, ermeneutica e sviluppo dottrinale in Joseph Ratzinger Un contributo indiretto alla sinodalità” di D. Mauro Gagliardi del quale faccio un riassunto:

Nel branno che ho cittato del libri di D. Mauro lui ci parla dell'adesione di Ratzinger alla tesi 20 condannata per il decreto Lamentabili nella sua tesi "La teologia della storia di S. Bonaventura. Afferma che lui è andato a S. Bonaventura, S. Alberto Magno e Durando di San Porciano, per dire che l'idea di chi la rivelazione si è finita con la morte dell'ultimo apostolo sarebbe strane
a ai due grandi santi e a Durando. Se tratta del vizio dei neomodernisti di andare indietro al momento che la questione è ancora aperta per chiudere loro stessi.

D. Mauro in una nota (da me non citata...) spiega che la proposizione è stata anatemizzata dal decreto Lamentabili, e vi pone una certa enfasi. Ciò che non spiega è che l'adesione a una proposizione del decreto equivale all'adesione a una o a tutte le proposizioni (come spiegato nel Breve Commento della rivche ho pubblicato). Nello specifico, la proposta 21 è direttamente collegata alla proposta 20 che afferma:

La rivelazione non potè essere altro
se non che la coscienza, acquisita dall’uomo, della sua relazione verso Dio.

Cercando qualche commento al decreto, ho trovato quello di Mons. Francesco Heiner, dove dice sulla proposizione 20:

"La presente Tesi è tolta a parola dalla citata opera del signor Loisy: Autuour d’un petit livre, pag. 195.

Dal modo come egli espone la sua teoria appare chiaramente, che egli confonde le due specie di rivelazioni fatteci da Dio o, per meglio dire, non ammette altra rivelazione fatta all’uomo all’infuori della naturale. “Per poco che si rifletta, così egli si esprime, e quali che siano le circostanze esteriori, a cui si sono collegati nell’uomo il risveglio ed i progressi della coscienza religiosa, ciò che si chiama rivelazione non ha potuto essere altro che la coscienza acquisita dall’uomo della sua relazione inverso Dio”". MONS. FRANCESCO HEINER: COMMENTO AL DECRETO LAMENTABILI SANE EXITU - TESI 20 - https://pascendidominicigregis.blogspot.com/2025/03/mons-francesco-heiner-commento-al.html

Loisy, come de Lubac, confonde il naturale e il soprannaturale. Non me ricordo bene, ma il cardinale Journet accusa de Lubac di non distinguere più tra filosofia e teologia a causa della confusione tra naturale e soprannaturale. È solo una coincidenza?

Gederson Falcometa ha detto...

Ratzinger, spiegando lo schema che ha sostituito quelli elaborati dalla Curia romana, sulle due fonti della rivelazione, dirà che la tesi di Geilseman porterà la discussione praticamente alla Sola Scriptura e ciò che lo ha aiutato è stata la sua comprensione bonaventuriana della rivelazione (cioè che la rivelazione non è finita con la morte dell'ultimo apostolo?). Quindi, in effetti, secondo loro, come il sig. afferma, il Concilio di Trento non è più dogmatico, né lo è il Vaticano I (e neppure l'anatema è più anatema).
Proprio per un'adesione solo alla rivelazione naturale, Benedetto XVI può dire che "i nostri martiri sono morti anche per la libertà religiosa", togliere Epulone dall'inferno e presentarlo come il destino di persone al livello di Hitler (Spes Salvi), che il sacrificio di Nostro Signore non è stato espiatorio, ecc. Questo problema è presente nella ragione stessa per cui è stato convocato il Concilio, l'aggiornamento.

Nell'altro post, il sig. puo leggere molto di più. Qui mi limito a fare questo breve riassunto.

Un Caro saluto dal Brasile

Gederson Falcometa ha detto...

"Domanda finale: perché l’autorità suprema non ha saputo combattere il risorgente modernismo, di chi soprattutto la colpa?"

Professore, aveva un progetto tra 56 e 58 di fare una lettera enciclica contra la Nouvelle Théologie che sarebbe una nuova Pascendi, vedi

«L’Enciclica Pascendi dei tempi moderni» Il progetto per l’ultima enciclica di Pio XII (1956‑58) di Sabine Schratz e Daniele Premoli
https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/article/journal-of-modern-and-contemporary-christianity/2024/1/art-10.30687-JoMaCC-2785-6046-2024-01-005.pdf

Anonimo ha detto...

Dio lo ha permesso, ci basti la Sua grazia!