Nella nostra traduzione da OnePeterFive la meditazione settimanale di p. John Zuhlsdorf, sempre nutriente e illuminante, che ci consente di approfondire, durante l'ottava, i doni spirituali della domenica precedente qui
Colligite Fragmenta / VIII Domenica dopo Pentecoste
Questa ottava domenica dopo Pentecoste, nel Vetus Ordo del Rito Romano, ci offre un brano evangelico di difficile interpretazione: la parabola dell'amministratore disonesto (Lc 16,1-9). La Lettera ai Romani 8,12-17 svela il mistero della nostra adozione divina e il contrasto tra la vita secondo la carne e la vita secondo lo Spirito. La liturgia ci pone di fronte a una tensione e a una sintesi: da un lato, la sconcertante lode di un amministratore disonesto e, dall'altro, l'alta dignità della nostra figliolanza in Cristo e le esigenze morali che essa comporta.
Luca ci racconta:
C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi beni. 2 Allora lo chiamò e gli disse: «Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore». 3 L'amministratore disse tra sé: «Che farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare non ho la forza e mendicare mi vergogno. 4 So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua». 5 Chiamò quindi uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: «Quanto devi al mio padrone?». 6 Quello rispose: «Cento barili d'olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta». 7 Poi disse a un altro: «E tu quanto devi?». Rispose: «Cento misure di grano». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta». 8 Il padrone lodò l'amministratore disonesto per la sua scaltrezza; perché i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce. 9 Ora io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
L'“amministratore” (dal greco οἰκονόμος, oikos + nomos, l'uomo che amministra i “diritti di casa”) è l'amministratore di un uomo ricco, chiamato κύριος, “signore”. La sua confessione “fodere non valeo, mendicare erubesco”, mostra un uomo ammosciato dagli agi, incapace di lavorare a giornata e troppo noto per abbassarsi a mendicare. Le sue transazioni non avvengono in denaro ma in natura, con olio e grano, com'era comune nel mondo antico.
L'uso di "mammona" da parte di Cristo richiama il termine aramaico per ricchezza o profitto, che al tempo del Signore aveva un significato dispregiativo, addirittura personificato come un demone. "Non potete servire Dio e mammona" (Mt 6,24).
La sfida della parabola sta nell'elogio dell'intelligenza dell'amministratore. I Padri si sono confrontati con questo concetto. San Girolamo scrisse persino a Sant'Agostino per chiedergli cosa significasse. Agostino vi vide un argumentum a minori ad maius : se l'amministratore infedele viene lodato per la sua prudenza nelle questioni temporali, quanto più i figli della luce dovrebbero essere accorti nelle cose che assicurano la vita eterna. Il Signore non loda la frode, ma la preveggenza. Come afferma Agostino nel Sermone 359A:
“Fatevi amici della ricchezza iniqua, affinché anch'essa, quando comincerete a mancare, vi accolga nelle tende eterne. … Fate elemosina a tutti, perché non siete capaci di vagliare i cuori delle persone. Quando fate l'elemosina a tutti, raggiungerete alcuni che la meritano. Lasciate entrare gli indegni, affinché i degni non siano esclusi. Non potete essere giudici dei cuori.”
Pertanto, la carità prodiga diventa il parallelo delle generose distribuzioni dell'amministratore: donare ciò che non è nostro ma di Dio, per ottenere un'accoglienza eterna.
Romani 8:12-17 offre una seconda prospettiva. Paolo contrappone i due stili di vita:
12 Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, non verso la carne per vivere secondo la carne; 13 perché se vivete secondo la carne, voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete. 14 Poiché tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. 15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!», 16 lo Spirito stesso attesta insieme al nostro spirito che siamo figli di Dio. 17 E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati.
I cristiani romani, ascoltando queste parole, avrebbero conosciuto il peso legale dell'adoptio e dell'adrogatio. Con il battesimo, veniamo trasferiti dal dominio del peccato alla familia di Dio. A differenza dell'affrancamento romano, che non conferiva necessariamente la cittadinanza, questa adozione divina ci conferisce la piena eredità, cives caelorum, cittadini del cielo. Tuttavia, l'adozione è "perfetta" nello status, ma non ancora consumata: è richiesta la perseveranza fino alla morte.
Il grido "Abbà, Padre" non è un "Papà" infantile, ma un termine di intima obbedienza, come nell'agonia di Cristo nel Getsemani (Marco 14:36). È l'appello del Figlio obbediente: "non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu". Qui obbedienza e figliolanza convergono nell'immagine di Isacco che porta la legna, dicendo " 'ab… Padre " (Gen 22), prefigurando Cristo.
Che la mortificazione, mortificaveritis, sia indispensabile:
La scelta che ogni credente si trova ad affrontare è tra la vita e la morte, la giustificazione finale e la condanna finale. L'uso del presente di θανατόω da parte di Paolo indica che la mortificazione richiede uno sforzo continuo nel tempo. I credenti possono mortificare con successo la carne solo mediante lo Spirito, affidandosi consapevolmente alla presenza di Dio che dimora in loro (cfr. Ignatius Catholic Study Bible ).
Ciò è in armonia con la Colletta:
Largire nobis, quaesumus, Domine, semper spiritum cogitandi quae recta sunt, propitius et agendi: ut, qui sine te esse non possumus, secundum te vivere valeamus.
Adoro quell'elegante continuità di spiritum attraverso la congiunzione et, che si abbina sia a cogitandi che a agendi. Avete colto il parallelismo? Quel sine te esse… secundum te vivere? Un'altra caratteristica distintiva del genio che ha scritto questo è la giustapposizione di possum e valeo : una vera e propria copia verborum. E vivere valeamus ci regala una deliziosa clausula (cadenza) ritmica.
Un significato di secundum nel prestigioso dizionario Lewis & Short è "concordemente a, in conformità con, secondo". Ricordate che "largire" è un imperativo di un verbo deponente, non un infinito. Il famoso verbo "cogito" è più di un semplice "pensare". Riflette una riflessione più profonda, una vera ricerca della mente: "considerare a fondo, ponderare, soppesare, riflettere su, pensare". La scorsa settimana, come forse ricorderete, abbiamo anche avuto un "recta sunt". Recta deriva da "rego", "mantenere la linea retta, evitare di sbagliare".
Un significato di secundum nel prestigioso dizionario Lewis & Short è "concordemente a, in conformità con, secondo". Ricordate che "largire" è un imperativo di un verbo deponente, non un infinito. Il famoso verbo "cogito" è più di un semplice "pensare". Riflette una riflessione più profonda, una vera ricerca della mente: "considerare a fondo, ponderare, soppesare, riflettere su, pensare". La scorsa settimana, come forse ricorderete, abbiamo anche avuto un "recta sunt". Recta deriva da "rego", "mantenere la linea retta, evitare di sbagliare".
TRADUZIONE LETTERALE
Ti preghiamo, o Signore, donaci propizio lo spirito di riflettere sempre sulle cose giuste e di metterle in pratica, affinché noi, che non possiamo esistere senza di Te, possiamo vivere secondo la Tua volontà.
Invochiamo lo Spirito per pensare e agire rettamente, perché senza Dio non possiamo nemmeno esistere, e solo in accordo con Lui possiamo vivere. La giustapposizione di sine te esse e secundum te vivere riflette la massima scolastica agere sequitur esse.
L'accostamento di questa domenica tra Epistola e Vangelo è un invito deliberato alla conversione interiore e alla saggia amministrazione, al corretto uso dei beni temporali, ricordandoci che sono solo mezzi per un fine superiore. Dobbiamo essere intelligenti nel loro uso, non per accumularli per il loro stesso bene o per la soddisfazione mondana, ma piuttosto per trarne un profitto eterno.
La Messa tesse una chiamata coerente. I figli della luce devono esercitare una lungimiranza almeno pari a quella dei mondani per assicurare il loro futuro eterno; dobbiamo riconoscere la nostra totale dipendenza dalla grazia di Dio; dobbiamo mortificare la carne attraverso lo Spirito; e dobbiamo vivere come figli ed eredi obbedienti, gridando "Abbà, Padre", anche attraverso la sofferenza, così da essere glorificati con Cristo.
La mortificazione non è un ascetismo facoltativo, ma l'allineamento abituale dei nostri desideri con la nostra identità di figli adottivi di Dio. È il "no" disciplinato alla carne in vista del "sì" più grande alla volontà del Padre. Questa è la gestione della grazia: non sprecare, ma investire i doni di Dio in opere di misericordia, generosità e obbedienza. Come dice Agostino, il nostro amore è il nostro peso (pondus meum amor meus): un cuore appesantito dagli amori carnali affonda a terra; un cuore infiammato dall'amore divino si eleva verso Dio.
Viviamo ora in un tempo, come ci ricorda Agostino ( s. 359A), in cui la speranza deve essere ancorata in alto e la pazienza deve sopportare le tempeste in basso:
Avendo posto la nostra speranza lassù, l'abbiamo posta come un'ancora su terra ferma... non con le nostre forze, ma con quelle di Colui nel quale è stata posta quest'ancora della nostra speranza... Coloro che si rendono conto di vivere la vita di stranieri in questo mondo... devono necessariamente vivere pazientemente, perché devono tollerare con riluttanza il fatto di essere stranieri ed esuli, finché non raggiungono la patria desiderata dopo averla amata così a lungo.
Così, l'astuzia dell'amministratore ingiusto diventa, per il cristiano, la prudenza santificata di chi conosce il proprio esilio, amministra i beni di un Altro e pianifica con urgenza il giorno in cui il Padrone gli chiederà conto. Le nostre ricchezze, i nostri talenti, perfino la nostra stessa vita appartengono al Signore. Quando doniamo ai poveri, rimettiamo i debiti o utilizziamo i beni temporali per fini eterni, li restituiamo a Colui che ci accoglierà nelle "dimore eterne" (αἰωνίους σκηνάς).
I figli del mondo sono astuti nel proteggere le loro tende passeggere. Dovremmo esserlo meno noi nel cercare l'eterno? Come figli e figlie adottivi in Cristo, mortifichiamo la carne, viviamo dello Spirito e gridiamo con amore obbediente: " Abbà, Padre". I beni che possediamo non sono nostri, ma Suoi. Spendeteli generosamente con misericordia e il Signore stesso vi accoglierà nella Sua dimora eterna.
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