Un'eredità che segna l'essere: il peccato originale
come principio metafisico di deformazione dell'umano
Il problema del peccato originale ha attraversato la riflessione filosofica occidentale con la forza di una questione radicale sull’essere umano, sulla sua condizione esistenziale, sulla sua libertà ferita e sulla trasmissione di un disordine che sembra eccedere ogni logica di colpa individuale.
È un dato, anzitutto, che questo peccato, commesso da una coppia primordiale e non da ciascuno degli uomini venuti al mondo, produca nondimeno effetti concreti e costanti su tutti i discendenti: questo fatto richiede una spiegazione non soltanto teologica ma anche e soprattutto metafisica.
Infatti, l’idea che l’atto morale di altri possa riverberarsi in modo determinante sull’essere di un soggetto innocente nella sua singolarità personale esige una considerazione che tocchi i fondamenti stessi dell’ontologia della natura umana e del suo radicamento in una struttura relazionale e generativa che precede e plasma la singolarità individuale.
Il peccato originale non è, dunque, da intendersi primariamente come un’azione colpevole trasmessa in modo giuridico, quasi si trattasse di una imputazione personale ingiustamente ereditata. Tale lettura, oltre a risultare inaccettabile sul piano del principio di responsabilità personale, sarebbe altresì inadeguata alla profondità del problema. L’idea centrale, invece, è che esso si configuri come una frattura ontologica prodotta nel principio generativo della natura umana, che si trasmette non per volontà, ma per generazione.
Il soggetto umano, nel venire all’esistenza, riceve da altri non solo il corpo e la condizione biologica, ma anche la struttura stessa dell’essere personale nella sua unità di natura e spirito. Se la natura umana è stata alterata in origine nella sua capacità di ordinarsi spontaneamente al bene, di conservare l’integrità tra intelletto, volontà e affetti, e di vivere in armonia con l’essere, tale alterazione viene trasmessa come condizione dell’esistenza, non come fatto accidentale.
La nozione di natura umana come partecipazione ad un principio comune, secondo una visione aristotelico-tomista, implica che la corruzione della natura in uno abbia effetti su tutti coloro che da quella natura partecipano per generazione. L’individuo, infatti, non è un’isola ontologica, ma è costitutivamente radicato in una sostanza specifica universale, di cui condivide la forma e, dunque, la disposizione all’agire. Così, ciò che accade alla natura, in quanto principio formale della specie, accade in qualche modo anche ai singoli, che dalla natura ricevono il loro essere specifico.
L’uomo non nasce con una natura integra, come se l’essere umano potesse ogni volta ripartire da zero: egli nasce già situato in una condizione che è al tempo stesso ontologica e storica, ricevendo in sé una inclinazione disordinata che non dipende da un suo atto, ma dalla trasmissione di un principio formale ferito. Questo principio di trasmissione può essere inteso analogamente a ciò che, in filosofia della natura, si constata nel passaggio di proprietà fisiche o genetiche: ciò che viene generato porta in sé le caratteristiche di ciò che lo ha generato. Tuttavia, qui non si tratta di una semplice trasmissione materiale, bensì di un’eredità metafisica, ossia di una condizione dell’essere che riguarda la totalità dell’uomo come sostanza individuale razionale.
Il peccato originale si presenta così come una "deficienza originaria" dell’essere umano, una privazione di giustizia e ordine che compromette la naturale tendenza dell’uomo al bene, rendendolo incline alla disintegrazione interiore, alla concupiscenza, all’errore morale. Non è l’acquisizione di un male positivo, ma la perdita di un bene dovuto all’integrità originaria: tale perdita, in quanto avvenuta nel principio della generazione, si estende per necessità a tutti coloro che da quel principio derivano.
In questo senso, il peccato originale può essere compreso filosoficamente come un evento che modifica l’orizzonte stesso dell’agire umano, introducendo una disarmonia strutturale tra l’essere e il dover essere. L’uomo nasce, perciò, in uno stato di de-formazione, ossia in una distanza tra la forma dell’umanità originaria e la realtà della propria condizione attuale.
La libertà umana, benché conservata nella sua struttura, è fin dall’inizio condizionata da tale inclinazione al disordine, e ogni suo atto si innesta su un terreno già compromesso. Non si tratta di una fatalità, bensì di una condizione di fragilità ontologica che rende l’uomo bisognoso di un principio di reintegrazione, la grazia, che possa restituire l’ordine della natura al suo fine.
Infine, dal punto di vista filosofico, la riflessione sul peccato originale impone una considerazione della solidarietà ontologica tra gli esseri umani, tale per cui l’essere dell’uno non è mai interamente separato dall’essere dell’altro, specie quando l’altro è colui da cui si riceve l’esistenza. È in questo legame profondo tra generazione e partecipazione che si comprende perché l’atto morale di Adamo e di Eva non è semplicemente un fatto passato, ma un principio attivo che continua a informare, in modo negativo, la condizione dell’uomo nella storia.
L’umanità, in quanto unitaria nel suo principio, porta in sé le ferite di quel principio come un sigillo che deforma la sua immagine e offusca la sua somiglianza al bene. Così, ciò che appare come ingiustizia, l’eredità di un peccato non commesso, si rivela, alla luce della metafisica dell’essere e della generazione, come una necessità insita nella struttura della partecipazione all’essere umano, che si trasmette per natura e non per arbitrio. In questo senso, il peccato originale non è un’ingiustizia inflitta, bensì un ordine ferito da cui l’uomo, venendo all’essere, non può sottrarsi, se non per intervento di un principio superiore che restituisca, gratuitamente, ciò che era stato perduto nel principio.
Daniele Trabucco
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