Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

mercoledì 24 settembre 2025

Colligite Fragmenta/ XV Domenica dopo Pentecoste

Nella nostra traduzione da OnePeterFive la meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre nutriente e illuminante, che ci consente di approfondire, durante l'ottava, i doni spirituali della domenica precedente [qui].

Colligite Fragmenta:
XV Domenica dopo Pentecoste


Siamo giunti alla XV Domenica dopo Pentecoste, conosciuta nell’antico computo romano come Quinta post Sancti Laurentii, la quinta domenica dopo San Lorenzo, tanto amato dai Romani. Nel sistema antico, la maggior parte delle domeniche dell’anno — non solo le domeniche di Avvento o i giorni di Quaresima — aveva una chiesa stazionale. Il beato Ildefonso Schuster, liturgista del XX secolo e arcivescovo di Milano, spiega:
“Questa è l’ultima delle stazioni dedicate al Portacroce della basilica sulla Via Tiburtina [San Lorenzo fuori le mura]. Il ciclo delle domeniche che seguivano la festa di San Lorenzo era seguito a Roma da quelle raggruppate intorno alla festa di San Cipriano, e poi a quella di San Michele. Queste feste servivano realmente, in rapporto al ciclo domenicale, come pietre miliari per segnare la successione delle diverse settimane, e non avevano alcun legame particolare con il santo di cui portavano il nome”.
Così la Chiesa romana divideva il suo anno non solo con la Quaresima e l’Avvento, ma anche con la successione di martiri e arcangeli. Questi nomi fungevano da pietre miliari nella lunga stagione “verde” dopo Pentecoste, un tempo che può essere visto come l’aula scolastica della Madre Chiesa. In queste settimane, essa insegna ai suoi figli la sapienza pratica della vita cristiana, seminando semi di virtù che matureranno nel raccolto dell’eternità.

L’Epistola di questa domenica, Galati 5,25–6,10, dà il tono. Non si trova nel moderno Lezionario triennale, ma nel Vetus Ordo è letta ogni anno. Paolo si rivolge ai Galati, turbati da intrusi giudaizzanti che insistevano che la circoncisione e le opere della Legge mosaica rimanessero necessarie ai cristiani. A tale errore Paolo risponde con un fervente appello alla libertà in Cristo, una libertà non della carne ma dello Spirito.
”Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. Non siamo vanagloriosi, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri” (Gal 5,25–26).
L’Apostolo pone immediatamente la libertà cristiana nel contesto della carità, dell’umiltà e della correzione reciproca.
“Fratelli, se uno cade in qualche colpa, voi che siete spirituali correggetelo con spirito di mansuetudine; bada a te stesso, che anche tu non sia tentato. Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo” (6,1-2).
Questa lex Christi non è un nuovo codice di regolamenti, ma la legge viva dell’amore scritta nel cuore.

Paolo mette in guardia dall’orgoglio: “Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso” (6,3). Esorta ciascuno a esaminare (dokimázo) la propria opera, verificando se è autentica e degna, e poi a portare il proprio fardello (vv. 4-5). L’Apostolo tocca di nuovo le opere di misericordia: “Chi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi lo istruisce” (v. 6). Il verbo koinonéo indica partecipazione e comunione: il discepolo deve prendersi cura del suo maestro anche nelle cose materiali, così come “il Signore ha ordinato che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo” (1 Cor 9,14).

Il passo culmina con un’immagine agricola:
“Non vi ingannate: Dio non si lascia beffare. Ciò che uno semina, quello raccoglierà. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi invece semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. Non stanchiamoci di fare il bene; a suo tempo infatti mieteremo, se non ci stanchiamo. Dunque, mentre ne abbiamo l’occasione (kairós), operiamo il bene verso tutti, specialmente verso i fratelli nella fede” (6,7-10).
Qui Paolo presenta due campi: quello della carne e quello dello Spirito. Dal primo viene corruzione e dannazione; dal secondo, la vita eterna. L’immagine sottolinea non solo le conseguenze ma anche il tempo: c’è una stagione per seminare e una per mietere. Kairós non è solo il momento opportuno, ma anche un tempo limitato. La semina non può essere rimandata all’infinito.

Benedetto XVI, in Deus caritas est, riflette su questo insegnamento paolino. Contro la riduzione ideologica della carità ad attivismo politico, ha scritto
“Le opere di carità — l’elemosina — sono in effetti un modo per i ricchi di sottrarsi all’obbligo di lavorare per la giustizia e un mezzo per placare la propria coscienza, preservando al contempo la propria condizione e derubando i poveri dei loro diritti” (26).
Ma la carità autentica, nata dalla fede, trascende l’ideologia:
“Non devono essere ispirate da ideologie mirate a migliorare il mondo, ma devono essere guidate dalla fede che opera per mezzo dell’amore (cf. Gal 5,6). Di conseguenza, più di ogni altra cosa, devono essere persone mosse dall’amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo amore, suscitando in loro l’amore per il prossimo” (33).
Due persone possono compiere la stessa opera esteriore, ma una può seminare nella carne e l’altra nello Spirito. Solo le opere compiute con vero amore sacrificale, radicato in Cristo, daranno il raccolto della vita eterna. L’ammonimento di Paolo risuona nei secoli: “Dio non si lascia beffare”. Per coloro che insegnano l’errore, che seminano ideologia e sentimentalismo invece della Parola di Dio, questo versetto dovrebbe essere un monito. Chierici e laici devono dare e ricevere “la cosa vera”, non un ciarpame mondano intriso di carne, ideologia, luoghi comuni e sentimentalismo.

Dall’Epistola passiamo al Vangelo, Luca 7,11-16, la risurrezione del figlio della vedova di Nain.
“In quel tempo Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui andavano i suoi discepoli e molta folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato alla sepoltura un morto, figlio unico (monogenes) di sua madre, che era vedova, e molta gente della città era con lei” (vv. 11-12).
La scena è toccante. Con la morte del suo unigenito, la vedova di Nain diventa una delle più vulnerabili degli anawim, gli «umiliati». In quella cultura, senza marito né figlio, era esposta a povertà, emarginazione e disperazione. La battuta di Shakespeare in Amleto descrive bene la sua condizione: “Quando i dolori vengono, non vengono come spie solitarie, ma a battaglioni” (IV.v).

L’Evangelista usa il termine monogenes, lo stesso che Giovanni adopera per Cristo stesso (Gv 1,14). Così il figlio della vedova riflette l’Unigenito del Padre.

I commentatori patristici videro nella vedova una figura della Madre Chiesa, che piange i suoi figli morti nel peccato. Sant’Ambrogio scrisse:
“Benché il tuo peccato sia grave e tu non possa lavarlo con le lacrime della penitenza, pianga per te la Madre Chiesa, che, come una madre vedova, intercede per ciascuno di noi come se fossimo i suoi unici figli; poiché soffre per noi con un dolore evidentemente spirituale, ma conforme alla sua natura, quando vede i suoi figli condotti alla morte dai loro vizi fatali” (Exp. Lucam 5.92).
La risposta del Signore è immediata e tenera:
“Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: ‘Non piangere!’ Poi si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Disse: ‘Ragazzo, dico a te, alzati!’ Il morto si alzò a sedere e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre” (vv. 13-15).
Alfred Edersheim descrisse il momento così: “Una parola di autorità ruppe le dighe dell’Ade, e il flusso della vita tornò a scorrere”.

I paralleli con Elia ed Eliseo sono sorprendenti. In 1 Re 17, Elia incontra la vedova di Sarepta, le dice “Non temere” e più tardi risuscita suo figlio. In 2 Re 4, Eliseo risuscita il figlio della Sunammita. Nain si trova vicino all’antica Sunem, e il collegamento non sarebbe sfuggito a chi assistette al miracolo. Ma mentre Elia ed Eliseo pregarono e si distesero sul bambino, Cristo risuscitò il morto con una semplice parola di comando.

La frase di Luca “il giorno dopo” (tê hexês) ha peso. Cristo era stato a Cafarnao, dove aveva guarito il servo del centurione. Il giorno dopo si trovava a Nain, a quasi 50 km di distanza, da 200 metri sotto il livello del mare a oltre 200 sopra, una salita ripida, forse compiuta in parte al buio. Questo viaggio arduo indica la determinazione di Cristo. Egli voleva essere lì in quel preciso momento, quando il corteo funebre usciva dalla porta. Nulla era casuale. Colui che tiene tutto nelle sue mani apriva già le mani verso la Croce. Anche qui Egli prefigura quella salita. La sua marcia verso Nain anticipa la marcia verso il Calvario per affrontare la morte di un figlio unico a favore dei privati di tutto.

Il popolo esclamò: “Un grande profeta è sorto tra noi!” e “Dio ha visitato il Suo popolo!” (v. 16). La prima reazione vedeva in Cristo un nuovo Elia; la seconda riconosceva qualcosa di più grande: in Lui Dio stesso era venuto. Il miracolo preparò il terreno per i discepoli del Battista, che poco dopo furono inviati a chiedere: “Sei tu colui che deve venire?»”. La risposta di Cristo non fu un semplice “Sì”, ma un catalogo di segni messianici:
“I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati e i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella” (Lc 7,22).
Citando Isaia 35, si rivelava non solo come Messia, ma come Dio che rinnova la creazione. “Beato è chi non trova in Me motivo di scandalo” (v. 23).

Il Suo rivendicare la natura divina, manifestata nel risuscitare i morti, lo avrebbe condotto alla Passione.

Pio Parsch osservò che questa domenica segna, almeno nell’emisfero nord, una svolta verso il “tempo del raccolto” nell’anno liturgico, un riflesso sulla Parusia. Il figlio della vedova risuscitato prefigura la risurrezione generale, la mietitura dei giusti. L’immagine paolina della semina e della mietitura si collega a questo Vangelo: dobbiamo seminare nello Spirito se vogliamo essere mietuti per la vita eterna.

L’applicazione pastorale è chiara. Se siete oppressi da lutto, ansia o peccato, ricordate la tenerezza risoluta del Signore. Egli salì fino a Nain per consolare la vedova; salì fino al Calvario per redimerci tutti. Cercate la Sua compassione nei sacramenti, in cui Egli risuscita i morti nello spirito. Se vi ricordate di un peccato non confessato, presentatelo a Lui nella penitenza e udirete: “Ragazzo, dico a te, alzati!”.

E non trascuriamo la nostra vocazione a consolare gli altri. Come disse Paolo: ”Portate i pesi gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). Possiamo essere chiamati a essere la consolazione di Cristo per qualche vedova di Nain di oggi, salendo anche noi nel buio, ma portando il suo Cuore ferito a chi è nel dolore.

Paolo avverte che risponderemo non solo dei nostri peccati, ma anche di quelli in cui avremo trascinato altri. Ai maestri dell’errore, un avvertimento solenne: tacete, esaminate la vostra coscienza e correggetevi, affinché non raccogliate corruzione per l’eternità. Ai fedeli laici: sostenete chi vi insegna la Parola, con gratitudine spirituale e materiale. “Dio non si lascia beffare”.

Santa Teresa di Lisieux disse: “Passerò il mio tempo in Paradiso a fare del bene sulla terra”. Nel nostro breve kairós, seminiamo nello Spirito, facendo del bene soprattutto alla famiglia della fede. Un giorno verrà la mietitura, e possa allora dirsi di noi: “Dio ha visitato il suo popolo”.

Nella XV Domenica dopo Pentecoste, l’Epistola ci esorta a camminare nello Spirito, a portare i pesi gli uni degli altri e a seminare opere di carità che diano frutto di vita eterna. Il Vangelo mostra la compassione di Cristo nel risuscitare il figlio della vedova di Nain, rivelando la Sua divinità attraverso l’adempimento della profezia di Isaia. La Sua salita verso Nain prefigura l’ascesa al Calvario. Il nostro tempo è breve (kairós): seminiamo nello Spirito, consoliamo gli altri, così da essere un giorno mietuti per la vita eterna in Cristo. 

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

1 commento:

Anonimo ha detto...

24 Settembre, Beata Vergine della Mercede.

"Festa della Beata Vergine Maria detta della Mercede, Fondatrice sotto tale Nome dell’Ordine per la Redenzione degli schiavi. La Sua Apparizione si Commemora il 10 Agosto".

Salve o Maria, Madre Purissima della Mercede, fonte perenne da cui derivano a noi le Grazie del Signore, Esempio di Virtù da cui le nostre Anime apprendono la Loro Perfezione. Il tuo Nome risuona Festoso in Cielo ed in terra ed è per tutti Luce e Splendore che rischiara Santamente l’Intelletto, Fortezza che rende Invincibile il cuore contro gli assalti nemici. Tu sei Rifugio dei Cristiani e sei ancora la Padrona dei loro Affetti, dei loro pensieri. Tu per Liberare i Fedeli dalle catene dei maomettani Discendesti dal Cielo. Per questo tutto il mondo riconoscente ti acclama sua Dolce Consolatrice. O Vergine Santa, poiché ti sei compiaciuta di unire alla Suprema Dignità di Madre di Dio e degli uomini, il Nome e l’Ufficio Pietoso di Madre e Redentrice degli schiavi, degnati di stendere il Tuo Manto Benedetto su di noi, Devoti di sì Caro Nome e su tutti i Cristiani vivi e defunti, affinché salvati dalla Tua Materna Protezione da quanti mali ci affliggono, veniamo a Rallegrarci con Te Eternamente nel Gaudio del Signore. Così sia.