Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

sabato 6 settembre 2025

La prova dell'obbedienza nella fedeltà alla verità

Mala tempora per i sacerdoti che non si piegano ad applicare la 'pastorale' del concilio e riaffermano le verità cattoliche. Il problema è che anche la maggior parte dei vescovi, mentre accolgono todos todos todos, sono intolleranti nei confronti della Tradizione e di tutto ciò che è a disagio con le innovazioni conciliari e con la Messa riformata e il suo depauperamento quando non stravolgimento della retta fede. Di seguito una riflessione interessante sul caso di don Leonardo Pompei, che ha suscitato molto scalpore anche sui media.

La prova dell'obbedienza nella fedeltà alla verità

Un sacerdote che, per fedeltà alla Tradizione, rifiuti di obbedire a prassi o direttive che ritiene contrarie alla verità del Vangelo e alla costante dottrina della Chiesa, può incorrere in provvedimenti disciplinari da parte del proprio Ordinario, fino ad arrivare alla sospensione dall’esercizio del ministero.
È questa una delle situazioni più drammatiche che la vita ecclesiale conosca, poiché mette il ministro ordinato dinanzi a una lacerazione interiore: da un lato la coscienza, che lo obbliga a non compiere ciò che giudica peccaminoso o contrario alla fede, dall’altro l’obbedienza gerarchica, che è dimensione costitutiva del sacerdozio cattolico.
Il principio da cui partire non può che essere quello espresso dall’Apostolo Pietro: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (At 5,29). Questo non significa sostituire l’arbitrio personale alla disciplina della Chiesa, ma riconoscere che l’autorità ecclesiastica è autentica nella misura in cui rimane strumento della Verità divina, non quando si pone in contrasto con essa.
Così come san Tommaso afferma che l’obbedienza non è assoluta, ma ordinata al bene supremo, allo stesso modo il sacerdote è moralmente tenuto a resistere quando gli si impone ciò che contraddice il deposito della fede.
Sul piano canonico, il sacerdote che riceve un provvedimento disciplinare ha anzitutto la possibilità e il diritto di ricorrere, secondo le norme del Codex iuris canonici vigente del 1983 (canoni 1732-1739), alle istanze superiori fino alla Sede Apostolica. Questo rimedio giuridico, lungi dall’essere un atto di ribellione, manifesta la volontà di rimanere nella Chiesa e di chiedere che sia fatta giustizia secondo il diritto, nella consapevolezza che la Chiesa non è proprietà dei singoli Vescovi ma corpo di Cristo retto da una legge superiore alla volontà di ciascuno.
Sul piano pastorale, tuttavia, il sacerdote sospeso si trova in una condizione di sofferenza acuta, poiché privato della possibilità di esercitare pubblicamente il proprio ministero. In questa situazione, la sua fedeltà si manifesta nella capacità di vivere la prova come partecipazione alla croce di Cristo. Non si tratta di rinunciare alla verità, né di accettare passivamente l’ingiustizia, ma di continuare a servire i fedeli, per quanto possibile, attraverso la testimonianza personale, la preghiera, la predicazione non ufficiale e l’accompagnamento spirituale.
La sospensione, in questo senso, può diventare occasione di purificazione, mostrando che il sacerdozio non è potere di governo, ma oblazione di sé per la verità e per la salvezza delle anime. Pastoralmente, il sacerdote fedele alla Tradizione non deve lasciarsi vincere né dalla solitudine, né dal risentimento. La comunione con altri confratelli, il sostegno dei fedeli laici che riconoscono la verità e, soprattutto, il riferimento costante al Magistero perenne, diventano i rimedi più efficaci contro la tentazione dello scoraggiamento o della rottura.
Non deve mai assumere atteggiamenti scismatici, poiché la sua battaglia non è contro la Chiesa, ma contro le derive che in un determinato tempo storico possono affliggerla. La sua resistenza è, pertanto, interna alla Chiesa e per la Chiesa, non contro di essa.
In ultima analisi, il sacerdote sospeso per fedeltà alla verità non è chiamato a scegliere tra obbedienza e tradizione, quanto a mostrare che l’autentica obbedienza è quella che rimane saldo alla Tradizione viva. I rimedi canonici gli offrono uno strumento di difesa, i rimedi pastorali lo invitano a continuare la sua missione anche in forme non ufficiali, ma soprattutto il rimedio spirituale consiste nel conformarsi a Cristo obbediente fino alla morte, mostrando che l’ultima parola non appartiene al potere disciplinare degli uomini, bensì alla sola Verità che libera.
Daniele Trabucco

7 commenti:

Anonimo ha detto...

Buongiorno. Grazie al dott. Trabucco per la sua consueta chiarezza e precisione. Pongo questa domanda. Un sacerdote che decidesse di non celebrare “ una cum”, prendendo le distanze dagli scostamenti e dalle derive rispetto al Magistero perenne (che sempre più vengono imposte dai superiori) é separato dall’unità della Chiesa? Consacra validamente? Le sue preghiere hanno efficacia per chi partecipa alla santa Messa? …Oppure “diventa scismatico”? Avviene che un sacerdote amico abbia fatto questa scelta ponendoci nella nella sofferta condizione di scegliere di non partecipare più alla Messa da lui celebrata. Si soffre come pecore senza pastore… o con pastori allo sbando. Grazie mille

Anonimo ha detto...

A proposito di don Leonardo Pompei c'è chi ha invocato il caso di Padre Pio senza conoscerne la vita reale; il che è un grave errore. Padre Pio obbedì quando gli furono imposte pene personali, ma non tacque mai sulla fede né smise di difendere la Messa, l’Eucaristia e la retta dottrina. Non piegò mai la testa davanti all’errore.

San Tommaso insegna che l’obbedienza è virtù solo se ordinata a Dio (Summa Theol. II-II, q.104). Obbedire ciecamente quando è in gioco la fede non è santità: è servilismo.

Don Leonardo non ha rifiutato il Papa né la Chiesa; ha fatto ciò che ogni sacerdote deve fare quando i fedeli rischiano di essere ingannati: ha parlato. Questo è stato di necessità, e il diritto stesso lo riconosce (can. 1323, 1752 CIC).

Chi riduce tutto a “deve tacere e lasciare fare a Dio” non difende la Chiesa, ma consegna le anime al silenzio e alla confusione.
✝️ Salus animarum suprema lex.

Anonimo ha detto...

Un caso che ferisce: cosa possiamo imparare dalla sospensione di don Leonardo Pompei.
Di Luciano Tovaglieri

La vicenda di don Leonardo Maria Pompei, parroco di Sermoneta sospeso a divinis dal vescovo Mariano Crociata, ha toccato tante coscienze. Da un lato, molti fedeli hanno trovato nelle sue dirette online una catechesi chiara, una spiritualità intensa, un richiamo esigente alla tradizione. Dall’altro, la scelta di contrapporsi pubblicamente al proprio vescovo e alla gerarchia ha aperto una ferita nella comunione ecclesiale. Il decreto di sospensione è stato firmato il 4 settembre e gli vieta l’esercizio del ministero, chiedendogli anche di non presentarsi pubblicamente come sacerdote: un atto grave, ma previsto dal diritto canonico quando viene meno l’obbedienza dovuta.

Cosa c’era di buono nel suo messaggio
È giusto riconoscerlo. Don Pompei ha:
• coltivato una presenza pastorale sul web, raggiungendo persone lontane dalle parrocchie;
• insistito su dottrina, sacramenti, vita di preghiera, suscitando conversioni personali;
• dato voce a una sensibilità tradizionale che chiede bellezza liturgica, chiarezza e rigore morale.
Queste istanze non sono “nemiche” della Chiesa: la Chiesa ha bisogno di chi domanda santità, sobrietà, verità. Ma lo chiede con i toni del dialogo e nella comunione — mai come contrapposizione.

Dove è nata la frattura
I fatti, ricostruiti dalle fonti ufficiali e giornalistiche, sono chiari. Il 2 settembre il vescovo ha emesso un precetto penale che, “sotto pena di sospensione”, intimava al sacerdote di non convocare incontri né attività sui social. La sera del 3 settembre, don Pompei ha comunque tenuto una diretta pubblica su YouTube, dichiarando di non sentirsi più in comunione con il vescovo e con la gerarchia e di non voler più celebrare la Messa secondo la liturgia del Concilio Vaticano II. Il 4 settembre è arrivato il decreto di sospensione. La diocesi parla di un periodo di confronto precedente e di due lettere del sacerdote (29 agosto e 3 settembre) con le quali annunciava le dimissioni da parroco e la rottura della comunione; ora la valutazione dottrinale delle sue affermazioni è stata rimessa al Dicastero per la Dottrina della Fede.
In breve: non è stata punita un’ “opinione teologica” in quanto tale, ma un atto pubblico di disobbedienza che ha reso impossibile al vescovo custodire l’unità della comunità.

Perché uno scontro “politico” non è compito di un sacerdote
Un presbitero può e deve proporre con franchezza (parresia) la verità del Vangelo. Ma il suo modo è sacramentale e pastorale, non politico. Quando un sacerdote trasforma il dissenso in mobilitazione contro i vertici ecclesiali, sposta il baricentro: dalla conversione dei cuori alla conquista di schieramenti. Il risultato sono fratture tra i fedeli, smarrimento, contrapposizioni che finiscono per ferire proprio chi si voleva proteggere.
La storia recente insegna che, dove si è arrivati a dichiarare persino “non valide” le Messe celebrate in comunione col Papa, molti fedeli — confusi e feriti — si sono allontanati dai sacramenti. È un avvertimento serio: il bene delle anime, almeno nella Chiesa, si difende costruendo ponti di dialogo e magari anche di confronto duro, ma all’interno delle sedi appropriate e lontano dai riflettori, non trincee di una guerra pubblica che dia scandalo e disorienti e divida i fedeli.

Perché non si è trovata una “convivenza”
La “convivenza” diventa impraticabile quando si verificano insieme tre elementi:
1. Rottura dichiarata della comunione con il vescovo (atto pubblico, non solo interiore).
2. Disobbedienza formale a un precetto canonico, comunicato con chiarezza e in tempi ravvicinati.
3. Amplificazione mediatica della rottura davanti a migliaia di persone, con eco nazionale.
In queste condizioni il vescovo, cui spetta custodire l’unità, non ha più spazi praticabili per soluzioni morbide. Da qui un provvedimento che, pur doloroso, tutela la comunione e prevenire ulteriori scandali.

Anonimo ha detto...

Segue
Cosa resta da salvare e come portare avanti le istanze legittime
Le istanze buone restano: devozione, dottrina, bellezza liturgica, chiarezza morale. Ma si difendono così:
• Prudenza e obbedienza: il canone fondamentale del ministero è la comunione col proprio Ordinario. Se c’è sofferenza, si lavora “dentro” l’obbedienza, non fuori.
• Dialogo perseverante: presentare richieste e perplessità per iscritto, con argomenti teologici, evitando i palchi mediatici che polarizzano.
• Preghiera e penitenza: senza di esse, la verità perde carità e la carità perde verità.
.Distinguere gusto liturgico e dottrina: amare la forma tradizionale è legittimo; negare la validità della Messa riformata è un’altra cosa.
Custodire i piccoli: ogni parola pubblica va pesata pensando a chi è fragile nella fede.
Conclusione: verità con carità, unità senza ambiguità
Si può difendere la sensibilità religiosa che molti hanno trovato feconda in don Pompei: fame di cielo, sete di preghiera, desiderio di liturgia bella. Ma — proprio per il bene dei fedeli — un sacerdote non deve rompere con la gerarchia né ingaggiare uno scontro politico con la Chiesa. La strada evangelica è un’altra: moderazione, dialogo, obbedienza, preghiera. Le divisioni non salvano: confondono, disordinano, allontanano dai sacramenti. Chiediamo al Signore che questa ferita si ricomponga, che il sacerdote e la diocesi ritrovino vie di riconciliazione, e che i fedeli non si smarriscano.

Anonimo ha detto...

Guido Villa
Ultimo post sulla questione "don Pompei", perché è importante..

Il problema di chi non capisce la gravità dell'atto di don Leonardo è che è tifoso o sono attaccati (meglio sarebbe dire: appiccicati) a lui come persona, vivono per lui, respirano per lui. Non sono all'idolatria poiché, a questo livello, sarebbe un concetto eccessivo, però sono sulla buona strada di diventare idolatri.

- Nella mia vita ero guidato a Medjugorje con mia madre da fra Tomislav Vlašić, nei primi tempi davvero un santo sacerdote, quando ahimè è uscito per la tangente abbiamo tagliato subito i ponti. SUBITO!
- Seguivo con piacere all'inizio l'allora ancora "don" Minutella, ma quando mi resi conto che egli era solo l'altra faccia della medaglia di Bergoglio, al tempo in cui aveva solo perso la parrocchia ma era ancora sacerdote senza altri provvedimenti, ho cessato di seguirlo (ahimè avevo ragione anche lì).
- Adesso don Pompei... ho quasi tutte le sue registrazioni dal 2010 in poi, alcune audio, altre video, è stato il mio punto di riferimento spirituale per anni, e grazie a lui mi sono salvato da alcune situazioni spiritualmente pericolose... quindi non posso che essergli grato. Ma adesso è uscito dalla Chiesa (tale è il mancato riconoscimento della gerarchia), e dico, SUBITO e SENZA ESITAZIONE: basta! Non lo seguirò più, ascolterò le sue vecchie registrazioni, e pregherò per il suo ritorno (ha sofferto tanto, ma non dobbiamo essere indulgenti veso l'errore, anche se ha sofferto).

Il leit-motiv spirituale della mia vita è stato Cristo, per intercessione di Maria Santissima, tanto per dire, non lo sono MAI stati neppure i veggenti di Medjugorje (al contrario di altri personaggi che non nominerò qui e che fanno semplicemente pietà), oserei dire che dopo i primi cinque anni da loro non ci andavo quasi più.
Cristo è al centro, e la Chiesa, anche nella Sua componente gerarchica, anche se da molti decenni ci fa soffrire, viene resa santa e immacolata da Cristo.
Cristo è al centro, ed essendo Cristo al centro, la Chiesa vive, e al centro deve esserlo anche la Chiesa, ivi inclusa la sua componente gerarchica, da qui non si scappa. Altrimenti non si è cattolici, si è semi-luterani.

mic ha detto...

"Cristo è al centro, e la Chiesa, anche nella Sua componente gerarchica, anche se da molti decenni ci fa soffrire, viene resa santa e immacolata da Cristo."

La Chiesa, corpo mistico di Cristo, è e resta una santa immacolata; ma è tale per chi resta fedele a Cristo o per chi, pur peccando, si pente e a Lui ritorna.
Una gerarchia infedele viene resa santa non automaticamente, ma solo se riconosce i suoi errori e si pente.

Anonimo ha detto...

Il semble que don Leonardo n'ait jamais entendu parler de Mgr Lefebvre. Je lui conseille vivement de lire ses écrits et de les méditer.