È uscito di recente per Rubettino un libro intitolato “La fine del comunismo in Europa – Regimi e dissidenze 1956-1989”. Curato da tre studiosi - Tito Forcellese e Giovanni Franchi, ricercatori rispettivamente di Storia delle Istituzioni politiche e di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo e Antonio Macchia, dottore di ricerca in Storia delle Relazioni internazionali presso La Sapienza di Roma – il lavoro si avvale della postfazione di Paolo Savarese, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università di Teramo.
Come scrive nella presentazione Paolo Gheda, docente di Storia contemporanea presso l’Università della Valle d’Aosta, “nessuna vicenda politico-istituzionale dell’Occidente si è sviluppata in tali proporzioni geopolitiche” e “la dissidenza è da considerarsi il dato storico principale che chiarisce il profilo totalitario dello Stato sovietico e lo accomuna, in questo profilo istituzionale e culturale, alle esperienze altrettanto drammatiche del nazismo e, per diversi aspetti, anche del fascismo”.
Sottolinea Paolo Savarese nella postfazione: “i dissidenti resistono alle pretese totalizzanti e alle prassi annichilenti dei regimi in forza di un vincolo tra verità e vita, che si riversa nelle parole e negli scritti, che non ha nulla dell’autocompiacimento superficiale dell’intellettuale impegnato occidentale. Più d’uno di questi, anzi e non di rado, non fu estraneo alla denigrazione e delegittimazione culturale e politica dei dissidenti; anche qui, se il problema della storiografia è innanzitutto, ricostruire il passato per capirlo, sarebbe necessario impostare le domande capaci di far parlare quegli atteggiamenti”. I saggi contenuti nel libro – che seguono il filo conduttore citato, per concludersi con la Storia culturale della dissidenza, passando, solo a mò d’esempio, da Le radici filosofiche del comunismo a Il comunismo: un’interpretazione in chiave di teologia della storia, Dalle dissidenze polacche a Solidarnosc a Radici storiche e attualità del dissenso cecoslovacco – hanno l’obiettivo di fornire un nuovo approccio allo studio dei regimi totalitari del secolo scorso.
In fondo, il filo conduttore dei dissidenti può insegnare “il richiamo alla vita nella verità”, come sostiene ancora Paolo Savarese, che significa “opporre al potere organizzato in nome di una fantomatica palingenesi della storia, quel qualcosa che fa sì che l’uomo non si possa manipolare con nessuna prassi di denigrazione o di rieducazione e, alla fine, annichilire”. “È lo stesso tentativo di schiacciare l’uomo – continua Savarese – magari polverizzandolo come un insetto sotto lo scarpone di una qualche polizia politica, a riaffermare un nucleo essenziale, non quantificabile eppure produttivo di effetti non solo non ignorabili, ma decisivi in tutti i campi in cui l’uomo si trova comunque gettato”. Entra qui in gioco un termine ormai desueto nella cultura moderna: quello di dignità, che “con le vicende dissidenti – afferma Savarese – perde l’astrazione, spesso ipocrita e non priva di contraddizioni, delle dichiarazioni di principio, per diventare carne viva, pronta a dimostrare il suo essere viva mettendo a disposizione il proprio sangue”. Sta qui la forza dell’itinerario umano e politico di coloro che vengono chiamati dissidenti: da Aleksandr Solženitsyn, con il suo appello a vivere nella verità, ossia a rifiutare qualsiasi cooperazione con la menzogna di regime (recentissima la ripubblicazione di uno dei suoi testi capitali su questo tema, Vivere secondo verità, contro la menzogna, in A. Solženitsyn, Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà 1967-1974, a cura di S.Rapetti, Jaca Book, Milano 2015) a Jan Patočka, ispiratore di Havel e portavoce di Charta ‘77, che per la sua statura filosofica e per il mite coraggio con cui ha messo a disposizione la sua vita, viene chiamato il Socrate di Praga. “Di fronte all’arroganza del potere – aggiunge Savarese - di quel potere che, in nome dell’uomo nuovo, schiaccia gli uomini, ogni uomo nella sua dignità, ciò che non può essere schiacciato, come se fosse un insetto, è l’uomo che fa presente, comunque, anche se non la rivendica, la sua dignità e che capisce che, per rivendicarne il riconoscimento, non può farlo se non vivendo nella verità, sottraendosi alla menzogna di regime come alla menzogna personale, rimettendo così in questione le menzogne che quel regime hanno generato”.
L’unicità assoluta delle forme di opposizione dei dissidenti è rappresentata dal totale rifiuto della violenza e questo risponde ad un principio guida – come lo chiama Savarese – della resistenza dei senza potere e delle loro forme di dissidenza: la vita nella verità, che significa “opposizione irriducibile alla menzogna, all’accettazione della menzogna come strumento di lotta politica e, anche in subordine e con tutta la comprensione delle difficoltà effettive in cui si sono trovati, di sopravvivenza. Scriveva Solženitsyn: È proprio qui che troviamo la chiave, da noi finora trascurata, e invece così semplice e accessibile, per la nostra liberazione: la non partecipazione personale alla menzogna! Anche se la menzogna copre il mondo intero, anche se domina su ogni cosa, noi nel nostro piccolo ci impuntiamo: domini quanto le pare, ma non per opera mia!”. La testimonianza che ci tramandano i dissidenti di quei regimi totalitari, il loro paradigma è: vivere nella verità, in modo totalmente e fecondamente non violento, senza menzogna, rifiutando ogni compromesso con essa, ogni contributo personale al suo dominio.
Una domanda, a questo punto s’impone. Qual è insegnamento da trarre, per l’oggi, da questo studio del passato? Sostiene, a conclusione della sua postfazione, Paolo Savarese: “Il fronte neototalitario va oltre la menzogna, ancora legata alla negazione della verità e, quindi, alla ricerca di essa da parte dell’uomo: il nuovo fronte è la negazione della realtà simpliciter, abolizione che si fa istituzione mediante lo stravolgimento del linguaggio, la sua frammentazione nell’immaginario in cui sia la vita nella verità come la sua negazione, l’abolizione di ogni verità, non accede nemmeno al senso o alla sua espressione, perché ormai privi di presa, di ancoraggio ad un qualsiasi terreno su cui stare e, conseguentemente, operare”. La conclusione è amara, ma condivisibile: “Si aggiunga che quello che denomino abolizione della realtà è un processo in corso e in rapida evoluzione e, perciò, non solo è di difficile analisi, ma estremamente sfuggente nei suoi punti qualificanti e imprevedibile, nella sua potenzialità disgregativa di tutto ciò che è umano. Abolizione della realtà, infatti, non va qui intesa come dissociazione dell’uomo da un suo altro oggettivo od oggettuale, ma come la demolizione dell’intero campo che include anche, in tutte le due componenti e dimensioni, l’uomo. Non rimane, perciò, né uno ‘spazio’ interiore in cui ripiegarsi, né un’area relazionale in cui consolarsi, né campi o costruzioni istituzionali cui chiedere sostegno e difesa”.
È il dominio della gnosi, nemica della Verità. Quello che stiamo vivendo.
Danilo Quinto - http://daniloquinto.tumblr.com/
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