Sempre più disorientati dal nuovo corso della Dottrina della Fede regredita a Dicastero, siamo lieti di pubblicare la corposa efficace analisi di Paolo Pasqualucci sulla Dichiarazione Dignitas infinita, che va ad aggiungersi al suo precedente intervento qui ed al suo libro qui sul senso autentico di dignità. Nel lavoro che segue, la sua mens di studioso, unita al suo cuore di credente, gli ha fatto cogliere e argomentare da par suo le cause prossime e remote di una variazione così sconcertante da poter essere definita senza mezzi termini una nuova dottrina. Tra le inedite sottolineature delle teorie spurie che hanno infestato la nuova dichiarazione, spicca il tentativo di Ratzinger/Benedetto XVI, quando era cardinale, di razionalizzare il dogma della predestinazione, dimostrandone l'inconcludenza nonché la debolezza concettuale. Qui l'indice dei precedenti.
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È la dignità dell’uomo “infinita”?
Riflessioni sull’origine di una nuova dottrina.
di Paolo Pasqualucci
Indice:
1. La Dichiarazione “Dignitas infinita sulla dignità umana”, dell’8 aprile 2024. 2. – La “dignità dell’uomo”, un valore “infinito”? 3. Papa Francesco esalta la dignità dell’uomo come valore assoluto di origine divina 4. “Immagine” o “Immagine e somiglianza”? 5. Una “dignità dell’uomo” frutto di una nuova dottrina, non conforme alla Tradizione della Chiesa. 6. La “cristologia” spuria di GS 22 all’origine della “dignità dell’uomo infinita” diffusa dal Documento vaticano. 7. Anche papa Francesco occulta il dogma del peccato originale, deformato da GS 22.2: 7.1 Una “redenzione” in senso solo “oggettivo”. 7.2 La falsa unione con Dio del genere umano irredento, stravolgendo il senso di Gv 17, 22. 8. L’antropologia di papa Francesco continua quella dei predecessori : analisi di ‘Redemptor hominis’, di papa Giovanni Paolo II, par. 13. 9. Secondo Benedetto XVI, “l’immagine e somiglianza di Dio” si sono sempre mantenute in noi perché “Dio è amore”: 9.1 Ratzinger cancella di fatto la nozione cattolica della predestinazione. 9.2 La “somiglianza” e “l’immagine” permangono immutate in noi. 9.3 Ratzinger “smaterializza” il significato della Croce. 9.4 Il Cristianesimo immiserito a “pappa del cuore”. 10. Postilla sulla scorretta metodologia dei “nuovi teologi”, fabbrica di concetti confusi.
1. - La Dichiarazione “Dignitas infinita sulla dignità dell’uomo” dell’8 aprile 2024.
Victor Manuel cardinal Fernández, Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, ha pubblicato l’8 aprile 2024 un documento che verte sulla dignità dell’uomo messa in pericolo dalle deviazioni morali oggi dilaganti e dalle cattive leggi che le favoriscono. Il Documento si intitola: Dignitas infinita circa la dignità umana. Il papa l’ha approvato in udienza e ne ha ordinato la pubblicazione. Dal Concilio Vaticano II la nozione della “dignità dell’uomo” è diventata il vero e proprio cavallo di battaglia della Gerarchia: la sua difesa e restaurazione, ove la si ritenga offesa, viene proclamata quale vero e proprio cardine della missione della Chiesa. In pratica, ha sostituito la salvezza delle anime quale compito istituzionale della Chiesa, prescritto dal suo divino fondatore (Mt 28, 18-20).
La Dichiarazione, preceduta da una Presentazione, consta di 66 paragrafi, alcuni brevissimi altri lunghi, seguiti da 116 note, la maggior parte delle quali di semplice riferimento. L’Introduzione fissa il concetto di “dignità umana” (1-10). Segue un breve excursus storico, dall’antichità alla Bibbia ai tempi moderni (11-16). Si precisa poi che la dignità umana rappresenta un valore essenziale per la Chiesa (17-22) e deve esser ritenuto il fondamento dei diritti e dei doveri umani (23-32). Dal par. 33 sin quasi alla fine (par. 62) si denunciano “alcuni gravi violazioni della dignità umana”: un elenco nel quale si trovano in verità elementi disparati (dalle condizioni di vita di estrema povertà, al “travaglio dei migranti”, alla pena di morte – par. 34) ed alcune rilevanti lacune (si tace, ad esempio, sulla questione omosessuale). Gli ultimi quattro paragrafi contengono una Conclusione.
Le violazioni della dignità umana contro le quali “la Chiesa prende posizione” sono le seguenti:
il dramma della povertà – la guerra – il travaglio dei migranti – la tratta delle persone – la violenza contro le donne – l’aborto – la maternità surrogata – il suicidio assistito e l’eutanasia – il trattamento dei disabili – la teoria del gender – il cambio di sesso – la violenza digitale (cyberbullismo) – la pena di morte.
Questo Documento è stato apprezzato da esponenti cattolici fedeli alla Tradizione, criticato da altri, pur fedeli alla Tradizione. Apprezzato soprattutto perché, dopo ripetute richieste, il documento finalmente condanna la maternità surrogata (detta popolarmente “utero in affitto”), l’eutanasia e il suicidio assistito, la teoria del gender, il transgenderismo, tutti mali gravi che negli ultimi anni si sono diffusi a macchia d’olio. La critica, invece, sottolinea il silenzio sulla questione omosessuale, diventata grave in Occidente, e sulla generale superficialità delle argomentazioni usate, che sembrano rispecchiare “l’umanesimo” a sfondo eudemonistico, edonistico e materialista, in sostanza nichilistico, permeante la cultura dominante più che i solidi argomenti teologici e filosofici che dovrebbero essere tipici di un documento pontificio ufficiale. La critica alla pena di morte (un autentico “pallino” dell’attuale papa) appare incomprensibile: per qual motivo l’esecuzione di un criminale giudizialmente condannato perché responsabile di gravi e spesso crudeli reati dovrebbe esser contraria alla “dignità dell’uomo”?
Aggiungo, da parte mia, che il Documento manca del tutto di afflato sovrannaturale, della presenza cioè della prospettiva drammatica della salvezza delle anime, della vita eterna dopo il Giudizio che ci attende subito dopo la morte, quale obbiettivo esclusivo e dominante della concezione cattolica dell’esistenza. Si criticano errori ed orrori del Secolo in nome di una concezione della vita più umana, più giusta, gioiosa, felice - in nome cioè di una visione che resta anch’essa terrena e mediocre, quanto all’ampiezza dei suoi obbiettivi e fini. Ma questo è appunto lo “stile” minimalista e terra terra che è prevalso nella pastorale della Chiesa a partire dal Vaticano II, un Concilio che, giusta l’impostazione espressamente datagli da Giovanni XXIII, non ha voluto condannare alcun errore e ha lasciato in eredità alla Gerarchia cattolica questa inaudita desistenza dall’uso della sua legittima autorità, che è di origine divina. Pertanto, parlare di “condanne” in questo ultimo Documento, come ha fatto qualche commentatore, non mi sembra appropriato: si tratta solo di condanne sul piano morale perché le espressioni in genere usate nel Documento sono del tipo: “la Chiesa prende posizione contro…”; “fa valere le criticità…”. La Chiesa attuale non condanna nessuno nè vuole condannarlo. Manifesta la sua opposizione a determinate situazioni ingiuste, anche aberranti, e implicitamente le condanna come moralmene inaccettabili. Altrimenti, il Documento avrebbe dovuto ribadire, per esempio, che la donna che abortisca volontariamente (aborto procurato) e tutti coloro che cooperano al misfatto incorrono tutti in un peccato grave, mortale, per il quale è prevista, se cattolici, la scomunica automatica o latae sententiae – un peccato che comporta la dannazione eterna, se non ci si pente sinceramente, se non ci si confessa, se non si cambia vita.
Si tratta quindi di un Documento debole, a mio modesto avviso, scritto nel linguaggio dell’attuale “politicamente corretto”. Le argomentazioni restano in superficie. Ci si oppone finalmente alla teoria del gender e al transgenderismo senza tuttavia collegare questi fenomeni aberranti alle loro autentiche radici, che sono il femminismo e l’omosessualità, a loro volta strettamente congiunti: manca, insomma, una visione d’insieme organica dei gravi fenomeni di decadenza che ci affliggono, una visione d’insieme capace di esprimersi in un’analisi dottrinale come si deve, secondo i princìpi cattolici tradizionali, con le relative condanne degli errori ed i necessari ammonimenti ai fedeli. Su queste lacune pesa indubbiamente l’ambiguità manifestata dal presente Pontificato nei confronti di femminismo ed omosessualità. Basti pensare a Fiducia supplicans, con la sua autorizzazione a “benedire” le coppie irregolari anche omosessuali, giustamente definita da un cardinale sacrilega e blasfema - ambiguità che mina l’autorità della presente Dichiarazione. Infatti, si “criticano” gender theory e transgenderismo e non si dice nulla sul fenomeno omosessuale, che ne è la radice? Non solo: si accetta la nozione fasulla di “orientamento sessuale personale” (art. 55), inscritta nella Carta dell’Unione Europea, che è il principio usato per introdurre la tutela (e persino la promozione) dell’omosessualità da parte degli ordinamenti positivi attuali. La si accetta, limitandosi a metterne in rilievo “le criticità” per ciò che riguarda la gender theory (art. 56) !
Il Documento conferma, sempre a mio modesto avviso, l’uso di una nozione della “dignità umana” non conforme all’insegnamento tradizionale della Chiesa. Ma questa nozione, dirà qualcuno, non è stata elaborata proprio dai papi del Postconcilio (in particolare da Giovanni Paolo II) e sulla base del Concilio? Non si scandalizzi nessuno: proprio per questo non appare conforme alla dottrina di sempre della Chiesa sull’uomo, ad una corretta antropologia cattolica. Mi propongo pertanto di dimostrare, in questo mio intervento, come la definizione della dignità umana usata nel Documento rispecchi in realtà la “cristologia antropocentrica”, non conforme al dogma ma piuttosto ai teologumeni di Henri de Lubac e sodali, inaugurata dal Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, in particolare nel suo famoso art. 22.
2. – La “dignità dell’uomo”, un valore “infinito”?
Lo scopo di questo mio lavoro non consiste, quindi, nell’analizzare la Dichiarazione Dignitas infinita, sulla quale sono giù usciti tanti articoli. Piuttosto, consiste nel verificare la legittimità della nozione di dignità dell’uomo da essa sostenuta. Pertanto, dopo aver esposto la definizione della “dignità dell’uomo” come appare nel Documento, ne rintraccerò il nesso con le anteriori dichiarazioni dei papi postconciliari, muovendo da papa Francesco per risalire a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, quand’era ancora professore di teologia e poi cardinale.
“Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre ‘sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”.(1)
Cos’è questa “dignità dell’uomo”, presentata come un valore assoluto, a noi ontologicamente inerente? E addirittura “infinita”, adesso, gratificata di un aggettivo che in genere si applica alla divinità e non a ciò che è solo umano!
Non se ne dà mai una definizione. Il suo concetto è dato per scontato, come se ognuno di noi sapesse di cosa si tratta. Intuitivamente, forse, lo sappiamo. Eppure, se si tentasse di definirlo credo che pochi vi riuscirebbero. Qui, la nostra “dignità” sembra addirittura essere la stessa cosa della nostra “umanità”. Le si vuol inatti attribuire significato ontologico.
Per chi non ha fatto studi filosofici, bisogna precisare che ontologico, nonostante le apparenze, è termine abbastanza semplice e chiaro. È voce greca, costruita sul participio presente del verbo essere (m. ōn, f. ousa, n. on; gen. ousēs, ontos) integrato dalla parola logos, che vuol dire discorso, ragionamento, verbum. Indica qui il discorso sull’essere stesso (ontos + logos : ragionar dell’essente) e quindi sull’essenza di ciò che è o sull’essenza di ciò di cui si sta discutendo, sulla sua natura intrinseca, che può essere solo quella per cui è ciò che è e giammai altro. Usato come aggettivo, significa che la caratteristica della quale si sta parlando – qui la dignità dell’uomo – non è meramente accidentale (come se potesse esserci o non esserci, a seconda delle circostanze) ma appartiene alla natura stessa dell’uomo, alla sua essenza, ed è pertanto inalienabile, ontologica. Inalienabile, si deve ritenere, in senso assoluto ovvero tale da rimanere sempre nel soggetto, uomo o donna, qualsiasi cosa dispongano le leggi di uno Stato nei suoi confronti o i costumi e qualsiasi cosa faccia, anche nel male, il soggetto, uomo o donna. In effetti, se questa dignità configura un valore assoluto perché di origine divina, essa è necessariamente sottratta alla disponibilità di qualsiasi soggetto, sia esso lo Stato, la Chiesa o l’individuo stesso al quale appartiene: nessuna azione può farla venir meno.
Si noterà che, secondo Dignitas infinita, “questo principio è riconoscibile anche dalla ragione”. E difatti l’art. 2 della Dichiarazione ricorda la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU: “Tutti gli esseri umani nascono uguali in dignità e diritti” (art. 1). Questa Dichiarazione fu lodata enormemente da Giovanni Paolo II, che la definì addirittura una “pietra miliare” nella storia dell’umanità. Ma la “ragione”, osservo, ossia la filosofia politica dell’Età Moderna muove da una concezione dell’uomo assai diversa da quella tradizionale della Chiesa, visto che innanzitutto tale concezione nega l’esistenza del peccato originale e, in sostanza, ritiene l’uomo buono per natura, onde il suo lato malvagio sarebbe da imputare soprattutto alle storture, ingiustizie e costrizioni sociali. Insomma, sappiamo tutti che la dignità e l’uguaglianza di cui all’art. 1 della Dichiarazione dell’ONU discendono dalla filosofia illuministica e dalle Carte dei Diritti delle Rivoluzioni americana e francese; come a dire, da una concezione della società, della politica, della morale e della religione non solo diversa da quella professata tradizionalmente dalla Chiesa ma da quest’ultima in passato esplicitamente condannata. Come fonda, allora, la Chiesa cattolica attuale questa sua nozione assoluta della dignità dell’uomo? La fonda in una prospettiva religiosa, com’è logico, che risulta dalla frase in cui si afferma che la persona umana ha una dignità ontologica perché "creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Gesù Cristo”.
Ci troviamo qui di fronte ad una giustificazione della dignità dell’uomo che, a ben vedere, non ha nulla a che vedere con la concezione della stessa professata dalle filosofie secolari, quasi tutte votate al principio d’immanenza: dal loro punto di vista, tutti gli uomini hanno uguale dignità semplicemente perché uomini non perché creati da Dio a sua immagine e somiglianza. Appare pertanto velleitario affermare che anche la ragione umana riconoscerebbe alla nostra “dignità” un valore assoluto, “ontologico”, come quello professato dalla Gerarchia cattolica attuale. Ma prescindendo da questo, occorre verificare l’autentico significato teologico di questa nozione “ontologica” della dignità dell’uomo, che risulterebbe dai Testi Sacri.
Infatti, perché la persona umana possiede una “dignità ontologica”? Perché è stata” creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù”. In questa che viene recitata come se fosse la formula di un articolo di fede, la successione tra creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio e sua redenzione ad opera di Cristo, appare lineare, come se la redenzione fosse stata una conseguenza naturale per un uomo creato “ad immagine e somiglianza di Dio”. Ma sappiamo che le cose non sono andate così. In mezzo c’è stata la Caduta dei nostri Progenitori, il peccato originale, dovuto a superbia e spirito di ribellione, per colpa del quale la nostra “somiglianza” con Dio è andata perduta, assieme alla santità e alla giustizia che la caratterizzavano mentre la nostra “immagine” di Lui è stata “vulnerata”, togliendoci la maggior parte dei doni preternaturali, tranne l’uso del nostro intelletto (vedi infra).
Nella formula della Dichiarazione appare quindi un problema: quello di presentare la persona umana come se avesse ancora conservato ontologicamente la “somiglianza” con Dio ovvero i doni sovrannaturali della Grazia santificante. Se c’è stata una “redenzione”, ciò significa che c’era una situazione di peccato da sanare, pertanto l’uomo non poteva aver conservato la “somiglianza” originaria con Dio. E allora perché offrirne l’immagine come se tale “somiglianza” si fosse sempre mantenuta? Non ci troviamo qui di fronte ad un uso disinvolto delle fonti e comunque ad una contraddizione? E non solo ad una contraddizione, se solo riflettiamo al fatto che il dogmatico Concilio di Trento, nel Decreto sul peccato originale, dichiara reo di scomunica latae sententiae chi nega che l’immagine e la somiglianza originarie con Dio siano state rispettivamente danneggiate e perdute a causa del Peccato Originale di Adamo ed Eva (vedi infra).
3. – Papa Francesco esalta la “dignità dell’uomo” come valore assoluto di origine divina.
Bisogna quindi rendersi conto di come si sia giunti alla formula usata nella Dichiarazione. La quale si rifà ovviamente in modo ampio all’insegnamento di papa Francesco, in particolare all’Enciclica Fratelli tutti [vedi], ove il principio della dignità umana è richiamato più volte. Nel suo art. 213 c’è il riferimento forse più pregnante: “Che ogni essere umano possiede una dignità inviolabile è una verità corispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale. Perciò l’essere umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione o a non agire di conseguenza”.(2)
Qui la dignità appare come se fosse l’essenza stessa della Persona, immutabile al di là di ogni cambiamento della stessa. L’origine religiosa di una “dignità” così intesa risulta da altri, precedenti interventi del papa.
Egli ha ripetuto più volte questo concetto: “Iddio ci ha creati non come oggetti, ma come persone amate e capaci di amare, ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1, 27). In questo modo ci ha donato una dignità unica, invitandoci a vivere in comunione con Lui, in comunione con le nostre sorelle e i nostri fratelli, nel rispetto di tutto il creato”.(3)
Dal passo del papa appena citato, si ricava che la nostra (supposta) innata dignità è di origine divina, dipende in sostanza dal fatto che siamo stati creati “ad immagine e somiglianza di Dio”, come ci ha rivelato il libro della Genesi (1, 26). Che l’uomo, in quanto creato da Dio a sua “immagine” goda di una dignità superiore nei confronti di tutto il resto dei viventi, era pacifico anche per l’ebraismo. Ma la nouvelle théologie penetrata nei testi del Concilio è andata oltre, attribuendo a questa dignità un carattere inalienabile. Infatti, secondo quanto affermato nell’art. 12 della Costituzione pastorale Gaudium et spes, dedicata alla Chiesa e al mondo contemporaneo, espressamente richiamato da papa Francesco, “Il Concilio Vaticano II sottolinea che questa dignità è inalienabile, perché ‘è stata creata a immagine di Dio’ (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Essa sta a fondamento di tutta la vita sociale e ne determina i principi operativi”.(4)
Sin dal primo anno del suo pontificato papa Francesco ha sostenuto questa concezione della dignità dell’uomo. In un breve discorso al Dignitatis Humanae Institute aveva detto: “Il vostro istituto si propone di promuovere la dignità umana sulla base della verità fondamentale circa l’uomo, che è creato a immagine e somiglianza di Dio. Quindi, c’è una dignità originale di ogni uomo e donna che non può essere soppressa, che non può essere toccata da alcun potere o ideologia”.(5) Qui si afferma ancor più nettamente che il carattere intangibile e insopprimibile attribuito alla nostra “dignità originale” dipende proprio dalla nostra originaria “immagine e somiglianza” con Dio che ci ha creati, ovvero dipende dal fatto che tale “immagine e somiglianza” si è mantenuta e perpetuata intatta secondo il papa, altrimenti la dignità che su di essa si vuole ancorare non sarebbe insopprimibile e intangibile, non sarebbe per l’appunto una caratteristica ontologica dell’essere umano.
Si noterà che i testi di papa Francesco non ci danno una definizione di questa dignità, si limitano ad identificarla con la natura dell’uomo, in quanto essere creato da Dio “a sua immagine e somiglianza”. Come nozione, la “dignità dell’uomo” viene sempre presupposta.
Si noterà, inoltre, una sfasatura nell’uso della terminologia. Infatti, mentre papa Francesco ci ricorda, senza ulteriori determinazioni, che siamo stati creati “ad immagine e somiglianza di Dio”, il passo della Gaudium et spes 12, da lui citato, menziona la sola “immagine di Dio” a fondamento dell’affermata dignità. Come dobbiamo interpretare questa discordanza? Nell’attuale torbido clima, dominato dal sincretismo e da inquietanti ambiguità dottrinali e pastorali, molti cattolici verosimilmente credono che il lemma “immagine e somiglianza” nostre di Dio sia un’endiadi oppure che “immagine” o “somiglianza” indichino la medesima realtà, come se si trattasse di termini equivalenti. A dire il vero, il libro della Genesi ci mostra che, dopo aver riportato il: “Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram”, l’Autore ispirato ha aggiunto: “Et creavit Deus hominem ad imaginem suam: ad imaginem Dei creavit illum, masculinum et femininum creavit eos” (Gen 1, 26 e 27 – Vulg. Clem.). Ma questa sembra essere una conclusione dell’Agiografo, che poi secondo la Tradizione è Mosè, il quale, anticipando i fatti, riassume qui l’opera divina, ricordando opportunamente che sia l’uomo che la donna esprimono in loro “l’immagine di Dio”. L’immagine qui includerebbe la somiglianza, senza sottilizzare.
4. – “Immagine” o “immagine e somiglianza”?
Quando troviamo nelle fonti cattoliche il riferimento all’uomo come “immagine di Dio” dobbiamo credere che questa dizione sia proposta nello spirito dell’Antico Testamento sì da ricomprendere anche la “somiglianza”? La questione non è meramente terminologica, come potrebbe sembrare, se non la consideriamo da un punto di vista teologico rigoroso. La teologia cattolica ortodossa, quella approvata nei secoli dal Magistero e codificata dal Tridentino, ha dato all’uno e all’altro termine un significato preciso e pregnante, tale da impedire la loro confusione.
Con imago Dei si intende l’integrità della quale godevano Adamo ed Eva prima della Caduta. I doni dell’integrità erano l’innocenza, l’assenza del dolore, la sanità perfetta del corpo e della mente, l’immortalità, la scienza infusa; insomma una natura fisica, psichica e morale perfetta, così voluta da Dio per le due creature che aveva fatto. Con similitudo Dei si intende invece una dimensione soprannaturale, quella della Grazia santificante, per opera della quale Adamo partecipava ex sese alla natura divina mediante i doni della santità e della giustizia. L’immagine di Dio indica, pertanto, una natura umana originaria, costituita di doni preternaturali; la similitudine con Dio indica, invece, la presenza di una componente sovrannaturale in questa stessa natura umana.
L’ebraismo non conosce il concetto del peccato originale né tantomeno quello della Grazia: l’uomo è “immagine” di Dio in senso soprattutto morale e gode pertanto di un’alta dignità. Il peccato di Adamo resta con Adamo, non si trasmette alla posterità. L’uomo può purificarsi dal suo peccato con le sue forze, con la volontà e la ragione, l’impegno etico. L’ebraismo, come osservò Bartmann, è “pelagiano”: per esso l’essenza della religione è la moralità e l’uomo può santificarsi con le sue sole forze, certo del perdono dei suoi peccati da parte di un Dio misericordioso, il Dio d’Israele, Dio nazionale.(6)
Nella visione ebraica, il rapporto di Adamo ed Eva con Dio non diventa drammatico come nella visione cristiana. Secondo quanto mantenuto nei secoli dall’insegnamento della Chiesa e definito come dogma al Tridentino, a causa della Caduta, la nostra “somiglianza con Dio” è andata perduta mentre la nostra natura umana è stata vulnerata dalla perdita dei doni preternaturali, tranne la capacità di scienza mediante l’uso dell’intelletto e della volontà, tuttavia sempre costretti a lottare contro il triplice fomite della concupiscenza (1 Gv 2, 16: della carne, degli occhi, dell’orgoglio) quale eredità insopprimibile del peccato originale. “Da notare che il Battesimo, mentre ci dona di nuovo i doni soprannaturali e cioè la grazia santificante, non ci restituisce i doni preternaturali”.(7) L’unico che ci lascia, l’intelletto con le sue facoltà, deve ora fare i conti con le passioni delle nostre concupiscenze, sempre in agguato, per istigazione del Demonio: le può vincere ma solo lottando e con l’aiuto imprescindibile della Grazia, che gradualmente trasforma interiormente coloro i quali ne sono investiti, gli Eletti del Signore (Gv 17, 6 ss.) – li trasforma ontologicamente e non solo moralmente.(8)
Con l’opera di salvezza del Redentore, da un lato viene restaurata l’immagine di Dio in noi (anche se in modo inferiore all’originale poiché non possiamo ovviamente esser restituiti allo stato di perfezione edenica di Adamo ed Eva); dall’altro viene restituita la nostra somiglianza con Lui ma unicamente mediante l’azione della Grazia santificante, che ci consente di partecipare alla vita divina; concessa, questa partecipazione, al credente che si apra effettivamente alla Grazia e si sforzi sinceramente di vivere secondo gli insegnamenti di Cristo.(9) L’azione di restaurazione-restituzione non può prescindere dall’opera della Chiesa, che ci amministra i Sacramenti, indispensabili al conseguimento della salvezza.
Vista la teologia dogmatica da secoli accettata, come mai papa Francesco può ricondurre il carattere supposto “inalienabile” della nostra dignità al fatto che siamo stati creati ad “immagine e somiglianza” di Dio, inteso non come un nostro modo di essere deformato e perduto e poi in parte restaurato e restituito dai meriti della Santa Croce, ma, al contrario, come una nostra qualità o addirittura essenza che si è mantenuta inalterata dalla creazione di Adamo ed Eva? E perché il testo conciliare menziona solamente la nostra “immagine di Dio” a fondamento della nostra dignità, che si vuole ora “ontologica”?
5. – Una “dignità dell’uomo” frutto di una nuova dottrina, non conforme alla Tradizione della Chiesa.
Il fatto è che il dictum di papa Francesco si radica in una esaltazione della “dignità dell’uomo”, possiamo ben dirlo, non conforme alla Tradizione della Chiesa bensì ai teologumeni della Nouvelle théologie e già presente nel Concilio, nel nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992, nella pastorale dei suoi predecessori conciliari e post-conciliari, in particolare nella teologia di Giovanni Paolo II, sin dalla sua prima Enciclica, la Redemptor hominis.
Nell’incipit della sua famosa enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia, del 1947, Pio XII scriveva che Gesù Cristo, con la sua opera soprannaturale, “mirò senza dubbio a ristabilire tra gli uomini e il loro Creatore quell’ordine che il peccato aveva turbato ed a ricondurre al Padre celeste, primo principio ed ultimo fine, la misera stirpe di Adamo infetta dal peccato originale [miseram Adae subolem, hereditaria labe infectam]”.(10) A partire dal Vaticano II, si è forse più sentita questa realistica definizione del genere umano, che per la Chiesa cattolica costituisce inoltre verità di fede?
[Giovanni XXIII introdusse nel Concilio la “dignità dell’uomo” propalata dalla Nouvelle théologie] Al contrario, fu proprio nella Allocuzione inaugurale del Concilio (11 ottobre 1962) che Giovanni XXIII, al tradizionale anche se equilibrato pessimismo con il quale la Chiesa aveva sempre guardato al mondo -- “Regno del Principe di questo Mondo”, terra ingrata da convertire al vero Dio --, contrappose il suo sorprendente ottimismo, all’insegna del concetto della “dignità dell’uomo”, elevato proditoriamente a principio fondamentale della visione cattolica. In quel fatale testo inveì contro “i profeti di sventura”, che scorgevano nel mondo contemporaneo l’avanzare di un generalizzato processo di decadenza, culturale e morale. Con chi ce l’aveva? Quasi sicuramente con la Curia che, sotto la ferma e competente direzione del cardinale Ottaviani e dell’olandese mons. Sebastiaan Tromp SI, aveva organizzato l’elaborazione dei numerosi schemi conciliari (un lavoro scrupoloso durato tre anni) alla luce della dottrina di sempre della Chiesa, poco incline quindi ad “aperture” ecumeniche dall’ambiguo contenuto dottrinale. In questi schemi, mandati al macero dai colpi di mano con i quali i Novatori Pontifice adiuvante si impadronirono del Concilio, nonostante il linguaggio moderato si condannavano senza titubanze tutti gli errori circolanti nella società e nella cultura contemporanee (tranne il comunismo, perché questa era stata la condizione posta da Mosca per la partecipazione di osservatori ecclesiastici ortodossi russi al Concilio). Nello schema De deposito fidei pure custodiendo, si condannavano: il soggettivismo nella concezione della verità, con il suo rifiuto del principio di causalità, di ragion sufficiente, di identità e contraddizione; l’ateismo nelle sue varie forme; ogni tipo di evoluzionismo; il relativismo nel dogma; tutti i nemici della dottrina cattolica della Rivelazione; lo spiritismo e la dottrina della reincarnazione; l’idea assurda che il peccato non offenda Dio; la falsa concezione della dignità dell’uomo. Nello schema De ordine morali: le errate negazioni contemporanee della assolutezza della legge morale; il relativismo etico già diffuso; la pseudo-etica esistenzialista della morale detta “della situazione”; l’omosessualità e ogni “culto del corpo”, dal “nudismo” agli “istituti di bellezza”, che si stavano allora diffondendo, contribuendo tutto ciò al clima di immoralità spicciola diffuso da quasi tutte le forme di spettacolo e di intrattenimento, non esclusa la letteratura.
Ma Giovanni XXIII disse che non occorreva “rinnovare condanne”, bastava dimostrare la “validità” della dottrina della Chiesa. Non già che mancassero “dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosi da cui premunirsi”. Tuttavia, a giudizio del papa, “ormai gli uomini da se stessi sembra siano propizi a condannarli, ed in specie quei costumi di vita che disprezzano Dio e la sua legge, l’eccessiva fiducia nei progressi della tecnica, il benessere fondato esclusivamente sulle agiatezze della vita. Sempre più essi vengono convincendosi che la dignità della persona umana, del suo perfezionamento e dell’impegno che esige è affare della massima importanza”.(11)
La dignità dell’uomo sarebbe dunque stata un principio sempre più sentito, seguito ed attuato, alla cui ombra il Secolo si stava emendando dei suoi errori. Ma, osservo, non era proprio in quegli anni che stava entrando in commercio negli Stati Uniti la pillola anticoncezionale mentre autrici femministe invadevano il mercato con i loro dozzinali bestsellers incitanti le donne americane a rompere le regole della “bigotta” morale borghese e cristiana, tanto adesso c’era “la pillola” che le liberava? In realtà, i teologi della Curia avevano visto giusto nel condannare l’incipiente edonismo di massa all’insegna della Rivoluzione Sessuale, una mentalità che stava costruendosi un modello di vita indegna perché vita dominata dal “principio del piacere”, apertamente propagandato. Chi invece non aveva dato prova di corretto e prudente giudizio era stato proprio Giovanni XXIII. Esaltò il Concilio addirittura come l’inizio di una nuova era, nella quale la misericordia avrebbe sostituito il rigore dottrinale e le condanne del Magistero, aprendo un futuro radioso per la Chiesa e l’umanità, nel quale la Chiesa rinnovata dal Concilio che si apriva avrebbe finalmente reso l’uomo cosciente della sua “eccelsa dignità”, aiutandolo a condurre una vita più giusta e più umana. La Chiesa, disse, “partecipa agli uomini i beni della grazia divina, che, elevando gli uomini alla dignità di figli di Dio, sono validissima tutela ed aiuto per una vita più umana; apre la fonte della sua vivificante dottrina, che permette agli uomini illuminati dalla luce di Cristo di ben comprendere quel che essi realmente sono, la loro eccelsa dignità, il loro fine; ed inoltre, per mezzo dei suoi figli, essa estende dappertutto l’ampiezza della carità cristiana…”.(12) Di convertirsi a Cristo quale condizione indispensabile per la propria salvezza e di vita eterna naturalmente l’Allocutio giovannea non faceva parola. La prospettiva dominante era di tipo intramondano, sociale, declinata per di più con un afflato utopistico, millenaristico. Alla “dignità dei figli di Dio” si sovrapponeva la “eccelsa dignità” che Cristo avrebbe svelato nella natura umana in quanto tale. Sessantadue anni dopo, con la Cattolicità “aggiornata” dal Concilio in piena dissoluzione, possiamo ben chiederci: chi è stato il vero “profeta di sventura”?
L’idea che tra i compiti principali della Chiesa ci fosse ora quello di far prender coscienza agli uomini della loro “eccelsa dignità” non proveniva ovviamente dai Vangeli ma da Henri de Lubac, uno dei teologi gesuiti più censurati dal Sant’Uffizio per le sue tesi eterodosse, tuttavia diffuse e apprezzate di nascosto nell’ambito della Gerarchia, a vari livelli. Deformando la testimonianza di san Paolo sulla sua conversione in seguito all’apparizione di Gesù sulla via di Damasco, narrata in Gal 1, 15-17, de Lubac, concentrandosi sulla frase “Colui che mi aveva messo da parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, credette di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi alle Genti [et vocavit per gratiam suam, ut revelaret Filium suum in me, ut evangelizaret in Gentiles]”, sosteneva che, in questo rivelare in me si affermava la presa di coscienza della dignità sublime dell’uomo. Scrisse, infatti: “rivelando il Padre ed essendo rivelato da Lui, Cristo finisce per rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino al fondo del suo essere, forza anche lui a scendere dentro di sè per scoprirvi bruscamente regioni fino ad allora insospettate. Per mezzo di Cristo la Persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’universo, prende piena coscienza di sè. D’ora innanzi, anche prima del grido trionfale: “agnosce, o christiane, dignitatem tuam”, sarà possibile celebrare la dignità dell’uomo: “dignitatem conditionis humanae”. Il precetto del saggio: “conosci te stesso”, riveste un nuovo significato”.(13)
Il cardinale Siri criticò le esternazioni di de Lubac, cogliendo il punto essenziale: “Il Padre de Lubac dice che il Cristo, rivelato dal Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Quale può essere il significato di questa affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l’uomo è divino. Tali conclusioni possono non essere espresse così nettamente, tuttavia determinano sempre questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana in sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino dell’antropocentrismo fondamentale” . L’antropocentrismo “fondamentale”(14) è quello che concepisce il soprannaturale “in quanto implicato nella natura umana”. Un concetto del genere sembra trovarsi, con sufficiente chiarezza, nella parte finale nella Action di Blondel, uno dei maestri di de Lubac: “il est impossible que l’ordre surnaturel soit sans l’ordre naturel auquel il est nécessaire, et impossible qu’il ne soit pas, puisque l’ordre naturel tout entier le garantit en l’exigeant”.15)
In effetti de Lubac, influenzato dal pensiero di Blondel, nel 1946, nel suo famoso libro sul sovrannaturale, aveva sostenuto che “l’ordine soprannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. Come conseguenza di questo concetto, veniva fatalmente che il dono dell’ordine soprannaturale non è gratuito perché è debito della natura. Allora, esclusa la gratuità dell’ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si identifica al soprannaturale”.(16) Annoto: sostenere che il sovrannaturale “è implicato” nella natura umana in quanto tale, significa annullare l’effettiva differenza tra il sovrannaturale e la natura, facendo cadere la distinzione tra Dio e il mondo, tra la creatura e il Creatore, e la conseguente gratuità della Creazione da parte di Dio, che non era obbligato a creare né il mondo né l’uomo. Di fatto, de Lubac proponeva una concezione di tipo panteistico, del resto sviluppata in termini ancor più radicali a partire dagli anni venti del XX secolo dal confratello gesuita e paleontologo Teilhard de Chardin.
Tornando alla “dignità dell’uomo”. L’oggetto della Rivelazione sulla via di Damasco è il Figlio di Dio a Saul il fariseo (la natura divina di Gesù, che deve esser predicata alle Genti) e non, all’opposto, Saul a se stesso. Saulo resta puramente passivo, in tanto frangente, e stravolto ed abbacinato per di più, salvo aderire subito dopo con tutto il suo libero arbitrio alla chiamata divina. Nella testimonianza diretta dell’apostolo non c’è nessuna sublime e nascosta dignità umana che venga alla luce per effetto della Rivelazione. Per quanto riguarda l’uomo, ossia la personalità di Saulo, c’è solo la riaffermazione della pronta obbedienza dell’apostolo alla chiamata divina, avvenuta in modo straordinario, soprannaturale. E quindi: non solo rivelazione sovrannaturale a me (esteriore), ma anche in me (interiore), come continuità di visione ed ispirazione da parte di Cristo. A me, specifica san Paolo, indegno persecutore, peggiore “dell’aborto”, che tutto ho lasciato di colpo (“senza neppure consultare la carne e il sangue” – Gal 1, 16) per seguire la chiamata di Cristo, da questo momento in me, padrone della mia anima e del mio intelletto. La rivelazione di Cristo “in me” fa di colpo apparire la nullità e la miseria di tutto ciò che è umano, consegnato “alla carne e al sangue”, succube del peccato: “quod Christus venit in hunc mundum peccatores salvos facere, quorum primus ego eorum” (1 Tm 1, 15). La rivelazione salvifica di Cristo “in me”, mi rivela a me stesso come il peccatore che io sono, anzi “primo fra i peccatori”. Altro che dignità dell’uomo! La rivelazione salvifica di Cristo mostra la bontà di Dio che viene a guarire la nostra miseria morale, di uomini sempre succubi del peccato. Scrive infatti di seguito san Paolo: “Ed è appunto per questo che ho ottenuto misericordia, affinché Cristo Gesù in me, per primo, avesse a mostrare la sua paziente bontà, sicché servissi d’esempio a tutti coloro che crederanno in Lui per ottenere la vita eterna” (1 Tm 16).
Nella prospettiva inaugurata dalla Nouvelle théologie, l’antica esclamazione di esultanza dei cristiani (“riconosci, o cristiano, la tua dignità!”) muta perciò di significato. Essa esprimeva la gioia di chi si sapeva e sentiva per Grazia di Dio completamente rinato (l’uomo nuovo di Gv 3 e di tanti passi paolini) mediante la fede e le opere in Cristo, che gli consentivano di acquistare la dignità di “Figlio di Dio” per adozione, come spiegava san Paolo (Rm 1, 4; 8, 9-10; 1 Cr 6, 11 etc), conseguente per l’appunto a questa sua rinascita spirituale (Gv 1, 12-13; 3; 1 Pt 18-21), e lo rivestivano della fondata speranza di accedere alla vita eterna, se avesse perseverato sino alla fine (Ap 2, 10). Questa dignità non era innata, ovviamente, non derivando né dal sangue né tantomeno dalla natura umana in quanto tale, afflitta dalle conseguenze del peccato originale. Essa era invece una realtà acquisita, risultando dai meriti della Santa Croce di Nostro Signore, che si applicavano a chi si convertiva a Cristo e perseverava, con l’aiuto indispensabile della Grazia, nella fede e nelle opere gradite a Dio, sino alla fine della sua vita.
Ora, invece, la “dignità del cristiano” viene concepita come “dignità dell’uomo”, valore elevato a contenuto essenziale del suo specifico “conosci te stesso”. Infatti, la “dignità dell’uomo” è intesa da de Lubac come quell’altissimo valore che inerisce all’uomo in quanto uomo e che l’opera di Cristo permette all’uomo di mettere a fuoco nella propria coscienza. Un valore, quindi, che addirittura preesiste all’azione stessa del Signore, la quale produrrebbe l’effetto di farla emergere alla nostra coscienza! Si noti bene: de Lubac scrive, nel passo sopra citato, che la dignità dell’uomo sarà d’ora innanzi possibile celebrarla anche prima della dignità del cristiano! D’ora innanzi: ossia dopo l’Avvento di Nostro Signore. Come possiamo allora celebrarla prima di diventare cristiani? Credo che de Lubac volesse dire che Cristo ci avrebbe fatto riscoprire quello che eravamo prima, ovvero sin dall’eternità - ci avrebbe fatto riscoprire la nostra vera essenza, che si caratterizzerebbe per questa “sublime dignità” del semplice esser uomo! In questa distorta concezione, del dogma del peccato originale non resta praticamente nulla. Ma siffatta preesistenza della dignità dell’uomo riposa soprattutto sul fatto che per l’appunto non si vuol più ammettere la necessaria differenza tra l’ordine sovrannaturale e quello naturale. Il suo presupposto, ben colto dal cardinale Siri, è costituito dalla erronea ripulsa della necessaria autonomia, indipendenza e preesistenza del sovrannaturale rispetto alla natura. E il fine cui in tutta evidenza mira questa falsa dottrina è quello di una divinizzazione dell’uomo che fatalmente tende a sfociare nel panteismo, visto che la sua redenzione finale coinvolgerebbe quella dell’intera natura, il che non è ovviamente possibile: il Verbo si è incarnato per redimere i peccatori e non anche animali, pesci, insetti, piante e fiumi... Infatti, de Lubac, errando completamente, interpreta in senso panteistico-naturalistico il famoso testo di Rm 8, 18-25 nel quale l’Apostolo delle Genti scrive che “tutta la creazione” ossia ogni creatura razionale, soffre e sospira in attesa della liberazione rappresentata dalla “glorificazione dei Figli di Dio”, ossia dal trionfo finale di Cristo (sul punto, vedi infra, § 10).(17)
[La dignità dell’uomo al posto della dignità del cristiano] La Parte Terza del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) del 1992, intitolata La vita in Cristo, titola la sua prima sezione: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito, mentre il cap. I di questa sezione si intitola: La dignità della persona umana (par. 1700 ss.). Nei paragrafi immediatamente precedenti, di carattere introduttivo, il Catechismo apre il discorso su questo tema con il famoso elogio di papa san Leone Magno alla dignità del cristiano: “Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della natura divina, non voler tornare all’antica bassezza con una vita indegna. Ricorda a quale Capo appartieni e di quale Corpo sei membro. Ripensa che, liberato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce e nel Regno di Dio”.(18)
I Padri, pur riconoscendo la superiore dignità dell’uomo “immagine di Dio” nei confronti di tutti gli altri esseri viventi, hanno sempre elogiato soprattutto la “dignità del cristiano”, che supera quella dell’uomo in quanto tale: per loro la vera “dignità”, conformemente al modo di concepirla della tradizione romana, poteva essere solo un modo di essere della persona, quello di colui che si era convertito e viveva secondo gli insegnamenti di Cristo ossia della Chiesa. Non c’era l’idea di una “dignità dell’uomo” inalienabile ed indistruttibile, a prescindere quindi dal comportamento effettivo, per il solo fatto di esser stato l’uomo creato da Dio “a sua immagine e somiglianza”, dignità da intendersi per l’appunto in senso ontologico: con il peccato, il cristiano perdeva la sua alta dignità, cadendo nella “bassezza” di una “vita indegna”. Dipendendo dal proprio comportamento, la “dignità” si acquistava e si perdeva, a seconda dei casi.(19)
All’opposto il Catechismo attuale intende la “dignità della persona” non tanto al modo limitato di un san Leone Magno (solo il cristiano possiede autentica e superiore dignità, quando non la perde peccando) quanto al modo del Vaticano II: cita ampiamente gli art. 22, 15, 14, 24 della Gaudium et spes, della quale fa praticamente un riassunto.
Però con una variazione. Recita infatti, al par. 1701, costruito su Gaudium et spes 22: ““Cristo… proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima missione” [GS 22]. È in Cristo, ‘immagine del Dio invisibile’ (Col 1, 15), che l’uomo è stato creato ad ‘immagine e somiglianza’ del Creatore. È in Cristo, Redentore e Salvatore, che l’immagine divina, deformata nell’uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio [GS 22]”.
Questa è la variazione: il Catechismo scrive che il peccato originale ha “deformato l’immagine divina” in noi, l’art. 22 di Gaudium et spes, invece, afferma che è stata la “somiglianza nostra con Dio” ad esser deformata dal peccato originale o primo peccato. Allora: “immagine” o “somiglianza”? Forse nell’uso pastorale postconciliare un termine vale l’altro? Tra i due testi il più aderente al dogma sembra essere quello del Catechismo, dato che l’immagine di Dio in noi (con i suoi doni preternaturali) non è stata perduta ma “vulnerata”, sia pur ampiamente, in seguito al peccato originale, e una natura umana “vulnerata” può considerarsi “deformata” rispetto al suo archetipo divino iniziale. Del tutto errato, invece, affermare, con GS 22, che “la somiglianza” nostra con Dio sia stata solo “deformata” dal peccato, quando all’opposto è stata perduta.
Ma ecco il testo conciliare:
“Egli [Cristo] è ‘l’immagine dell’invisibile Iddio’ (Col 1, 15), è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato [similitudinem divinam a primo peccato deformatam]. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo [Ipse enim, Filius Dei, incarnatione sua cum omni homine quodammodo Se univit]…”.(20)
6 - La “cristologia” spuria di GS 22.2 origine della “dignità dell’uomo infinita” diffusa dal Documento vaticano.
Si noterà che, in questo famoso e fatale paragrafo, la dignità dell’uomo viene considerata “sublime” in conseguenza del fatto che il Figlio di Dio, si scrive, con l’Incarnazione “si è unito con ogni uomo”. Questo il concetto che viene introdotto, il nesso grammaticale è dato dall’avverbio enim (infatti), non tradotto nelle versione itaiana, mentre resta del tutto retorico ed incomprensibile l’altro avverbio, il quodammodo. Forse si voleva indicare il modo per noi ineffabile ed insondabile di tale supposta “unione”. La “dignità dell’uomo”, allora, non dipende più dal semplice fatto che l’uomo è stato creato “simile a Dio” e per questo motivo superiore in dignità a tutto il resto del vivente.(21) Da collegata alla creazione che era, quale sua ovvia conseguenza, la dignità dell’uomo viene ora a dipendere dall’Incarnazione del Verbo, un salto qualitativo radicale, che le fa acquisire una caratteristica addirittura “sublime”. Ma siffatto, del tutto insolito collegamento con l’Incarnazione è possibile solo concependo l’Incarnazione stessa in modo nuovo: come se con essa il Figlio di Dio si fosse anche “unito ad ogni uomo”. Nuovo e non conforme al dogma, mi permetto di dire, poiché il dogma ci insegna che la Seconda Persona della Ss.ma Trinità si è storicamente incarnata solo nell’ebreo Gesù di Nazareth, individuo effettivamente esistito, unendosi pertanto non “ad ogni uomo” ma solamente all’uomo Gesù di Nazareth, nel mistero dell’unione ipostatica delle due nature in una sola persona, ovvero secondo le modalità dogmaticamente definite al Concilio di Calcedonia, AD 451. Il Verbo non prese la forma umana unendosi ad un uomo già esistente o “ad ogni uomo”: ciò sarebbe stato una contaminazione della sua natura divina con quella dell’uomo peccatore. Prese la forma umana nascendo in modo miracoloso e sovrannaturale da Maria Semprevergine, ossia costituendosi come quell’individuo particolare senza peccato, unico adatto ad essere la degna Incarnazione del Verbo.
“Egli prese la forma di servo [Fil 2, 7], senza la macchia del peccato, elevando ciò che era umano, senza abbassare ciò che era divino”:
si intende, elevandolo in Lui stesso non in noi, come se appunto si fosse ipso facto unito anche a noi, così come siamo, pieni di peccati; elevandolo in Lui che realizzava.
Lui solo, l’uomo perfetto perché senza peccato.(22) Inoltre, affermare che il Figlio di Dio incarnandosi in Gesù si è per ciò stesso “unito ad ogni uomo”, non significa propugnare una indebita commistione del divino e dell’umano? Come può la natura divina di Cristo “unirsi” a quella di ogni uomo, ulcerata dal peccato originale e quindi sempre peccaminosa, impura, perché non redenta, né dal Battesimo né dalla conversione a Cristo? Il Cristo ci apporta la redenzione visitando assieme al Padre la nostra anima solo soprannaturalmente, mediante la Grazia santificante che viene ad inabitare chi crede in Lui, lo ama e vive secondo i suoi comandamenti (Giov 14, 23), non per il semplice fatto di essersi incarnato nell’uomo Gesù!
Si può quindi affermare che qui si è voluta introdurre una concezione nuova e palesemente non ortodossa del mistero dell’Incarnazione, alterandone la teologia, dogmaticamente fissata da tanti secoli.
Poiché il Signore è venuto a salvare tutti (anche se molti non si salveranno – è di fede: vedi la Parabola del Seminatore, Lc 8, 4 ss; il discorso sulla “porta stretta”, Mt 7, 13-14; Lc 13, 22 ss; la parabola delle vergini savie e stolte Mt 25, 1-15; quella del ricco Epulone Lc 16, 19-30 etc), si può anche voler dire che il Redentore incarnandosi si è in un certo senso “unito ad ogni uomo”, ma solo in senso simbolico, o addirittura poetico, rappresentando con quest’iperbole la volontà del Redentore di voler salvare ognuno di noi peccatori, con il desiderare ardentemente che la sua Parola penetri nell’anima di ciascuno sanandola, convertendola e innalzandola verso il vero Dio. Ma il dettato innovatore di GS 22.2 non vuol esser affatto simbolico. E difatti esso viene inteso da un’interpretazione consolidata da decenni come se propugnasse “una unión ontológica pero tambien existencial con todos los hombres”.(23) Un’unione ontologica che si riflette nell’esistenza degli uomini, di tutti gli uomini in conseguenza dell’Incarnazione, senza che gli uomini lo sappiano: ma questo è per l’appunto un modo nel quale si rappresenta l’idea della salvezza garantita a tutti dall’abbraccio del Cristo “cosmico”, senza bisogno del concorso del nostro libero arbitrio e dell’esistenza stessa della Chiesa. Un’idea non solo contraria al dogma della fede ma, a ben vedere, anche bizzarra in se stessa, dal momento che implica l’idea di una salvezza già concessa a scatola chiusa all’intero genere umano. E difatti, un teologo notoriamente eterodosso come il belga Edward Schillebeeckx, molto attivo al Concilio, non esitò a dichiarare, nel 1968, che “qui il Concilio affermava con la massima energia che la condizione dell’uomo rinnovato secondo Cristo non è monopolio dei cristiani”.(24) Tradotto: grazie al Concilio, non vale più il dogma secondo il quale fuori della Chiesa non c’è salvezza, tranne nei casi individuali di battesimo di desiderio esplicito o implicito. Nel linguaggio elusivo dei nuovi teologi: ora la salvezza viene affermata nella sua “universalità”, cioè garantita dall’Incarnazione a tutti gli uomini per il solo fatto di esser tali, cosa che implica il dissolvimento della Chiesa visibile nell’umanità, antica aspirazione dei modernisti e realtà in atto da tempo anche sul piano istituzionale , con le continue “riforme” della Chiesa in senso “comunitario” ed ora “sinodale”, sempre più allargato a tutti, maschi e femmine.
[Deformazione del dogma calcedoniense] A mio modesto avviso, quest’unione di Cristo “con ogni uomo” è lesiva del dogma calcedoniense. Infatti, questa nuova dottrina attribuisce all’Incarnazione un effetto che non può avere: quello di ricomprendere ipso facto in se stessa anche ogni uomo solo perché uomo, l’uomo vulnerato dal peccato originale e peccatore. Si avrebbe in tal modo una mescolanza, una commistione tra il divino e l’umano, esclusa a priori dal concetto stesso dell’Incarnazione, definito dal nostro dogma.
Contro le eresie di monofisiti (la natura umana assorbita in quella divina) e nestoriani (due nature ma in due persone), si ribadì che il Cristo, “perfetto nella sua divinità e nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, composto di anima razionale e del corpo, consostanziale al Padre per la divinità, consostanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato [Eb 4, 15]”, doveva riconoscersi “in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi..”.(25)
L’unione della divinità con l’umanità ebbe luogo nella persona non nella natura: unione ipostatica, così definita, ove ypostasis è il greco per persona, e con persona si deve sempre intendere il boeziano substantia individua rationalis naturae – sostanza individuale di natura razionale; unione che tuttavia mantiene le due nature con tutte le loro proprietà senza che mai si confondano reciprocamente. Quest’unione non fu simbolica ma effettiva, reale, per quanto ai nostri occhi ineffabile in se stessa e al di là della nostra comprensione nel mistero del suo modus operandi. Quest’unione ha avuto luogo una sola volta e in un solo uomo, Gesù di Nazareth. La divinità di Cristo, Seconda Persona della Santissima Trinità, consustanziale al Padre, non poteva evidentemente incarnarsi nascendo da una donna anch’essa ferita dal peccato originale. Nacque pertanto il Salvatore da una vergine “immacolata” dalla macchia del peccato e in modo miracoloso, pur assumendo la sua divinità la carne della donna. Qui c’è stata un’unione, nel fatto fisico dell’Incarnazione, che però ha avuto luogo in modo soprannaturale, per opera dello Spirito Santo, all’insegna della purezza e della giusta e permanente distinzione tra il divino e l’umano. Non si può pertanto attribuire a quest’unione un effetto impuro, quale sarebbe la sua pretesa simultanea “unione con ogni uomo”, non redento ma succube del peccato originale e in preda al peccato attuale. L’Incarnazione si realizzò in un’unione ipostatica escludente ogni altra forma di unione che non avesse le stesse caratteristiche, che fosse cioè costituita da una mescolanza indebita ed impura, una “confusione” del divino con l’umano, come quella affermata da GS 22.2, che è unione nella natura e non nella persona, cioè unione “ontologica ed esistenziale” della natura divina di Cristo con la natura umana peccatrice; unione che mescola e confonde le due nature – e nemmeno nel medesimo individuo bensì tra due individui diversi, uno divino ed uno umano, costituito quest’ultimo dall’intera moltitudine degli esseri umani. L’Incarnazione è stata un fatto e quindi un evento assolutamente reale, ancorché di origine divina e sempre soprannaturale nel suo modo di operare con la materia costituita dalla carne della donna senza peccato originale, per particolare Grazia del Padre. Un fatto estremamente concreto. All’opposto, l’unione di cui a GS 22.2 è del tutto astratta ed anzi fittizia, come fatto non esiste e non può esistere proprio in relazione al modo di essere e di operare del Divino rispetto all’Umano, rivelatoci dalla Scrittura e dalla Tradizione.
La mescolanza impura immaginata da SC 22.2 apre comunque la via alla divinizzazione dell’uomo, visto d’ora in poi come se fosse dotato di una “dignità sublime” di origine divina, perché causata da questa immaginaria ed impossibile unione ontologica del Figlio di Dio con ogni uomo. Ed ora questa dignità la si vuole addirittura “infinita”, ulteriore iperbole che aggiunge l’infinito al sublime, divinizzando ulteriormente l’uomo?
[La riproposizione di un antico errore] Un errore di questo tipo si era diffuso ai tempi di san Giovanni Damasceno, morto nell’AD 749, che lo combattè durante la sua lotta contro l’eresia iconoclasta. Quest’errore fu confutato anche dall’Aquinate. Quindi: nihil sub sole novum.
Il Damasceno precisò per l’appunto che l’Incarnazione andava sempre riferita alla sola persona individuale e concreta del Cristo: “il Figlio di Dio non assunse la natura umana che consideriamo nella specie [umana] e pertanto nemmeno [assunse] tutte le persone degli uomini [Filius Dei non assumpsit humanam naturam quae in specie consideratur: neque enim omnes hypostases eius assumpsit ”]”. San Tommaso introdusse proprio questa sentenza del Damasceno nella sua confutazione dello stesso errore. I suoi argomenti principali sono i seguenti. La persona divina del Verbo non si è incarnata “in omnibus individuis” (non si è potuta unire “ad ogni uomo”). Se ciò fosse successo, la molteplicità dei soggetti intrinseca alla natura umana sarebbe scomparsa (tolleretur multitudo suppositorum humanae naturae), dato che la Persona divina costituisce l’unico soggetto della natura umana assunta dal Verbo incarnato. (Nel Verbo incarnato ci sono infatti due nature, ma c’è una sola persona e quindi un solo soggetto unitario). Inoltre, la supremazia assoluta del Figlio di Dio nei confronti dell’umanità ne sarebbe risultata sminuita, dato che tutti gli uomini, essendo stati assunti dal Verbo, avrebbero la sua stessa dignità (essent tunc omnes homines aequalis dignitatis). E questo è inconcepibile, dato che il Verbo è “primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29) per ciò che riguarda la natura umana, così come è “generato prima di ogni creatura” (Col 1, 15) secondo la natura divina. Infine, “era conveniente che a una sola Persona divina incarnata corrispondesse un’unica natura umana assunta”.(26)
Possiamo pertanto affermare di trovarci di fronte, con la “cristologia” di GS 22, alla riedizione di un antico errore, ora confezionato nei teologumeni della Nouvelle théologie, che a loro volta risentono dei filosofemi di un Blondel sul “Cristo cosmico” che ha già salvato tutti dall’eternità, ripresi dai vari Teilhard de Chardin ed Henri de Lubac, sino alle elucubrazioni sui “cristiani anonimi” dello heideggeriano Karl Rahner. Tutti costoro, considerati dei Maestri dai papi conciliari e postconciliari, hanno sempre cercato di eliminare la distinzione tra natura e Grazia, tra la natura e il Sovrannaturale, aprendo la strada al principio d’immanenza nella teologia cattolica, all’affermarsi di una concezione sostanzialmente panteistica del rapporto tra Dio e l’uomo.(27)
Il prof. Padre Herreras fa capire che questa nuova concezione della salvezza di GS 22 non tocca il dogma dell’unione ipostatica: “La unión hipostática de Jesús con su humanidad concreta es diferente a la de su unión con los hombres”.(28) Che sia “differente” non c’è dubbio. Che l’affermata “su unión con los hombres” non abbia conseguenze negative per il dogma mi sembra tuttavia impossibile affermarlo. Infatti, questa oscura “unione [in certo modo] con ogni uomo” viene attribuita all’Incarnazione come tale, quale suo oggettivo, intrinseco risultato per ogni uomo, pur non essendone ogni uomo affatto cosciente (del resto, come potrebbe esserlo?). Il testo latino usa l’ablativo assoluto (sua Incarnatione), il caso che ha anche un significato “strumentale” quando manifesta la descrizione di un rapporto causale implicante la causa efficiente.(29) Si traduce infatti correttamente “con l’Incarnazione” ossia mediante l’Incarnazione, a causa di essa e quindi per il fatto stesso del suo esserci stata, se vogliamo esprimerci in termini ancor più esatti.
Ma se tale oscura “unione” inerisce all’Incarnazione come tale (non ne è quindi un mero accidente), allora come si fa a negare che essa introduce un elemento nuovo e discordante nel concetto dell’unione ipostatica? Nuovo e discordante perché la vantata “unione” del Verbo incarnato con ogni uomo rappresenta una commistione o “confusione” della natura divina con quella umana; commixtio del tutto impura, incompatibile con il concetto stesso di unione ipostatica. Che ne viene quindi in una certa misura deformato. Di che “unione ipostatica” possiamo ancora parlare allorché si vuol sostenere che in essa si ha anche l’unione, ontologica ed esistenziale, del Verbo con ogni uomo peccatore ed ancora irredento? Grazie a GS 22.2 dobbiamo adesso dire che l’unione ipostatica non può più esser intesa nel modo tradizionale e corretto: è unione delle due nature in tutta la loro perfezione e senza confondersi nella persona di Cristo ma per ciò stesso unione delle sole due nature tra loro “in ciascun uomo” per il solo fatto di esser uomo, anche se peccatore: impura ed impossibile mescolanza del divino con l’umano. Possiamo quindi dire, io credo, che il dogma dell’unione ipostatica è stato imbastardito dalla nuova dottrina di GS, 22.2. Infatti, ora l’unione delle due nature, oltre che nella persona di un solo individuo, Gesù di Nazareth, lo sarebbe contemporaneamente delle due nature, umana e divina, in ogni uomo!
7. – Anche papa Francesco occulta il dogma del peccato originale, deformato da GS 22.2.
L’altro errore che risulta in modo evidente dal suddetto paragrafo di GS 22 è quello secondo il quale il peccato originale avrebbe solo “reso deforme” la nostra “somiglianza con Dio”. Ma noi, “misera stirpe d’Adamo infetta dal peccato originale”, a causa del peccato abbiamo perduto la similitudine (la somiglianza) sovrannaturale con Dio, conservandone in modo imperfetto l’immagine, il cui ambito non eccede quello della natura (vedi supra).
Come osservò lo scomparso teologo tedesco, prof. Johannes Dörmann, acuto quanto ignorato critico della ambigua teologia “ecumenica” di Giovanni Paolo II, che aveva fatto di GS 22 un suo cavallo di battaglia:
“Secondo l’insegnamento cattolico “l’unione dell’uomo con Dio” significa “diventare partecipi della natura divina” (2 Pt 1, 4). Con ciò si vuole intendere un’unione fisica [physische Gemeinschaft] dell’uomo con Dio consistente, secondo una precisa definizione scolastica, “in un’unione accidentale, realizzata attraverso un dono creato da Dio (la gratia sanctificans) che, in modo che eccede tutte le forze create, unisce l’anima a Dio e la rende simile a Lui. Per sua natura l’uomo, essendo nel suo corpo come incarnazione di un’idea divina, è un vestigium Dei. Secondo il suo spirito, poi, essendo copia dello spirito divino, è imago Dei. Ma per grazia santificante [concessa ai nostri Progenitori] è elevato a un grado superiore soprannaturale, di somiglianza a Dio, è similitudo Dei.
Secondo la dottrina cattolica, la similitudo Dei è andata perduta e l’imago Dei è rimasta deteriorata nei figli di Adamo – dunque in tutti gli uomini – dal peccato originale. È con l’applicazione dei frutti della Redenzione, nel processo di giustificazione, che la similitudo Dei (gratia sanctificans) che era stata perduta è ridata all’uomo e che l’imago Dei, deteriorata, è restaurata (gratia medicinalis).
Il testo conciliare dice al contrario che il Cristo ha restituito a tutti i figli di Adamo la “somiglianza divina” (similitudo) “alterata” (deformata) dal primo peccato. Così la somiglianza divina non sarebbe stata perduta per il “primo peccato” ma solamente “alterata” da esso”.(30)
Tesi ovviamente errata, contraria alla fede. Recita infatti il Tridentino: a causa della sua disobbedienza, “Adamo ha perso subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato costituito [statim sanctitatem et iustitiam, in qua constitutum fuerat, amisisse] ed è incorso per questo peccato di prevaricazione nell’ira e nell’indignazione di Dio e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitù di colui che, in seguito, ebbe il potere della morte e cioè il demonio [Eb 2, 14]; e, per quel peccato di prevaricazione, Adamo fu peggiorato nell’anima e nel corpo”.(31)
I nostri progenitori, disobbedendo volontariamente a Dio, hanno immediatamente perso la “santità” e la “giustizia” nelle quali Dio, creandoli dal nulla, li aveva “costituiti”, per sua unilaterale e gratuita decisione. E questi due doni, nei quali si attua la “grazia santificante”, erano proprio quelli che ci rendevano simili a Dio. La formula della Scolastica, di origine agostiniana sulla base di Luca 10, 30, comunemente accettata, informante il dettato del Tridentino, era: “homo per peccatum Adae spoliatus gratuitis, vulneratus in naturalibus”.(32) Di questo vulnus, di questa ferita profonda (anche se non totale) inferta dalla Caduta al genere umano, nel discorso di papa Francesco non v’è traccia. La “verità fondamentale sull’uomo”, come egli la espone, resta quella di essere sempre “immagine e somiglianza di Dio”, come se il peccato originale non ci fosse stato o non avesse lasciato traccia alcuna; come se l’uomo non fosse sempre afflitto dalle conseguenze di questo peccato, sempre bisognoso dell’aiuto soprannaturale quotidiano della Grazia, e quindi della Chiesa, per la propria salvezza.
In effetti, il dogma del peccato originale ereditato da Adamo e delle sue conseguenze per noi, è in pratica scomparso dalla dottrina e dalla pastorale della Chiesa, a partire dal Vaticano II (unitamente ad altri fondamentali dogmi e ai vocaboli stessi di “peccato”, “salvezza”, “vita eterna”, “eterna dannazione”, “Inferno”, “Chiesa militante”, “Purgatorio”…). Anche nei testi stessi del Concilio non è che quel dogma brilli per la sua presenza. Intere sezioni della dottrina tradizionale della Chiesa non vengono più insegnate, per esempio la teologia dei Novissimi, a cominciare dai dogmi riguardanti l’esistenza dell’Inferno e della dannazione eterna; ma anche del Purgatorio e del Limbo (dottrina accettata per secoli, non definita formalmente ma poggiante sul dogma).(33) Del Giudizio individuale dopo la morte e di quello Universale (dogmi di fede), chi ne parla più? Oppure vengono alterati, insegnando scorrettamente, come si è appena visto, che la nostra “somiglianza” con Dio è stata solo “deformata” dal peccato di Adamo. Questo intorbidamento del dogma potrebbe indurre ad una errata idea della restituzione della somiglianza divina all’uomo, a credere cioè che essa avvenga comunque ad opera dell’Incarnazione, a prescindere dalla nostra partecipazione all’opera della Grazia in noi, poiché per l’appunto con l’Incarnazione il Figlio di Dio si sarebbe “unito” ad ognuno di noi.
7.1 La Redenzione in senso solo “oggettivo”.
Ma valga il vero: questa “restituzione” non è automatica, avviene come frutto della Redenzione, nel processo della nostra “giustificazione” di fronte a Dio (Rm capp. 3-8), un processo che richiede la partecipazione del nostro libero arbitrio, che insomma richiede la f e d e , oltre all’impegno della nostra ragione e volontà. Dio infatti “vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4) – questa è verità di fede – ma non per questo ha già salvato tutti o tutti si salveranno (che una parte dell’umanità non si salverà, è del pari verità di fede – vedi supra). Se si vuole far intendere che Dio ha già salvato tutti, allora si cade per l’appunto nell’errore della salvezza per tutti (già concessa a tutti) senza necessità né di battezzarsi né di convertirsi a Cristo (Allerlösung), e il Calvario sarebbe stato inutile e superfluo! La teologia cattolica ortodossa “distingue una doppia volontà divina di salvezza, la volontà antecedente e la volontà conseguente. La prima è generale, ma condizionata: essa vuole la salvezza di tutti se ciascuno vuole anch’egli la propria salvezza [se risponde al richiamo della Grazia]. La seconda è assoluta e particolare, si applica solo a coloro i quali, con la grazia, meritano la salvezza eterna. Ma la volontà antecedente resta universale”.(34) Universale, nel senso che Dio la mantiene sempre nei confronti di tutti gli uomini ma sempre in modo condizionato.
I concetti di “volontà antecedente” e “volontà conseguente” possono sembrare difficili, appartenendo essi alla concezione della volontà elaborata dalla Scolastica. Usiamo allora la coppia concettuale “oggettivo-soggettivo”, tipica del patrimonio culturale del nostro tempo.
Riferendosi alla parte finale dell’art. 10 della Gaudium et spes, Dörmann nota che qui il Concilio “in un riepilogo pastorale confessa la fede tradizionale della Chiesa nell’unico Redentore, nell’universalità della volontà salvifica di Dio, nel sacrificio redentore di Cristo e nella grazia salvifica. Nella lingua tradizionale della Chiesa queste verità possono essere tradotte in modo più preciso come segue: Dio vuole la salvezza eterna di tutti gli uomini. Di conseguenza dona la grazia sufficiente per la salvezza non soltanto a tutti i giusti, ma anche a tutti i non credenti, che sono tali senza colpa alcuna da parte loro. In ragione dell’unicità del Redentore e del suo sacrificio, questa grazia è sempre gratia Christi [Dz 318 ss, 827, 1096 ss, 1376 ss]. Tutte queste proposizioni di fede della Chiesa sulla redenzione dell’umanità si rapportano all’universalità oggettiva del piano divino di redenzione. Quanto al lato soggettivo della redenzione, che vien trattato come fosse dogma sotto il titolo di “giustificazione del peccatore”, il testo conciliare ben interpretato non dice parola”.(35)
Il Concilio ripropone dunque solo “il lato oggettivo” della Redenzione. Ma la distinzione tra lato oggettivo e soggettivo, prosegue Dörmann, “è capitale per il nostro argomento e per l’insegnamento della Chiesa. Ma poiché oggi è ben dimenticata, ecco una breve esposizione di questa questione dogmatica. L’uomo-Dio Gesù Cristo, con la soddisfazione da lui offerta a Dio al nostro posto ed il merito che ci ha acquisito come Redentore, ha compiuto la riconciliazione dell’umanità con Dio. Tuttavia questa redenzione oggettiva universale deve esser presa, e fatta propria da ciascuno in particolare, con la redenzione soggettiva. Si chiama giustificazione dikaioosis, iustificatio o santificazione (hagiasmos, sanctificatio) l’atto con il quale il frutto della redenzione è applicato ad ogni uomo. La grazia del Cristo designa il frutto della redenzione.
Il principio della Redenzione soggettiva è il Dio trinitario. La comunicazione della Grazia, in quanto opera dell’amore divino, è attribuita allo Spirito Santo benché sia un’opera comune delle tre persone. La redenzione soggettiva non è tuttavia unicamente opera di Dio, ma reclama la libera collaborazione da parte dell’uomo dotato di ragione e di libertà (Dz 799). È in questa cooperazione fra la Grazia divina e la libertà umana che riposa il mistero insondabile dell’insegnamento sulla Grazia.
Per poter acquisire questa redenzione soggettiva, Dio non sostiene l’uomo solo con un principio interno, la forza della sua grazia, ma anche mediante un principio esterno: è l’attività della Chiesa docente, governante e dispensante la Grazia di Gesù Cristo attraverso i Sacramenti. Lo scopo di questa redenzione soggettiva è l’eterna beatitudine nella contemplazione di Dio”.(36)
Dal Concilio Vaticano II in poi, il concetto della “redenzione soggettiva” è praticamente scomparso dalla pastorale della Chiesa. Come sottolineava lo stesso Dörmann, oggi il nesso indispensabile tra i due aspetti della Redenzione è “ben dimenticato”. La nozione di redenzione che viene oggi insegnata appare quindi monca ed insufficiente. Sulla componente soggettiva della Redenzione si hanno in genere solo occasionali e generici cenni. Un esempio, dalla già ricordata conferenza tenuta dall’allora mons. Vincenzo Paglia al Palazzo delle Nazioni a Ginevra nel dicembre del 2018 proprio sul tema della “salvaguardia della dignità umana”.
Muovendosi sulla falsariga dell’impostazione del Concilio e di papa Francesco egli affermava che, essendo l’uomo creato “a immagine e somiglianza di Dio”, il peccato può “sfigurare questa immagine” la quale, tuttavia, “non viene intaccata radicalmente e comunque viene ripristinata dalla grazia e dalla salvezza che Gesù Cristo offre all’uomo. Questo vale per ogni uomo e ogni donna, che hanno quindi un valore intrinseco, inalienabile e assoluto; quindi non relativo ad altri fattori, quali il comportamento o particolari capacità dei singoli. Certo non si tratta di un automatismo che esclude ogni responsabilità dell’uomo. Anzi la responsabilità viene mobilitata [refuso per: nobilitata?] da questo modo di interpretare la dignità. Quest’ultima infatti altro non è che un modo di indicare la figliolanza da Dio: è un dono del Creatore che chiama la sua creatura al compito di vivere secondo quell’’immagine di Dio’ che ne costituisce la più profonda struttura”.(37)
Si vede come qui si sia persa la distinzione (che ha rilevanza dogmatica) tra “immagine” e “somiglianza” e come ci si sia ridotti in pratica alla sola “immagine”. Ed evidentemente non vale più il concetto che l’immagine sia stata in perpetuo vulnerata con la perdita di tutti i doni preternaturali tranne l’uso dell’intelletto, uso però reso faticoso, difficile e anche drammatico dalle conseguenze del peccato originale. L’uomo deve ovviamente “collaborare” all’opera della redenzione, ma avrebbe solo una certa responsabilità, non meglio precisata. Responsabilità che ci impone “il compito di vivere secondo l’immagine di Dio che costituisce la nostra più profonda struttura”, aggiunse l’allora mons. Paglia. Semplicemente il compito di vivere in modo coerente alla nostra “più profonda struttura”, qualsiasi cosa ciò significhi, rappresentata da una “dignità” che risulta (ex art. 22.2 GS) dalla supposta unione di Cristo con ogni uomo ex Incarnatione? Ma qui c’è ben altro in gioco, c’è la salvezza della nostra anima, della quale non si parla più, la necessità di una lotta spesso drammatica contro il mondo e soprattutto contro noi stessi per perseverare sino alla morte nella fedeltà ai comandamenti del Signore!
Infatti, l’uomo nuovo che è il cristiano autentico (Giov cap 3) non viene “restituito” esattamente nella condizione nella quale si trovava Adamo prima della Caduta. Non ottiene di nuovo la perfetta integrità (immunità dalla concupiscenza, dall’ignoranza, dal dolore e dalla morte) che costituiva l’insieme dei doni preternaturali elargiti gratuitamente da Dio. Ottiene di nuovo i doni soprannaturali ossia la Grazia santificante ma non i doni preternaturali, e questo già col Battesimo. La grazia santificante viene pertanto restituita dai meriti del Redentore nel processo della nostra giustificazione ad un essere umano vulnerato in naturalibus, che pertanto può anche rifiutarsi alla Grazia.(38)
Il Tridentino ci spiega, infatti, che il battesimo cancella questo peccato lasciandone però in vita un’eredità gravida di conseguenze: “Chi nega che per la grazia del Signore Nostro Gesù Cristo, conferita nel battesimo, sia rimesso il peccato originale, o anche se asserisce che tutto quello che è vero e proprio peccato, non viene tolto, ma solo cancellato o non imputato, sia anatema […] Questo Santo Sinodo confessa che tuttavia nei battezzati rimane la concupiscenza o passione. Ma, essendo questa lasciata per la lotta, non può nuocere a quelli che non acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, chi avrà combattuto secondo le regole, sarà coronato [2 Tm 2, 5]”.(39)
Vediamo dunque che papa Francesco, per fondare questo concetto della “dignità originaria” dell’uomo come valore assoluto “inalienabile” e “sublime” perché di origine divina, tale, quindi, da mantenere intatta la nostra iniziale “immagine e somiglianza con Dio”, deve contraddire il dogmatico dettato del Tridentino: deve cioè far credere che la “somiglianza” nostra originaria con Dio sia sempre rimasta inalterata in noi. Ma insinuare una simile concezione, mi chiedo, non è assurdo già dal punto di vista della semplice logica? Se l’immagine e la somiglianza iniziali con Dio sono rimaste intatte in noi, allora non dovremmo esser sempre rimasti immortali, esenti dalla malattia, possessori di scienza infusa, innocenti, come erano all’inizio i nostri Progenitori?
7.2 La falsa unione con Dio del genere umano irredento, stravolgendo il senso di Gv 17, 22.
L’impressione che si ricava dalle esternazioni di papa Francesco è che per lui non vi sia nulla da “restaurare” nell’uomo o da “restituire” all’uomo. Siamo sempre rimasti “immagine e somiglianza” di Dio poiché il Redentore, con l’Incarnazione, si è addirittura “unito ad ogni uomo dal momento in cui viene concepito sotto il cuore di sua madre”, come ha scritto Giovanni Paolo II (vedi infra): che vogliamo di più? Noi, esseri umani, siamo ontologicamente in comunione anzi in unione con Dio, quale che sia la nostra religione di appartenenza, questo è (sarebbe) il frutto “universale” dell’Incarnazione. Questa è la verità che la Chiesa, illuminata dalla Nuova Pentecoste del pastoral Concilio, deve ora illustrare all’umanità (già salvata da un’Incarnazione così concepita o meglio deformata) mediante il “dialogo” e la promozione dell’unità del genere umano all’insegna dell’umanesimo, delle opere di bene, dell’universale “democrazia”.
L’idea di questa eterodossa “unione” del Figlio di Dio con ogni uomo costituisce poi il fondamento di una concezione “comunitaria” della Chiesa visibile, che si vuole sostituire a quella tradizionale, gerarchica. Tutto nella Chiesa visibile attuale deve avere una predominante “dimensione comunitaria”, anche la santità. Che simile dimensione esista nella Chiesa e non solo nella “universale vocazione alla santità” che la deve caratterizzare (Lumen Gentium, cap. V), non si può certo negare. Peculiare appare tuttavia la connessione stabilita dalla dottrina oggi prevalente tra la santità intesa nel suo aspetto per l’appunto “comunitario” e GS 22.2. Ha detto, infatti, papa Francesco in un Discorso del novembre 2023 ai partecipanti ad un Convegno su “La dimensione comunitaria della santità” promosso dal Dicastero delle cause dei santi: “La santità unisce e attraverso la carità dei santi noi possiamo conoscere il mistero di Dio che “unito […] ad ogni uomo” (Cost. past. Gaudium et spes, 22) abbraccia nella sua misericordia l’intera umanità, perché tutti siano una cosa sola (cfr Gv 17, 22). Quanto il nostro mondo ha bisogno di ritrovare in tale abbraccio unità e pace”.(40)
Cerchiamo di interpretare. La grande carità della quale danno prova i Santi ci unisce (fortificando la nostra fede) con il suo alto esempio. Ma quest’unione svela, in realtà, il mistero dell’unione di Cristo con ogni uomo, di cui a GS 22.2. Senza questa precedente “unione” teandrica, se così possiamo dire, l’esempio dei Santi non sarebbe efficace per la comunità. Ma qui l’unione non è con il Figlio di Dio, è addirittura con Dio, con la Prima Persona della Ss.ma Trinità. Papa Francesco va ancora oltre il testo conciliare, che per lui evidentemente serve solo come una sorta di canovaccio. Comunque sia: Dio è unito ad ogni uomo, ci insegna il Concilio, e nella sua misericordia “abbraccia tutta l’umanità”. A qual fine? Affinché “tutti siano una cosa sola”, come scrive Giov 17, 22. Il mezzo è l’unità, il fine è l’unità: unità misericordiosa di Dio con l’uomo, con tutti gli uomini, per raggiungere l’unità di tutti gli uomini, affinché il genere umano diventi “una cosa sola”.
L’unione del Figlio con l’uomo per il fatto stesso dell’Incarnazione, questa straordinaria proposizione di GS 22.2 viene unita all’interpretazione “ecumenistica” di Gv 17 , 22, tipica di Giovanni Paolo II, per conferire all’ unione stessa il fine di realizzare l’unità del genere umano nella misericordia di Dio, che tutti abbraccia a priori senza obbligo di convertirsi a Cristo (e senza condannare nessuno, visto che del Giudizio dopo la morte non se ne parla più). Ma se noi andiamo a leggere il testo giovanneo vediamo subito che l’interpretazione che ne fa scaturire papa Francesco non è quella giusta. È il testo della famosa preghiera di Cristo al Padre (Preghiera sacerdotale) nell’imminenza della tragedia finale. Gesù consegna al Padre i suoi discepoli affinché li protegga, dopo aver fatto tutto quello che il Padre gli aveva comandato. Coloro che debbono essere sempre o comunque diventare “una cosa sola” sono solo i suoi discepoli, a cominciare dagli Apostoli, non la totalità dell’umanità. Anzi, in questa preghiera, con la quale il Signore rimette i suoi discepoli e solo loro alla protezione del Padre, i veri seguaci di Cristo sono separati dal mondo e contrapposti ad esso: sono gli Eletti per volontà del Padre, che sono nel mondo ma non del mondo. Il testo giovanneo dice esattamente il contrario di quello che papa Francesco gli fa dire, ampliando l’interpretazione “ecumenistica” di Giovanni Paolo II.
“Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dati, scelti di mezzo al mondo: erano tuoi e li hai donati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora hanno conosciuto che tutto quello che mi hai dato, viene da te, perché le parole che desti a me le ho date a loro, ed essi le hanno accolte […] Io prego per loro ma non prego per il mondo ma per quelli che mi hai donati, perché sono tuoi […] Ormai io non sono più nel mondo; ma essi restano nel mondo, mentre io vengo a te. Padre mio, custodiscili nel nome tuo che mi hai dato, affinché siano una cosa sola come noi”. La “cosa sola” è l’unità tra il Padre e il Figlio che deve servire da modello per i discepoli affinché restino sempe uniti tra di loro, solo espellendo l’indegno. Difatti: “Finché ero con essi, io li conservavo nel tuo nome, the tu mi hai dato, e li ho custoditi e nessuno di loro è perito, eccetto il figlio della perdizione [Giuda Iscariote], affinché sia compiuta la Scrittura […] Io ho comunicato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come neanch’io sono del mondo. Non chiedo che tu li tolga dal mondo ma che tu li guardi dal male […] Né soltanto per questi prego ma prego anche per quelli che crederanno in me, per la loro parola, affinché siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, Padre, ed io in te; che siano anch’essi una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato”.(41)
Nell’Enciclica Ut unum sint del maggio 1995, dedicata all’ecumenismo, Giovanni Paolo II riferiva all’art. 9 lo “affinché diventino una cosa sola” (ut unum sint) sopra riportato a tutti i cristiani, come se l’appello di Gesù al Padre dovesse intendersi nel senso di un’unità oggi necessariamente includente anche i cosiddetti “fratelli separati”, nello spirito per l’appunto dell’ecumenismo sincretistico invocato dal Concilio . Ma nella citazione di papa Francesco, per quanto oscura, si vede come l’auspicata unità sia diventata quella dell’umanità perché Dio è a priori unito all’uomo e pertanto lo gratifica collettivamente della sua misericordia. E qui, a mio avviso, siamo completamente fuori dal cattolicesimo ed anzi, a ben vedere, da ogni forma di cristianesimo. Della necessità della Conversione a Cristo e della Giustificazione, neppure l’ombra. La divina misericordia è invocata solo per giustificare la supposta unità dell’umanità in Dio e, per conseguenza, in se stessa.
8. - L’antropologia di papa Francesco mantiene quella dei predecessori: analisi di ‘Redemptor hominis’, 13, di Giovanni Paolo II.
La “pastorale” di papa Francesco continua in realtà, su questo punto, un’impostazione già presente nei suoi predecessori. Possiamo infatti notare come, già con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ben prima di diventare papa, l’essenziale differenza tra “immagine” e “somiglianza” di Dio in Adamo avesse perso il suo autentico, drammatico significato salvifico e quindi la sua corretta portata teologica, venendo annegata nella prospettiva della “salvezza per tutti” o “redenzione universale” insufflata da GS 22.2.
Questo stravolgimento appare in tutta la sua evidenza nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II, cioè nel § 13 della Redemptor hominis, ed è stato messo in rilievo dalle accurate analisi di Johannes Dörmann, che costituiscono il mio filo conduttore.(43)
L’articolo 13 menzionato si trova nel cap. III dell’Enciclica, dedicato al tema: “L’uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo”. Si noti: non “la redenzione dell’uomo” bensì “l’uomo redento”. L’art. 13 si intitola: “Cristo si è unito ad ogni uomo”. L’inciso “in certo modo”, di cui a GS 22.2, è caduto. Nel corpo dell’articolo ritorna ma solo perché il papa cita espressamente l’Incarnazione secondo la lettera di GS 22.2. Stabilita questa “unione” di Cristo con ogni uomo, il compito della Chiesa è allora quello di “far sì che una tale unione [di Cristo in un certo modo ad ogni uomo] possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa si irradia”.(44)
Si vede come l’unione di Cristo ”con ogni uomo” possa anche intendersi in senso solo spirituale, morale, se essa significa in realtà che grazie ad essa “ogni uomo possa ritrovare [spiritualmente] Cristo [e quindi convertirsi]”. Ma che significhi solo questo non lo possiamo affatto dire, guardando al contesto generale dello scritto wojtyliano. Il significato dell’Incarnazione e della Redenzione è poi visto dal Papa sempre e solo nella “potenza dell’amore” di Dio nei confronti dell’uomo. Egli tace sempre su tutti gli altri fondamentali significati, a cominciare da quello di rappresentare esse la soddisfazione della Giustizia divina nei riguardi del mondo e di ottenerci il perdono per i nostri peccati. Ora, prosegue il documento, Cristo “è la via principale della Chiesa ed è anche la via a ciascun uomo”. Perché si converta? Il papa non lo dice mai. Questa via “conduce da Cristo all’uomo” ed è “la via sulla quale Cristo si unisce a ogni uomo”. Come intendere qui l’unione? In senso solo spirituale o simbolico? In ogni caso, nota Dörmann, c’è già un elemento essenziale del concetto della “redenzione universale”: lo “ogni uomo” è infatti ogni uomo, non il cristiano, il convertito o il battezzato. Cristo si è dunque “unito” a ciascuno di noi e ciascuno di noi, ciascun uomo, deve ritrovarlo. Vediamo dunque ribadita la dottrina già apparsa in GS 22.2: con l’Incarnazione Cristo si è unito a ciascun uomo in quanto tale, senza bisogno di conversioni e pertanto dell’opera della Chiesa (che ci amministra i Sacramenti) e del contributo del libero arbitrio di ciascuno.
Ciò significa che nell’uomo è una “eminente dignità” (Gaudium et spes, 91, espressamente citato), che la Chiesa considera suo dovere salvaguardare, con tutta la sollecitudine del Buon Pastore. Ma ciò significa, allora, che il compito del Buon Pastore è ora quello di salvaguardare, difendere l’eminente dignità dell’uomo, derivante dal fatto che Cristo, secondo il Concilio, si è con l’Incarnazione unito a ciascun uomo. Il compito essenziale della Chiesa non è più quello di convertire ogni uomo a Cristo, per la salvezza della sua anima; è quello di difendere “l’eminente dignità” dell’uomo.(45) La “variazione dottrinale”, per usare un termine di Amerio, appare già qui a mio avviso in tutta la sua devastante portata. Perciò la Chiesa, conclude il papa sul punto, citando GS 76, “è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana”. Quest’ultimo riferimento alla “persona umana” è più vicino al modo tradizionale di esprimersi della Chiesa. Resta però il fatto che questo “carattere”, come si è visto, è “trascendente” a causa della (supposta) unione del Cristo “cosmico” con ogni uomo!
Dopo aver introdotto l’argomento in questo modo, il papa prosegue, approfondendo il concetto dell’uomo. Di quale uomo si tratta, quando si parla dello “uomo redento”? Di un uomo estremamente concreto, secondo il papa, perché “si tratta di ciascun uomo”. E perché, di ciascuno? “Perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero”. L’impressione che si avverte fortemente è quella di trovarsi di fronte ad una enunciazione già più marcata della dottrina dei “cristiani anonimi”: con l’Incarnazione Cristo si è unito per sempre a ciascun uomo! Tuttavia, la frase del papa potrebbe ancora esser intesa in senso tradizionale, sottolinea Dörmann, se si conferisce all’unione un significato simbolico e non ontologico, anche se la presenza del “per sempre” sembra voler significare il carattere ontologico dell’unione.
Lo stesso si potrebbe dire del prosieguo immediato del ragionamento, nel quale il papa ci ricorda che ogni uomo è affidato alla “sollecitudine” della Chiesa “a motivo del mistero della Redenzione”. Questa sollecitudine riguarda “l’uomo intero”, l’uomo nella sua “unica e irripetibile realtà umana”. Giovanni Paolo II vuole introdurre, a questo punto, la nozione di “uomo intero”, che a prima vista potrebbe apparire semplicemente letteraria o retorica, come si preferisce. Ma che cosa riveli questa nozione, lo capiamo subito dopo. Continua, infatti, l’Enciclica:
“L’oggetto di questa premura [della Chiesa] è l’uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui peraltro rimane intatta [integra permanet] l’immagine e la somiglianza con Dio stesso [Gn 1, 27]. Il Concilio indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che “l’uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (GS, 24). L’uomo, così com’è “voluto” da Dio, così com’è stato da Lui eternamente “scelto”, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, e del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore di sua madre”.(46)
Lascio a questo punto la parola al prof. Dörmann.
[Giovanni Paolo II ha forgiato l’errore della “integra permanet”] Tutto questo testo, scrive il teologo tedesco, “potrebbe essere inteso e interpretato nel senso del dogma cattolico, fino alla frase ove si dice che l’immagine (imago) e la somiglianza (similitudo) dell’uomo con Dio rimangono intatte”.(47) A partire da questa frase, no. Affermazione molto grave, tenendo anche presente che il Concilio di Trento infligge l’anatema ovvero la scomunica latae sententiae a chiunque neghi le verità da esso definite come verità di fede, divina e cattolica. Vediamo, allora.
Tutte le affermazioni sull’uomo “concreto” incluso nel mistero della Redenzione e quindi affidato alle cure della Chiesa e “unito” a Gesù “per sempre”, potrebbero accordarsi con la dottrina tradizionale della Chiesa poiché si potrebbero ancora interpretare in senso tradizionale; ovvero, aggiungo io, in un senso puramente simbolico, spirituale, morale, come se ancora rinviassero all’idea tradizionale della missione come conversione. Si ha invece una rottura evidente con il dogma cattolico, là ove il papa afferma esplicitamente che l’uomo “intero”, unico e irripetibile nella sua realtà, è quello “in cui permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”. Rimarca Dōrmann:
[…] non si può sostenere che nella “realtà unica ed impossibile a ripetere” di ogni “uomo reale, concreto, storico permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso”, dal momento che il dogma del peccato originale insegna la ferita inferta all’imago e la perdita della similitudo Dei nella realtà concreta di ogni uomo. La redenzione presuppone la condizione di peccato nella quale ogni uomo si trova dopo la colpa originale, condizione che viene cancellata attraverso la giustificazione del peccatore [per la quale l’Autore rimanda alla sua definizione tridentina]. È evidente che la frase decisiva dell’Enciclica [il permanere intatto dell’immagine e della somiglianza dell’uomo con Dio] è inconciliabile con il dogma della Chiesa. Questa affermazione è in diretta contraddizione con l’insegnamento del Concilio di Trento sulla giustificazione”.(48)
L’enciclica woytiliana, prosegue Dörmann, va al di là di GS 22.2. Si è passati, infatti, dalla similitudo deformata del testo conciliare alla similitudo quae integra permanet. E anzi, secondo il nostro Autore, “l’affermazione che in ogni uomo, dall’istante del suo concepimento integra permanet imago et similitudo Dei ipsius, fa pensare al dogma dell’Immacolata Concezione!”.(49) Anche senza arrivare a tanto, annoto, resta comunque fortissima l’impressione di una nuova dottrina che tende con tutte le sue forze a divinizzare l’uomo. E che non arretra di fronte a dichiarazioni che in modo aperto non concordano con il dogma e persino lo contraddicono.
Aggiungo, inoltre, due osservazioni.
Il papa contraddice qui anche il dogma della predestinazione perché afferma che l’uomo, e anzi “ogni uomo”, è stato “eternamente scelto”, chiamato, destinato alla Grazia e alla Gloria. Alla Grazia “sufficiente” sì, lo sappiamo perché così è stato rivelato ed insegnato, ma non a quella “santificante”, che è riservata da Dio ai predestinati, a quelli destinati appunto alla Gloria, secondo quanto ci insegna san Paolo, nella Lettera ai Romani.
La seconda osservazione concerne il riferimento all’art. 24 della Gaudium et spes, nel quale si afferma che “l’uomo è l’unica creatura che Dio ha voluto per se stessa”. Quest’affermazione è stata criticata in particolare da Romano Amerio, che l’ha considerata teologicamente errata, dal momento che si è sempre ritenuto aver Dio creato l’intero universo, incluso l’uomo, per la sua propria Gloria (Prov. 16, 4: Universa propter semetipsum operatus est Dominus). Essa mostra un antropocentrismo fuori misura e appare in contraddizione con l’idea stessa di una creazione dal nulla (venendo dal Nulla rispetto a se stesso, l’uomo non poteva possedere ex sese una qualità tale da indurre Dio a crearlo). Inserendola nel suo discorso nel modo che si è visto, Giovanni Paolo II sembra fornirne di fatto questa interpretazione: scrivendo che “l’uomo sulla terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” il Concilio ha voluto indicare questa verità: che nell’uomo l’immagine e la somiglianza con Dio sono rimaste intatte! Ha voluto, cioè, affermare una tesi di per sè in aperta contraddizione con il dogma del peccato originale! (50)
Secondo Dörmann, “l’affermazione che per ogni uomo, dal primo istante della sua esistenza, ‘permane intatta l’immagine e la somiglianza con Dio stesso’, offre una chiara definizione, in grado di fugare ogni ragionevole dubbio, della tesi della redenzione universale”.(51) Una variazione di questa portata, il cui gravissimo significato non ha nemmeno bisogno di esser sottolineato, ha comportato, prosegue il Nostro, un “cambiamento di senso” nel vocabolario teologico tradizionale, che è “difficile da afferrare” e tuttavia è indubbiamente “profondo”.(52) Egli apporta due esempi.
Il primo riguarda l’immagine caritatevole della Chiesa, alla cui “sollecitudine” ogni uomo, ricorda il papa, è affidato “a causa del mistero della Redenzione”. Ma questa “sollecitudine” – questo è il punto – non mira più a fare degli uomini e dei popoli “discepoli di Cristo” (Mt 28, 18-20). Poiché ogni uomo, “dal primo istante della sua esistenza”, lo si concepisce “legato al Cristo da un’unione soprannaturale, per sempre e in maniera indissolubile, che lo sappia o no e che lo accetti o no, è allora in un senso del tutto differente da quello fin qui inteso che egli è affidato alla sollecitudine della Chiesa”.(53) E difatti, ricordiamolo ancora una volta, di che cosa appare “sollecita” la Chiesa (la Gerarchia) oggi? Di convertire individui e popoli? Nient’affatto. Di renderli edotti mediante il “dialogo” del fatto che l’Incarnazione, con la quale il Figlio di Dio si è “unito ad ogni uomo” [!!], li ha già salvati, perché Dio è “Amore”, onde essi devono concorrere con tutti i cristiani e tutti gli altri uomini all’istituzione della pace e della fratellanza universali, all’unità del genere umano!
Il secondo esempio concerne la nozione stessa della Chiesa, che di fatto non è più la stessa.
“Se il Figlio di Dio con la sua Incarnazione si è unito per sempre e in maniera indissolubile a ogni uomo, se “l’esistenza in Cristo” è divenuta la “dimensione” religiosa di ciascun uomo, tutta l’umanità forma allora, nel e con il Cristo, un’unità organica, un organismo natural-soprannaturale. La Chiesa viene allora a coincidere con l’umanità, “nel mistero della redenzione” e “dell’uomo”, mentre il “dualismo” natura e grazia, Chiesa e umanità, viene superato nel suo stesso principio. La Chiesa Corpus Christi Mysticum e l’umanità Corpus Christi Mysticum non si differenziano più nel loro essere profondo che è “l’esistenza nel Cristo”, ma soltanto secondo “l’espressione” graduale della forma nella quale si presentano”.(54)
Sin da quando era cardinale, sottolinea Dörmann, Giovanni Paolo II ha inteso in senso antropocentrico la Rivelazione, muovendo proprio da GS 22.2. Secondo la dottrina tradizionale, fondata sul Vangelo di Giovanni, “la Rivelazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio è divenuto uomo incarnandosi nella Vergine Maria e ha rivelato la gloria dell’unico Figlio del Padre, in una parola la gloria di Dio”.(55) Invece Giovanni Paolo II ha sostenuto più volte che “la Rivelazione si concretizza nel fatto che il Figlio di Dio, mediante la sua Incarnazione, “si è unito a ogni uomo, è diventato, come Uomo, uno di noi”. La differenza con la formulazione del Vangelo di Giovanni balza subito all’occhio: nel concetto wojtyliano della Rivelazione il fatto interiore dell’unione nascosta del Figlio di Dio con ogni uomo corrisponde al fatto esteriore dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che diventa uno di noi e ci espone o ci “svela”, in quanto uomo, la nostra propria umanità”. E proprio qui abbiamo la svolta antropocentrica: “l’unione del Cristo con ogni uomo attraverso l’Incarnazione costituisce l’oggetto primario, fondamentale, della nozione di Rivelazione ed è anche la chiave per la comprensione del “carattere antropocentrico della Rivelazione”, sostenuto dal papa polacco sin da quando era cardinale”.(56)
L’analisi a mio avviso impeccabile del prof. Dörmann dimostra come l’inciso eterodosso sull’Incarnazione come unione di Cristo con ogni uomo, infiltrata nel Concilio, abbia provocato una inaccettabile variazione nel concetto della Rivelazione, incompatibile con il dogma della fede.
Il cattivo seme gettato nel Concilio ha fatto nascere una gramigna difficile da estirpare. La gramigna ha intorbidato l’insegnamento ortodosso circa l’uomo nel suo rapporto con Dio dopo la Caduta e il concetto stesso di unione ipostatica. Successivamente, come si è visto dai testi di Giovanni Paolo II citati, si è affermato un insegnamento contrario al dogma avendo esso riproposto come nulla fosse l’uomo quale intatta “immagine e somiglianza di Dio”. Tutta la teologia ortodossa sulla Caduta, con la distinzione capitale tra “immagine” e “somiglianza”, e quindi tra Natura e Grazia, è andata perduta per la dottrina che viene attualmente insegnata, che è quella della Redemptor hominis.
Dörmann ricorda come l’allora prof. Ratzinger avesse notato in un articolo accademico, con il suo stile distaccato, che il testo conciliare era impreciso nel dire che la similitudo Dei era solo “deformata”, però in questo egli scorgeva solo un piccolo scostamento dal “metodo scolastico”, una questione di “dettagli tecnici”. A simile, superficiale constatazione, Dörmann replicava che “l’inesattezza nella distinzione tra imago e similitudo Dei, non è tale solo nei confronti del linguaggio della Scolastica, ma anche nei confronti di un dogma fondamentale della Chiesa, base di tutta la dottrina cattolica sulla redenzione ossia la necessità radicale della redenzione – che la Bibbia testimonia – per l’uomo macchiato dal peccato originale. Tale necessità è stata chiaramente definita dal Concilio di Trento con le sue determinazioni sul dogma del peccato originale. La piccola inesattezza “nei confronti del linguaggio scolastico” è in realtà una violazione del dogma e una porta aperta alle diverse teorie della redenzione universale” .(57)
9. – Secondo Benedetto XVI ”l’immagine e somiglianza con Dio” si sono sempre mantenute in noi perché “Dio è amore”.
Da cardinale, Benedetto XVI è intervenuto sul problema della “somiglianza” dell’uomo con Dio, in occasione di un importante Convegno, con concetti successivamente riprodotti, almeno in parte, nella catechesi delle parrocchie e nel breve Compendio del Nuovo Catechismo fatto fare da lui e oggi dimenticato. La sua esegesi si sviluppa sulla falsariga di quella inaugurata da papa Giovanni Paolo II.
Il Convegno, del novembre 1996, fu organizzato dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute sul tema “Immagine e somiglianza di Dio: sempre? Il disagio della mente umana”. Era dedicato al delicato tema dell’assistenza ai malati di mente. Fu preceduto da un breve Discorso introduttivo del Santo Padre, nel quale Giovanni Paolo II ribadiva in pratica la sua personale visione antropologica, quella esposta nella citata Redemptor hominis. Senza mai nominare i problemi creati dal peccato originale all’irenica condizione iniziale dell’umanità e alla sua discendenza, il papa concludeva: “Questa concezione dell’uomo, come immagine e somiglianza di Dio, non solo è confermata dalla Rivelazione neo-testamentaria, ma ne viene massimamente arricchita”. Siffatto “arricchimento” avrebbe trovato la sua acmè nella famosa sentenza di GS 22.2: la nostra natura umana è stata “innalzata ad una dignità sublime” poiché “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”.(58) Che il malato di mente conservi sempre la dignità derivante dall’esser una Persona la cui umanità non può esser intaccata dalla malattia, anche di mente, su questo non ci piove. Che la dignità con cui ha diritto ad esser trattato il malato derivi, tuttavia, dal fatto che “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è [in un certo senso] unito ad ogni uomo”, facendone pertanto diventare la dignità “sublime” e, secondo papa Francesco e il cardinale Fernández, addirittura “infinita”, questo, come credo di aver dimostrato, non si può sostenere in alcun modo, non potendo esserci stata l’unione del Figlio di Dio con ogni uomo, di cui a GS 22.2.
Al crimine nefando dell’eliminazione sistematica dei disabili e malati di mente sotto il nazismo, perpetrato anche nel suo bavarese villaggio natale, il cardinale opponeva giustamente la verità testimoniata dalla Scrittura sulla vera origine dell’uomo: “la luminosa parola di Dio, con la quale la Genesi introduce il racconto della creazione dell’uomo: creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza – faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, traduce la Volgata (Gen 1, 26). Ma cosa si intende con questa parola? In cosa consiste la somiglianza divina dell’uomo? Il termine all’interno dell’Antico Testamento è per così dire un monolito; non appare più nell’Antico Testamento ebraico, anche se il Salmo 8 – ‘Cos’è l’uomo, perché tu ti ricordi di lui? – rivela una parentela interiore con esso. Viene ripreso solo nella letteratura sapienziale” . Della letteratura sapienziale il cardinale citava Siracide, 17,2 e il libro della Sapienza 2, 23, testi non particolarmente significativi: nel primo la “somiglianza” dimostrava la grandezza dell’essere umano; nel secondo l’immortalità dell’uomo. Si trattava comunque di accenni.(60) Tralasciando l’ Antico Testamento bisognava ricorrere al Nuovo.
Il dato da cui partire, secondo il cardinale, era costituito dal fatto che nel Nuovo Testamento “Cristo viene designato come ‘l’immagine di Dio’(2 Cor 4, 4; Col 1, 15)”. I Padri hanno precisato che, se Cristo “è l’immagine di Dio” l’uomo invece “non ne è l’immagine ma ad imaginem, creato ad immagine, secondo l’immagine”.(61) In effetti, osservo, Cristo ha detto: “Chi ha visto Me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), ma questo non si può certo dire dell’uomo. Chi vede l’uomo, vede solo l’uomo, anche se esso è ad imaginem Dei, però vulnerata dalle conseguenze del peccato originale. Ma come può l’uomo diventare effettivamente o il più possibile “immagine di Dio”? Lo sappiamo dalla dottrina tradizionale, sopra ricordata: mediante l’opera della Grazia che si integra al nostro libero arbitrio che la cerca. Mediante quest’opera soprannaturale a noi viene restituita la “somiglianza” con Dio, che ci fortifica nella battaglia per realizzare la nostra vita come “immagine” di Dio, concorrendo all’uso corretto del nostro intelletto e della nostra volontà, gli unici doni preternaturali rimasti da quelli iniziali. Ma in quest’opera un ruolo fondamentale svolge la Chiesa, amministrandoci i Sacramenti, mediante i quali la Grazia santificante ci assiste nella nostra quotidiana lotta interiore per la santificazione, costituente l’indispensabile lato “soggettivo” della Redenzione (vedi supra).
Ma nell’intervento del cardinale la Grazia brilla per la sua assenza.
“Detto con altre parole - continua egli – l’immagine originaria dell’uomo, che a sua volta ripresenta l’immagine di Dio, è Cristo, e l’uomo è creato a partire dalla sua immagine, su sua immagine. La creatura umana è allo stesso tempo progetto preliminare in vista di Cristo, ovvero: Cristo è l’idea fondamentale del Creatore, ed egli forma l’uomo in vista di lui, a partire da questa idea fondamentale”.(62)
Osservo: l’Antico Testamento riporta che Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Secondo alcuni, ci sarebbe qui un riferimento alla S.ma Trinità; secondo altri, si tratterebbe di un semplice plurale maiestatico. In ogni caso, l’immagine e la somiglianza sono qui riferite a Dio Padre non al Figlio. Mi chiedo se sia legittimo sostituire qui il Figlio al Padre, partendo dal fatto che il Figlio è “immagine del Dio invisibile”, come ci insegna san Paolo (Col 1, 15). Perché cambiare il dato offerto dalla Scrittura e mantenuto dalla Tradizione della Chiesa? Inoltre, come notavano i Padri, il modo nel quale Cristo è “l’immagine dell’invisibile Iddio” non è identico al modo nel quale l’uomo fu creato “ad immagine di Dio”, per il semplice motivo che l’uomo poteva esser solo simile a Dio mentre il Verbo è ab aeterno consustanziale al Padre ovvero a Lui identico nella sostanza.
Che l’uomo in mente Dei fosse già “progetto preliminare in vista di Cristo” risulterebbe da un oscuro passo di Tertulliano, pescato dal Vaticano II (“quodcumque limus exprimebatur, Christus cogitabatur homo futurus” – De carnis resurr., 6; riportato nella nota n. 23 della Gaudium et spes). Sin da quando lo formava dal fango (limus), Dio pensava a Cristo come archetipo sul quale fabbricare l’uomo?
Comunque sia, vedere il Cristo come il modello dell’uomo dimostrava, secondo il cardinale, “la presenza di un dinamismo ontologico e spirituale” nell’uomo. Di tale “dinamismo” sarebbero evidente espressione le due Lettere di san Paolo ai Corinti e quella ai Romani. Soprattutto in quest’ultima, là ove si afferma che “gli uomini sono predestinati ‘ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli’ (Rom 8, 29). Questa conformazione all’immagine di Cristo si compie nella risurrezione, nella quale egli ci ha preceduto – ma la risurrezione, è necessario richiamarlo già qui, presuppone la croce”.(63) La nostra “conformazione all’immagine di Cristo” non è statica pur essendo “ontologica”: il suo “dinamismo” si compie con la Resurrezione dopo però esser passati per le sofferenze della Croce. Senza la Croce non v’è la Resurrezione.
A sostegno di questa tradizionale dottrina, il cardinale Ratzinger citava il paolino “dinamismo” dei due Adamo, insegnato nella prima Lettera ai Corinti. Il primo Adamo, “l’uomo di terra” ci ha lasciato l’eredità del peccato; il secondo, Gesù Cristo, all’opposto è l’immagine dell’”uomo celeste” che ci apporta la salvezza. L’uomo è posseduto da una tensione interiore “tra fango e spirito, terra e cielo, origine terrena e futuro divino”. Questa “tensione” appartiene alla sua “essenza”, per cui ora “è in cammino verso Cristo, ora si allontana da Lui. L’uomo si avvicina alla sua immagine originaria, o la nasconde e la rovina”. Questa sarebbe la “concezione dinamica della somiglianza divina”. Il cardinale citava un teologo austriaco a supporto, : “L’essere immagine di Dio dell’uomo si fonda sulla predestinazione alla filiazione divina attraverso l’incorporazione mistica in Cristo”.(64) Pertanto, “l’essere immagine è finalità insita nell’uomo, fin dalla creazione, “verso Dio per mezzo della partecipazione alla vita divina in Cristo””(65). Questa concezione “dinamica” sembra riferirsi al fatto che l’uomo, nell’intenzione di Dio, è ordinato ad esser incorporato nel Corpo Mistico di Cristo con il Battesimo. Che questo sia il significato esatto del “dinamismo” individuato dal cardinale, non è però del tutto sicuro, visto che egli adotta la nozione di una “predestinazione alla filiazione divina” che sembra doversi applicare a tutta l’umanità, il che non concorda con il dogma della predestinazione insegnato dalla Chiesa.
A questo punto, corre l’obbligo di osservare:
- la scomparsa della dottrina tradizionale su “immagine” e “somiglianza”, codificata dal Tridentino (vedi supra). I due termini sembrano ora intercambiabili e il cardinale si interrogava sul significato effettivo della “somiglianza”. Confesso che questa domanda mi stupisce. Ratzinger sicuramente non ignorava l’insegnamento della Chiesa in proposito: il Magistero ha conferito rilevanza dogmatica ad una concezione che risale a sant’Ilario, Tertulliano, san Cipriano, secondo la quale Adamo ricevette doni preternaturali che concorsero a formarne la natura umana pura e doni sovrannaturali ossia la grazia santificante, consistente nella “giustizia” e nella “santità” di vita.(66) La “somiglianza” con Dio era quindi costituita dalla Grazia santificante. Ma questa fu perduta subito dopo la Caduta mentre i doni che costituivano l’integrità si ridussero al mantenimento dell’intelletto e della volontà, poiché Iddio non volle castigarci in Adamo ed Eva sino a ridurci al livello dei bruti. Perché Ratzinger non ricordava qui in tutta semplicità questa dottrina? Non poteva, ritengo, dal momento che il papa al tempo regnante aveva affermato, come si è visto, esattamente il contrario e cioè che l’immagine e somiglianza con Dio era “rimasta intatta” (integra permanet). La conseguenza devastante che risultava da questa deviazione dalla retta dottrina era la seguente: ora non occorreva più l’opera imprescindibile della Grazia santificante per restituire all’uomo la somiglianza con Dio, non si doveva più insegnare che la natura dell’uomo inficiata dal peccato originale non poteva esser ristabilita nella sua similitudine a Dio senza l’aiuto della Grazia, il che voleva dire: la salvezza era possibile solo entrando nella Chiesa cattolica che, con i Sacramenti, attua l’opera della Grazia in noi. Ma questo significava contraddire il Vaticano II, che, come sappiamo, ha dichiarato la salvezza esser possibile anche al di fuori della Chiesa cattolica (Lumen gentium 8; decr. Unitatis redintegratio 3). E non si riferiva il Concilio alla dottrina del battesimo di desiderio, esplicito o implicito, secondo la quale i giusti al di fuori della Chiesa a certe condizioni possono salvarsi, nonostante la loro appartenenza a religioni non rivelate, e quindi solo come individui.
- Dal discorso del cardinale emergeva pertanto una nuova concezione dell’esser l’uomo “immagine di Dio”, visto che tale “esser immagine” veniva inteso come “predestinazione alla filiazione divina di tutta l’umanità”. Se tutti gli uomini sono “predestinati” alla “filiazione divina” ossia a diventar cristiani in quanto anelanti dalla nascita senza saperlo al Cristo (vedi infra), allora non solo non si ha più vera predestinazione ma scompare la differenza, di per sé ontologica, tra Natura e Grazia e l’opera della Grazia santificante non è più necessaria per esser restituiti alla somiglianza con Dio e quindi per esser salvati.
- Un nuovo modo di impostare il discorso sull’immagine di Dio in noi: siamo “immagine di Dio” solo in quanto siamo “immagine di Cristo”: estensione a Cristo della nozione di “immagine di Dio” dell’uomo, il cui significato non appare del tutto chiaro, a mio avviso.
Data l’importanza dell’argomento per il dogma, soffermiamoci allora sulla nozione di predestinazione utilizzata dal cardinale. Visto il taglio particolare del suo discorso, come dobbiamo intendere qui la predestinazione? Il cardinale, infatti, citando san Paolo, sembra dire che gli uomini sono “predestinati” senza distinzione ad esser “conformi a Cristo”: senza distinzione, quindi tutti. Ma non avrebbe dovuto dire che gli uomini sono “destinati” ad esser conformi a Cristo? Se “predestinati”, allora questo non è come dire che la salvezza è, alla fine, garantita a tutti? Se invece, “destinati”, allora la salvezza sarà solo di coloro che, sorretti dalla Grazia sino alla perseveranza finale, saranno capaci di lottare con successo per attuare questa destinazione. Negli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio si legge: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e mediante questo salvare la sua anima”.(67) Questa è la “destinazione” sovrannaturale di ogni essere umano, che non è però una “predestinazione” collettiva, visto che il libero arbitrio dell’uomo può lasciarsi sedurre da Satana e rifiutarsi ai mezzi che gli procurano la salvezza, in sostanza alla Grazia. E nel passo della Lettera ai Romani citato dal cardinale, san Paolo si riferisce a tutti gli uomini oppure ai soli eletti in Cristo? In realtà si riferisce ai soli eletti, visto che il suo ragionamento completo illustra il meccanismo della predestinazione alla gloria, che sappiamo bene non esser stata concessa a tutta l’umanità. “Sappiamo poi che tutto coopera a bene per chi ama Dio, cioè per quelli che secondo il suo piano sono chiamati.
Perché quelli che ha preconosciuti li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine di suo Figlio, sì da esser Lui primogenito fra molti fratelli; e quelli che ha predestinati, questi li ha anche chiamati; e quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8, 28-30).
Sembra evidente che i “molti fratelli” dei quali il Cristo è “il Primogenito” sono tutti coloro che (“chiamati secondo il piano di Dio”) si saranno convertiti a Lui, diventando cristiani, in fede, parole ed opere. Se i “molti fratelli” predestinati alla Gloria fossero gli uomini in generale (come si può ricavare dal testo del cardinale) e quindi tutti gli uomini, allora san Paolo sarebbe in contraddizione con quanto da lui stesso insegnato nel cap. 9 della stessa Lettera, nel quale notoriamente afferma la predestinazione di una parte dell’umanità alla salvezza in conseguenza di una precedente scelta di Dio, assolutamente unilaterale e gratuita.
“Non erano ancor nati i figli e non avevano ancor fatto né bene né male, tuttavia affinché rimanesse fermo il disegno di Dio, scelto con libera elezione, senza riguardo alle opere, ma per volere di Colui che chiama, le fu detto ‘ Il maggiore sarà soggetto al minore’, come sta scritto: ‘Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù’. Che diremo, dunque? Che c’è ingiustizia in Dio? No, certo. Egli disse infatti a Mosè: ‘Io userò misericordia a chi uso misericordia, e avrò compassione di chi ho compassione’. Dunque, non dipende da colui che vuole, né da colui che corre, ma da Dio che usa misericordia…”(Rm 9, 11-16).
Tuttavia, secondo la dottrina della Chiesa non esiste una predestinazione alla dannazione, come vorrebbero i predestinazionisti in generale e i calvinisti. Esiste la predestinazione alla Gloria ma chi si danna lo fa per sua colpa. Sin dal Concilio episcopale di Querzy, in Francia (AD 853), la Chiesa ha adottato le profonde parole di san Prospero d’Aquitania: contro pelagiani e semipelagiani, neganti ogni predestinazione: “Quelli che son salvati, ciò è il dono di Colui che salva” - contro i predestinazionisti: “Quelli che vanno in perdizione, è colpa loro se vanno in perdizione”. La Scrittura, come annotò l’Aquinate, espresse i medesimi concetti per bocca del profeta Osea: “La perdizione è colpa tua, Israele; il tuo sostegno è solo in Me” (Osea 13, 9)./68)
Dalla dottrina sempre insegnata dalla Chiesa risulta pertanto che “la predestinazione ad esser conformi all’immagine di Cristo” non investe allo stesso modo gli uomini in generale e quindi tutti gli uomini, come si può invece concludere dal testo del cardinale. Esiste una predestinazione alla Gloria che coinvolge solo una parte del genere umano, mentre il rimanente, pur godendo della Grazia sufficiente (gratia medicinalis) per compiere azioni buone, osservare la legge naturale, e quindi potersi salvare, non gode di una specifica predestinazione alla Gloria. È un grande mistero, questo della predestinazione, di fronte al quale il nostro intelletto deve inchinarsi e accettarlo come viene proposto dalla Rivelazione, rettamente interpretata dal Magistero nei secoli. Mistero tremendo, dal quale, tuttavia, noi credenti non dobbiamo lasciarci travolgere. Teniamo sempre a mente le parole di sant’Agostino: “Dio non comanda cose impossibili ma, nel comandarti, ti ammonisce a fare ciò che puoi e a pregare per ciò che non puoi”.(69)
La difficoltà non superabile da parte dell’intelletto sembra essere la seguente: se solo una parte dell’umanità è predestinata alla Gloria prima ancora di venire al mondo, il rimanente sarà allora predestinato alla dannazione. Ma se è predestinato dall’imperscrutabile volontà divina, dov’è allora la colpa individuale, in chi si danna? Nel già citato cap. 9 della Lettera ai Romani, san Paolo riproduce proprio la domanda di chi considerava ingiusta la divina riprovazione per chi non obbediva a Dio: “Ma tu mi dirai: e perché allora [Dio] muove rimproveri a chi resiste alla sua volontà?” (Rm 9, 19). E come risponde san Paolo? Troncando l’ipotetica disputa: “O uomo, piuttosto chi sei tu che vuoi discutere con Dio? Il vaso d’argilla chiederà forse a chi l’ha formato: ‘Perché mi hai fatto così?” (Rm 9, 20).
La domanda implicava che Dio fosse ingiusto e san Paolo chiude qui la disputa. Non dobbiamo ritenere Dio ingiusto, anche se non riusciamo a conciliare, con il nostro limitato intelletto, i due principi fondamentali della predestinazione. Infatti, 1. abbiamo la predilezione divina anteriore ad ogni merito o in previsione dei futuri meriti (la Chiesa non ha definito questo punto), per cui la Grazia aiuta Tizio che ne beneficia più di Caio, anche se Caio, come si è visto, non viene lasciato del tutto senza aiuto: predestinazione alla Gloria anteriore alla nascita del predestinato. 2. Nello stesso tempo, è verità rivelata che Dio non comanda cose impossibili e vuole che tutti siano salvati. Nella vita di questo mondo, scrive Garrigou-Lagrange, non abbiamo i lumi per vedere come questi due principi “possano perfettamente riconciliarsi”, questi lumi saranno concessi solo ai Beati.(70)
Nel suo celebre Introduzione al Cristianesimo, del 1968, libro di testo per decenni in tutti i Seminari della Cattolicità, il cardinale Ratzinger (al tempo solo professore di teologia) espone il suo modo di intendere la nozione della predestinazione.
Dopo aver spiegato che il cristianesimo è costituito da un “indivisibile binomio formato dal servizio agli uomini e dalla glorificazione di Dio”, egli ulteriormente specifica che:
“L’esser cristiani denota essenzialmente il passaggio dall’essere per se stessi all’esser gli uni per gli altri. In tal modo, si chiarisce anche ciò che in tutta verità si sottintende nel concetto di elezione (‘predestinazione’), che spesso ci risulta così ostico e sconcertante. Essa non sta ad indicare una preferenza che lasci il singolo a se stesso, separandolo dagli altri, bensì il suo ingaggio in quella missione comune di cui parlavamo poc’anzi. Di conseguenza la decisione per il cristianesimo, la sua accettazione senza riserve comporta la scardinamento della posizione accentrata sull’’io’, e al contempo l’annessione all’esistenza di Gesù Cristo, che è completamente dedita al tutto. La stessa cosa vien espressa dal programma che invita l’uomo a “seguire la croce”, che non indica affatto una devozione privata ma è “invece polarizzato sull’idea fondamentale che l’uomo, lasciandosi alle spalle le posizioni arroccate tranquillamente sul proprio ‘io’, esca da se stesso, per seguire il crocifisso ed esistere per gli altri appunto incrociando e tagliando la strada al proprio tirannico ‘io’.(71)
E qual era la “missione comune” nella quale il singolo verrebbe “ingaggiato” dalla divina “elezione”, detta anche “predestinazione”? “Esser cristiani non è un carisma individuale bensì sociale”, sosteneva il cardinale. Il cristiano è quindi “al servizio del tutto”, non si salva “il singolo individuo isolato”: la sua salvezza è nell’ambito “dell’intero complesso”. La “missione” del cristiano è appunto quella di operare al servizio del tutto, della comunità, superando il proprio egoismo individuale.(72) Nessuno slancio trascendente, eroico per la conversione di individui e popoli, per la vita eterna nostra e degli altri, solo la dimensione orizzontale di un arido “altruismo”, che sfocia poi nell’errore della “salvezza comunitaria”. Sono le tesi della concezione sociale della salvezza, sviluppate da Henri de Lubac SI nel suo famoso libro del 1936, già ricordato, nel quale sosteneva assurdamente che era “egoistico” concentrarsi sulla propria salvezza individuale, che la salvezza della comunità era condizione della salvezza degli individui. Ratzinger ha sempre mantenuto la sua stima per de Lubac, censurato sotto Pio XII perché in evidente odor di eresia, ribadendola nella sua seconda Enciclica, la Spe salvi, nella quale riproponeva a sua volta la tesi della natura comunitaria della salvezza.(73)
La predestinazione, vista in quest’ottica, non “separa” il singolo dagli altri ma “lo ingaggia nella missione comune” a tutti gli altri, quella di superare il proprio egoismo individuale per contribuire alla salvezza della comunità. Pertanto, la predestinazione non sceglie ab aeterno, non predestina alcuni invece di tutti, separandoli per ciò stesso dagli altri: all’opposto, essa “ingaggia” i prescelti nella missione comune, nella quale tutti gli altri sono impegnati – invece di separare, riunisce. Se ho ben interpretato l’ermetico testo del cardinale, ne consegue che il suo concetto di “predestinazione” ha ben poco a che vedere con ciò che, sulla scorta dei Sacri Testi, si è sempre inteso con predestinazione. Infatti, la predestinazione è esattamente il contrario di ciò che la vuol far essere il cardinale: è la scelta a priori, indipendentemente dai loro futuri meriti o in previsione di essi, di eletti alla Gloria, che proprio per questo risultano separati dagli altri: separati sul piano della salvezza, dell’acquisizione della vita eterna. I non prescelti ricevono, come si è visto, solo la Grazia sufficiente, non quella santificante. Abbiamo quindi una differenza sostanziale, tale da creare una disuguaglianza nell’iter della salvezza e per volontà imperscrutabile di Dio.
Il concetto di predestinazione propugnato da Ratzinger rovescia quello proprio ed anzi in sostanza lo sopprime poiché ne fa un’elezione che ricomprende ogni cristiano, inquadrandolo nella missione comunitaria che caratterizzerebbe il cattolicesimo. Ma una scelta che si applichi indifferentemente a tutti non è più una scelta.
Bisogna pur dirlo: il tentativo del cardinale di razionalizzare il dogma della predestinazione appare del tutto inconcludente, concettualmente debole. Il mistero resta in tutta la sua apocalittica impenetrabilità: “molti sono chiamati, pochi gli eletti”. Sempre attuali sono comunque le riflessioni, profonde e piena di carità, di san Gregorio Magno sul tema, in uno dei suoi famosi sermoni, le quali ci aiutano a dissolvere il fantasma angoscioso della predestinazione alla dannazione.
“Non possono ricevere il regno dei cieli coloro che, pur essendo partecipi della fede divina, cercano qui, con tutto il desiderio, le cose della terra. Di questi tali, fratelli carissimi, ne vedete molti nella santa Chiesa. Voi non dovete imitarli, ma non dovete neppure disperare della loro salvezza. Noi vediamo quello che il nostro prossimo è oggi, ma non sappiamo che cosa potrà diventare domani. Molte volte chi sembra trovarsi dietro a noi, con l’agilità delle buone opere riesce a passare avanti: domani riusciremmo appena a seguire qualcuno che oggi crediamo di precedere.
È certo che mentre Stefano veniva lapidato, Saulo stava a guardare i mantelli di coloro che l’uccidevano. Egli, dunque, uccideva il santo diacono con le mani di tutti, perché rendeva tutti più spediti nel dargli la morte. Tuttavia, con le sue fatiche apostoliche, Saulo ottenne nella Chiesa di Dio un posto di precedenza rispetto a colui che con le sue persecuzioni aveva reso martire.
Ci sono due cose sulle quali dobbiamo seriamente meditare. Siccome è detto che molti sono i chiamati e pochi gli eletti, il primo dovere è che nessuno presuma di se stesso, perché, quantunque uno sia chiamato, non può sapere se è degno di essere eletto. Il secondo dovere è che nessuno ardisca disperare del prossimo, anche se lo vede giacere nei vizi, perché non si può sapere quanto sono grandi i tesori della divina misericordia.(74)
La salvezza dipende anche dalla nostra costante vigilanza (Mt 24, 42) e dalla perseveranza, sino alla fine : “Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della Vita” (Ap 2, 10). Ma la perseveranza non si può ottenere senza la Grazia, anzi senza una Grazia ad hoc, ci insegna la dottrina della Chiesa, codificata nel Tridentino, nel cap. XIII del Decreto sulla Giustificazione, del 13 gennaio 1547. E questo perché nessuno, a meno di una rivelazione speciale, può essere certo della sua salvezza, anche se vive praticando tutte le virtù cristiane. Ma “i tesori della divina misericordia sono grandi” e, possiamo dire, di una profondità sconfinata.
Ha scritto Pio XII: “pensiamo a questo Mistero, certamente tremendo, né mai sufficientemente meditato: che cioè la salvezza di molti dipenda dalle preghiere e dalle volontarie mortificazioni, a questo scopo intraprese dalle membra del mistico Corpo di Gesù Cristo, e dalla cooperazione dei Pastori e dei fedeli, specialmente dei padri e delle madri di famiglia, in collaborazione col divin Salvatore”.(75) La salvezza di molti, viventi nel peccato, senza loro autentico merito è sicuramente dipesa dalle preghiere di quanti, ecclesiastici e laici, hanno pregato per loro, spesso in segreto e per anni, appellandosi alla divina Misericordia. Pensiamo, ad esempio, a tante conversioni, inspiegabili in termini umani, e specialmente a quelle in punto di morte, preannunciate dal Signore nella parabola degli operai assunti alla fine della giornata (all’undicesima ora) con lo stesso salario di quelli che avevano lavorato tutto il giorno (Mt 20, 1-17). Si può forse ritenere che tanti peccatori, vissuti da “stranieri e pubblicani” rispetto a Cristo e alla Santa Chiesa, fossero stati predestinati alla Gloria? Non sembra possibile. E non avevano dilapidato le virtù ispirate dalla Grazia sufficiente, quella appunto bastante a compiere le opere buone secondo la legge naturale? Eppure alla fine della loro vita si sono pentiti e convertiti, sicuramente salvandosi. Si può dire che ci troviamo qui in presenza di un mistero nel mistero, poiché l’ampiezza insondabile della divina Misericordia non è meno profonda di quella della volontà di Dio che, dall’eternità, presceglie solo una parte dell’umanità alla Gloria.
9.2 “L’immagine e la somiglianza” nostre con Dio permangono intatte.
A prescindere dai problemi posti dal dogma della predestinazione, che non tutti possano salvarsi è comunque verità che si impone alla riflessione devota, per esempio nel caso della morte impenitente (magari perché improvvisa) di persone notoriamente criminali o corrotte o notoriamente ribelli a Dio, atee senza esser malvage . Come affrontava il cardinale la questione? L’affrontava indirettamente chiedendosi se la “somiglianza” e “l’immagine” con Dio potessero venir meno nell’uomo.
[La “somiglianza” e “l’immagine” permangono in noi] “Ci avviciniamo così ora però alla questione decisiva per il nostro tema: questa somiglianza divina può essere distrutta? ed eventualmente, come? Esistono esseri umani, che non sono immagini di Dio? La Riforma nella sua radicalizzazione della dottrina del peccato originale aveva risposto affermativamente…”. Senza cadere nel radicale pessimismo di Lutero, alla radice (oltre alla superbia) del suo eretico sola fide, si deve ammettere che tali esseri esistono: “l’uomo peccatore, che non vuol riconoscere Dio e che non rispetta l’uomo o addirittura lo uccide - costui non ripresenta l’immagine di Dio, ma la deturpa…”. E chi la deturpa di più, “il freddo assassino, ben cosciente di se stesso” o “il sofferente innocente, nel quale la luce della ragione guizza assai flebile?...” .(77)
Ad esser sinceri, il parallelo tra le due situazioni lascia interdetti. Il malato di mente è vittima di un accidente della natura, se così posso dire, e non ha alcuna colpa in ciò che lo affligge: eventuali suoi comportamenti anormali difficilmente possono essergli imputati, visto che non è compos sui. Invece il criminale cosciente agisce consapevolmente contro la legge di natura stabilita da Dio: solo quest’ultimo, quindi, commette peccato, deturpando quello che è rimasto in lui dell’immagine di Dio.
Comunque sia, anche per rispondere all’ingiustificato pessimismo radicale dei luterani, bisogna ribadire che l’immagine di Dio permane nell’uomo, non può andare completamente perduta. “L’uomo è immagine di Dio in quanto uomo. E finché egli è uomo, è un essere umano, egli è misteriosamente proteso a Cristo, al Figlio di Dio fattosi uomo e quindi orientato al mistero di Dio. L’immagine divina è connessa con l’essenza umana in quanto tale e non è in potere dell’uomo distruggerla completamente. Ma ciò che l’uomo certamente può fare è sfiguramento dell’immagine, la contraddizione interiore con essa […] Fra la figura dell’Adamo terreno formato dal fango, che Cristo in comune con noi ha assunto nell’Incarnazione e la gloria della resurrezione sta la croce: il cammino dalle contraddizioni e dagli sfiguramenti dell’immagine verso la conformazione con il Figlio, passa attraverso il dolore della croce”.(78)
Si noterà che nella seconda frase da me sottolineata riecheggia ambiguamente la singolare dottrina di GS 22.2: Cristo ha assunto “in comune con noi” la natura umana “dell’Adamo terreno formato dal fango”. La frase non sembra chiarissima: che vuol dire “in comune con noi”? Che Cristo con l’Incarnazione si è “unito ad ogni uomo”? E il cardinale Ratzinger, nel rispetto del dogma, non doveva specificare che Cristo ha assunto la nostra natura, rendendosi in tutto simile a noi, tranne che nel peccato [absque peccato, Eb 4, 15]? [errore ben più esplicito nell'attuale pontificato qui - qui -ndr]
Che l’uomo non abbia perso completamente l’immagine divina in lui è dottrina antica, come si è visto: dei doni preternaturali iniziali è rimasto solo l’uso del nostro intelletto, unito alla volontà e in mezzo alle mille difficoltà causate dalle conseguenze del peccato originale. Avrebbe dovuto precisare il cardinale che dopo la Caduta l’uomo è “vulneratus in naturalibus”, ragion per cui la sua natura, così debilitata, non più “integra”, abbisogna dell’intervento sovrannaturale quotidiano della Grazia per essere “restituita” all’immagine di Dio ossia alla pratica della giustizia e della santità mediante la carità. Ma la distinzione tra Natura e Grazia, tra naturale e sovrannaturale, come sappiamo non è più di moda dal Vaticano II in poi, grazie all’influsso deleterio esercitato da Henri de Lubac e consoci nell’elaborazione degli schemi di costituzioni e dichiarazioni poi votate in Aula.(79) Il fatto che l’uomo, dopo la Caduta, abbia conservato per divina misericordia l’immagine di Dio e quindi l’uso della ragione e della volontà, viene ora inteso come un suo “esser misteriosamente proteso a Cristo”, non accidentale ma ontologico, protendere che sarebbe innato in tutti gli uomini in quanto tali. Non appare qui l’ombra della eterodossa teoria dei “cristiani anonimi”, fondamento dell’errore della “redenzione universale” (vedi supra)?
9.3 Ratzinger “smaterializza” il significato della Croce.
La Croce, dunque. La Croce nel senso dell’ Imitazione di Cristo, come “via regia” della salvezza? “
“Dure sembrano a molti codeste parole: “Rinunzia a te stesso, prendi la tua croce e segui Gesù (Mt 16, 24)”, ma ben più duro sarà sentirsi dire queste altre, in ultimo: “Via da me, maledetti, andate nel fuoco eterno! (Mt 25, 41)”. Ma coloro che ascoltano ora volentieri l’invito alla croce e lo seguono, non tremeranno ascoltando la sentenza della dannazione eterna: “Questo segno della croce starà nel mezzo del cielo quando il Signore verrà come giudice (Mt 24, 30)”. E allora tutti i seguaci della croce, quelli che in vita si uniformarono al Crocefisso, si avvicineranno a Cristo giudice in piena fiducia […] Prendila dunque la tua croce e segui Gesù: giungerai alla vita eterna. Egli ti ha preceduto portando la sua croce, ed è morto sulla croce per te affinché tu potessi portare la tua con l’aspirazione ardente di morirvi sopra. Perché se morrai con Lui, con Lui parimenti vivrai; e dopo essergli stato compagno nella sofferenza, lo sarai anche nella gloria”.(80)
[Un’interpretazione solo “mistica” della Crocifissione] Non è la Croce dell’Imitazione quella professata dal cardinale Ratzinger. Sappiamo dal suo già citato notissimo Introduzione al Cristianesimo, che il Nostro, già quando insegnava teologia nelle università tedesche, non accettava il significato espiatorio e propiziatorio del Sacrificio della Croce, quale significato prevalente.(81) Per lui, la Croce doveva valere soprattutto, se non unicamente, come simbolo dell’Amore di Dio nei confronti dell’uomo: essa doveva rappresentare soprattutto il donarsi incondizionato di Dio, perché Dio è Amore; non è un Dio che pretenda i tormenti e il sangue, e li accetti con una “soddisfazione vicaria” come quella data volontariamente alla sua esigenza di giustizia appunto da Cristo, che ha in tal modo espiato i peccati di tutti gli uomini. Dalla Croce doveva esser espunto ogni riferimento ad un Dio vendicativo, sanguinario, che punisce e stermina. Il prof. Ratzinger lamentava come, a suo giudizio, “la coscienza cristiana è in genere ancora largamente improntata ad una grossolana ed irrozzita idea della teologia d’espiazione risalente ad Anselmo di Canterbury”.(82) Contro l’interpretazione tradizionale, sistemata (lo ricordo) da san Tommaso, lamentava che ancora predominasse l’idea secondo la quale “la giustizia di Dio infinitamente intesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione”, possibile solo all’uomo-Dio, concezione che ha portato a giustificare il concetto secondo il quale Dio avrebbe “preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio”.
Quale sarebbe, allora, il vero significato della Croce? Sarebbe quello mistico, come realizzazione dell’Amore di Dio per l’uomo. Questo significato è sempre esistito ma la teologia ortodossa, fatta propria dal Magistero, l’ha ben integrato con i fondamentali aspetti espiatori e propiziatori del Sacrificio.(84) Ma proprio nel supposto superamento della componente dell’espiazione, si avrebbe, secondo il prof. Ratzinger, la grande novità del cristianesimo rispetto alle altre religioni. Infatti, quasi tutte “ruotano attorno al problema dell’espiazione; nascono dalla consapevolezza che l’uomo ha della propria colpa di fronte a Dio, e denotano il tentativo di eliminare questo sentimento di colpa, cancellando il peccato mediante opere d’espiazione offerte a Dio”.(85) La situazione è inversa nel Nuovo Testamento. Non è l’uomo che s’accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che s’avvicina all’uomo per accordarglielo. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva, che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare, giustificandolo”. Novità inaudita, quindi, nella storia delle religioni: nel Nuovo Testamento, “ci vien detto che ‘Dio in Cristo ha riconciliato con sé il mondo’ (2 Cor 5, 19)”. Pertanto, ne risulta che “Dio non aspetta che i colpevoli si facciano avanti, riconciliandoli con lui, ma va loro incontro per primo riabilitandoli”.(86)
Questo “andare incontro per primo al peccatore” da parte di Dio non l’ha forse (mi chiedo) preannunciato il Signore nella parabola del Figliol Prodigo? Il Padre vede da lontano il figlio lacero e immiserito che si trascina verso casa e gli corre incontro (Lc 15, 18-21). Però il figlio sta tornando pentito, vuole chieder perdono e cambiar vita, “soffrendo s’accorse di aver mancato”. Quest’aspetto essenziale – il pentimento per i propri peccati e la volontà di redimersi in Cristo, di diventar un “uomo nuovo” grazie ai suoi insegnamenti – nel discorso di Ratzinger non compare. Sembra che noi peccatori, nella sua visione, si resti sostanzialmente passivi, limitandoci a cogliere i frutti della “misericordia creatrice” di Dio, definizione peraltro dall’aggettivo abbastanza oscuro. “Il sacrificio cristiano non consiste nel dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di noi, bensì nel nostro farci completamente ricettivi nei suoi confronti e nel lasciarci integralmente assorbire da lui. Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano”.(87)
Un’interpretazione del “sacrificio cristiano” che sembra risentire di Lutero? Comunque “quietistica”, dal momento che non vi è proclamata la necessità della metánoia, della radicale conversione individuale per renderlo efficace? Nel Decreto tridentino sulla Giustificazione, già ricordato, non si fissò come verità di fede che ci dev’essere una partecipazione attiva (voluntaria susceptio) da parte nostra; che dobbiamo voler ricevere la Grazia e i doni che provengono da Dio a causa dei meriti del Sacrificio di Cristo?
[L’arbitrario metodo della ‘storia delle forme’] “L’operare di Dio su di noi” nella Croce fa vedere “un movimento primariamente discendente, dall’alto in basso”, specificava il prof. Ratzinger, cioè da Dio verso di noi, onde nel culto cristiano “l’adorazione salvifica si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l‘azione salvifica di Dio”.(88) Ma c’è anche l’azione dal basso verso l’alto, rappresentata dall’accettazione del sacrificio da parte di Cristo. Per cogliere in modo adeguato il rapporto tra i due movimenti, bisogna “appurare dove sia situato il punto d’avvio dell’interpretazione neotestamentaria della croce”.(89) Questo modo di procedere è tipico di Ratzinger: nel momento decisivo dello sviluppo concettuale tira fuori la questione ermeneutica, riducendo il discorso ad uno scambio di opinioni di scuola. Del resto, come si è già rilevato, nel riferire i fatti e i detti di Cristo egli precisa spesso che si tratta del racconto (neotestamentario) di fatti e detti: non dei fatti e detti sic et simpliciter, da secoli acquisiti nel loro esser accaduti e quindi nella loro verità, ma del loro racconto. Del resto, nel Catechismo del 1992, nell’art. 601, si è avuta l’audacia di scrivere: “San Paolo professa, in una confessione di fede che egli dice di aver “ricevuto”, che “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” -- 1 Cor 15, 3”.
Bisogna quindi partire sempre dal racconto ovvero dalle “forme” letterarie utilizzate dagli estensori nella redazione del racconto, un modo di procedere tipico dell’esegesi razionalista protestante, penetrato anche in quella cattolica, il quale tende a spiegare il fatto o il suo significato mediante queste “forme”. Esso muove da un presupposto del tutto arbitrario: che “l’origine degli scritti cristiani primitivi deve esser compresa dal culto”; la “tradizione più antica su Gesù” deve considerarsi “determinata dal culto”; si intende, dal culto tributato a Gesù dalla comunità primitiva, e solo in quest’ottica vista, tale “tradizione”, come “imaginosa e sovrastorica”.(90) Il “genere” o “forma” determinati dal primigenio “Christuskult” risulta di stilemi che “non sono dilettantismo di esteti ma una realtà sociologica”, costituita dalla venerazione della comunità primitiva per Colui che onoravano come il loro Salvatore.(91) Questi stilemi o forme redazionali, la storia delle quali costituirebbe di fatto l’intera esegesi, Martin Dibelius, il teologo luterano fondatore dell’indirizzo, le ha catalogate nel seguente modo: “paradigmi dei sermoni”, “novelle”, “proverbi a fine parenetico”, “miti”.(92) Una metodologia del genere finiva col render le immaginate “forme” costitutive del significato stesso del Testo Sacro, grazie anche all’errato punto di partenza. In tal modo il contenuto autentico dei fatti e detti testimoniati nei Vangeli si dissolveva nelle “forme letterarie”, vere e presunte, utilizzate nella redazione del testo e veniva ricostruito (e spesso decostruito) dall’interprete, lanciato a briglia sciolta sulle vaste praterie dell’ermeneutica.
A mio avviso, l’ombra di questo errato metodo si percepisce anche negli scritti di Ratzinger; nel caso specifico, nella sua breve ricostruzione della “interpretazione neotestamentaria della croce”. Egli muove da un assunto di carattere psicologico: i discepoli, dopo il trauma della Crocifissione avevano vista ribadita la loro certezza del carattere “regale” di Cristo, grazie alla sua Resurrezione. Ma solo per gradi impararono a capire “a cosa sarebbe servita la croce”. E come fecero? Ricorrendo ad “immagini simboliche” (o “forme”) dell’Antico Testamento, “ai cui concetti si sforzarono d’interpretare l’accaduto. Essi tirarono quindi in campo anche i suoi testi e le sue prescrizioni liturgiche, nella convinzione che tutto quanto vi si diceva si era effettivamente realizzato in Gesù, anzi, che solo guardando a lui si poteva ora capire veramente quale fosse in realtà il senso riposto di quelle parole e di quei fatti. Ed ecco perché, nel Nuovo Testamento, noi troviamo spiegata la croce anche con pensieri tratti dalla teologia culturale vetero-testamentaria. La più logica e coerente elaborazione in questo senso possiamo riscontrarla nella Lettera agli Ebrei, che mette in rapporto la morte di Gesù in croce col rito e con la teologia della festa ebraica dell’espiazione, presentandocela come l’autentica festa della riconciliazione cosmica”.(93)
Dell’ausilio indispensabile dello Spirito Santo all’opera missionaria degli Apostoli, il cardinale non parla: tutto sembra spiegabile in termini di ermeneutica delle “forme” del testo. Il senso della Lettera agli Ebrei, continuava il Nostro, era il seguente: i sacrifici di agnelli, capri, tori poco servivano a togliere effettivamente i peccati. Più che olocausti di animali, “il libero assenso dell’amore è l’unico elemento che Dio deve attendersi, l’adorazione e il ‘sacrificio’ che soli siano suscettibili di avere un senso. L’assenso dato a Dio, con cui in pratica l’uomo si ridona al Signore, non si potrà mai sostituire e surrogare col sangue dei giovenchi e degli arieti”.(94) E siffatto “assenso” è appunto quello dato da Gesù, anche se il suo infinito valore risulta (annoto) dal fatto di esser stato il sacrificio dell’Innocente e senza peccato che era nello stesso tempo il Figlio di Dio. “Il suo supplizio è stato una liturgia cosmica, tramite la quale Gesù, non in quel settore limitato dell’azione liturgica che era il tempio, bensì al cospetto dell’intero mondo, attraverso l’atrio della morte è penetrato nell’autentico tempio, ossia alla presenza di Dio stesso, e per sacrificargli non delle cose, sangue di animali od altro, bensì addirittura se stesso (Ebr 9, 11 ss.)”.(95)
L’autentico tempio nel quale è entrato il Signore è “il Santuario dei cieli”, ci spiega la Lettera agli Ebrei: dopo esser risorto, Egli è salito al Cielo, ove siede alla Destra del Padre. Secondo Ratzinger Gesù ha ottenuto questo soprattutto “sacrificando e donando se stesso”. Il che è indubbiamente esatto ma è solo una parte della verità. Questo sacrificio è avvenuto soprattutto in obbedienza alla volontà del Padre, a cominciare dalla Passione ma anche prima: Gesù si riferiva continuamente al Padre, del quale dichiarava di attuare la volontà in terra. Il cardinale in pratica occulta questo tema essenziale dell’obbedienza assoluta alla volontà del Padre, il quale voleva manifestamente la pena del senso ovvero la “testimonianza del sangue” (Eb 12, 4), non gli bastava il fatto morale dell’umiliazione del proprio io da parte del Figlio, la cui natura umana per un momento si era ribellata all’idea del crudele supplizio che l’attendeva.
[Ratzinger “smaterializza” la Croce, sminuita a simbolo dell’Amore di Dio per l’uomo] Come intendere infatti la “testimonianza del sangue” da Lui offerta, sulla quale la Lettera agli Ebrei si sofferma ripetutamente? Secondo il Nostro, “questo sangue (Ebr 9, 12) non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, bensì come la pura concretizzazione di quell’amore che ci vien additato come spinto sino all’estremo (Gv 13,1)”.(96) Certo, nessuno l’ha inteso, mi pare, in termini di quanti litri di sangue abbia versato il Signore sulla croce, al fine di valutarne il carattere “espiativo”. Il cardinale vuol forse dire che la testimonianza del sangue deve intendersi in senso puramente simbolico? Non sembra, visto che la crocifissione c’è veramente stata e non stiamo parlando dell’eresia docetista, che riteneva esser morto un sosia al posto di Gesù, riapparsa in modo oscuro nel Corano, Sura 4, 156. Si tratta del significato del sangue di Cristo: non deve “intendersi come mezzo espiativo” ovvero come espressione del significato espiatorio della Croce ma sempre come attuazione dell’amore “spinto sino all’estremo”. Il prof. Ratzinger sembrava rifiutare completamente il significato espiatorio della Croce. A chi affermava che era “un concetto indegno della divinità l’immaginarsi un Dio il quale esige addirittura l’uccisione di suo Figlio, per placare la sua collera”, egli rispondeva che in effetti “Dio non si può infatti immaginare in questo modo. E per di più un tale concetto di Dio non ha nulla da spartire nemmeno con l’idea di Dio presentataci dal Nuovo Testamento”.(97)
Quest’interpretazione, che a me sembra addirittura temeraria, non si può accettare. Del resto, il tenore della Lettera agli Ebrei la rende del tutto impossibile. Tra i motivi dell’accettazione della Croce da parte di Gesù primeggia certamente il suo spirito di carità per l’uomo peccatore, il suo ardente desiderio di salvarlo dalla dannazione (“non son venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, Mc 2, 17). Ma vi primeggia anche l’esigenza di obbedire ad un dovere, per volontà del Padre: quel dovere di accettare la Croce, pur essendo innocente, per espiare i nostri peccati e poter così riscattare dal peccato “i molti” che avrebbero creduto in Lui, mettendo in pratica i suoi insegnamenti. La Croce esprime di per sè l’esigenza di espiare i peccati degli uomini proprio con la testimonianza del sangue poiché solo con questo tipo di sacrificio ci poteva essere espiazione e perdono dei peccati. Non si può ridurre il significato della Croce al solo “libero assenso dell’amore” di Cristo per l’uomo peccatore da salvare. Una tale riduzione ha come effetto anche quello di occultare l’idea che il peccato deve, in quanto tale, esser espiato e quindi esser punito; che esso merita l’ ira divina e la conseguente punizione; che ci sono, infine, peccati che sono “mortali”, che cioè ci meritano la dannazione eterna per la loro gravità.(98)
Appena eletto al Sacro Soglio, Benedetto XVI fece pubblicare un Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, di soli 598 articoli contro i 2865 del Nuovo Catechismo del 1992, rivelatosi un mastodonte poco popolare presso la maggioranza dei fedeli. Il Compendio si avvicinava, come struttura, al tradizionale Catechismo di san Pio X: infatti, conteneva una Appendice con le Preghiere comuni e le Formule di dottrina cattolica. Questo Compendio sembra esser oggi caduto in oblio. In esso si nota un approccio più tradizionale a certe verità di fede. Ma sempre sino ad un certo punto. Nel CCC del 1992 il carattere espiatorio e propiziatorio del Sacrificio di Cristo è riaffermato (artt. 599-623), pur mettendosi sempre in primo piano “l’amore sino alla fine”(Gv 13, 1) quale elemento che “conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo” (art. 616, ma vedi anche gli artt. 614 e 615) – pertanto tacendo sempre l’esigenza della Giustizia divina che impone l’espiazione per i nostri peccati e quindi la loro punizione, nonostante l’amore misericordioso di Dio per l’umanità decaduta - amore che non può far venir meno la necessità di punire come merita il peccato e quindi il peccatore (e se veniamo perdonati una volta pentiti, questo è possibile solo perché il castigo se l’è assunto il Cristo sofferente innocente per i peccati di tutti). Nel Compendio, troviamo riaffermato il significato espiatorio della Croce, respinto a suo tempo da Ratzinger professore di teologia (vedi supra), ma sempre mescolato in modo a mio avviso non lineare con il concetto dell’ Amore quale significato prevalente della Croce:
“Gesù ha liberamente offerto la sua vita in sacrificio espiatorio, cioè ha riparato le nostre colpe con la piena obbedienza del suo amore fino alla morte. Questo “amore sino alla fine” (Gv 13, 1) del Figlio di Dio riconcilia con il Padre tutta l’umanità. Il sacrificio pasquale di Cristo riscatta quindi gli uomini in modo unico, perfetto e definitivo, e apre loro la comunione con Dio”.(99)
Osservo: l’obbedienza può essere solo della volontà, che nel Figlio consustanziale al Padre vuole quello che vuole il Padre, non dell’Amore o meglio della Carità, che è uno stato d’animo capace di influire o meno sulla volontà ma da essa nettamente separato, quanto al concetto. La Carità è una virtù, così ben illustrata da san Paolo (1 Cr 13), anzi è possiamo dire la virtù cristiana per eccellenza: non può tuttavia esser confusa con la volontà, che è una nostra facoltà, dipendente dal nostro libero arbitrio.
Ma torniamo alla Lettera agli Ebrei. Mi sembra una pessima ermeneutica quella di reinterpretarla in senso riduttivo, come se volesse servirsi delle forme della “teologia culturale vetero-testamentaria” per trasformare la festa ebraica dell’espiazione “nell’autentica festa della riconciliazione cosmica”. A parte la poca chiarezza dell’espressione “riconciliazione cosmica”, che resta sempre nell’ambito della natura, la Lettera agli Ebrei ha una portata ben più ampia. Innanzitutto, essa vuole dimostrare la superiorità del cristianesimo rispetto al giudaismo. È rivolta a giudeo-cristiani in crisi per le persecuzioni che subivano nella loro patria e la pressione psicologica e morale cui il giudaismo persecutore li sottoponeva. La Lettera insegna che Gesù il Messia è superiore agli angeli e a Mosè, perchè Cristo è il capo del regno messianico, non gli angeli. Non bisogna pertanto lasciarsi sedurre dallo splendore dei riti mosaici per tornare all’ebraismo, ciò significa apostatare (e gli apostati – gli ebrei convertiti che sarebbero ritornati al giudaismo – saranno puniti con un supplizio atroce poiché “è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” – Eb 10, 29-31). Gesù è stato costituito da Dio Sommo Sacerdote dell’ordine di Melchisedec e il suo sacerdozio è superiore a quello levitico. Egli è sacerdote unico e perfetto, ministro del vero santuario (il Regno dei Cieli) e mediatore di una nuova ed eterna alleanza. In cielo Egli intercede continuamente per noi [Eb 5, 7-10].
I riferimenti della Lettera al culto mosaico erano inevitabili ed anzi necessari, visto che la Lettera si rivolgeva a giudeo-cristiani in crisi spirituale (Eb 9, 1-10; 14-23). Ma non si trattava di servirsi di concetti ebraici per comprendere quello che era accaduto: al contrario, si trattava di servirsi dei giusti concetti cristiani per dimostrare l’incompatibilità assoluta del cristianesimo col giudaismo, risultante proprio dal fatto che il Sommo e Regale Sacerdote era il Cristo, rinnegato dagli ebrei e morto in Croce per noi per obbedire al Padre ed entrato direttamente nel Cielo, nella Gloria del Padre: “Noi abbiamo un altare al quale non possono partecipare quelli che servono al Tabernacolo [del Tempio]-[Eb 13, 10]”. La descrizione dei riti mosaici era fatta proprio per poter ribadire la validità di quest’antitesi radicale.
[La pedagogia della sofferenza] Ma essendo Gesù Sacerdote regale e mediatore presso Dio, come si spiegano allora la sua sofferenza e la sua morte ignominiosa? Si spiegano proprio in rapporto alla sua natura sacerdotale, di Sommo Sacerdote che in luogo degli animali sacrifica se stesso assumendo su di sè i peccati di tutti. La testimonianza del sangue rappresentata dal crudele supplizio della Croce vale proprio perché è testimonianza del sangue non perché simbolo di qualcos’altro. La sofferenza, infatti, possiede la sua propria pedagogia, che ci eleva alla perfezione. “Però quel Gesù, che è stato per breve tempo inferiore agli Angeli [come uomo, nella sua vita terrena], noi lo vediamo ora coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto, affinché per grazia di Dio, la morte da lui sopportata fosse di vantaggio per tutti [Eb 2, 9]”. Venuto per “soccorrere il seme d’Abramo” egli “dovette essere in tutto simile ai fratelli, per diventare così, nel servizio di Dio, un sommo Sacerdote misericordioso e fedele, capace di espiare i peccati del popolo. Perché, avendo egli stesso sperimentato la tentazione e la sofferenza, può venire in aiuto a quelli che son messi alla prova [Eb 2, 16-18]”.
Il Cristo Glorioso intercede per noi presso il Padre, dopo aver Egli stesso sperimentato la tentazione e la sofferenza qui sulla terra. Nei giorni della sua vita mortale, “offrì preghiere e suppliche, accompagnate da forti grida e lacrime a Dio Padre, che poteva salvarlo dalla morte, ed è stato esaudito per la sua pietà [Eb 2, 7]”. Esaudito, non nel senso che gli sia stata risparmiata la morte in croce ma perché Egli ottenne il premio della Gloria per la sua obbedienza assoluta alla volontà del Padre. E in tale obbedienza si perfezionò (sulla croce) l’uomo Gesù di Nazareth. “Ma, sebbene fosse Figlio, imparò da ciò che sofferse, che cosa significhi obbedire; sicché, reso in tal modo perfetto, divenne principio di eterna salvezza per tutti quelli che gli sono obbedienti, avendolo Dio proclamato sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedech [Eb 2, 8-10]”. Dio, quindi, elevò alla “perfezione” l’autore della nostra salvezza non perché in Croce Egli esprimesse l’amore per l’umanità da redimere ma perché aveva obbedito accettando la sofferenza, accettazione mediante la quale si attua “il perfezionamento” della nostra umana natura nel modo che piace a Dio. Mancava al Cristo, per esser perfetto, l’accettazione della sofferenza come atto di obbedienza assoluta alla volontà del Padre, atto che non ha a che vedere con l’amore per l’umanità peccatrice. Senza l’obbedienza a Cristo non ci salviamo e difatti la Lettera specifica che il Signore divenne principio di eterna salvezza “per tutti coloro che gli sono obbedienti”: quindi, non per tutti gli uomini indiscriminatamente ma solo per quelli che obbediscono ai suoi insegnamenti. Del resto, non disse Egli che la cosa essenziale per il cristiano è “servare mandata”, osservare i comandamenti? E quando li abbiamo osservati dobbiamo tuttavia dire: “Servi inutili siamo! Abbiamo [solo] fatto il nostro dovere”[Lc 17, 10]?
Nell’accettazione della sofferenza in nome di Cristo, avendo Lui come modello esemplare, è il nostro perfezionamento. Dobbiamo tenere lo sguardo fisso su Gesù, ribadisce la Lettera agli Ebrei, “l’autore e perfezionatore della nostra fede”. Infatti, “anziché il gaudio che gli stava dinanzi, preferì sopportare la croce, senza curarsi dell’ignominia ed ora sta assiso alla destra del Trono di Dio. Considerate Colui che ha sopportato tanta ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori, e non vi lascerete abbattere né perdere d’animo. Voi non avete ancora resistito sino al sangue nella lotta contro il peccato e vi siete dimenticati dell’esortazione, diretta a voi come a dei figli: ‘Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore e non ti scoraggiare quand’Egli ti riprende poiché il Signore corregge colui che Egli ama, percuote di verga chiunque riceve per figlio [Prov. 3, 11-12 – Eb 12, 2-6]”.
Dal punto di vista del cardinale Ratzinger, invece, noi ci perfezioniamo solo con la pedagogia dell’amore per il prossimo. Che pure dobbiamo perseguire, anche se egli non sembra ricordarla mai secondo la formula del tradizionale Atto di Carità : “Mio Dio, vi amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché siete Bene infinito e nostra eterna felicità; e per amor vostro amo il prossimo mio come me stesso, e perdono le offese ricevute. Signore, fate ch’io vi ami sempre più”. La carità cristiana in senso tradizionale ama il prossimo non per se stesso, per la sua supposta innata dignità, bensì “per amor di Dio”, attraverso la mediazione del comandamento di amarci l’un l’altro come fratelli, per quanto possibile, sino al punto di pregare per i nostri nemici personali ed i persecutori, senza mai odiare nessuno. Il fatto è, a mio avviso, che la preghiera dell’Atto di Carità tradizionale non lascia spazio al concetto, di origine secolare, della dignità dell’uomo in quanto uomo (vedi supra). Noi dobbiamo amare il prossimo per amor di Dio non per un suo supposto valore intrinseco, costituito da una dignità addirittura infinita, che in realtà non può ontologicamente possedere, innanzitutto per via dell’eredità del peccato originale. Inoltre, l’Atto di carità esprime l’amore del fedele nei confronti di Dio mentre la concezione di Ratzinger vuol esprimere, rendendolo predominante, l’amore di Dio per il fedele, anzi per l’uomo in generale.
Ora, la pedagogia della sofferenza sino a render la testimonianza del sangue, per fare la volontà di Dio ed imitare nello stesso tempo Nostro Signore, insegnata nella Lettera agli Ebrei, compare nell’esegesi ratzingeriana? A me sembra che brilli per la sua assenza. Compare invece, nella sua interpretazione della Croce, la tesi della “assimilazione” di Cristo ai poveri, agli emarginati, ai reietti in generale, ossia la tipica proposizione della teologia della liberazione, che tutti conosciamo (vedi infra). Dottrina falsissima poiché il Cristo in croce non si è “assimilato” a nessuno, tantomeno ai poveri ed emarginati (categorie che inoltre si tende ad allargare a dismisura) bensì è morto per la salvezza di t u t t i i peccatori indistintamente, ricchi o poveri che fossero, anche se a molti tra i peccatori la sua morte non avrebbe giovato, per colpa loro.
La povertà non è come tale garanzia di già conquistata salvezza. Anche tra i poveri ci sono i buoni e i cattivi, anche tra i poveri ce ne sono che andranno all’Inferno, come tra i ricchi. Scrisse san Gregorio Magno nella Regola pastorale: “Se la compassione è doverosa per l’indigenza, alla superbia non va usato riguardo alcuno. Quanto più l’orgoglio rende turgidi i ricchi a causa dei beni passeggeri, tanto più va riservato a loro l’ammonimento dal tono di deciso comando. Il Vangelo del “guai a voi ricchi, perché avete già la vostra consolazione” [Lc 6, 24]. Digiuni delle gioie che la vita eterna riserva, i ricchi sono saziati dall’abbondanza di quelle della vita terrena. Va offerto pertanto conforto a chi arde nel forno della miseria; mentre è salutare il timore incusso a quelli che il conforto della gloria terrena rende superbi. È vero infatti che i poveri posseggono ricchezze invisibili e i ricchi non possono conservare le ricchezze che posseggono. Tuttavia, la varietà dei caratteri riesce persino a trasformare la categoria delle persone, tal che è possibile trovare un ricco umile e un povero superbo. Il discorso [della pastorale] va pertanto rapportato alla condotta di chi ascolta. Sarà duro nel colpire la superbia del povero, non giustificata dalla povertà. Sarà, invece, dolcissimo nel lodare l’umiltà dei ricchi, se non li inorgoglisce l’esaltante abbondanza…” .(100)
I “mercanti nel Tempio” che Gesù scacciò, rovesciandogli le bancherelle con la mercanzia, erano ricchi o poveri? Forse benestanti, come i cambiavalute ma certamente poveri nel caso dei venditori di colombe: tutto un mondo che, pur restando nei cortili esterni, con i suoi minuti e non sempre onesti traffici offendeva la santità e la maestà del Tempio, dove risiedeva l’Altissimo: “Sta scritto: la casa mia sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne avete fatta una spelonca di ladri (Mt 21, 12-13)”.
Quest’episodio ci dimostra che un conto è il rispetto dell’umanità del povero e il dovere morale (riaffermato nei Vangeli) di aiutarlo nei limiti delle nostre possibilità; altro conto la retorica della povertà della quale si è appropriata la “teologia della liberazione”, facendo del povero un modello ideale cui uniformare il fine stesso della missione cristiana. Dottrina falsissima, come si è ricordato, poiché il Redentore, che pure non ha risparmiato ai ricchi i più severi ammonimenti, è venuto per la salvezza di t u t t i i peccatori, senza distinzione di ricchi e poveri.
9.4 Il cristianesimo immiserito a “pappa del cuore”.
Nell’ottica di Ratzinger teologo, l’opera salvifica di Cristo, lo possiamo ben dire, veniva ampiamente ridotta e quasi scompariva, poiché dai meriti della Croce elideva l’aver il Crocifisso espiato per noi in modo cruento l’ira divina per la ribellione di Adamo e tutti i peccati degli uomini, ottenendo in tal modo per noi peccatori pentiti, la propitiatio, il perdono per i nostri peccati. La pedagogia della Croce, rettamente intesa, la troviamo scolpita in questo ulteriore passo di san Gregorio Magno: “Rifiutò di essere nominato re, poiché si era incarnato per redimerci con il patire e per istruirci con la sua vita. Al patibolo della croce andò spontaneamente e i suoi seguaci ne trassero esempio. Rifiutò il potere offertogli e desiderò una morte obbrobriosa, perché noi, sue membra, imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere le minacce, a preferire le avversità causate dall’amore per la verità e a diffidare, nel timore, delle situazione favorevoli. Il cuore viene inquinato dall’orgoglio con le cose prospere; le avversità, invece, lo purificano nel dolore”.(101)
Invece per Ratzinger, conta solo l’Atto d’Amore divino, rivolto soprattutto ai poveri ed emarginati e dilatato ad una dimensione definita “cosmica”, sulla scia di Teilhard de Chardin e de Lubac. Una visione generale che, a ben vedere, appare poco conforme al dogma della fede: tra l’altro, la dimensione “cosmica” non è quella della vita eterna, appartenendo pur sempre alla natura.
Nell’intervento al Convegno sulla pastorale dei malati di mente, il ragionamento del cardinale, pertanto, si sviluppava in questo modo. “Fra i Padri della Chiesa - scriveva - Massimo il Confessore ha più di altri riflettuto su questa connessione fra somiglianza divina e croce. L’uomo, che è chiamato alla “sinergia”, alla collaborazione con Dio, si è invece posto in opposizione a lui, Questa opposizione è “un’aggressione alla natura dell’uomo”. Essa “sfigura il volto dell’uomo, l’immagine di Dio, poiché distoglie l’uomo da Dio e lo rivolge verso se stesso ed erige fra gli uomini la tirannia dell’egoismo”. Cristo dall’interno della stessa natura umana ha compiuto il superamento di questo contrasto, la sua trasformazione in comunione: l’obbedienza di Gesù, il suo morire a se stesso, diviene il vero esodo, che libera l’uomo dal suo decadimento interiore conducendolo all’unità con l’amore di Dio. Il crocifisso diviene così la vivente “icona dell’amore”; proprio nel crocifisso, nel suo volto scorticato e percosso, l’uomo diventa nuovamente trasparenza di Dio, l’immagine di Dio torna a rilucere. Così la luce dell’amore divino riposa proprio sulle persone sofferenti…” .(102)
Opponendosi a Dio l’uomo cade nella “tirannia dell’egoismo”. Ma Cristo gli ha fatto vedere la necessità di superarla, accettando di subire il terribile supplizio della croce, pur essendo innocente. In tal modo, ha trasformato “il contrasto” in “comunione”. L’iniziale, umanissimo rifiuto del supplizio sopravveniente fu superato da Gesù piegandosi alla volontà del Padre: nel linguaggio del cardinale, entrando “in comunione” con essa. Al cardinale interessa soprattutto mettere in evidenza l’Amore del Padre: scrive quindi che il Cristo è entrato “in comunione con l’Amore del Padre”, il che sembra, a mio avviso, un modo abbastanza singolare di esprimersi. E questo l’ha fatto per amore dell’umanità, onde proprio il crocefisso possiamo considerarlo “vivente icona dell’amore”, dell’amore di Dio nei confronti dell’uomo. -La Croce diventa allora simbolo dell’ Amore di Dio, che si riversa anche sulle persone sofferenti, compresi i malati di mente. I quali, anzi, per quanto “sfigurati e offuscati possano essere nella loro esistenza umana, saranno sempre i figli prediletti di nostro Signore, ne saranno in modo particolare l’immagine. Fondandosi sulla tensione tra nascondimento e futura manifestazione dell’immagine di Dio possiamo del resto applicare alla nostra questione la parola della prima Lettera di Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv 3, 2).(103)
Per la verità, il “noi” di san Giovanni Evangelista si riferiva ai soli cristiani, considerati “figli di Dio” per adozione, per via cioè della loro fede in Cristo: il resto dell’umanità, compresi malati e sofferenti, non c’entrava per nulla. Ma il cardinale credeva di poter applicare questo “noi” alla “questione” nella quale era impegnato: dimostrare che anche i malati di mente erano figli di Dio, anzi “figli prediletti”, che noi dobbiamo amare.
La Croce di Cristo, dunque, come simbolo dell’Amore universale di Dio. E questo perché “Cristo nella croce si è definitivamente assimilato ai più poveri, ai più indifesi, ai più sofferenti, ai più abbandonati, ai più disprezzati”, tra i quali vi sono “coloro di cui il nostro colloquio si occupa”.(104) In tal modo, il Cristo, continuava il cardinale, “rivela l’essenziale dell’umanità che consiste nella capacità di amare e di acconsentire amorosamente alla volontà del Padre”.(105) Solo a questo titolo “la Passione di Gesù sfocia nella resurrezione”: perché la sua accettazione della Croce avviene per corrispondere all’Amore del Padre per l’uomo. Da notare che l’obbedienza assoluta di Gesù alla volontà del Padre che esige da Lui l’accettazione incondizionata del supplizio, affinché sia soddisfatta l’esigenza della divina giustizia, viene interpretata da Ratzinger come “consenso amoroso” alla volontà del Padre! Ma qui non abbiamo avuto “consenso” vero e proprio, non c’è stato un contratto, né tantomeno un “consentire amorosamente”, affermazione priva di autentico significato – abbiamo avuto solo obbedienza assoluta e totale sottomissione al volere del Padre, un atteggiamento che con il consentire, per di più “amoroso”, non ha nulla a che vedere. Pur di svalutare il ruolo della volontà, Ratzinger non esita ad inventarsi l’assurda categoria del “consenso amoroso” ad una crudele condanna a morte.
“Cristo risuscitato è il punto culminante della storia. L’Adamo glorioso verso il quale tendeva già il primo Adamo, l’Adamo “terreno”. Così si manifesta il fine del progetto divino: ogni uomo è in cammino dal primo al secondo Adamo. Nessuno di noi è ancora pienamente se stesso. Ciascuno deve diventarlo, come il grano di frumento che deve morire per portare frutto, come il Cristo resuscitato è infinitamente fecondo perché si è infinitamente donato”.(106) Nell’al di là, e sarà “una delle grandi gioie del nostro paradiso”, i nostri fratelli e sorelle oggi malati e sofferenti, li scopriremo “nello splendore della loro umanità, in tutto il loro splendore di immagini di Dio”. Infatti, “nell’al di là, ciascuno di noi brillerà tanto più quanto più avrà imitato il Cristo, nel contesto e con le possibilità che gli saranno date”. Imitare il Cristo vuol dire, qui, “amare il più possibile, amare il più possibile nella verità”. Il nostro “valore davanti a Dio dipende solamente dalla scelta che avremo fatto di amare il più possibile”.(107) Non dipende, annoto, dall’aver cercato di fare sempre la sua volontà, la volontà del Padre.
Cosa significa allora, concludeva il cardinale, “dire che Dio ci ha creati a sua immagine?”. Questo significa: “che Egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata”.(108) Qui non usava il termine “predestinato” (vedi supra), tuttavia l’impressione che risulta da questo testo è simile: una destinazione alla “vita beata” che si applicherebbe (infallibilmente) a tutti gli uomini, visto che non si accenna mai alla verità di fede della riprovazione eterna di una parte di loro (Mt 25, 31 ss). Né si parla mai della necessità della conversione a Cristo, di vivere all’insegna del dovere di far sempre la volontà di Dio, del giusto ed infallibile giudizio di Dio che ci attende subito dopo la morte. Poiché in ciascuno di noi si manifesta sempre “lo splendore infinito” di Dio, essendo ciascuno di noi sempre rimasto sua “immagine e somiglianza”, allora ciascuno di noi è “destinato ad entrare nella vita beata”: sic et simpliciter, senza ulteriori specificazioni.
Da questo discorso risulta che la “dignità dell’uomo” riflette in ogni uomo lo “splendore infinito di Dio”. Essa non è quindi valutabile in termini quantitativi, “non è qualcosa che si impone ai nostri occhi, non è misurabile né qualificabile, essa sfugge ai parametri della ragione scientifica o tecnica”. La nostra civiltà, “il nostro umanesimo” sono progrediti nella misura in cui hanno riconosciuto all’uomo questa dignità, nella quale riluce lo “splendore infinito” di Dio. E aveva certamente ragione, l’illustre Autore, nell’affermare che misconoscere questa dignità in certe categorie di malati, “segnerebbe un ritorno verso la barbarie”, onde “il nostro compito di cristiani è di far riconoscere, rispettare e promuovere pienamente la loro umanità, la loro dignità e la loro vocazione di creature ad immagine e somiglianza di Dio”.(109)
Tra i nostri compiti di cristiani vi è certamente anche quello di rispettare e proteggere la dignità (ma forse bisognerebbe dire l’umanità) di disabili, malati di mente, minorati, insomma di tutti questi nostri fratelli particolarmente sfortunati, crudelmente colpiti dalla natura nelle loro facoltà vitali. Vi è però anche quello di restare sempre fedeli al dogma della fede, denunciando, per quanto sta alle nostre limitate capacità, quelle dottrine che lo neghino o lo alterino, quale ne sia l’errore sostenuto e l’origine. Dal Vaticano II in poi, abbiamo visto come l’alterazione del Deposito sia avvenuta in nome dell’umana compassione e di una misericordia male intese; tali da oscurare le esigenze della divina Giustizia e seppellire il concetto stesso di un giusto Giudizio divino sempre incombente sulle nostre azioni, passaggio obbligato da questa vita in quella futura. In tal modo, il cattolicesimo è diventato una pappa del cuore o, se si preferisce, la caricatura umanitaria, sentimentale ed infine effeminata di se stesso.
10. Postilla sulla scorretta metodogia della ‘nouvelle théologie”, fucina di confusi concetti.
L’analisi di quest’assurda concezione che vuol vedere nell’uomo attributi divini, gratificandolo di una supposta “dignità infinita”, non sarebbe completa, a mio avviso, se non si soffermasse anche sul metodo, cioè sulla scorretta metodologia introdotta dalla Nouvelle théologie, fomite di concetti confusi e superficiali, oggi prevalenti sui rigorosi concetti tomistici di un tempo. Scorretta, perché? Perché salta a pie’ pari il Magistero per ripartire dai Padri della Chiesa, integrati da antichi testi liturgici e altre fonti più o meno remote, per reinterpretare il tutto in modo non solo non conforme ma persino contrario (a volte sottilmente contrario) ai dettati del Magistero. Che questo metodo sia scorretto risulta da questa semplice considerazione: interpretare i Padri in modo difforme dal Magistero, anche su questioni definite dogmaticamente, significa insinuare che il Magistero per tanti secoli si è sbagliato e quindi non è stato assistito dallo Spirito Santo, cosa chiaramente impossibile. Il Magistero non avrebbe saputo interpretare il pensiero dei Padri, bisognava attendere l’arrivo di un de Lubac e dei suoi sodali e ammiratori per trovarne un’interpretazione valida, guarda caso quasi sempre innovatrice rispetto alla dottrina tradizionale della Chiesa! È chiaro che una simile impostazione non è accettabile, se i concetti di Tradizione della Chiesa e Magistero significano ancora qualcosa nel cattolicesimo.
Un maestro in questo tipo di metodologia è stato in effetti proprio Henri de Lubac. In Catholicisme egli rovescia sul lettore kg di citazioni dei Padri, procurandosi in tal modo l’autorità di chi ti seppellisce sotto la sua superiore erudizione, come se questo bastasse per dimostrare la verità dei propri assunti. Come si è visto, la ritroviamo anche in Ratzinger, non per nulla ammiratore del suddetto, oltre che di Teilhard de Chardin. Anche da papa, raramente Ratzinger parlava come erede di una tradizione, di un Magistero millenario, cui facesse esplicito riferimento. I suoi punti di riferimento erano piuttosto il Vaticano II da un lato, i Padri dall’altro, ovvero il modo sciolto di intenderli secondo l’ermeneutica di tipo modernista integrata dalla “storia delle forme”.
[De Lubac cercò di rivalutare l’errore di Giovanni XXII, contro il Magistero] Farò adesso un esempio di quanto appena detto, utilizzando Catholicisme di de Lubac. Sappiamo che nel Trecento la Cattolicità fu scossa da una grossa disputa a proposito delle dichiarazioni sul destino delle anime dei giusti fatte da Giovanni XXII, uno dei papi di Avignone. Quel papa sostenne, nei suoi ultimi anni, che le anime dei giusti avrebbero dovuto attendere il Giudizio Universale per poter finalmente ottenere il godimento effettivo della Visione Beatifica. La questione non sembrava campata in aria: essendo l’essere umano unione di anima e corpo e risorgendo esso alla fine dei tempi con il corpo per andare al Giudizio finale, nell’intervallo, dove andava situata l’anima separatasi dal corpo subito dopo la morte? Quella dei Giusti doveva aspettare la Resurrezione finale dei corpi per giungere alfine alla Visione Beatifica? La questione non era stata definita dogmaticamente e nei secoli precedenti c’erano state opinioni discordanti in proposito, anche solo accennate e a volte oscuramente espresse. Anche per motivi politici, la tesi di Giovanni XXII suscitò reazioni sempre più violente e una convinzione praticamente generale sul suo sostanziale carattere eterodosso. Non si riusciva a dar consistenza al “luogo” sovrannaturale nel quale si sarebbero trovate queste anime, prima del Giudizio Universale. Si dovevano forse ritenere nel “Limbo dei fanciulli morti senza battesimo e dei Santi”, incluso Abramo, morti prima di Cristo? La dottrina proposta dal papa creava confusione sul destino ultraterreno di tutti noi. Giovanni XXII fu convinto ad abiurarla, cosa che fece in un Concistoro di cardinali e teologi il 3 dicembre 1334, convocato da lui stesso sulla questione: vedi il testo dell’abiura nel Denzinger-Schönmetzer (Revocatio sententiae Iohannis XXII de Sanctorum beatitudine – 529/990-991). Poco dopo morì. Il successore, Benedetto XII, da cardinale aveva difeso con ampia dottrina l’opinione opposta a quella di Giovanni XXII. Fece pertanto studiare subito a fondo la questione dai migliori teologi del tempo e il 29 gennaio 1336 emanò la Costituzione Benedictus Deus, “sulla sorte dell’uomo dopo la morte”, nella quale si definiva come verità di fede che le anime dei defunti, dopo l’immediato giudizio particolare per ciascuna di loro, andavano immediatamente al luogo a loro destinato, o in Paradiso direttamente o in Purgatorio prima del Paradiso o all’Inferno, alla dannazione eterna. Benedetto XII nell’occasione parlò ex cathedra, come risulta dall’esordio del suo testo: “Hac in perpetuum valitura Constitutione auctoritate Apostolica diffinimus etc”: “Con questa Costituzione valida in perpetuo definiamo in base all’Autorità apostolica..” (DS 530-531/1000-1002). L’infallibilità del papa definiente ex cathedra e quindi uti singulus una verità sulla fede o i costumi come verità di fede che tutti e singoli dovevano osservare in perpetuo, esisteva da sempre, ben prima del Vaticano I e la Costituzione di Benedetto XII ne è una chiara conferma.
La questione doveva considerarsi pertanto definitivamente chiusa: le anime dei defunti andavano immediatamente al luogo loro assegnato dal Giudizio individuale di Nostro Signore. Gesù crocifisso non aveva forse detto al Buon Ladrone in agonia accanto a Lui, che si era pentito dei suoi peccati e lo implorava di ricordarsi di lui nel suo Regno : “In verità ti dico, oggi tu sarai in Paradiso con Me” (Lc 23, 40-43)? Si intende, lo sarà la tua anima. Cosa andava allora trovando de Lubac? Come niente fosse, cercava di riaprirla, la questione, evidentemente indifferente alla sua ormai plurisecolare inclusione tra le verità di fede. Qui si mostra appunto l’animus dell’eretico, pervicace nel suo disegno eversore.
De Lubac cercava di ripescare Giovanni XXII nell’ambito della sua personale concezione della natura sociale o comunitaria della salvezza, costruita in Catholicisme, della quale abbiamo già parlato. Egli sosteneva che la Sinagoga aveva trasmesso alla Chiesa una nozione sociale della salvezza, ragion per cui i Sacramenti andavano visti soprattutto come strumenti di unità della comunità cristiana (una concezione dei Sacramenti a dir poco “restrittiva”). Arrivava a scrivere o comunque a far capire che questa salvezza collettiva era momento di una salvezza addirittura cosmica, interpretando (come altri) in senso naturalistico un famoso passo della Lettera ai Romani (8, 18-25). È il passo nel quale san Paolo afferma che “il mondo creato [ktisis] attende con gran desiderio la glorificazione dei figli di Dio. La creatura [ktisis] infatti è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria inclinazione ma per volontà di Colui che ve l’ha assoggettata, con la speranza però che gli stessi esseri creati [autè he ktisis – ipsa creatura] saranno liberi dalla schiavitù della corruzione, verso la libertà della Gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21). Ora, la creatura sottoposta alla vanità per volontà di Dio, altri non può essere che l’uomo, in conseguenza del peccato originale. Ma sappiamo che Dio ha lasciato all’uomo, rimasto in possesso del libero arbitrio, la speranza di liberarsi dalla corruzione del peccato, e quindi di salvarsi cioè di giungere alla Gloria dei figli di Dio, i quali sono evidentemente i cristiani, Figli di Dio per adozione ovvero mediante la fede: di salvarsi convertendosi a Cristo.
E san Paolo così conclude: “Sappiamo bene come ogni creatura [pasa he ktisis – omnis creatura] sino ad ora geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto; né solo essa, ma noi stessi che abbiamo in noi le primizie dello Spirito, gemiamo, aspettando l’adozione, cioè la redenzione del nostro corpo. Nella speranza siamo stati salvati…”(Rm 8, 22-24). L’attesa della redenzione è in “ogni creatura”, precisa san Paolo, ossia in tutti gli uomini, i quali soffrono di questa attesa, che non risparmia nemmeno noi cristiani: infatti, le “primizie dello Spirito” possono evidentemente averle solo i cristiani. Ma ciò non evita che anch’essi soffrano spiritualmente nell’attesa della “redenzione” del loro corpo, cioè dell’adozione finale come Figli di Dio nella Resurrezione dei corpi, il Giorno del Giudizio.
Questo passo paolino è stato a volte frainteso, traducendo per esempio “ogni creatura” con “tutta quanta la natura”, come se san Paolo si riferisse all’intera natura, come se fosse l’intera natura ad anelare alla “redenzione”, che avrebbe allora una portata cosmica ma in senso panteistico-naturalistico. Infatti, “l’intera natura” comprende anche animali, pesci, insetti, piante: dobbiamo forse credere che il Signore è venuto per redimere anche tutto questo mondo naturale? Certo che no. Interpretato in questo modo, il passo di san Paolo sarebbe privo di senso. San Paolo usa sempre la parola ktisis, che viene tradotta con “creatura, creazione”. Ha questi significati, accanto ad altri, ma qui evidentemente la ktisis è l’essere umano, l’uomo.(110)
Ma proprio de Lubac è stato uno di quelli che ha diffuso l’interpretazione panteistico-naturalistica del passo. Ecco cosa scrive in Catholicisme: “Il termine verso cui Paolo vedeva incamminarsi la storia umana non era niente di meno che la liberazione di tutta la creazione, la consumazione di tutte le cose nell’unità del Corpo di Cristo finalmente compiuto. La speranza che egli poneva nel cuore degli uomini che guadagnava a Cristo era, si può ben dirlo, una speranza cosmica. Era dunque – per rimanere ancora qui nei limiti del genere umano – la speranza in una salvezza sociale. Era la speranza della salvezza della comunità, condizione della salvezza degli individui”.(111) Ma quando mai san Paolo ha insegnato che la salvezza della collettività è “condizione” della salvezza individuale dei credenti?
De Lubac riprendeva l’idea ebraica della salvezza collettiva di tutto il popolo eletto e nello stesso tempo la scavalcava dissolvendola nella liberazione di tutta la natura, intesa in senso cosmico, estendendo quindi (assurdamente) l’idea della “redenzione” alla natura, alla maniera di un Teilhard de Chardin, apertamente evoluzionista e panteista, le cui strampalate teorie volevano conciliare evoluzionismo di tipo darwiniano e cristianesimo, facendo di Gesù il culmine o “punto Omega” dell’evoluzione stessa, “punto” al centro di una sfera cosmica psichica, che l’esaltato chiamava “Noosfera”. Il passo citato di san Paolo è forse uno di quelli che contengono “dei punti difficili ad intendersi, il significato dei quali, come di altri passi della Scrittura, viene dagli ignoranti e dai deboli sconvolto, per loro perdizione (2 Pt 3, 16)”. Così ci ammoniva il Beato Pietro, il quale, nella stessa lettera ci rivelava che “Il giorno del Signore viene come un ladro: in quel giorno i cieli spariranno con grande fragore, gli elementi infuocati si dissolveranno e la terra sarà consumata insieme a tutte le opere che contiene” (2 Pt 3, 19).
Questa la “redenzione” finale della natura, secondo la Rivelazione correttamente intesa.
La convinzione che la salvezza sia da considerarsi collettiva, come se il libero arbitrio e la responsabilità individuale non costituissero due qualità essenziali dell’uomo, permettendo che le sue azioni siano valutate secondo la legge morale e positiva, e rendendolo individualmente responsabile di esse di fronte a Dio, spinge de Lubac a tentare di rivalutare le tesi di Giovanni XXII. Al fatto storico accenna solamente, dimenticandosi di precisare (per il lettore comune) che alla fine della sua vita quel papa abiurò la sua tesi. Gli preme invece ricordare che l’opinione poi condannata “aveva a suo favore una lunga serie di testimoni, alcuni dei quali tra i più grandi nomi della tradizione tanto latina quanto greca”. Ma questo, bisogna chiedersi, dimostrava forse qualcosa? Secondo de Lubac, il motivo per il quale riappariva periodicamente la credenza nell’indugio delle anime dei Giusti ad accedere alla Visione Beatifica, “era la fede, sempre viva, nell’essenza sociale della salvezza”.(112) Segue il consueto florilegio di citazioni, spesso non riportate nel testo ma indicate solo dal titolo dell’opera. Dimostrano esse l’esistenza di una fede “nell’essenza sociale della salvezza”?
Dimostrano invece che c’erano a volte, anche solo accennati, dei dubbi sul momento nel tempo (lo Zeitpunkt) nel quale le anime avrebbero raggiunto il loro stadio finale ed eterno, in Paradiso o all’Inferno. E questo, per via della stretta correlazione che si riteneva esistere tra anima e corpo, fortificata dalla fede nella Resurrezione finale dei corpi. Ma non si vede dove compaia, come afferma de Lubac, una “fede nell’essenza sociale della salvezza”, concetto che resta nebuloso.
“Se si è potuto credere, a torto, che per l’anima non c’era visione beatifica prima della consumazione dell’universo, non è forse perché, almeno in parte, si credeva, a giusto titolo, che non c’è salvezza individuale se non dentro della salvezza dell’insieme? La prospettiva era prima sociale, e soltanto dopo individuale. Volentieri si raffiguravano la Chiesa che entra in cielo dopo aver riportato la vittoria [in nota: Pascasio Radberto, P.L. 120, 189-90]. Finché essa era militante, si pensava con più o meno confusione, nessuno dei suoi membri può godere d’un pieno trionfo.”(113) De Lubac sembra far di tutto per occultare il fatto che la salvezza è sempre individuale, visto che Dio ci ha lasciato l’uso del libero arbitrio: saremo giudicati individualmente per quello che avremo pensato e fatto, appena morti. Questo è articolo di fede (Lc 16, 22; Eb 9, 27) ed è anche secondo il senso comune: perché il Signore, il Cristo Giudice, dovrebbe aspettare a giudicarci? Aspettare che cosa? Ora, noi cristiani, come tutti gli altri uomini, in vita apparteniamo a diverse comunità: familiari, scolastiche, di lavoro e così via, inclusa la Chiesa. Ovvio che chi si salva si ritrova con altri cattolici che si siano salvati e che, nelle immagini simboliche, si sia spesso rappresentata la Chiesa, cioè la comunità dei credenti, che entra trionfante in Cielo, alla fine dei tempi. Ma questo fatto puramente quantitativo, numerico non consente assolutamente di dire che la salvezza della comunità è “condizione” di quella individuale, quasi tra le due ci sia un nesso causale. Difatti, non esiste un giudizio collettivo: il Giudizio Universale non farà altro che confermare quello individuale anteriore, non è un nuovo giudizio.
La salvezza della nostra anima dipende dalla nostra capacità di esser diventati, con l’aiuto indispensabile della Grazia, “l’uomo nuovo” illustrato da Cristo nel cap. 3 del Vangelo di Giovanni: un individuo nel quale la Grazia opera a livello ontologico – un individuo appunto, non un soggetto collettivo, non possedendo il soggetto collettivo una dimensione “ontologica”. L’opera della Grazia, con la partecipazione della nostra individuale volontà, si manifesta sempre nel singolo individuo; ci trasforma internamente, ci trasforma come individui, uno per uno (vedi supra).
[De Lubac distorce il senso di Eb 11, 39-40] De Lubac, in modo poco appariscente, cerca di insinuare l’idea che anche nei Sacri Testi ovvero nella Lettera agli Ebrei, ci fosse un chiaro indizio di una Visione Beatifica rimandata per tutti alla fine dei tempi. Se tutti i Santi dell’Antico Testamento e Abramo stesso avevano dovuto attendere la discesa agli Inferi del Signore, “la sera stessa della Passione, per esser liberati”, alcuni si domandavano: “poiché gli eletti erano salvati solamente dalla Chiesa di Cristo, non dovevano essi, come lo suggeriva abbastanza chiaramente l’epistola agli Ebrei, attendere fino al secondo avvento di Cristo la salvezza di questa Chiesa, per entrare essi stessi in possesso della loro beatitudine?”.(114)
Ma davvero la Lettera agli Ebrei “lo suggeriva abbastanza chiaramente”? Andiamo a vedere il passo richiamato da de Lubac in nota (Eb 11, 39-40). Il passo conclude gli splendidi esempi di fede, presenti nell’Antico Testamento, appena ricordati dalla Lettera, da Abele in poi. Un punto essenziale del discorso sulla fede è che essa lo è nella Promessa divina e quindi di cose che non si vedono ma si sperano, pur non ottenendole spesso in questa vita, poiché la Patria cui essa aspira è in Cielo (Eb 11, 13-16). E difatti, tutti gli eroi di Israele, dai profeti ai combattenti, sopportarono prove incredibili e tuttavia non ottennero ancora quanto promesso: “Ebbene, anche costoro, pur ricevendo testimonianza per la fede non conseguirono l’oggetto della promessa, Dio avendo in vista qualcosa di meglio per noi, perché non arrivassero alla perfezione senza di noi” (Eb 11, 39-40).
Il passo non è, a prima vista, di facile interpretazione. Così viene commentato in nota nell’edizione paolina della Bibbia anteriore al Vaticano II : “Sembra voglia dire che aspettavano nel Limbo fino a Cristo, e che aspettano la perfezione (la resurrezione dei corpi) insieme a noi”. La cosiddetta Bibbia di Gerusalemme, così commenta, confermando: “L’era escatologica della ‘perfezione’ è stata inaugurata dal Cristo (2, 10; 5, 9; 7, 28; 10, 14) e l’ingresso alla vita celeste è stato aperto da Lui (9, 11 s; 10, 19 s). I giusti dell’AT, che la legge non ha potuto “perfezionare”(7, 19; 9, 9; 10, 1), hanno quindi dovuto attendere la sua resurrezione per entrare nella vita perfetta del cielo (12, 23; cf. Mt 27, 52s; 1 Pt 3, 19+)”. Questi due autorevoli commenti in sostanza concordano nel rilevare che “l’attesa” di cui alla Lettera agli Ebrei concerne solo i giusti dell’Antico Testamento: non v’è in effetti accenno alcuno ad una “attesa” cui dovrebbero sottostare le anime dei cristiani. Ma perché scrive san Paolo che “Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi”? Il “qualcosa di meglio” era “l’oggetto della promessa”, ossia il Redentore, grazie al cui insegnamento noi possiamo perfezionarci, sino alla perfezione finale dell’entrata nel Paradiso alla fine dei tempi.
Per de Lubac, la dottrina rifiutata di Giovanni XXII conteneva dei germi positivi. “Pur facendo la messa a punto che s’impone, non sarebbe possibile conservare il beneficio nascosto di questa dottrina? Essa s’è smarrita qualche volta in sogni che bisogna lasciare al passato. Ma se al di là di questi sogni, la sua ispirazione profonda era giusta, non deve essere impossibile trovarci un insegnamento ancora attuale. Per esempio non ci sarebbe modo di prestare maggiore attenzione a questo consortium che deve essere la beatitudine, secondo le formule insistenti della liturgia romana?”. Queste formule, alcune delle quali riportate in nota, sono del tipo: “in aeterna beatitudine de eorum societate gaudere” (orazione del comune dei Martiri); “Cum omnibus sanctis tuis ad perpetuae beatitudinis consortium pervenire” (messa dei defunti). Cosa dimostrano? Che i salvati sono in un certo numero, onde nell’aldilà formano una “società”, un “consorzio”, ovviamente di tipo mistico: i salvati, una volta Beati, si ritroveranno in compagnia, come è inevitabile e giusto. L’esistenza di questo “consortium” sovrannaturale non dimostra nulla quanto alla natura della loro salvezza, ossia che è avvenuta solo in seguito ad un Giudizio individuale per ciascuno di loro. Stesso discorso per il passo di san Tommaso della Summa contra Gentiles citato da de Lubac subito appresso, sul Regno di Dio, “che a sua volta non è altro che la società ordinata di quelli che godono la visione divina”.(115) Il Regno di Dio viene chiamato anche Città Celeste: essendo una Città, un Regno sovrannaturale, è ovviamente una “societas”, anche se del tutto particolare. Dire pertanto che la salvezza ha carattere “comunitario” significa solo richiamare il fatto che essa si attua (individualmente) in un gran numero di anime, di Eletti, chiamati a formare una comunità ordinata e forse gerarchica nella contemplazione eterna del Bene Sommo (“Nel Regno del Padre mio vi sono molte dimore”, ha detto il Signore - Gv 14, 2).
La natura comunitaria della salvezza riguarda pertanto non la salvezza vera e propria quanto l’ordinamento celeste della raggiunta salvezza, che è quello di una societas perfectissima governata dalla S.ma Trinità. In un altro senso ancora possiamo parlare di natura comunitaria della salvezza, quando pensiamo all’opera della Chiesa, con i suoi Sacramenti, nell’adiuvarci a vivere cristianamente e quindi a conseguire la nostra individuale salvezza. Ma non è in questo senso che de Lubac insiste sulla natura comunitaria della salvezza. Egli vuol andare ben oltre. Lo si deduce da una serie di elementi, riscontrabili nel cap. VII di Catholicisme, dedicato a “La salvezza mediante la Chiesa” e in altri brani del medesimo libro.
Così li riassumo: appoggiandosi alle consuete citazioni fuori contesto dei Padri, dopo aver respinto “l’espediente di una salvezza naturale che rigetterebbe per l’eternità in opachi Limbi la parte immensa di una umanità fatta tuttavia ad immagine di Dio”, egli afferma che “il Figlio, sin dall’origine e sotto tutti i cieli, più o meno oscuramente, rivela il Padre ad ogni creatura”. Pertanto non c’è uomo, non c’è un “infedele” la cui conversione soprannaturale a Dio non sia possibile sin dall’inizio della sua vita ragionevole”. Ciò significa che la Chiesa non è necessaria alla salvezza, pertanto i cosiddetti “infedeli” non hanno l’obbligo di entrare nella Chiesa per esser salvati. L’obbligo ce l’ha solo “colui che incontra la Chiesa sul suo cammino”. Pertanto, “se ogni uomo può essere salvato da un soprannaturale posseduto anonimamente, come potremo stabilire che si ha il dovere di riconoscere espressamente questo soprannaturale nella professione della fede cristiana e nella sottomissione alla Chiesa cattolica?”.(116)
Compare qui l’idea errata, di origine blondeliana, di un sovrannaturale “posseduto anonimamente”, come se “tutti i desideri umani, tutti gli sforzi umani” tendessero, come loro Termine, anche senza saperlo, “all’abbraccio di Dio in Cristo”.(117) Karl Rahner avrebbe poi teorizzato quest’idea dei “cristiani anonimi”. Ma se andiamo a controllare le citazioni, cosa troviamo? Troviamo una serie di variegate espressioni, anche poetiche, per esprimere il concetto che Dio vuole salvi tutti gli uomini, concetto come sappiamo appartenente alla Rivelazione e che non ha nulla a che vedere con l’idea di una salvezza collettiva. Non posso certo procedere all’analisi di tutto l’enorme apparato di citazioni affastellato da de Lubac. Mi limiterò pertanto ad alcuni esempi.
[Sant’Ireneo di Lione ad usum delphini] Un testo particolarmente saccheggiato è stato il Contro le eresie di S. Ireneo di Lione. Alla nota n. 4 di p. 206 de Lubac dà i seguenti riferimenti: Adv. Haer., 2, 22, 4; 3, 18, 7; 4, 20, 6-7; 4, 22, 2 (P. G. 7, col. 784, 937, 990, 1036-7, 1047). Riporta anche le seguenti frasi isolate, forse dei frammenti: “La presenza invisibile del Logos è diffusa ovunque… Per mezzo suo tutto è sotto l’influsso dell’economia redentrice, e il Figlio di Dio…ha tracciato il segno della croce su ogni cosa”.(118) Queste citazioni fuori contesto non dimostrano nulla e nello stesso tempo mirano a far credere che i Padri postulassero un’idea di salvezza senza bisogno dell’opera della Chiesa.
Estraggo da Adv. Haer., 2, 22, 4 “Venne infatti a salvare tutti mediante la sua persona: tutti, dico, quelli che mediante lui rinascono in Dio, bambini e fanciulli, ragazzi, giovani e vecchi. Passò per tutte le età, fatto infante per gli infanti per santificarli, tra i fanciulli fanciullo per santificare quelli che avevano quest’età, fatto insieme ad essi modello di pietà, giustizia e soggezione…”.(119) Sant’Ireneo sta scrivendo contro gnostici e docetisti. Negavano la realtà della Crocifissione e tendevano a fare del Cristo un Eone, ovvero l’azione di una potenza cosmica che pervadeva un’epoca in modo benigno. Ecco, pertanto, che sant’Ireneo ribadisce la realtà storica dell’azione di Cristo, che è venuto a salvare tutti “mediante la sua persona”, in carne e ossa, operando individualmente a favore di tutti.
Il secondo estratto è diretto contro i docetisti, e lo possiamo tralasciare (III, 18, 7). Il terzo illustra il modo di operare della Santissima Trinità: “In questo modo Dio si rivela; in tutte le cose si manifesta Dio Padre in quanto che lo Spirito opera, il Figlio dispone, il Padre approva, e l’uomo trova la perfezione della salvezza. Così dice nel profeta Osea: “Io ho moltiplicato le visioni e mi sono espresso figuratamente nelle mani dei profeti” (Os 12, 10) […] Poiché chi opera tutto in tutti è Dio, invisibile e indescrivibile per tutte le creature è la sua natura e grandezza; tuttavia non è inconoscibile del tutto: mediante il Verbo tutti possono apprendere che c’è un solo Dio Padre che tutto contiene e a tutti dà l’essere, come è scritto nel Vangelo: “Nessuno ha mai visto Dio se non l’Unigenito Figlio che si trova nel seno del Padre – egli ce ne ha dato notizia” (Gv 1, 18). Il Figlio parla all’inizio del Padre perché dall’inizio è col Padre e manifesta al genere umano le visioni profetiche, i diversi carismi, i suoi uffici e la gloria del Padre, gradualmente e tempestivamente secondo l’utilità [IV 20, 6 e 7]”.(120)
Il Cristo nei suoi rapporti con il Padre è il Cristo dei Vangeli: sant’Ireneo (130-200 circa) espone qui la dottrina cattolica tradizionale, che ovviamente non lascia spazio al Cristo “cosmico”. Egli è considerato il primo teologo della Chiesa, ha fondato il concetto di Tradizione Apostolica, anche se poi è caduto in buona fede nell’errore millenarista (millenarismo spirituale), scaturito da un’erronea interpretazione di un passo dell’Apocalisse.(121) Nell’ultimo passo indicato da de Lubac abbiamo: “Cristo non venne solo per quelli che credettero in lui al tempo di Tiberio Cesare, né il Padre provvide solo per gli uomini della nostra epoca, ma per tutti gli uomini che dall’inizio col suo aiuto, nella propria generazione, temettero e amarono Dio, vissero nella pietà e nella giustizia verso il prossimo e desiderarono vedere Cristo e udirne la voce. Perciò nel suo secondo avvento desterà dal sonno prima di tutto tutti costoro e farà sorgere tanto questi che gli altri, che saranno giudicati e di tutti costituirà il suo regno…” .
“Tutti gli uomini”: forse qui sant’Ireneo intende l’umanità intera? No. Il brano fa parte di una sezione intitolata “Continuità dei due Testamenti”. Gli uomini timorati di Dio che fecero sempre la volontà di Dio e “e desiderarono vedere Cristo [il Messia] e udirne la voce” sono gli ebrei timorati di Dio: alla Parusia Cristo li farà risorgere unitamente a tutti gli altri, per sottoporli a giudizio e costituire con essi il suo Regno. Come si vede, siamo lontani le mille miglia dall’idea di un’azione salvifica “cosmica” operante in modo indifferenziato in tutti gli uomini.
Si potrebbe continuare all’infinito con questo tedioso lavoro di scavo. Il materiale esposto mi sembra comunque sufficiente a documentare l’esegesi disinvolta dell’esimio gesuita.
Consideriamo ora un altro aspetto. Abbiamo visto che de Lubac rigettava la dottrina del Limbo. Né sembrava aver mai dato particolar peso alla dottrina del battesimo di desiderio, implicito o esplicito. Ma già con san Paolo la Chiesa aveva risposto al problema posto dalla sorte dei Giusti tra i pagani. Nel cap. 2 della Lettera ai Romani, egli spiegò che i Giudei sarebbero stati giudicati secondo la loro legge, i Gentili secondo la legge naturale, inscritta nei loro cuori. “Anzi, se dei pagani che non hanno la Legge, sono legge a se stessi, pur non avendo la Legge; dimostrando così che i dettami della legge [i dieci Comandamenti] sono scritti nei loro cuori, come ne fa fede la loro coscienza coi suoi giudizi, la quale, volta per volta, li accusa o li difende. E questo diventerà manifesto nel giorno in cui, secondo il mio Vangelo, Dio giudicherà, per mezzo di Gesù Cristo, le azioni segrete degli uomini” (Rm 2, 14-16). A questa verità fece eco sant’Agostino quando ne La Città di Dio scrisse che, data la mescolanza delle due città, secondo la carne e secondo lo spirito, qui in terra, tra i pagani si trovano dei veri figli della Chiesa, ovviamente senza saperlo: “a loro stessa insaputa, si nascondono anime predestinate ad esserci amiche”(123).
Qui sembra adombrata la dottrina del battesimo di desiderio implicito, che successivamente sarebbe stata adottata per spiegare la possibilità di salvezza anche al di fuori della Chiesa. Per non farla troppo lunga: la Chiesa non ha mai avuto una posizione assolutamente “rigorista” ma ha cercato sempre il giusto equilibrio tra il lassismo da un lato (riemerso con la Nouvelle Théologie) e il rigorismo sbagliato dall’altro, escludente per principio i non cattolici dalla salvezza. La questione fu definita dogmaticamente da Pio XII con una Lettera del Sant’Uffizio all’Arcivescovo di Boston, dell’8 agosto 1949, nella quale si ribadiva la dottrina tradizionale e si condannava il “rigorismo” del sacerdote americano Leonard Feeney. Costui sosteneva che, fuori della Chiesa, si salvavano solo coloro che avessero manifestato un desiderio esplicito del battesimo. Insistendo nella sua posizione, fu scomunicato il 4 febbraio 1953. La Lettera ribadì che al di fuori della Chiesa cattolica non c’è salvezza e condannò (ancora una volta) l’opinione che tutte le religioni potessero apportare la salvezza allo stesso modo. Però ribadì che era possibile una salvezza individuale del singolo non cattolico, che aderisse alla Chiesa “voto et desiderio”. Questa adesione era esplicita nei catecumeni in attesa del Battesimo. Implicita invece in altri, noti allo Spirito Santo: essi dovevano avere la fede, non vivere in peccato mortale, improntare la loro azione ad una perfetta carità, trovarsi nell’ignoranza invincibile della religione cattolica.(124)
Questo apparato dottrinale non era sufficiente a risolvere il problema della salvezza fuori della Chiesa? Non era sufficiente, evidentemente, visto che questa salvezza restava sempre “individuale” e non sarebbe apparsa che alla fine dei tempi. Inoltre, c’era il fatto che i Giusti fra i Gentili, non essendo battezzati, sarebbero rimasti in una situazione di felicità di tipo naturale, senza poter accedere alla Visione Beatifica. E questo non sembrava giusto. Ma a chi non sembrava giusto? Ai “nuovi teologi” che volevano appunto introdurre un concetto lassista, e persino “cosmico” della salvezza, includente la natura!
“Il genere umano è uno”, tuonava de Lubac, e la Chiesa ”ha ricevuto l’incarico di realizzare l’unificazione spirituale di tutti gli uomini, per quanto possibile”. Una “unificazione spirituale” senza “conversione”? Non ce n’era evidentemente bisogno visto che tutti i desideri comuni, tutti gli sforzi umani tendevano come a loro termine finale “all’abbraccio di Dio in Cristo”!(125) Quest’ultima proposizione è oggi vero e proprio articolo di fede nonostante la sua evidente falsità. In ogni caso, essa tende a fare di tutti gli uomini dei cristiani anonimi, venendo in tal modo a far coincidere la Chiesa con l’umanità, il che non può essere. Per questa via si è giunti all’infausto art. 1 della Lumen gentium, nel quale si afferma che “la Chiesa è in Cristo in qualche modo il sacramento ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. Affermazione tutt’altro che chiara, come ognun può vedere.
Né maggior chiarezza si ricava dalla nozione di salvezza elaborata dal medesimo de Lubac. “Provvidenzialmente indispensabili all’edificazione del Corpo di Cristo, gli “infedeli” devono beneficiare a modo loro degli scambi vitali di questo Corpo. Per un’estensione del dogma della comunione dei santi, sembra giusto dunque pensare che, pur non essendo essi stessi posti nelle condizioni normali della salvezza, tuttavia potranno ottenere questa salvezza in virtù dei vincoli misteriosi che li uniscono ai fedeli. In breve, potranno essere salvati perché sono parte integrante dell’umanità che sarà salvata”.(126)
Un modo di intendere la “redenzione universale”, questo il senso della teoria di de Lubac appena esposta. È del resto evidente che tutto il suo ambiguo discorrere sulla natura comunitaria della salvezza proprio a questo mirava: a dar cittadinanza all’idea non cattolica di una salvezza una e per tutti allo stesso modo, coinvolgente anche la natura, senza bisogno di conversione al cattolicesimo!
3 giugno 2024___________________________
1. Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede “Dignitas infinita circa la dignità umana”, estratto su Internet, p. 3/25. L’ultima frase è tratta dall’Esortazione Apostolica di papa Francesco, Laudate Deum [qui], del 4 ottobre 2023, n. 39. La sottolineatura è mia.
2. Papa Francesco, Fratelli tutti. Enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Guida alla lettura di Alessandra Smerilli, Indici a cura di Giuliano Vigini, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), 2020, n. 213, p. 196. Vedi anche l’art. 107: “Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun paese può negare tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato e cresciuto con delle limitazioni, infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere”. Quest’articolo rivela il fondamento ideologico dell’accoglienza indiscriminata ai c.d. “migranti”, costituito da un proclamato “diritto fondamentale a vivere con dignità e svilupparsi integralmente in qualsiasi paese di propria scelta”. Tale “diritto” può esser riconosciuto da un ordinamento giuridico particolare ma non si vede come possa costituire un “diritto fondamentale od umano”.
3. Papa Francesco, Catechesi – “Guarire il mondo”: Fede e dignità umana, Udienza generale del 12 agosto 2020, p. 1 di 3, testo cartaceo della Santa Sede.
4. Papa Francesco, op.cit., p. 2 di 3.
5. Papa Francesco, Discorso di Sua Santità Papa Francesco al Dignitatis Humanae Institute presso il Palazzo Apostolico, il 7 dicembre 2013, documento reperibile su Internet, di due pagine, p. 1 di 2.
6. Vedi: Leo Baeck, L’essenza dell’ebraismo, 1905, tr. it. di Carlo Danna, Marietti, Genova, 1988, pp. 148-151; Pnina Navè Levinson, Einführung in die Rabbinische Theologie, WB, Darmstadt, 1982, p. 53 ss.; Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. di P. Michel Gautier, Salvator, Mulhouse, 1951, vol. II, p. 17, con gli autori ebraici ivi citati. Si tratta della sezione sulla Grazia e la Giustificazione, §§ 112-136, pp. 15-143. Sul tema in oggetto, ho consultato ampiamente quest’autore, unitamente al suo allievo Ludwig Ott: Louis Ott, Précis de théologie dogmatique, tr. fr. del P. Marcel Grandclaudon, Salvator, Mulhouse, 1954, §§ 18-25. Sempre valido: Giuseppe Casali, Somma di teologia dogmatica, Ed. Regnum Christi, Lucca, 19643. Per le traduzioni italiane dei Testi Sacri, mi sono servito de La Sacra Bibbia delle Edizioni Paoline anteriori e posteriori al Concilio e di quella curata dall’Abate Ricciotti, edita da Salani negli anni cinquanta del XX secolo.
7. Casali, op. cit.,p. 393.
8. “La religione cristiana è soprannaturale, è fondata sulla persuasione che Dio mette nell’intelletto, nella mente dell’uomo, in maniera speciale, la Grazia; e i popoli Gentili non hanno la Grazia: hanno una religione – la religione naturale – ma non hanno la Grazia. Non hanno la religione soprannaturale, perché la religione soprannaturale, cioè la Grazia, è ontologicamente un principio divino: è la vita divina, che viene partecipata all’uomo, in modo incipiente, certo, ma reale. Talmente reale che, nel Battesimo, si parla di una nascita, o rinascita: c’è la creazione di un nuovo essere. Quindi la Grazia non è soltanto qualche cosa di morale, la Grazia è qualcosa di ontologicamente divino, di realmente divino”. Con la Grazia “anche se in forma incipiente e non ancora piena, qualcosa di divino si inserisce realmente nell’anima creata, nel nostro essere, nella nostra struttura metafisica”. Gli Eletti in Cristo subiscono quindi una (graduale) modifica sostanziale nel loro status interiore ad opera della Grazia, e questo è un grande mistero, che si riconnette a quello della predestinazione (Romano Amerio, STAT VERITAS. Seguito a ‘Iota Unum’, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1997, p. 20 e p. 118. Si tratta della nota opera postuma di Amerio, a cura di Enrico Maria Radaelli).
9. DS 787-792/1510-1515. Si tratta del Decreto del Tridentino sul peccato originale.
10. Pio XII, Enciclica Mediator Dei sulla sacra liturgia, ed. bilingue, Casa Ed. ‘Vita e Pensiero’, Milano-Roma, 1956, pp. 4-5.
11. Summi Pontificis Allocutio, Gaudet Mater Ecclesia, AAS, 54 (1962), pp. 786-795; tr. it. in I documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, testo latino-italiano, Gregoriana, Padova 1966: La solenne apertura del Concilio, pp. 1075-1081; AAS, p. 792; tr. it. cit., p. 1079.
12. Op. cit., AAS, p. 793; tr. it., cit., p. 1079.
13. Henri de Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma (1936), tr. it. di U. Massi, Studium, Roma, 1948, pp. 298-299. A sostegno della sua tesi, de Lubac cita in nota il Commento alla Lettera ai Galati del Crisostomo (PG, 61,628) e di Teofilatto (PG, 124, 964). Del primo non dà il testo, del secondo riporta sette parole in greco che letteralmente si possono così tradurre: “nell’uomo interiore [del]la conoscenza [che fu] immersa”. Una frase che di per sè, staccata dal suo contesto, non sembra voler dire molto ed appare abbastanza oscura. Sulla disinvolta ermeneutica di de Lubac, vedi infra, § 10.
14. Giuseppe Siri, Getsemani, 2a ed., Edizioni della Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma, 1987, pp. 55-56.
15. Maurice Blondel, L’action (1893), PUF, Paris, 1993, p. 462. Ma vedi l’introduzione e i primi due capitoli dell’ultima parte del libro, la quinta: pp. 389-423.
16. Siri, Getsemani, cit., pp. 53-54.
17. Vedi: Cattolicismo, tr. it. cit, p. 99.
18. CCC, par. 1691, San Leone Magno, Sermones, 21, 2-3, PL 54, 192A; cf. Liturgia delle Ore, I, Ufficio delle letture di Natale [nota del CCC]. San Leone Magno regnò alla metà del V secolo, in tempi molto difficili per l’impero romano in Occidente ma anche per la Chiesa. Sua fu la grande Lettera dogmatica contro le eresie cristologiche imperversanti adottata spontaneamente all’unanimità dal Concilio Ecumenico di Calcedonia, che le anatemizzò (AD 451).
19. In una conferenza del 2018 l’allora mons. Vincenzo Paglia vantava la superiorità della concezione cristiana della dignità rispetto a quella dei Romani. Dopo aver detto che “il credente, nella misura in cui acconsente all’aiuto che Dio gli offre, si pone all’altezza della sua vocazione. Tuttavia, anche attuasse comportamenti che appannano questa immagine, la sua dignità resta intatta in tutta la sua forza”, precisa che nell’antica Roma c’era una diversa mentalità: “Nella cultura prevalente di quell’epoca la dignitas non era collegata (ontologicamente) alla persona umana, ma era costituita da una carica pubblica, che veniva attribuita ad alcuni chiamati, appunto, “dignitari” (Vincenzo Paglia, Salvaguardare la dignità umana in ogni età della vita, Discorso del 3 dicembre 2018 al Palais des Nations, Ginevra, p. 4 dell’estratto di cinque pagine reperibile su Internet). In effetti, annoto, ci è rimasta una Notitia Dignitatum o elenco delle cariche pubbliche anche militari del basso impero. Ma siamo appunto al basso impero. La nozione classica (ciceroniana) della dignitas pur non considerando ovviamene la dignitas come una caratteristica “ontologica” dell’individuo, le attribuiva un grande significato come valore fondamentale della società romana, sia a livello individuale che collettivo. Vedi sul punto, Sylvain Luquet, La dignité humaine dans la philosophie classique, nel volume collettaneo La dignité humaine. Heurs et malheurs d’un concept maltraité, Ed. Pierre-Guillaume de Roux, 2020, 41, rue de Richelieu, 75001 Paris, www.pgderoux.fr, pp. 203, 24 € - pp. 13-38. I saggi raccolti fanno giustizia della retorica della “dignità dell’uomo” imperante e del suo uso a volte perverso. Per ulteriori approfondimenti critici: Paolo Pasqualucci, La falsa dignità. Una visione dell’uomo spesso fraintesa [qui], Fede & Cultura, Verona, 2021, pp. 256, € 19,00.
20. GS 22.2, sottolineature mie. Il CCC ripete almeno due volte questa definizione dell’Incarnazione: nell’art. 618, citando letteralmente GS 22.2 e nell’art. 432, scrivendo addirittura che con l’Incarnazione Cristo “si è unito a tutti gli uomini”, eliminando cioè il peraltro ambiguo ed ininfluente “in certo modo”(quodammodo).
21. San Tommaso scrive che la natura umana era la più adatta ad esser assunta dal Figlio di Dio per via della sua “congruentia” a tale unione, risultante la congruenza dalla dignità dell’uomo e dalla necessità. “La dignità, infatti, poiché la natura umana, in quanto razionale ed intellettuale, è nata per coadiuvare il Verbo stesso nella sua opera, vale a dire conoscendolo ed amandolo. La necessità, invece, dovuta al bisogno della natura umana di esser restaurata, trovandosi sotto il dominio del peccato originale” (Summa Theologiae, III, q. 4, A. I).
22. Il passo del Concilio di Calcedonia citato si trova in: Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. di Rodomonte Galligani, Introduzione di Giuseppe Alberigo, UTET, 1978, p. 164. Nell’originale: “Adsumpsit formam serui sine sorde peccati / humana augens, diuina non minuens”, S. Leonis Magni Tomus ad Flavianum Episc. Constantinopolitanum (Epistula XXVIII), a cura di C. Silva-Tarouca SI, Pontificia Universitas Gregoriana, Textus et Documenta, Series Theologica, 9, 1932, p. 25.
23. Fernando Bogónez Herreras, “Cristo, el hombre nuevo”. Analisis de Gaudium et spes 22, ‘Estudio Agustiniano’, Sept 2017, 52 (1-3) 297-319; p. 310. Estratto disponibile su internet.
24. Herreras, op. cit., p. 24/27.
25. Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 164.
26. Summa Theologiae, III, q. 4, a. 5. Vedi sul punto la Postilla della Redazione a una lettera intitolata: Un errore cristologico di tipo nuovo nell’art. 22 della Gaudium et spes?, in ‘sì sì no no’, XXXV, 1 (2009), pp. 7-8.
27 Maurice Blondel, Il filosofo dell’azione (L’Action, 1893), formalmene cattolico, sosteneva l’esistenza di un’unità tra il Cristo, l’umanità e il cosmo. Pertanto, sosteneva che la salvezza veniva dal Cristo “cosmico” anche indipendentemente dalla Chiesa e quindi dalla Rivelazione, insegnata dalla Chiesa. Un suo contraddittore gesuita, il P. Wehrlé, annotava a margine di una lettera del filosofo: “Blondel admet le salut hors de l’Église, par le Christ directement…L’Église n’a plus de raison de tant prêcher…” (René Marlé, a cura di: Au coeur de la crise moderniste. Le dossier inédit d’une controverse. Lettres de Maurice Blondel, H. Bremond, Fr. von Hügel, Alfred Loisy etc., Aubier, Paris, 1960, pp. 268-9). La salvezza acquisita direttamente dall’Incarnazione di Cristo, senza bisogno dell’opera della Chiesa, che dovrebbe solo confermarla con il “dialogo” universale, è di fatto la (pseudo)dottrina oggi dominante.
28 Herreras, op. cit., p. 130.
29. Nino Scivoletto, Istituzioni di lingua latina (Edizione provvisoria), Editrice Elia, Roma, 1969, pp. 94-95.
30. Johannes Dörmann, Johannes Paul II. Sein theologischer Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi [Giovanni Paolo II. Il suo cammino teologico verso la Giornata della preghiera mondiale delle religioni ad Assisi], Sitta Verlag, Senden, 1990, vol. I, pp. 81-83. Mi sono servito anche della traduzione italiana: J. Dörmann, La teologia di Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi, vol. I: Dal Concilio Vaticano II all’elezione papale, Editrice Ichthys, Albano Laziale, s.d., p. 71.
31. Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, tr. it. cit., pp. 528-9 (Decreto sul peccato originale, del 17 giugno 1546). Il testo italiano traduce “creato” ma è meglio la traduzione letterale: “costituito”.
32. Questi riferimenti alla dottrina del peccato originale li ho tratti da: Bernard Bartmann, Précis de théologie dogmatique, cit., vol. I, §§ 77-80.
33. Sul punto, Ott, op. cit., pp. 167-168. Il Concilio generale di Lione (1274) e quello di Firenze (1438-1445), hanno dichiarato che chi muore con il peccato originale, come i bambini non battezzati, va “in infernum” ma nel senso che è escluso dalla visione beatifica (pena del danno) pur trovandosi in uno stato di felicità naturale, chiamato dai teologi “Limbo”. Questo dogma si basa su Gv 3, 5, quando il Signore disse: “ Nessuno può entrare nel Regno dei Cieli se non rinasce mediante l’acqua e lo Spirito”. Ratzinger fu sempre ostile all’idea del Limbo, difeso per esempio dal papa Pio VI contro l’eretico Sinodo di Pistoia, che voleva abolirlo (ivi, p. 168)”.
34. Bartmann, op. cit., vol. Ii, §120 (pp. 63-64).
35. Dörmann, La teologia di Giovani Paolo II e lo spirito di Assisi, I., cit., p. 53. I riferimenti al Denzinger sono nel testo. Sottolineatura mia.
36. Op. cit., pp. 53-54. In nota l’Autore rinvia al manuale di Ludwig Ott, sul punto. Il paragrafo 799 del Denzinger riporta la definizione tridentina della giustificazione, nella quale si dice che l’uomo deve attuare una “voluntaria susceptio” della Grazia e dei doni sovrannaturali.
37. S. E. Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademica per la Vita, Salvaguardare la dignità umana in ogni età della vita, 5 dicembre 2018, Palais des Nations (Ginevra), p. 2 del cartaceo di 5 pagine, reperito su Internet. Sottolineature mie.
38. Ricapitolando: non ottiene l’uomo “nuovo” l’esenzione dalla morte naturale (verità di fede); non ottiene di esser liberato dalla concupiscenza, nella sua triplice forma (sentenza prossima alla fede); non ottiene l’esenzione dalla sofferenza (sentenza comune); ottiene invece di mantenere il dono della scienza ossia della capacità di conoscere verità naturali e sovrannaturali (sentenza comune). Sul punto: Ott, op. cit., §§ 18-25 del II libro.
39. Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 531.
40. Testo reperito su Internet: www.causesanti.va/it/eventi/dimensione-comunitaria-della-santita.html, p. 2 di 7. 41. Gv 17, 6-21.
42. Giovanni Paolo II, Ut unum sint, Lettera Enciclica del Santo Padre Giovanni Paolo II sull’impegno ecumenico, Libreria Editrice Vaticana, 1995, art. 9, pp. 12-13.
43. Uscita in tre volumetti nel 1988 (vedi supra, nota n. 29) l’opera è stata riunita in un unico volume, postumo: Prof. Dr. Johannes Dörmann, Johannes Paul II. Sein Theologischer Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, Stuttgart, 2011. Ho sempe confrontato la traduzione italiana citata con l’originale tedesco, da ultimo in questa edizione.
44. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis (1979), Edizioni San Paolo, Alba, 1979, p. 24. L’intero articolo 13 si trova alle pp. 24-26 di quest’edizione. Per l’originale: AAS 71 (1979), p. 283 ss.
45. Il par. 91 della Gaudium et spes fa parte della Conclusione (parr. 91-93). Esso delinea apertamente lo scopo propostosi dal Concilio : rendere il mondo conforme all’eminente dignità dell’uomo, promuovere la fratellanza universale: “Quanto viene proposto da questo santo Sinodo fa parte del tesoro dottrinale della Chiesa ed intende aiutare tutti gli uomini del nostro tempo – sia quelli che credono in Dio, sia quelli che esplicitamente non lo riconoscono – affinché, percependo più chiaramente la pienezza della loro vocazione, rendano il mondo più conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza universale poggiata su fondamenti più profondi, e possano rispondere, sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto agli appelli più pressanti della nostra epoca”. Non c’è da stupirsi se autevoli dignitari del Grande Oriente di Francia abbiano espresso un giudizio positivo sul Vaticano II.
46. Giovanni Paolo II, op. cit., p. 24.
47. Dōrmann, La teologia di Giovanni Paolo II, cit., p. 73.
48. Op. cit., pp. 73-74. Ricordo la definizione della Giustificazione data dal Tridentino: “Essa non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, attraverso l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da ingiusto diviene giusto e da nemico amico, così da essere erede, secondo la speranza della vita eterna [Tt 3, 7]” (Alberigo, Decisioni dei Concili Ecumenici, cit., p. 541 – DS 799/1528).
49. Op., cit., p. 74.
50. La critica di Amerio a GS 24 si trova nel cap. XXX di Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 19862, p. 401 ss.
51. Dörmann, op. cit., p. 74.
52. Op. cit., ivi.
53. Op. cit., pp. 74-75, corsivi miei.
54. Op. cit., pp. 74-75. Corsivi miei.
55. Op., cit., p. 78.
56. Op., cit., ivi, con le fonti citate.
57. Op. cit., p. 72.
58. Discorso del Santo Padre, La malattia della mente non crea fossati invalicabili né impedisce rapporti di autentica carità cristiana, estratto reperibile su Internet dagli Atti del Convegno “Ad immagine e somiglianza di Dio: sempre? Il disagio della mente umana”, 1996, pp. 7-9; p. 8.
Testo dell’intervento del cardinale Ratzinger al citato Convegno del 1996, intitolato : Ogni ideologia che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbe un ritorno verso la barbarie, reperito su Internet nel blog “Raccolta di testi di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI: www.papabenedettoxvitesti.blogspot.com/2009/08/ogni-ideologia-che-estromettesse-alcuni.html, p. 4/28. Si noti che Ratzinger riporta “la parola di Dio” come introduzione al “r a c c o n t o della creazione dell’uomo”, non come attestazione divina del f a t t o della creazione.
59. Op. cit., ivi.
60. Op. cit., ivi.
61. Op. cit., ivi.
62. Op. cit., ivi.
63. Op.cit., pp. 6-7/28.
64. Op. cit., p 7/28.
65. Bartmann, op. cit., vol. I, § 75, pp. 314-319.
66. Preghiere, Canti, Esercizi spirituali di S. Ignazio di Loyola, ad uso interno della FSSPX, Editrice Ichthys, Albano Laziale, 2014, p. 156.
67. Vedi: Fr. Reginald Garrigou-Lagrange OP, Predestination, tr. ingl. dal fr. di Dom Bede Rose, O.S.B., D.D., Tan, Rockford, Illiinois, 1998, p. 23. L’originale è del 1939. P. Garrigou-Lagrange citava anche Ef 1, 3-6 : “Benedetto sia Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti in Cristo dall’alto dei cieli con ogni specie di benedizioni spirituali, così come in lui ci aveva eletti prima ancora della creazione del mondo, affinché fossimo santi ed immacolati dinanzi a lui per la carità. Egli ci ha predestinati ad esser figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito del suo volere…”. Il terzo canone del Concilio di Quierzy recita: “Deus omnipotens “omnes homines “ sine exceptione “vult salvos fieri” (1 Tm 2, 4), licet non omnes salventur. Quod autem quidam salvantur, salvantis est donum: quod autem quidam pereunt, pereuntium est meritum” (DS 318/623). Il successivo Concilio di Valenza (855) precisò che coloro che si dannavano dovevano imputare se stessi “quia boni esse noluerunt”, non vollero esser buoni, rifiutarono di praticare il bene ma scelsero il male (DS 321/627). 68. Garrigou-Lagrange, op. cit., p. 21. E disse anche sant’Agostino: “Dio non abbandona il Giusto, senza esser stato prima abbandonato da lui” (Ivi).
69. Garrigou-Lagrange, Predestination, pp. 115-116. Vedi anche Ott, op. cit., § 12 del cap. II della II parte, pp. 343-346.
70. Joseph Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, tr. it. di Edoardo Martinelli, Queriniana, Brescia, 19694, p. 203. Il libro fu da lui fatto ristampare nel 2005.
71. Ratzinger, op. cit., pp. 196-202.
72. Vedi: Henri de Lubac, Cattolicismo: la salvezza della comunità è condizione della salvezza degli individui (p. 99); difesa dell’errore di Giovanni XXII (le anime dei Beati vedranno Iddio solo dopo il Giudizio universale) perché avrebbe rivelato l’essenza sociale della salvezza (p. 100-101); le tappe della salvezza sono essenzialmente collettive (p. 124); la Chiesa è l’umanità stessa vivificata dallo spirito di Cristo, alla fine entrerà tutta nel Regno di Dio (p. 232-233) - passim. Per l’Enciclica Spe salvi, del 2007, vedi i parr. 13-15, nei quali si affronta il tema: “La speranza cristiana è individualistica?”, appoggiandosi esplicitamente alle tesi “comunitarie” di de Lubac. Ma valga il vero: se c’è una religione “altruistica”, è quella cristiana. Gesù ci ordina di pregare per tutti gli uomini anche per i nostri pesercutori, di amare il prossimo come noi stessi per Amor di Dio e di perdonare le offese, di improntare la nostra santificazione allo spirito di carità verso tutti. Dove sarebbe qui “l’egoismo”?
73. Che la salvezza sia un fatto individuale, dipenda cioè dalla nostra personale e libera condotta, quali che siano i condizionamenti dell’ambiente, risulta, oltre che dal senso comune, dall’esistenza del giudizio individuale di ciascun’anima subito dopo la morte, dogma di fede allo stesso modo del Giudizio Universale che lo conferma, pur esso dogma di fede. Dei due momenti del Giudizio che ci attende tutti dopo la morte, si è perso il ricordo, nella pastorale della Gerarchia odierna.
74. S. Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, introduzione, tr. it. e note a cura di Ovidio Ilari, 1968, Edizioni Paoline, 1975, p. 200. Si tratta dell’omelia n. XIX. In effetti, anche Giuda Iscariote fu “chiamato” ma non si rivelò degno di essere “eletto”. San Gregorio Magno, romano, AD 540-604, dell’antica gens degli Anici, fu uno dei più grandi papi della storia.
75. Pio XII, Enciclica “Mystici Corporis” sul Corpo Mistico di Cristo, tr. it. apparsa su L’Osservatore Romano del 4 luglio 1943, Editrice Vita e Pensiero, Milano-Roma, p. 36.
76. Anche nella visione dell’Aldilà degli Antichi c’era una parte degli Inferi, la parte più tenebrosa, il Tartaro, nella quale venivano rinchiusi i grandi colpevoli, destinati a rimanervi in eterno fra i tormenti. Vedi sul punto: Carlo Pascal, La morte e l’aldilà nel mondo pagano, 1912, rist. anast. Fratelli Melita Editori, Genova, 1987, specialmente il cap. X e il cap. XVII.
77. Ratzinger, op. cit., p. 7/28.
78. Op. cit., p. 8/28.
79. Sul punto vedi l’accurata analisi di Giovanni Moretto, Destino dell’uomo e Corpo mistico. Blondel, de Lubac e il Concilio Vaticano II, Morcelliana, Brescia, 1994. In particolare i capitoli dal III al VII. Il “Corpo mistico” di cui al titolo non è la Chiesa di Cristo ma l’umanità, giusta la tesi “pancristica” di Blondel, della quale de Lubac ha subito l’influenza. 80. L’imitazione di Cris
to, tr. it. di Carlo Vitali, B.U.R., Mlano, 1958, p. 81.
81. Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, in particolare la sezione “2. Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto”, pp. 227-238.
82. Ratzinger, op. cit., p. 227.
83. Op. cit., p. 228.
84. Sul punto: Bartmann, op. cit., vol. I, § 102 “La satisfaction par substitution”, pp. 429-440. Abelardo e la sua scuola rigettarono il termine “soddisfazione”, offerta da Cristo per l’espiazione dei peccati degli uomini, ammettendo solo l’Amore quale tratto distintivo della Croce (op. cit., p. 433). La visione ratzingeriana della Croce appare pertanto simile a quella del discusso Abelardo.
85. Ivi. In molte religioni arcaiche tra le “opere d’espiazione” v’erano anche i sacrifici umani.
86. Op. cit., pp. 228-229.
87. Op. cit., pp. 229-230. Mons. Bernard Tissier de Mallerais, La strana telogia di Benedetto XVI. Ermeneutica della continuità o rottura?, Editrice Ichthys, Albano Laziale, 2012, accusa Ratzinger di esser persino peggiore di Lutero, proprio per questo suo insistere su un’azione di Dio in noi non corroborata dall’azione del nostro libero arbitrio e che si baserebbe solo sull’Amore, “smaterializzando” la Croce (angelismo) – op. cit., pp. 62-66. Il testo rappresenta la traduzione italiana di due ampi e approfonditi saggi di Mons. Tissier de Mallerais, autore di una fondamentale biografia di Mons. Lefebvre, apparsi in francese sul trimestrale dei Domenicani di Avrillé, ‘Le Sel de la terre’, nel 2010. In essi, l’Autore sottopone ad una impietosa critica la teologia di Ratzinger, mostrandone efficacemente il carattere personale e le gravi deviazioni rispetto al Dogma.
88. Op. cit., p. 229.
89. Op. cit., p. 230.
90. Karl Ludwig Schmidt, Der Rahmen der Geschichte Jesu [La cornice della storia di Gesù], breve saggio del 1919, ora in: Ferdinand Hahn (a cura di), Zur Formgeschichte des Evangeliums [Per la storia delle forme del Vangelo], WBG, Darmstadt, 1985, pp. 118-123; p. 119. Si tratta di una raccolta di articoli, saggi ed estratti di autorevoli esegeti sul tema, inclusa in una celebre collana di antologie ad alto livello della Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt.
91. Karl Ludwig Schmidt, Formgeschichte, in op. cit., pp. 123-126; p. 125.
92. Karl Hermann Schelkle, Die Passion Jesu in der Verkündigung del NT [La Passione di Gesù nella predicazione del Nuovo Testamento], in op. cit., pp. 415-426; p. 417.
93. Ratzinger, op. cit., pp. 230-231.
94. Op. cit., p. 231.
95. Op. cit., p. 232.
96. Op. cit., ivi. L’amore spinto sino all’estremo di cui a Gv 13, 1, è comunque rivolto “ai suoi”, dice il testo, ossia ai soli discepoli, ai cristiani.
97. Op. cit., p. 236.
98. Annota molto efficacemente Mons. Tissier de Mallerais, nella sua critica a Ratzinger: “Dunque, sulla Croce, Cristo non ha offerto realmente il suo corpo e il suo sangue, e neanche la sua vita temporale. Egli ha offerto solo il suo “io” e la sua “persona” o il suo amore […] La croce dematerializzata e disorientata che lascia sussitere solo l’amore disincarnato. La religione dell’espiazione che si ritrova disintegrata nella religione del puro amore. Dell’offesa e del disordine del peccato, non una parola; delle pene del peccato, non una parola; della riparazione, del merito, della soddisfazione, dell’espiazione di Cristo, non una spiegazione; tutta la dottrina tradizionale contenuta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione dei Padri, nella liturgia tradizionale e nel semplice Catechismo del Concilio di Trento, viene trafugata. La misericodia divina è spogliata della più dolce delle sue delicatezze: il riscatto dell’uomo peccatore ad opera dello stesso uomo peccatore, grazie a Cristo che è l’uomo senza peccato” (op. cit., pp. 123-124).
99. Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, San Paolo-Libreria Editrice Vaticana, 2005, p. 44. Il testo, in elaborazione da tempo, fu emanato con motu proprio del 28 giugno 2005.
100. S. Gregorio Magno, La regola pastorale, presentata e interpretata da Armando Candelaresi, Edizioni Paoline, 19782, p. 198.
101. San Gregorio Magno, op. cit., p. 100.
102. Ratzinger, op. cit., p. 8/28. Sottolineature mie. Massimo il Confessore, morto nell’AD 662, fu un grande teologo greco, efficacissimo critico dell’eresia monotelita, la quale sosteneva l’esistenza nel Cristo di una sola volontà, quando invece gliene vanno riconosciute due, avendo Egli due nature nella sua Persona. Perseguitato dall’autorità bizantina momentaneamente favorevole all’eresia, il Confessore morì in seguito all’efferato sistema penale al tempo vigente: gli furono mozzate la lingua e la mano destra.
103. Ratzinger, op. cit., p. 9/28.
104. Op. cit., ivi.
105. Op. cit., ivi.
106. Op. cit., pp. 9-10/28.
107. Op. cit., p. 10/28.
108. Op. cit., p. 11/28. Sottolineature mie.
109. Op., cit., ivi.
110. Vedi: Francisco Zorell SI, Lexicum graecum Novi Testamenti (1904), rist. anast. Rome Biblical Institute Press, 1978, voce ktisis, dove si legge: “…omnes huius mundi aspectabilis res creatae rationis expertae R8 19-22”. Il termine può perfettamente riferirsi alle “cose create dotate di ragione”. Anche Origine, nel commentare questo passo, intende ktisis nel senso delle “creature razionali” o “superiori”, quali possono essere solo gli uomini (Origene, Commento alla Lettera ai Romani, I vol., libri I-VII, tr. it. , intr. e note di Francesca Cocchini, Marietti, Casale Monferrato, 1985, pp. 366-373).
111. De Lubac, Catholicisme, cit., p. 99. In nota de Lubac rinviava sul punto all’autorità di sant’Ilario, citando il suo commento ai Salmi, ma senza riportarne il testo.
112. Op. cit., pp. 100-101.
113. Op. cit., p. 101.
114. Op. cit., p. 102.
115. Op. cit. p. 105.
116. Op. cit. pp. 188-190, per tutte queste citazioni.
117. Op. cit., pp. 192-193. Quest’idea, l’abbiamo visto, compare anche in Ratzinger (vedi supra § 9.2).
118. Op. cit., p. 206
119. S. Ireneo di Lione, Contro le eresie, volume primo, A cura di P. Vittorino Dellagiacoma, Comboniano, Cantagalli, Siena, 19682, II, 22,4; p. 183.
120. Contro le eresie, cit., vol. secondo, pp. 70-71.
121. Sulla figura di sant’Ireneo di Lione, vedi: Berthold Altaner, Patrologia, tr. it. delle Benedettine del Monastero di san Paolo in Sorrento, rived. dal dr. Sac. S. Mattei, aggiornata e corretta dall’Autore, Marietti, 1940, pp. 86-90.
122. Contro le eresie, cit. , vol. secondo, pp. 80-81.
123. S. Agostino, La Città di Dio, tr. it. e note a cura di C. Borgogno; Introduz. e revis. a cura di A. Landi, Edizioni Paoline, 1973, p. 90.
124. Sul punto: DS 3866-3873.
125. Cattolicismo, pp. 191-192.
126. Op.cit, p. 198.
14 commenti:
Oggi San Bonifacio Martire, Apostolo delle Germanie
Intenzioni ecumeniche del giorno: il ritorno di tutti i fratelli battezzati d'Oltralpe nell'Unica Chiesa di Cristo che è la Chiesa cattolica. E la conversione degli eretici del Cammino Sinodale in Germania alla vera fede cattolica.
5 Junii - In Frisia sancti Bonifatii, Episcopi Moguntini et Martyris. Hic de Anglia Romam venit, indeque a beato Gregorio Papa Secundo in Germaniam missus est ut Christi fidem illis gentibus evangelizaret, et, cum maximam ibi multitudinem, praesertim Frisonum, Christianae religioni subjugasset, Germanorum Apostolus meruit appellari; novissime in Frisia, a furentibus Gentilibus gladio peremptus, una cum Eobano Coepiscopo et quibusdam aliis servis Dei, martyrium consummavit.
Ottimo come sempre lo scritto del prof. Pasqualucci che condivido in pieno.
Faccio presente che è sempre utile leggere le note dei documenti, soprattutto nel regno di Francesco, visto l'uso disinvolto in Amoris laetitia.
Al punto 21 si dice "Di conseguenza, la Chiesa crede e afferma che tutti gli esseri umani, creati ad immagine e somiglianza di Dio e ricreati[34] nel Figlio fatto uomo, crocifisso e risorto, sono chiamati a crescere sotto l’azione dello Spirito Santo per riflettere la gloria del Padre, in quella medesima immagine, partecipando alla vita eterna (cf. Gv 10, 15-16; 17, 22-24; 2 Cor 3, 18; Ef 1, 3-14). Infatti, «la Rivelazione […] fa conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza».
Tutti, ma proprio tutti? La nota [34] smentisce il testo:
[34] Cristo ha infatti donato ai battezzati una nuova dignità, quella di “figli di Dio”: cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1213, 1265, 1270, 1279.
Non tutti gli uomini in generale, ma tutti i battezzati! Conoscendo i trascorsi in cui si è cercato di inserire le eresie nelle note (vv. Amoris laetitia) si può dire che chi di note ferisce, di note perisce…
Andrea Mondinelli
La dignità della persona umana non è infinita perché il suo essere non è infinito. Solo la dignità di Dio è infinita perché ente infinito. La nostra creaturalità comporta una preziosità intrinseca limitata, finita, ma nello stesso tempo incommensurabile, ossia immensa, e assoluta, cioè non sottoposta a condizioni, come correttamente più volte si sottolinea nel testo (nello stesso errore era caduto Giovanni Paolo II, citato nel documento).
Il documento cita nuovamente la Laudate Deum: «La vita umana è incomprensibile e insostenibile senza le altre creature» (n. 67). Ora invece la dignità umana parrebbe discendere dalle altre creature: non più dignità assoluta, ma relativa, in relazione a piante e animali. Il classico obolo dovuto all’ambientalismo.
Per Mic
Perché non mette il testo così lungo e importante in pdf per poterlo scaricare e leggere con comodo ?
Alcune associazioni che si definiscono LGBT e cristiane criticano Dignitas infinita perchè troppo moderata nei contenuti.
Lgbt e cristiane è un ossimoro. A meno che la persona non domini le sue tendenze contro natura
Anonimo 14:45
Certo che lo farò! Sto moderando dal cellulare. Appena posso lo preparo e lo inserisco.
O Vergine santissima del Monte Carmelo che con tante grazie hai chiamato numerosi fedeli nel santuario a celebrare le tue lodi e a ricevere la tua benedizione , ascolta le nostre fiduciose preghiere e volgi lo sguardo sopra di noi che ti invochiamo.
La nostra vita ha bisogno del tuo aiuto che ci guidi e ci conforti nel cammino di ogni giorno. O Vergine Maria, madre di misericordia, salute degli infermi, rifugio dei peccatori, consolatrice degli afflitti, tu conosci i nostri bisogni, le nostre pene, le nostre sofferenze e i nostri desideri: ottienici con la tua materna intercessione, le grazie che ti domandiamo (Esprimere la grazia che si desidera ricevere)
Confortaci nelle nostre difficoltà. Aiutaci a credere nel tuo Figlio Gesù. Insegnaci a praticare le virtù cristiane.
O Maria dolcissima del Carmelo, soccorrici in vita, assistici in morte, libera, quanto prima le anime del purgatorio e facci, con loro, tuoi fratelli nella Patria del cielo. Amen
I latini sono molto lontani dall'avere, e ce l'hanno sempre meno complice la deriva postconciliare e il mondo moderno così immanente, il senso del sacro tanto caro agli slavi o agli orientali.
Di nuova dottrina si tratta.
Ho riesumato un breve passaggio di una profonda relazione critica che un gruppo di teologi fece nel 1969 a proposito del nuovo Ordo Missae, in cui si dice che "nella nuova liturgia tutto si svolge come se non si credesse più alla Presenza reale".
L'uomo è al centro di tutto, nella liturgia come nella vita, e quindi si comprende come la dignità umana debba essere, per i "novatori", infinita.
Si svaluta il Sacro, si svaluta il Mistero.
E' l'apoteosi dell'uomo orizzontale, che manca di profondità e di altezza. E la fede langue, annegata in un mare di superbia.
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Secondo un calcolo realistico le possibilità che il conflitto russo-ucraino si estenda a conflitto mondiale sono ormai vicine al 50%. Nell’eventualità che Trump venga eletto presidente la percentuale scende leggermente, mentre aumenta nel caso di rielezione di Biden.
In ogni caso le possibilità di un nuovo conflitto mondiale e poi nucleare sono sempre più concrete.
Questo l’hanno capito tutte le persone perspicaci, In questo momento destra e sinistra atlantiste, divise solo apparentemente, ci conducono entrambe verso il baratro.
Quello che invece pochi hanno capito è la questione più profonda. Quella metapolitica, che certo non troviamo in tv e sui giornaloni con le loro chiacchiere superficiali.
Essa comprende il ritorno di quell’opposizione, mai realmente archiviata, che Oswald Spengler (1880-1936) chiamava lo scontro tra Cesare e l’Oro. O tra l’Ordine del potere e l’Ordine del denaro, come li definisce il sulfureo mondialista francese Jacques Attali.
E' l'Ordine del denaro, cioè la civiltà americanista del capitale globale, la civiltà plutocratica e tecnicista basata sull’Ego (l'amor Sui agostiniano), cioè la civiltà del Mare, come la definiva Carl Schmitt (1888-1985) a non sembrare disposta a fare passi indietro.
Al contrario di ciò che pensano i superficiali, non è Cesare (Putin od altri) a non avere limiti. Non è l’ordine del Potere (le cosiddette "autocrazie"), a non sapere fermarsi. E’ l’Ordine del Denaro. Cioè l'Impero del dollaro.
Incapace di riconoscere qualsiasi limite (morale, politico, religioso), come constatiamo ogni giorno, essa condanna il mondo a morte.
Si tratta di capire se sarà per guerra nucleare.
(Martino Mora)
Sono gli ebrei post Deicidio ad essere divenuti pelagiani, non lo furono fino a Cristo.
Che la somiglianza è stata persa lo stabilisce Genesi 6: Dio ritira il Suo spirito dai discendenti. È confermato da Gesù che torna a donare lo Spirito Santo agli Apostoli solo nell'ultima Cena battezzandoli con la lavanda , donandoSi comeCibo, e dopo risorto: ricevete lo Spirito Santo, e poi ancora a Pentecoste in un aumento graduale del Dono. Dio creando l'uomo perfetto si era unito all'uomo ma si è poi separato, ucciso nelle anime dai peccati. Tuttavia in Noè rimane ed infatti tra loro il colloquio esiste ancora. Chiara distinzione di 2 stirpi diverse originate dal peccato originale. Alla stirpe di Set rimangono doni superiori (tuttavia anche Set nasce dopo il primo peccato, pur restando con doni superiori: es. 900 anni di vita terrena). Alla stirpe di Caino no, ma ció non come modifica da Dio bensì come modifica daAdamo, conseguenza dell'atto, e dopo il cap.6 la stirpe di Caino sembra essere molto animale privata dello Spirito. Le due stirpi della donna ( Noè) e del serpente ( Caino). Sono diversi nei doni pur essendo ció dovuto al primo uomo. Caino è uomo, dice Eva nel dargli il nome. Noi siamo uomini ( distinzione in cap.6). Gesù viene per la stirpe da Caino, degli uomini, come Figlio dell'uomo. La Redenzione è per tutti ma deve essere accettata da tutti per divenirlo di fatto. Il che non è. Non esiste un'unione indistinta al genere umano se non , al limite, la restaurazione di quanto era stato donato all'inizio, un uomo spirituale che spirituale non era più dal cap.6. Ció tuttavia sarebbe avvenuto con l'effusione dello Spirito dal Cristo morente? ..o dal Cuore trafitto? Dal Cuore escono Acqua e S angue per la vita dei sacramenti del Corpo mistico. Una restaurazione con la Morte? Va approfondita tale possibilità. Tuttavia come lo spirito non salvó la stirpe di Set perita nel diluvio al pari della stirpe di Caino, neppure salva da Cristo in poi alcuno che non rinasca nell'Acqua e nello Spirito, e per proprio volere. Libero arbitrio sempre.
"Il bene dell'universo è superiore al bene particolare di un individuo, se si considerano nel medesimo genere. Ma il bene di un individuo nell'ordine della grazia è superiore al bene naturale di tutto l'universo".
(Tomaso d'Aquino, Summa Theologica, Prima pars secundae partis,
Quaestio 113, art. 9, ad secundum)
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