Colligite Fragmenta/ IX Domenica dopo Pentecoste
Il tesoro del culto sacro della Santa Chiesa trabocca davvero di una ricchezza inesauribile, come riflette il commentatore del XX secolo Pio Parsch nella sua opera The Church’s Year of Grace [L’Anno di Grazia della Chiesa], in cui suddivide le domeniche dopo Pentecoste in tre fasi: dapprima quelle che mettono in luce le guarigioni miracolose del Signore, segno ultimo della salvezza delle anime; poi, dalla settima alla quattordicesima domenica, l’accento si sposta sul regno di Dio in contrasto con il regno del mondo; infine, dalla quindicesima domenica fino alla fine dell’anno liturgico, l’attenzione si concentra sulla Parusia, la Seconda Venuta. Naturalmente, egli osserva, si potrebbero adottare anche altre chiavi di lettura, ad esempio raggruppando le domeniche secondo le virtù teologali; e così, davvero, le ricchezze dell’anno liturgico restano inesauribili.
Questa nona domenica dopo Pentecoste ci apre davanti agli occhi la sorprendente immagine del Signore che piange. Avvicinandosi la Pasqua, Gesù rimase per un certo tempo a Betania, a un’ora di cammino da Gerusalemme, con Maria, Marta e Lazzaro — che aveva richiamato dal sepolcro solo poche settimane prima. La prima Domenica delle Palme, mentre si avvicinava a Gerusalemme, pianse guardando la città e il Tempio dall’altra parte della valle, prevedendo l’“inferno” che presto li avrebbe travolti entrambi.
Fulton Sheen, nella sua Life of Christ [Vita di Cristo], osserva che poiché Gesù volle condividere le sofferenze di coloro che era venuto a salvare, Egli pianse tre volte. Sheen afferma che ogni volta il verbo greco è klaío (κλαίω), il quale — secondo lui, ma contro Liddell-Scott — “implica un calmo versare lacrime”. Non è chiaro da dove Sheen abbia ricavato questa sfumatura, e peraltro non ha del tutto ragione nell’affermare che sia sempre quello il verbo usato tre volte. Vale la pena approfondire brevemente questa immagine del Signore in lacrime. In Giovanni 11,35, al sepolcro di Lazzaro, leggiamo il versetto più breve della Scrittura: “Gesù pianse…”. Il verbo è dakrúo (δακρύω), non klaío: secondo Liddell e Scott significa “piangere, versare lacrime” e indica propriamente il lacrimare. In Luca 19,41, quando Cristo piange su Gerusalemme, il verbo è éklapsen (ἔκλαυσεν), derivato da klaío, che significa “piangere, lamentarsi, fare cordoglio” e che, secondo il lessico di Thayer, vuol dire “lamentarsi” e per Strong “singhiozzare, piangere a gran voce”. In Ebrei 5,7, Paolo dice che Gesù, nel Getsemani, pregò “con forti grida e lacrime” (kraugês ischyrâs kai dakrýon), senza un verbo esplicito per “piangere”, ma implicando dakrúo. In sostanza, klaío indica un pianto udibile e dimostrativo, accompagnato da un grido di dolore, mentre dakrúo sottolinea l’atto fisico di versare lacrime, più contenuto. Dopo il rinnegamento, Pietro pianse amaramente: lì è usato klaío (Matteo 26,75).
Tornando a Sheen, che qui — come Omero — “si è assopito un poco”: Cristo manifestò la Sua compassione in forme diverse di pianto, forse distinguendo un momento intimo da un’espressione pubblica e profetica di dolore per il peccato e il giudizio.
Che il Signore abbia pianto è certo. Ma Egli non perse mai, nemmeno per un istante, il dominio di Sé; né lo fece la Beata Vergine, neppure ai piedi della Croce. Questo difetto ricorre spesso nelle rappresentazioni cinematografiche e televisive: ad esempio, nella popolare serie The Chosen (vedi), il Cristo appare eccessivamente scosso al sepolcro di Lazzaro; i produttori avranno voluto sottolinearne l’umanità, ma hanno sbagliato. Così pure nello sceneggiato di Zeffirelli Maria appare quasi fuori di sé dopo la Deposizione. Molto meglio, invece, la rappresentazione di Maria nel La Passione di Cristo di Mel Gibson.
Quella stessa Domenica delle Palme, Gesù entrò nel Tempio. La gente si aspettava che assumesse il ruolo messianico di sacerdote-re davidico. Invece trovò il Cortile dei Gentili invaso da venditori di animali per il sacrificio e da cambiavalute (necessari perché le monete con immagini non potevano essere usate per le offerte). Con una frusta di cordicelle li cacciò via, anche per restituire ai Gentili uno spazio sacro per pregare. San Girolamo (+420) descrive questo episodio come forse il più grande miracolo del Signore, vista l’immensa moltitudine che aveva di fronte, e afferma che “qualcosa della Sua autorità divina dovette brillare in quel momento in modo irresistibile”. Ecco le sue parole per intero:
A me, fra tutti gli altri [miracoli], sembra ancora più meraviglioso che un solo Uomo, e per di più in quel momento così disprezzato e vile da essere poi crocifisso, mentre Scribi e Farisei infuriavano contro di Lui e vedevano i loro guadagni distrutti, abbia potuto, con i colpi della sola Sua frusta, scacciare una moltitudine così grande, rovesciare le tavole, spezzare i seggi e compiere altre azioni che un intero esercito non sarebbe riuscito a fare. Infatti, qualcosa di fuoco e di luce siderale balenò dai Suoi occhi, e la maestà della Sua Divinità rifulse sul Suo volto.
San Gregorio Magno (+604), nel Sermone 39 pronunciato in San Giovanni in Laterano, colse la profonda ironia: Cristo, dopo aver predetto la distruzione del Tempio, lo purifica immediatamente, scacciando proprio quei sacerdoti la cui negligenza contribuiva alla rovina. Egli osserva in latino: “Qui enim narravit mala ventura, et protinus templum ingressus est, ut de illo vendentes et ementes eiiceret, profecto innutuit, quia ruina populi maxime ex culpa sacerdotes fuit…” [“Chi ha narrato i mali venturi, e subito è entrato nel tempio per scacciarne i venditori e i compratori, ha certamente indicato che la rovina del popolo fu principalmente colpa dei sacerdoti.”] Andò oltre: le colombe, simbolo dello Spirito Santo, erano vendute, e Gesù cacciò coloro che le vendevano e compravano, condannando quanti pensano che il dono dello Spirito possa essere comprato.
Questa purificazione radicale invita a riflettere sui nostri tempi: non abbiamo forse visto persone che, all’interno degli spazi sacri, manovrano per elevare individui indegni a posizioni di autorità? La profanazione del Tempio ammonisce: il male inizia dall’interno, e il Tempio visibile della nostra anima può rispecchiare lo stato della Chiesa visibile.
L’Arca dell’Alleanza, nella Tenda del Convegno e poi nel Primo Tempio, recava la shekinah, la nube di gloria, segno della Presenza divina. Il Secondo Tempio ne era privo… fino all’ingresso di Gesù. Così, anche la nostra anima, purificata dal battesimo, è chiamata a essere il tempio dello Spirito Santo.
Bella è l’anima cristiana in stato di grazia, ornata di virtù, opere di misericordia, studio, e della fides quae creditur che cerca l’intelligenza della fede.
Ma la negligenza può trasformarla da domus orationis in spelunca latronum. Nessun merito appartiene a un’anima in peccato mortale.
Occorrono le “corde della grazia” che ci riportino alla vigilanza, ci spingano all’esame di coscienza, alla confessione, e alla ripresa delle opere buone.
Il beato Ildefonso Schuster paragonava l’angoscia della città di Gerusalemme assediata a quella dell’anima che, circondata da spiriti maligni, lotta contro la morte ed è già sulla soglia dell’eternità. E sebbene Gesù, nell’Ultima Cena, potesse dire: “Viene il principe di questo mondo; contro di me non può nulla” (Gv 14,30), tutti i santi hanno tremato al pensiero di quell’ora suprema. “Il modo più sicuro per prepararci alla morte è la pratica costante delle opere buone, affinché il nostro avversario non possa vantare alcun diritto su di noi”. Questa è la riflessione esatta di Schuster, che risuona come richiamo anche per noi in questa nona domenica dopo Pentecoste.
Nel Vetus Ordo ascoltiamo l’ammonimento di San Paolo in 1 Corinzi 10,6-13. Egli richiama alla memoria l’idolatria e le mormorazioni d’Israele, e come quest’ultimo fu punito dal “distruttore”, offrendo così un avvertimento “per nostra istruzione” (v. 11):
6 Ora, queste cose avvennero come esempio per noi, affinché non desideriamo il male come fecero loro.7 Non diventate idolatri come alcuni di loro; come sta scritto: “Il popolo si sedette per mangiare e bere, e poi si alzò per divertirsi”.8 Non abbandoniamoci all’immoralità, come fecero alcuni di loro, e ne caddero ventitremila in un solo giorno.9 Non mettiamo alla prova il Signore, come fecero alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti.10 Non mormorate, come fecero alcuni di loro, e furono sterminati dal Distruttore.11 Tutte queste cose accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per ammonire noi, per i quali è arrivata la fine dei tempi.12 Perciò, chi pensa di stare in piedi, stia attento a non cadere.13 Nessuna tentazione vi ha colti che non sia umana. Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche il modo di uscirne, perché possiate sopportarla.
Cristo piange oggi per i nostri peccati, come pianse per quelli di Gerusalemme. Eppure, il Suo amore non ci abbandona mai nelle prove, se il tempio del nostro cuore resta aperto e puro.
Il Novus Ordo sopprime gran parte di questa lettura, proponendola soltanto nella Quaresima dell’Anno C. Il Vetus, invece, ci mette davanti con decisione alla nostra fragilità umana e alla provvidenza fedele di Dio. Paolo ricorda che, dopo l’episodio del vitello d’oro (Es 32,6), il popolo “si sedette per mangiare e bere e poi si alzò per divertirsi”, espressione che allude a una baldoria licenziosa. Il verbo greco porneúo usato in quel contesto, e altrove nella Scrittura (ad esempio Ap 17,2 con epórneusan e porneía), indica sia la fornicazione sessuale sia quella spirituale, ossia l’idolatria stessa.
Quando Mosè discese dal monte, ordinò ai leviti di uccidere gli idolatri, inaugurando così il sacerdozio di Aronne e la Legge. In Numeri 21, le lamentele del popolo provocarono il giudizio di Dio mediante serpenti velenosi. In Numeri 25,9, quando il popolo mormorò contro Dio, una peste ne sterminò 23.000. La crocifissione di Cristo è prefigurata nel serpente di bronzo innalzato, figura di Colui Che porta i nostri peccati sul legno della Croce.
I nostri tempi sono davvero diversi? Purtroppo no. Assistiamo a perversioni, talvolta propagate da sacerdoti; idoli demoniaci introdotti in luoghi sacri — persino nei Giardini Vaticani; insegnamenti fondamentali della fede e della morale minacciati di cancellazione dai vertici stessi; sacerdoti fedeli alla verità emarginati; riti che hanno formato generazioni soppressi o limitati. Un tale caos non può che ferire il cuore di Cristo, come quando pianse su Gerusalemme.
Inoltre, studi recenti hanno rivelato che sette cattolici su dieci non accettano ciò che la Chiesa insegna sull’Eucaristia — e questo include praticanti abituali. Trascuratezza, catechesi scadente e liturgie fuorvianti, intrise di sentimentalismo o banalità, hanno normalizzato una Comunione ridotta a “ecco la cosa bianca, e adesso cantiamo”. I riti sono la nostra identità, e la loro erosione ferisce profondamente la Chiesa. A ciò si aggiunge un’indagine del Cultural Research Center dell’Arizona Christian University, secondo cui solo l’11% degli adulti americani — e appena il 16% dei cristiani che si professano tali — crede nella Trinità.
Basterebbero già queste realtà per far piangere — come Cristo pianse su Gerusalemme — e per farci lamentare del vuoto demografico che incombe sulla Chiesa, conseguenza dell’infedeltà, colpevole o negligente.
Dio non si lascia deridere, e la Scrittura avverte che i tiepidi saranno vomitati (Ap 3,16).
E tuttavia non dobbiamo disperare: dobbiamo aiutare chi è confuso. L’istruire e il correggere con dolcezza è un’opera di misericordia, un dovere cristiano. L’ammonimento di Paolo ai Corinzi risuona anche per noi: le tentazioni sono reali, ma nessuna supera le nostre forze, e con la tentazione Dio offre anche la “via d’uscita”. Riflettendo su questa promessa, ricordiamo l’intuizione di Scott Hahn: “Se non riempiamo la mente di preghiera, essa si riempirà di ansie, preoccupazioni, tentazioni, rancori e ricordi indesiderati”. Questa chiarezza ci ricorda che la preghiera trasforma la tentazione in pace.
Quella “via d’uscita” offerta da Dio è Cristo stesso, Via, Verità e Vita. In particolare, nel capitolo 11 della Prima Lettera ai Corinzi, Paolo ricorda l’istituzione dell’Eucaristia nell’Ultima Cena, parole che preghiamo e offriamo da sempre nella Santa Messa. Egli avverte che ricevere l’Eucaristia indegnamente significa peccare contro il Corpo e il Sangue del Signore, attirando su di sé un giudizio: alcuni, dice, si sono ammalati, altri sono morti.
Concretamente, quando la tentazione ci assale, possiamo domandarci: qual è la natura dell’atto? Quale la sua spinta? Piace a Dio? E, soprattutto: “Se lo faccio, posso onestamente accostarmi alla Comunione?”. Questa domanda può essere la vera “via di fuga” dal peccato. Rinnoviamo dunque la nostra devozione alla Santissima Eucaristia — Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Cristo, il grande dono del Sommo Sacerdote eterno. Essere fedeli alla Persona eucaristica di Cristo significa restare saldi. Per questo gli avvertimenti di Paolo a Corinto sono tanto incisivi: una Comunione irresponsabile ferisce l’anima e porta danno.
Ritorniamo, quindi, ai fondamenti. Studiamo un catechismo solido — perché “non si può dare ciò che non si ha”. Esaminiamo il nostro cuore, prepariamoci bene alla Messa domenicale, confessiamoci regolarmente e diventiamo inviti viventi per gli altri, in particolare per i lontani e per chi cerca con sete qualcosa di più.
Che la nostra testimonianza cristiana, vigile e retta, li attragga alla Chiesa.
Cristo piange per amore: per Gerusalemme allora, per ogni tempio del Suo Spirito oggi. Egli vede la rovina, ma offre misericordia, una via di fuga, una purificazione del Tempio e dell’anima. Ascoltiamo le Sue lacrime, purifichiamo i nostri templi, viviamo nella preghiera e nella fermezza, certi che nell’Eucaristia, nella preghiera e nella virtù troviamo la nostra “via d’uscita” e la nostra vita duratura in Lui.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]
Nessun commento:
Posta un commento