Arciv. Viganò / Oculos in altum tollite.
Omelia nella Trasfigurazione del Signore
oculos in altum tollite:
illic licebit visere
signum perennis gloriæ.
Voi che cercate Cristo
volgete gli occhi al cielo:
lì vi sarà dato di vedere
il segno della gloria eterna.
Prudenzio, Cathemerinon, IV
Nel 1456 l’Impero Ottomano, guidato dal sultano Maometto II, assediò Belgrado, una fortezza strategica difesa dai Cristiani sotto il comando di Giovanni da Capistrano e Giovanni Hunyadi, Reggente del Regno d’Ungheria. La vittoria cristiana, ottenuta il 22 luglio 1456, fu un evento cruciale che fermò temporaneamente l’avanzata ottomana in Europa. La battaglia si concluse poco prima della festa della Trasfigurazione del Signore, celebrata il 6 Agosto, e il successo fu interpretato come un segno della celeste protezione.
Papa Callisto III, che aveva indetto una Crociata e ordinato di pregare per la difesa dell’Europa cristiana, riconobbe in quella vittoria l’intervento divino. In segno di ringraziamento, istituì la festa della Trasfigurazione del Signore come celebrazione universale per tutta la Chiesa, legandola simbolicamente al trionfo di Belgrado. Inoltre, ordinò che le campane delle chiese suonassero a mezzogiorno per commemorare la vittoria, dando origine alla tradizione dell’Angelus [1].
L’antico inno dei Vesperi e del Mattutino di questa festa, attribuito al poeta Aurelio Clemente Prudenzio (348-413), fu inizialmente composto per la solennità dell’Epifania e poi adottato anche per la Trasfigurazione: il tema della manifestazione della divinità di Cristo è infatti comune ad entrambe le celebrazioni. Uno dei Responsori del Mattutino del 6 Agosto riprende le formule del 6 Gennaio: Surge et illuminare, Jerusalem, quia venit lumen tuum, et gloria Domini super te orta est (Is 60, 1); Sorgi, ricevi la luce, o Gerusalemme, perché la tua luce è venuta e la gloria del Signore è spuntata su di te. La nuova Gerusalemme, la Santa Chiesa, è la Sposa onorata dallo Sposo divino sul monte Tabor, habens claritatem Dei (Ap 21, 11), risplendente della gloria di Dio.
È proprio la teofania che contempliamo oggi, in quel rifulgere di luce accecante del volto e della veste del Signore e nella voce del Padre Eterno: Questi è il Mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto: ascoltateLo.
Elia e Mosè riassumono l’omaggio dei Profeti e della Legge a Colui che compie e incarna in Sé le antiche promesse; al Re, al Sacerdote e al Profeta che riassume in Sé la Legge e i Profeti.
Tra pochi giorni, in occasione dell’Assunzione di Maria Santissima al Cielo, contempleremo la patria celeste in cui Nostro Signore e la Sua augustissima Madre ci hanno preceduti in anima e corpo; e vedremo come questo Mistero sia per noi uno sprone a non cercare su questa terra il surrogato di ciò che invece attende ognuno di noi nella gloria eterna del Paradiso.
Oggi vediamo gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni accompagnare il Maestro sul Tabor, e Pietro che Gli chiede di poter alzare tre tende e rimanere lì, assorti in una dimensione divina e trascendente.
Non dimentichiamo che sei giorni prima Pietro aveva proclamato Gesù il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 16) e che il Maestro aveva predetto agli Apostoli che sarebbe dovuto andare a Gerusalemme per affrontare la Passione e la Morte e che sarebbe risorto il terzo giorno (ibid., 21).
Il desiderio degli Apostoli di rimanere sul Tabor è umanamente comprensibile, ma è un’illusione di cui anche noi, con loro, non riusciamo a disfarci; perché siamo, come loro, in humanitatis corporibus obvoluti, invischiati nella materialità della vita presente. Noi crediamo sia possibile realizzare in terra il paradiso e troppo spesso confondiamo questa valle di lacrime con la meta ultima dell’eternità, dimenticando di essere exsules, esuli della patria celeste.
La nostra natura decaduta continua a tenerci legati al mondo e alle sue lusinghe, ed è a questo che si riferiva il Signore quando così esortava i Discepoli: Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Mt 16, 24-25).
Crediamo di poter salvare la nostra vita cercando un compromesso con il mondo – di cui Satana è principe (Gv 12, 31) – senza comprendere il monito che San Paolo ci rivolgeva nell’Epistola di domenica scorsa: Poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete (Rm 8, 13). Ecco in cosa consiste quel rinnegare se stessi: nel non vivere secondo la carne, secondo lo spirito del mondo, secondo la mentalità orizzontale di chi si illude di poter realizzare in terra un simulacro di paradiso, sia esso socialista, liberale, globalista, pacifista, green, inclusivo, ecumenico o sinodale. Non possiamo rendere eterno il transeunte, né transeunte l’eterno; non possiamo adeguare Dio alle nostre esigenze, ma dobbiamo conformarci alla Sua santa volontà. Sia fatta non la mia, ma la tua volontà (Lc 22, 42), dice il Signore all’Eterno Padre nell’agonia del Getsemani. E a noi comanda di chiedere altrettanto, nella preghiera del Padre Nostro: Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Eppure ci ostiniamo a inseguire la chimera di un impossibile Eden che inconsciamente vorremmo durasse per sempre, senza bisogno di attendere il premio eterno nell’aldilà.
Questo Hic manebimus optime, per quanto ammantato di buone intenzioni come il Bonum est nobis hic esse di Pietro, è ontologicamente impossibile su questa terra, perché la vita che ciascuno di noi vi trascorre è tempo di prova, non di premio; è tempo di guerra, di battaglia, di cadute, e non di pace e ozio; è occasione di dare compimento alla Carità con le buone opere espiando le nostre e altrui colpe e meritando così il Paradiso cui siamo destinati. Se infatti il paradiso potesse essere realizzato qui e ora – senza prova e senza merito – allora non vi sarebbe alcun bisogno di un Dio giudice e remuneratore, né tantomeno di un Dio redentore che Si incarna e Si offre per espiare colpe che noi non riconosciamo aver commesso. Significherebbe, in definitiva, cadere nella più astuta trappola di Satana, il quale ci illude che possiamo fare a meno di Dio cancellando il Suo nome, rimuovendo le Sue immagini e rendendoLo superfluo col sostituirGli, come sempre avviene, degli idoli: il denaro, il potere, il piacere, l’appagamento degli istinti più abbietti, la tecnologia, la folle ὕβρις dell’intelligenza artificiale o dell’umanoide androgino. Dietro tutto questo, cari fratelli, si nascondono l’odio e l’invidia del Demonio per l’ineffabile privilegio che è stato concesso a noi uomini – e non ai puri spiriti – di vedere la Seconda Persona della Santissima Trinità incarnarSi in una creatura umana, per comunicare agli uomini la beatitudine eterna di Dio.
A questa tentazione di escludere l’eternità dal nostro orizzonte spirituale risponde l’inno della festa odierna: Quicumque Christum quæritis, oculos in altum tollite, Voi che cercate Cristo, volgete gli occhi al cielo.
Pensiamo alla parabola dell’uomo che aveva avuto un raccolto abbondante: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita (Lc 12, 19-20). Se questa fosse la nostra patria, la sola prospettiva della morte diventerebbe per noi la minaccia di un esilio senza fine, e finiremmo col trasformare la nostra vita – brevissima, rispetto all’eternità – in un’anticamera dell’Inferno, nel paradosso di non poter nemmeno dare un senso alle sofferenze presenti. Finiremmo col ricercare disperatamente, come certi sedicenti filantropi tristemente noti, un’immortalità artificiale che ci renda eterni; e troveremmo nuovi ciarlatani pronti a venderci moderni elisir di lunga vita. Solo con uno sguardo soprannaturale e veramente cattolico possiamo prendere parte alla corsa, arrivare fino al traguardo e meritare il premio finale: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi (2 Tim 4, 7), ben sapendo che la meta finale è nell’eternità.
Non è, questo, un modo per sottrarsi alla militia christiana e alla testimonianza dinanzi al mondo, quasi a voler raggiungere l’atarassia degli epicurei o l’annientamento della propria individualità del nirvana buddista. Esso è al contrario un rimettere le cose nel proprio ordine, secondo la gerarchia stabilita da Dio, ricomponendo alla luce della Grazia soprannaturale la ferita inferta dal peccato al κόσμος divino.
La Trasfigurazione del Signore – come nella Domenica II di Quaresima, quasi a dare un momento di conforto nella penitenza e nel digiuno – costituisce una sorta di squarcio nella vita terrena del Salvatore, nel quale l’umanità di Nostro Signore lascia sfolgorare la propria divinità. Pietro, Giacomo e Giovanni vedono in questa teofania un’anticipazione della gloria del Cielo, dove il Risorto ascenderà quaranta giorni dopo Pasqua. Ma proprio perché questa Trasfigurazione è momentanea e anticipatrice della trasfigurazione che attende ognuno di noi in Paradiso, il Signore ordina ai Discepoli di non parlarne ad alcuno finché il Figlio dell’uomo non sarà risorto da morte (Mt 17, 9), perché sia la Fede ad alimentare la Carità di chi riconosce Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore; e perché la storicità di questo evento fosse corroborata dalla testimonianza degli Apostoli, spectatores illius magnitudinis (2 Pt 1, 16), spettatori della Sua grandezza. Ce lo conferma San Pietro nell’Epistola che abbiamo letto poc’anzi: Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza (2 Pt 1, 16); questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con Lui sul santo monte (ibid., 18).
Scrive dom Guéranger:
“Per quanto il Signore, attraversato il torrente della sofferenza, sia personalmente già entrato nella Sua gloria, il mistero della Trasfigurazione non sarà completo se non allorché l’ultimo degli eletti, passato anch’egli attraverso la laboriosa preparazione della prova e gustata la morte, avrà raggiunto il capo nella Sua resurrezione.”È questo il senso della Colletta della Messa di oggi:
O Dio, che con la gloriosa Trasfigurazione del tuo Unigenito hai confermato i misteri della fede con la testimonianza dei padri, e con la voce uscita dalla nube luminosa hai proclamato mirabilmente la perfetta adozione dei figli, concedici, nella tua bontà, di divenire coeredi e partecipi della sua gloria.E così sia.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
6 Agosto MMXXV
In Transfiguratione D.N.J.C.
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1 – Papa Callisto III, Bolla Cum his superioribus annis, 29 Giugno 1456. Ai sacerdoti Callisto III ordinò di recitare questa preghiera per invocare la vittoria dei Cristiani sul Turco: Dio onnipotente ed eterno, a cui appartiene ogni potere e nelle cui mani sono i diritti di tutte le nazioni, proteggi il tuo popolo cristiano e schiaccia con la tua potenza i pagani che confidano nella loro ferocia.
2 – Prefazio ambrosiano della festa della Trasfigurazione.3 – Domenica VIII dopo Pentecoste.
4 – Dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico, II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, San Paolo, Alba, 1959, pagg. 941-946.
1 commento:
La "Festa di Dio Padre" nel calendario cattolico non esiste come festa liturgica ufficiale. Tuttavia, esiste una festa dedicata a Dio Padre, celebrata il 7 agosto, che è stata rivelata nel 1932 ad una suora mistica italiana, suor Eugenia Elisabetta Ravasio. Questa festa non è riconosciuta dalla Chiesa Cattolica come festa di precetto, ma alcuni fedeli la celebrano.
PATER DE CÆLIS DEUS - MISERERE NOBIS!
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