Oggi è la Festa di Cristo Re. Memoramini |
Ritengo lo studio di grande spessore e quindi un contributo ineludibile al nostro percorso di consapevolezza e di responsabile impegno.
Richiamo la vostra attenzione sul fatto che, per completare e arricchire la consultazione, l'ho completata col 'valore aggiunto' dei link ad alcuni documenti, testi o anche analisi - alle quali questo blog ha già dedicato spazio e interesse - sull'esame dei punti controversi che vi sono citati.
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45. I due poli: « rottura della continuità » e « riforma nella continuità »,
sono entrambi novatori e sono entrambi in errore.
sono entrambi novatori e sono entrambi in errore.
I novatori che – come sottolinea de Mattei in Il concilio Vaticano II. Una storia mai scritta – erano attivi nella Chiesa fin dai tempi di Pio XII: teologi, vescovi e cardinali della Nouvelle Théologie come Alfrink col suo perito Schillebeeckx, Bea, Câmara, Chenu, Carlo Colombo, Congar, De Lubac, Döpfner, Frings col suo perito, Ratzinger; Garrone col suo, Daniélou; König con i suoi, Küng e Rahner; Lercaro, Liénart, Maximos IV, Montini-Paolo VI, Suenens, Tisserant, e, quasi gruppo a sé, i tre maggiorenti della cosiddetta (e potente) Scuola di Bologna: ieri Dossetti e Alberigo, oggi Melloni, nello svolgimento del Vaticano II e nei seguenti cinquant’anni hanno cavalcato la rottura con le detestate dottrine pregresse, appoggiandosi al presupposto della solenne e straordinaria adunanza e scambiando con tale solennità quel valore dogmatico che il concilio aveva escluso in partenza. Ne deriva che, tranne Bologna, dichiaratasi subito per la rottura tout court, gli altri novatori compirono de facto un’opera di rottura e di discontinuità proclamando de voce saldezza e continuità.
Che da parte loro vi sia sempre stato, ieri come oggi, un indubbio desiderio di rottura con la Tradizione è riscontrabile nelle non poche ed evidenti prove; per limiti di spazio se ne ricordano qui solo due: la prima, il più largo scempio perpetrato in ogni dove sulle magnificenze degli antichi altari orientati versus Dominum; la seconda, l’egualmente universale odierno rifiuto d’una quasi plebiscitaria maggioranza di vescovi a dare spazio al Rito Tridentino, o, meglio, al Damaso-Gregoriano, in stolida e sfrontata disobbedienza alle direttive del Motu proprio Summorum Pontificum. Lex orandi, lex credendi: se tutto ciò non è rigetto della Tradizione, cosa allora?
Nonostante ciò, e l’estrema gravità di tutto ciò, non si può ancora parlare di rottura: la Chiesa è « tutti i giorni » sotto la divina garanzia di Cristo data dai due giuramenti visti di Mt 16, 18: « Portæ Inferi non prævalebunt » e di 28, 20: « Ego vobiscum sum omnibus diebus », garanzia che ne assicura nel tempo la continuità e l’immacolatezza dottrinale contro le discontinuità riscontrabili in alcune sue pieghe storiche.
Ciò mette la Chiesa al riparo da ogni timore in tal senso, anche se il pericolo è sempre alle porte. I tentativi di rottura sono spesso in atto: o scoperti e furibondi, o, più spesso, insidiosi e nascosti – come il cambio di registro da dogmatico a pastorale di un concilio universale avvenuto col Vaticano II –, ma chi sostiene oggi un’avvenuta rottura, novatore radicale o sedevacantista che sia, disconoscendo detta garanzia e negando così alla grazia la parte che svolge nella storia della Chiesa, cade a mio avviso nel naturalismo più secco.
Non si può parlare però neanche di ‘continuità con la Tradizione’, se pur « nella riforma », perché è sotto gli occhi di tutti che le varie dottrine conciliari e postconciliari – ecclesiologia, collegialità, fonte unica della Rivelazione, ecumenismo, sincretismo, irenismo (specie verso protestantesimo, islamismo e giudaismo) [vedi "non è vero che adoriamo lo stesso Dio"], modifica della “dottrina della sostituzione” della Sinagoga con la Chiesa in “dottrina delle due salvezze parallele”, antropocentrismo, perdita dei Novissimi (e di Limbo e Inferno), della giusta teodicea (da cui molto ateismo come ‘fuga da un Padre cattivo’), del senso del peccato e della grazia, dedogmatizzazione liturgica, anicologia, sovvertimento della libertà religiosa, oltre all’ameriana « dislocazione della divina Monotriade », con cui la libertà detronizza la verità –, sì, tutte queste dottrine, e altre ancora, non sono formalmente individuabili nelle due fonti della Rivelazione: sono dottrine che una per una, vere e proprie eresie, non reggerebbero alla prova del fuoco del dogma.
Una tale ragione investe pure gli sviluppi dottrinali del concilio, dei quali si afferma ma non si prova in alcun modo la provenienza da precedenti dottrine di fede o prossime alla fede: sviluppi del tutto fallibili, non collegabili con le dottrine del 1° e del 2° grado. Essi stessi, pertanto, indeboliscono la tesi “continuista”, ripetuta senza prove da cinquant’anni, fino a distruggerla. E rafforzano la tesi opposta.
46. La fondamentale tesi di romano Amerio:
« la chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità »
Nessuna rottura, ma anche nessuna continuità. E allora cosa?
In tutta la Chiesa, da cinquant’anni studiosi, vescovi e Papi parlano unicamente o di « ermeneutica della rottura » o di « ermeneutica della riforma nella continuità » (cioè, alle strette, di « continuità »), riducendo il ventaglio delle possibili situazioni conseguite dalla Chiesa in seguito alla forma “pastorale” dell’ultimo concilio a queste due sole posizioni, opposte una all’altra. Ma sono entrambe gusci vuoti, prive, come ampiamente qui dimostrato, di argomenti cogenti sia per l’una che per l’altra. E allora, ripeto: quale la vera ermeneutica?
La via d’uscita, la terza via, la vera e sicura via per tracciare la più veritativa ermeneutica, o meglio: ‘chiarimento’, ‘fedele e rigorosa delucidazione’ di Vaticano II et postea, fu aperta nel giugno 2009 con la riedizione di un classico del cattolicesimo postconciliare per i tipi Lindau: Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa nel secolo XX, primo dei volumi che proporranno gli scritti filosofici di Amerio, di cui il solerte editore si apprestò a compiere la pubblicazione – editi o no che fossero – a cura e con Postfazioni di chi qui scrive.
È fin dalla prima di esse, quella appunto a Iota, che ho voluto porre e alzare in uno stesso e medesimo luogo quelli che a mio avviso possono ritenersi senz’altro i due cippi, le due pietre più orientative e solide che il pensiero umano odierno possa sperare di trovarsi dinanzi, posto che già nella mia monografia sul Luganese, Romano Amerio. Della verità e dell’amore, avevo potuto far rilevare quanto potesse essere utile, per non dire decisiva, la prima di esse (cui anche in queste pagine ci si è spesso riferiti, v. p. 145, da « In termini… », p. 152, da « Il Discorso… », p. 186, da « Non si può… »), pietra chiamata da Amerio « Dislocazione della divina Monotriade ».
E se « Dislocazione » è il nome scritto su questa prima pietra, che segnala la pessima ‘prima e metafisica matrice’ dell’odierno cataclisma culturale, – ‘rovesciamento del valore primo da veritativo a liberale’ –, sulla seconda, sul secondo cippo, è scritto il nome dell’unico, vero “raggio di fuga” da tale antitrinitario – ma anche antiumanistico – sconquasso. Per conoscerlo, bisogna cominciare con l’andare a p. 27 del testo che rese il suo autore tanto celebre quanto evitato. Ecco come ne prepara i fondamenti: « E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa ». Cosa dice questa legge? Sarebbe quasi da mandare a memoria: « La Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità » (p. 28, marcature dell’Autore). Questa la seconda pietra, o cippo. E fra poco ne leggeremo il nome.
« [La Chiesa] – prosegue Amerio – si perde non quando le umane difficoltà la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita », perché, come chiodo scaccia chiodo, ossia come solo il ferro e la conformazione di un chiodo possono scacciare il ferro e la conformazione di un altro chiodo, solo formulazioni teoretiche potranno scacciare altre formulazioni teoretiche, giacché la pratica è inferiore alla teoretica, come la libertà alla verità, la volontà alla dottrina e l’amore – v. il Florilegio – lo è alla legge.
E qui l’Autore espone una breve casistica di momenti della Chiesa in cui la « corruzione pratica » si alza, si fa potente, sembra sovrastare e prendere la mano alla verità, ma infine, essendo, come ora visto, l’ordine pratico di forza inferiore al teoretico, mai giunge a imporsi sul dogma, sicché viene ogni volta respinto e anzi persino permette alla Chiesa di presentarsi di poi più splendida, nettata e purificata, ancora una volta « casta [et victrix] meretrix », come la definiva sant’Ambrogio.
Ma, si può obiettare, le corruttrici dottrine radicate nel Vaticano II e attecchite nei cinquant’anni seguenti non appartengono all’ordine pratico, ma, appunto in quanto dottrine e in quanto né azioni pratiche come quella giudaizzante di Cefa, corretta dalla teoretica paolina, né moti come il pauperismo, né cadute di costumi morali come la periodica degenerazione dei chierici, né lotte come quelle per le investiture che contrapposero Papato a Impero, ma, come si diceva, in quanto dottrine, appartengono all’ordine teoretico, all’ordine speculativo, e come tali intaccano la verità con altre verità, tagliano le teoresi con opposte teoresi, sicché parrebbe proprio che la proposizione di Amerio non si adatti al problema che ci è di fronte, e la Chiesa perderebbe la verità, demolita dalle sue stesse interne nuove dottrine tutte innovatrici, fiorite dal suo nuovo linguaggio “pastorale”.
Ma siamo sicuri che le dottrine erronee, i sofismi, le falsità, le eresie, siano dell’ordine teoretico che pretendono?
Si vedrà qui che non è così, e che anzi proprio Amerio, ancora una volta, dà il colpo secco per rompere il guscio, cogliere la mandorla della verità e far gustare in essa la perfetta e piena pertinenza di ciò che qui si sostiene, così dando nome alla terza e vera via ermeneutica del concilio.
Infatti, a proposito dell’errore, il filosofo asserisce, in ciò adeguandosi a un comune sentire che va da Aristotele a Croce, che l’errore è ateoretico, ossia che esso sopravviene perché nel fare un ragionamento, nel condurre una teoria, nel delineare una teologia, non si è rimasti al purissimo rigore del sillogismo che il logos richiede, frigido pacatoque animo, ma si è lasciato entrare in quel ragionamento, o teoria, o teologia, un granello di ingerenza, un minuzzolo di interferenza pratica (e Manzoni ne enumera tre cause: 1), attaccamento a una certa parola o a una certa idea; 2), ingordigia di giungere a conclusione; 3), timore di dover distinguere e dividere ulteriormente un sistema di pensiero creduto concluso; se ne possono aggiungere altre: 4), desiderio di primeggiare, di imporsi; 5), spirito di emulazione, come quello di teologi e biblisti novatori cattolici nei confronti della teologia e dell’esegesi biblica protestanti; 6), incompletezza della conoscenza del campo di lavoro; e, 7), riguardo al Cristianesimo, malsano desiderio di semplificare le difficoltà oggettive dei dogmi di fede: le eresie di Ario, di Sabellio, l’islamismo e il protestantesimo nacquero anche da qui), ed è invalida l’obiezione per la quale, vedi Evola, il logos avrebbe a base anche l’ambito pratico, perché un logos si sostiene unicamente sulla propria adamantina purezza di logos, che è a dire sul principio di non-contraddizione, e su nient’altro.
Al logos, al ragionamento, sono necessari solo: i suoi termini, la loro corretta posizione sillogistica e l’univoca intenzione di condursi diritto al proprio fine. Ogni pur minimo bruscolo proveniente da una delle sette cause sopraddette – o altre simili – è invadenza passionale, è intrusione emotiva del tutto estranea alla natura del ragionamento, del logos.
In altre parole, a tagliare un ragionamento, una dottrina, un sistema speculativo, non è un seme interno alla logica del ragionamento: ma è la volontà. La volontà, alla quale fanno capo i sentimenti, le passioni, i desideri (l’ignoranza) è la matrice di quelle cause di ordine pratico-emotivo o pratico-pratico raccolte dal Manzoni e delle altre simili. Ma la volontà è un fatto pratico, non speculativo, non intellettuale.
Dunque l’errore è ‘ateoretico’: ‘fuori dalla teoria’. Ed essendo fuori, estraneo, alieno alla teoria, è un accidente, un oggetto non funzionale alla teoria. Dunque pratico. E, se pratico, pratiche sono le dottrine che contengono errori, gli insegnamenti erronei, le teologie false, gli enunciati ereticali.
E se le dottrine erronee sono pratiche, esse non possono essere causa, questa la tesi di Amerio, della corruzione delle proposizioni teoretiche della Chiesa, perché non ne possono pareggiare la forza, e infatti le troviamo tutte e solo al 3° grado di munus magisteriale, il “pastorale”, che per definizione è grado di natura pratica. Si potrebbe dire che c’è una specie di “sintassi” tra le possibili dottrine erronee (e pratiche) e il munus magisteriale, e tale sintassi, allorché si verifica l’errore di una dottrina, pone le due cose sullo stesso piano – il pratico appunto –, incastrandole una con l’altra nell’eguagliamento della loro medesima potenza: pratico su pratico.
Ecco che allora può essere applicata anche nei loro confronti, come da assunto, l’ameriana « legge della conservazione storica della Chiesa »: le dottrine erronee, le false teologie, i sofismi, dovessero verificarsi, comunque non appartengono al logos, ma alla volontà (esattamente: a un logos corrotto dall’intervento di una volontà; si noti: non necessariamente da una cattiva volontà, ma da un ente, la volontà, estraneo alla natura del logos).
Per concludere, dunque: la Chiesa non pareggia la verità quando in alcuni suoi insegnamenti pastorali, o di 3° grado, come avvenuto con le novità del concilio e del postconcilio, una volontà estrinseca alla purezza veritativa delle dottrine insegnate interviene dimenticandola, o confondendola, o intorbidandola, o mischiandola (cfr. Iota unum, Epilogo, p. 661). Non la pareggia, la verità, in questi casi, dice Amerio, ma neanche la perde. Essi sono tutti casi in cui la formulazione delle varie dottrine erronee resta al grado pastorale e non raggiunge mai il dogmatico, non è mai manifestato nel linguaggio del dogma, che si è visto essere l’unico linguaggio eminentemente teoretico, asseverativo e obbligativo e per chi lo pronuncia e per chi lo ascolta.
Si noti poi che, nel frattempo, tutto l’apparato del dogma della Chiesa e il suo linguaggio sono sempre lì ben fermi, in alto, al 1° e al 2° grado, aurei, puri e splendidi come sempre, e nessuno li tocca – nessuno li può toccare, anche se lo vorrebbero tutti –, nella loro perennità e nelle loro altezze, sicché, quando per la Chiesa si propala un qualche insegnamento di natura fallibile di 3° grado, chiunque può comparare quelle dottrine e quei linguaggi alti alle dottrine e ai linguaggi adogmatici e incoerenti di sotto, e, fino a che questi girano nella compagine ecclesiale, chiunque può cautelarsi contro i 3° grado distorti, e prendere (e far prendere) contro di essi le più adeguate, sante e severe contromisure.
Al di là di ciò, tornando alla legge di Amerio, la Chiesa perderebbe invece la verità (il condizionale è d’obbligo, perché, grazie alla garanzia promessa da Cristo, evidentemente non può in alcun modo perderla) solo se il suo supremo Magistero – il Papa “ex cathedra” o un concilio ecumenico in unione col e convocato dal Papa – anatematizzasse una dottrina vera o ne dogmatizzasse una falsa, manifestando la corruzione di un errore attraverso la stessa esposizione, di per sé invece incorruttibile e infallibile, della verità.
Insisterei su questo punto, che è il decisivo: nessuna continuità, ma neppure nessuna rottura, fa intendere Amerio. Si assiste a un reiterato e sfrontato “tentativo di rottura” (cfr., op. cit., p. 628), che i novatori non vogliono in alcun modo portare a termine, perché, si noti bene, solo rimanendo in bilico sul dire e non dire possono raggiungere il risultato prefisso: rottura de facto e continuità de voce, con studiata ma ereticheggiante e dunque colpevole strategia sospensoria tutta neomodernista.
46 a. l’ermeneutica « delle due vie » (rottura de facto, continuità de voce)
è il ‘raggio di fuga’ che farà uscire la chiesa dalla sua crisi ‘formale’.
è il ‘raggio di fuga’ che farà uscire la chiesa dalla sua crisi ‘formale’.
Se « Dislocazione » è il nome scolpito sulla prima pietra, sul primo cippo innalzato ad avvisare del pericolo da cinquant’anni sovrastante la Chiesa (e da essa la civiltà), « Doppiezza » è il nome scolpito sulla seconda, sul secondo cippo, perché la prima immolazione della Verità sull’altare della Libertà, alzato appunto con la « dislocazione della divina Monotriade », è quella del suo insegnamento, dal quale, come si sa, per via dell’imago (dello sviluppo della conoscenza per somiglianza, come nei processi di apprendimento), dipende poi tutto.
I due cippi, con i loro due terribili nomi « Dislocazione » e « Doppiezza », segnalano perentoriamente i due errori primari in cui è incorsa la Chiesa dalla caduta dell’11 ottobre 1962 in poi, e segnalano così, per opposizione, la via d’uscita, il ‘raggio di fuga’ su cui correre per non precipitare, prima che sia troppo tardi, nell’abisso: I), ritorno della Verità sul trono che le spetta; II), ripresa del linguaggio dogmatico perché ne ritorni manifestato in pienezza il suo afflato d’amore.
Qui si avanzano ipotesi, ma, come volli precisare anche in La Bellezza che ci salva (p. 55), « lasciando alla competenza dei Pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza in quanto a chi e in che misura sia incorso o ora incorra » negli atti configurati. Nelle primissime pagine di quel lavoro mi sforzo di evidenziare come non si possano alzare gli argini al fiume della bellezza aletica e salvatrice (indicativa cioè di verità) se prima non si sgombra la mente da ogni equivoco, errore o malinteso: la bellezza, essendo di origine strettamente e soltanto trinitaria, si accompagna unicamente alla verità, sicché mai si tornerà a fare bellezza nell’arte (e senz’altro poi mai nella sacra), anzi: mai si tornerà a fare tout court arte, se prima non si ripristinerà la pienezza della verità trinitaria.
Ciò che si vuol dire è che nella Chiesa da cinquant’anni è stato sviluppato un ricercato amalgama tra continuità e rottura. Una studiata conduzione delle idee e delle intenzioni che le generano ha voluto mutare la Chiesa senza mutarla, sotto la copertura di un Magistero volutamente dimissionato, desalinizzato e “dimezzato”, secondo la chiara analisi di Amerio e come queste pagine hanno ampiamente dimostrato.
Per quanto con Gaudet Mater Ecclesia un Papa abbia vestito un Magistero straordinario della Chiesa – come di fatto e di diritto ‘Magistero straordinario’ è il Vaticano II – di una veste a tale Magistero del tutto inadeguata, di un del tutto improprio munus pastorale, ciò quel Papa fece senza appoggiarsi, come avrebbe dovuto (specie in quello specifico e decisivo atto formalizzatore), al solo e unico grado di Magistero, il 2°, con cui la Chiesa, impegnando in tutta la sua potenza il carisma dogmatico, l’infallibilità papale, avrebbe garantito se stessa, i suoi Pastori e i suoi fedeli della più perfetta verità e della più diritta giustizia del cambio di veste (di forma) che quell’atto ben implicava, ma procurò di mantenersi, anche nella sterzata di tale grave frangente, a un livello “pastorale”, ossia a un livello dove era chiaro tutto il suo intento di non formalizzare affatto – come appunto avrebbe dovuto – la svolta formale che stava proprio in quel momento e proprio in quel modo materialmente compiendo.
Papa Roncalli, in altre parole, non formalizzò la correzione formale che apportava: la fece, fece il cambiamento, compì la svolta, ma senza impegnare in ciò lo scettro del dogma, senza formalizzare una rottura, la rottura della forma propria a un concilio ecumenico e con ciò la rottura del linguaggio (dogmatico) e della forma (dogmatica) della Chiesa, ma, restando al di qua dell’orlo dell’abisso in cui avrebbe perso se stesso, la Chiesa, e la stessa salvezza del mondo, si accontentò (v. p. 168, da: « Detta Allocuzione… ») di annunciare il cambiamento come cosa buona e conveniente.
Dico “restando al di qua dell’abisso” perché, se invece avesse formalizzato (cioè dogmatizzato) la scelta fatta, avrebbe formalizzato (cioè dogmatizzato) un errore, e in ciò sta l’abisso. Ma, non realizzandosi la cosa, è dimostrata l’efficacia attuale dei due giuramenti di Cristo più volte ricordati.
È in quel preciso frangente che iniziò l’ingannevole sfasamento di magistero che stiamo vivendo da cinquant’anni, che dice ma senza dire, che cambia ma senza cambiare, che apre la via per portare se stesso magistero e i propri fedeli fuori della strada maestra, tra i pericoli, le rogge, le ombre, i fossi, le fiere, gli affamati della sua vita, dei suoi spirituali e immensi tesori, fin del suo sangue, ma ciò fa spensieratamente, cinguettando letizia, cantando il sole, profetando pace e prosperità, come fantasticava quel Papa, poi il suo successore, salvo poi avvedersi, dopo anni che oramai divampava furioso l’incendio devastatore, che l’iniquo incendiario e il suo fuoco annientante (altro che « fumo »!) erano talmente inarrestabili da essere penetrati anche nei sacri Palazzi.
Sta il fatto che la formalizzazione dello svuotamento linguistico e formale che avrebbe dovuto compiersi all’apertura del concilio con la Gaudet Mater Ecclesia, non era comunque avvenuta, e « la legge della conservazione storica della Chiesa », malgrado l’immane incendio distruggerà poi metà Chiesa, riusciva ancora una volta a salvare dalla rovina tutta la Chiesa.
Con la Gaudet Mater viene stabilita tacitamente ma ferrea-mente la nuova regola magisteriale portata a sistema, e, sogguardando « la legge della conservazione storica della Chiesa » da un punto di vista puramente provvidenziale, o “di sopravvivenza”, la nuova regola della Chiesa dimezzata potrebbe così enunciarsi: “Finché non dogmatizza, la Chiesa è salva”.
Naturalmente, ciò è un paradosso, perché con tali parole si vuol solo dire che, “Finché non dogmatizza l’errore, la Chiesa è salva dall’abisso”, ma ‘salva’, propriamente, la Chiesa sarà solo allorché, al contrario, tornerà a dogmatizzare: dogmatizzi l’errore, se ci riesce! E infatti l’ideale sarebbe proprio che finalmente i novatori si spingessero a tanto: a provare a dogmatizzare anche uno solo dei loro errori: sarebbe la loro fine, la fine dell’incubo, la fine del Vaticano II.
Non che in questi cinquant’anni non vi siano state espressioni magisteriali di rango dogmatico: Humanæ vitæ di Paolo VI e Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II sono due tipici documenti papali in ciò esemplari. Ma il primo è di teologia morale, il secondo sacramentale; nessuno dei due rientra dunque nell’ambito teoretico, ma nel pratico, dove la Chiesa ha sì flesso il suo munus docendi, e notevolmente, ma non ancora rompendolo, come lì, anche se solo de facto, ha rotto.
Questo rifugiarsi nell’intento pastorale, la sua stessa imprecisione teologica e le nascoste simpatie naturalistiche, cioè neomoderniste e filoprotestanti che lo suggeriscono, danno al respiro divino nella Chiesa il fiato corto, e aprono le porte a dottrine avulse dalla Tradizione e, come l’argilla, impossibili ad amalgamarsi omogeneamente nel quadro di ferro dogmatico che pure la Tradizione pretende, esige e sostanzia.
Sicché, per concludere, questo è il punto: la Chiesa non « perde » la verità, non la rigetta formalmente e neanche ne attenua il valore dogmatico; ma, per usare ancora le parole di Amerio, la « spareggia »; per cui la forma, filosoficamente parlando, è provvidenzialmente salva. Ma ciò, come si può intuire, al sentire cattolico certo non basta: ciò rappresenta solo la certezza di non essere del tutto perduti. Ma, garantiti dalla rocca, i cattolici debbono poi ricostruire al più presto la casa.
Non c’è in alcun modo rottura formale, né peraltro formale continuità, per la ragione che le novità (compresa la peggiore: indire per la prima volta un concilio universale formalmente pastorale invece che dogmatico) non sono state ratificate tra le verità di 2° grado. Ciò vuol dire che in tal modo la Chiesa, seguendo la figura di Amerio, non pareggia più la verità – fatto grave anche se non esiziale –, ma neanche la perde – fatto esiziale ma metafisicamente impossibile –.
Questa è la spirituale mandorla, direbbe santa Chiara, offerta da Amerio a coloro che, scoperto che « ermeneutica della rottura » ed « ermeneutica della (riforma nella) continuità » son gusci vuoti, richiedono il cibo che soddisfi la loro santa fame frustrata: la mandorla, nell’« ermeneutica delle due vie », o « ermeneutica dell’ambiguità », è data proprio dal pertugio posto dalla sospensione del dogmatico giudizio, così da permettere di intravvedere che, invece dandolo, si riguadagni la salvezza.
47. la dedogmatizzazione forzata della chiesa porta alla formazione in essa
di due modelli linguistici, di due cuori, di due riti, quasi di due chiese.
di due modelli linguistici, di due cuori, di due riti, quasi di due chiese.
Ma prima di inoltrarci sul ‘raggio di fuga’ aperto proprio dal pertugio dell’ermeneutica « delle due vie », va notato e sottolineato che il munus docendi legato all’ispirazione “pastorale” ha organicamente inserito in sé anche le novità nel munus sanctificandi del Novus Ordo. Nella Chiesa oggi si contrappongono due metodologie magisteriali – la dogmatica e la “pastorale”, che poi pastorale non è – che permettono due dottrine, da cui, la liturgia essendo la fede creduta, due Riti e quasi due sacerdozi, uno originato dal concetto di ‘comunità’ (= di amore, ma distorto), l’altro da quello di ‘autorità’ (= di verità).
Oggi viviamo una situazione paradossale, per la quale di fatto tacitamente coesistono, nello stesso sacro Corpo, in una “Terra di mezzo”, come due cuori: quasi due Chiese. La cosa a lungo non durerà, non può durare a lungo. E l’aggravante è che l’ultima generazione di vescovi e fedeli, colpevolmente in toto incolta sul proprio passato, e direi anche sul proprio presente, non avverte per nulla la gravità della cosa.
L’arretramento del magistero da dogmatico a pastorale trascina la Chiesa suo malgrado a dedogmatizzarsi, a compiere la trasformazione di quella che Livi segnalava perversione contro la Chiesa – almeno negli ultimi tre secoli – solo di suoi nemici esterni (« La filosofia religiosa cristiana dell’epoca moderna, dall’Illuminismo al Romanticismo e al Positivismo, ha continuamente invocato una “dedogmatizzazione” del cristianesimo », Vera e falsa teologia, p. 231), in perversione dedogmatizzante dal suo stesso interno, così che la Chiesa si trovi stretta tra due fuochi: uno esterno, il laico, filosofico e potente assedio della cultura liberale dominante; e uno religioso, teologico e spirituale, appiccato direttamente al cuore; è ciò che insegnava Bonaiuti: « Non contro Roma, né senza Roma, ma con Roma e in Roma ». Le eresie sono alla Chiesa tanto più perniciose, se i loro germi le saranno iniettati tanto più direttamente in vena.
Il modernismo, per mons. Luigi Carlo Borromeo, vescovo di Pesaro ai tempi del concilio, avrebbe dovuto essere trafitto come « religione che viene direttamente dall’uomo e indirettamente dal divino che è nell’uomo » (Diario, 3-12-62). Esso fu la leva più efficace, il canale più potente di infiltrazione della de-dogmatizzazione con gli strumenti persuasivi visti, sicché, strutturandosi presto in Nouvelle Théologie in Francia e in altre formazioni filoliberali in Germania, Olanda e Italia, esso poté compiere quell’opera di persuasione dall’interno strategicamente delineata dal Buonaiuti, opera che da allora a oggi ha allagato la Cittadella salendo fino al Sacro Soglio, finale e decisiva breccia il concilio: in primis con l’indebito rattrappimento della forma di insegnamento straordinario della Chiesa da quella – pertinente, doverosa – che da sempre è la dogmatica, a una forma del tutto inidonea, spuria, detta “pastorale” pur non essendolo in niente; in secundo, ciò premesso, con due rotture (ancora sulla forma, accolte anch’esse supinamente, senza rigettarle come dovuto) delle sue regole interne: la prima illegalità è quella vista, operata dal cardinale Liénart: 13 ottobre ’62; la seconda, poco dopo: 20-21 novembre (v. de Mattei, Il concilio Vaticano II cit., pp. 203-6 e 262-5).
Queste pagine non se ne possono occupare direttamente, ma, nell’ambito del delineamento dei due modelli linguistici, dottrinali e liturgici aperti dal o dopo il Vaticano II, anche se mai dichiarati – la loro dichiarazione, come visto, è impossibile –, non si può non ricordare che i numerosi fedeli, preti e persino monsignori che da subito, specie in Europa, si erano rifiutati di accettare il modello iperpastorale e dedogmatizzante ufficiale e di seguire il Novus Ordo Missæ, si organizzarono a macchia d’olio in gruppi e circoli di viva resistenza al nuovo corso linguistico-formale impresso dal Sacro Soglio, spesso individuandone l’essenza erronea.
Oggi la Gerarchia si profonde a negare financo la possibilità dello sterminio, ma la realtà è che all’epoca Papa Montini, per il ben fondato sospetto che chi rifiutava il NOM lo rifiutava perché con esso rifiutava il concilio, con inusitata durezza e prevaricando persino le proprie competenze – neanche il Trono più alto può abrogare né obrogare il Ritus Romanus –, aveva ordinato di sterminare la Messa Tridentina per tutto l’Orbe (v., in dettaglio, il mio La Bellezza, p. 205, nota 48).
In tal clima, una figura fra tutte si distingueva a paradigma dell’ortodossia cattolica in Marcel Lefebvre, il vescovo che nel 1970 gettava le basi funzionali perché a Ecône venisse fondato un seminario sotto il suo governo, fulcro della Fraternità Sacerdotale San Pio X da lui fondata. La Fraternità si espanderà in tutto il mondo con notevole messe, in controtendenza continua con la vertigine di decadimento universale – materiale, spirituale e morale – della Chiesa Romana.
Veniva a crearsi così quella situazione paradossale, conflittuale e incresciosa che si diceva: da un lato un modello di Chiesa del tutto ortodosso, ma disobbediente al Papa tanto da essere stati i suoi Pastori latæ sententiæ scomunicati (ma la scomunica dopo 25 anni sarà ritirata); a tale modello vanno assimilati anche tutti quei molti fedeli e chierici che, come a loro tempo Romano Amerio e mons. Spadafora, pur non ammettendo in alcun caso una disobbedienza al Papa, rigettano toto corde il neomodernismo odierno (l’insieme delle dottrine viste) anche se professato al livello più alto; dall’altro, poi, un modello di Chiesa da tali errori invece intaccato in profondità, ossia anche ai massimi livelli, e largamente, ossia pervasivamente; modello però, questo, proprio perché condotto dal Trono più alto, a questi del tutto obbediente.
Il primo, polarizzando, è cattolico per la dottrina e il Rito; il secondo per il Papa. L’uno rigetta il Vaticano II quale assise in totale rottura con la Tradizione, l’altro se ne fa figlio in tutto, proclamandolo – e ciò anche dal Trono più alto, senza però mai portarne le prove – in totale continuità con la Chiesa preconciliare, se pur nell’ambito di una certa qual riforma (ma se così, perché tanto disprezzo per la Chiesa detta appunto, spregiativamente, “preconciliare”?).
A monsignor Lefebvre si affiancò da subito il vescovo di Campos, in Brasile, monsignor Antonio de Castro Mayer.
Non si sono avuti nella Chiesa da allora altri vescovi almeno ufficialmente “antimodernisti”, pur se non mancano personalità anche abbastanza visibili che chiaramente mostrano di lavorare per la causa della fede e del Rito genuino, e non si sa se è più drammatico non averne più avuti, così da dover constatare quanto il neomodernismo stia attanagliando la Chiesa, che invece averne ancora avuti, così da dover ancora una volta constatare invece quanto non il loro numero, ma soltanto il giudizio finale del Trono più alto varrebbe, in ultimissima analisi, a non far deflettere dal dogma la Chiesa e così, anche se sul fil di lana, all’ultimo istante salvarla.
Come scrive Giovanni Miccoli, è indubbio che la Fraternità Sacerdotale San Pio X corroborò notevolmente la strenua resistenza delle frammentate, esigue (ma si parla sempre, comunque, di cifre nell’ordine di milioni) e molto sparse frange di chierici e fedeli anche non affiliati (perché contrari in specie alla disobbedienza delle ordinazioni episcopali), ma in ogni caso avversi alla dedogmatizzazione dottrinale e liturgica nella Chiesa, e ciò avvenne semplicemente « con la sua esistenza »: per il triestino essa « ha offerto per dir così una sponda e una sorta di punto di riferimento per tutti coloro che nella Chiesa » cercarono in ogni modo di mantenersi puri nella fede e nel Rito di sempre (ma qui lo storico parla di fedeli tesi « ad avviare un processo di parziale restaurazione rispetto agli orientamenti e alle prospettive del concilio », e, con quel « parziale », parrebbe credere, come molti, all’impossibile soluzione, al tertium non datur, che sogna che “ci si possa incontrare a metà strada”).
Dunque a tali arretramento e dedogmatizzazione non si sono adattati tutti i cattolici: una minima parte, per quanto irrisoria, l’1-2%, non direi di più, semmai meno, pur se alcuni azzardano persino un 5, in ogni caso atomistica se paragonata alla vastità plebiscitaria della controparte, è restata ferma a dottrina e culto canonici, e ciò malgrado sia pure patente, e gravemente, la difficoltà posta dall’obbedienza: chi il vero obbediente: l’1-2% che obbedisce al dogma o il 98-99 che obbedisce al Papa? Che in ultimo è: è più alto il Trono del dogma o quello del Papa? In realtà tutte queste domande neanche sarebbero se al concilio fosse stata applicata la regolare e canonica forma dogmatica di 2° grado e non (in quel caso, che è di concilio ecumenico) l’illegittima pastorale di 3°.
D’altronde, una minoranza di fedeli irrisoria ma dal sangue sano è certo più vitale per la fede di una maggioranza schiacciante, sì, ma dal sangue (a dir poco) infetto.
In realtà, seguendo il suggerimento offerto dalle pagine di Iota unum, il dilemma va e anzi deve essere superato dalla considerazione decisiva che « la Chiesa non va perduta nel caso non pareggiasse la verità, ma nel caso perdesse la verità ».
Queste parole riportano l’antinomia nel suo giusto orizzonte, che si può riassumere così: chi il vero obbediente: colui che obbedisce al dogma, e non al Papa, allorché, esercitando il suo magistero privato o quello pastorale (dunque esercitando, al massimo, un magistero di 3° grado), il Papa non coerisce col dogma, o colui che obbedisce al Papa sempre e comunque, anche allorché nel magistero privato o nel pastorale il Papa si allontana dal dogma e/o lo contraddice?
Come si vede, la formazione di due modelli linguistici, di due cuori, quasi di due Chiese, si fonda su un malinteso. È questo ciò che Amerio suggerisce di risolvere come visto e è questo ciò che ora si studierà più da vicino per impostare una sua realistica se pur lontana risoluzione, dogmate statuito.
______________Scheda: Edizione pro manuscripto Aurea Domus, Milano, gennaio 2013; in formato aureo, cm 14 x 25, su carta Pordenone vergata avorio delle cartiere di Cordenons (Friuli), pp. 262 + XX, € 35 (distribuito a Milano dalla libreria HOEPLI; a Roma dalla libreria COLETTI, si può richiedere all’Autore info@enricomariaradaelli.it)
21 commenti:
http://www.youtube.com/watch?v=J8Sk5u5ee8I
Oggi è la Festa di Cristo Re.
Grazie a chi ha postato il link allì'Inno:
"In Festis D. N. Jesu Christi Regis" con la visione dello spartito e cercando una buona pronuncia del testo latino, l'Inno TE SAECULORUM PRINCIPEM
Per chi volesse approfondire
http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/p/daniele-di-soroco-la-festa-di-cristo-re.html
E così ho potuto anche aggiungere l'immagine che ricorda la Festa di oggi
Cara Mic,
gli studi di R.M. Radaelli vanno promossi. E Lei è una delle poche persone che lo fa regolarmente.
Sono testi densi come roccia metallifera, non facili da leggere, ma meritano maggiore diffusione. Nella forma come nelle argomentazioni toccano corde che pochi osano pizzicare : la loro lettura non può lasciare indifferenti i cattolici «audaci», i ferventi, gli adoratori della SS.Trinità.
C'è una domanda e una riflessione che mi sorge spontanea, che sottoporrò all'Autore ma che rivolgo anche a chi legge.
Nel ri-leggere questo punto (che vi prego di ricollocare nel contesto), nel quale si dimostra che la verità teoretica non può essere scalzata dall'ateoresi pratica di segno diverso:
...è invalida l’obiezione per la quale, vedi Evola, il logos avrebbe a base anche l’ambito pratico, perché un logos si sostiene unicamente sulla propria adamantina purezza di logos, che è a dire sul principio di non-contraddizione, e su nient’altro.
Noto che in teoria il discorso mi convince: l'adamantino rigore della ragione illuminata dal logos, proprio in quanto è presente il logos, non resta intaccata dall'errore, così come non resta intaccata la Verità che è immutabile nella sua essenza.
Tuttavia, se riconduciamo il logos al Logos, la Seconda Persona della Santissima Trinità, mi sovviene il latino Verbum e anche l'ebraico Dabar, che lo connota sì come Parola - Azione, ma contemporaneamente come Fatto.
Dunque come possiamo essere sicuri che gli odierni "fatti" in aumento esponenziale (la prassi ateoretica che veicola errori) che in fondo contengono in sé la de-formazione del logos, espressione della 'forma' primigenia, non intacchino le verità?
Non ne intaccano di sicuro l'espressione teoretica formulata dalla ragione illuminata, tuttavia incuneano nell'uomo e nella sua storia - intesa come storia divino-umana conseguente all'Incarnazione del Verbo - e operano guasti nella Redenzione da Lui operata.
Guasti di certo non irreversibili (ed è questo che l'Autore fondato anche sulla proposizione Ameriana conclude).
Ebbene, io non riesco a osservarli con questa sorta di distacco che quasi quasi ce li fa ridimensionare, e guardare da spettatori, mentre essi appartengono al dis-ordine sovversivo e mi suscitano ripugnanza e rifiuto viscerali, non da spettatrice, ma da essere vivente coinvolto e partecipe di un drammatico e terribile scontro tra l'Essere (del quale, per grazia, nel Logos-Cristo Signore partecipiamo) e il non-essere.
Perché è di questo che si tratta.
E, pur condividendo la fiducia nelle promesse e dunque nella Ecclesia victrix nel suo Signore, vorrei sottolineare che mi pare che il guasto della de-formazione, abbia raggiunto livelli non più tollerabili.
Basti pensare alle frontiere della bioetica e delle leggi immutabili ormai violate con troppa disinvoltura, che non è altro che hybris e profanazione. Il che non è di certo scollegato alla contestuale corrispondente profanazione e de-formazione di quanto abbiamo più sacro nella nostra Fede.
ammesso (e non concesso) che il CV2 non sia rottura con la dottrina del passato restano poi varie altre questioni altrettanto importanti ma sistematicamente 'dimenticate':
*perché dei papi hanno stravisto per il Concilio in un senso mentre altri hanno tentato di ridimensionarlo nell'altro senso?
* possono dei documenti magisteriali restare senza interpretazione e avere più significati per oltre 40 anni?
*dove era il Magistero durante gli ultimi 40 anni ?
* perché non é intervenuto ?
* ...
Consapevolezza ben presente qui:
Oggi viviamo una situazione paradossale, per la quale di fatto tacitamente coesistono, nello stesso sacro Corpo, in una “Terra di mezzo”, come due cuori: quasi due Chiese. La cosa a lungo non durerà, non può durare a lungo. E l’aggravante è che l’ultima generazione di vescovi e fedeli, colpevolmente in toto incolta sul proprio passato, e direi anche sul proprio presente, non avverte per nulla la gravità della cosa.
A suo tempo lessi con molto interesse "Iota unum", che m'ha fatto molto pensare, anche se non ne condivido tutto.
Ora però, dopo aver letto il secondo dei paragrafi qui riportati del Radaelli (il 46), confesso di non capire.
Mi pare infatti che l'errore, pur essendo certo causato da un'intrusione della volontà che porta alla "praecipitatio assensus", resti però, di per sé, nell'àmbito speculativo: pratiche saranno le sue cause, ma l'errore in sé stesso appartiene all'intelletto, come la verità.
E a ogni modo, dir che l'errore non può mai intaccar la verità perché errore e verità si pongon su due piani diversi, speculativo questa e pratico quello, non potrebbe risolvere il problema che l'autore si pone: le promesse di Cristo non tendono infatti tanto a garantire la Verità (che non ne ha bisogno, essendo come tale incorruttibile) quanto la Chiesa: poiché l'errore è un male, per noi viatori, il Signore ci ha promesso di liberarcene.
"[S]e le dottrine erronee sono pratiche, esse non possono essere causa, questa la tesi di Amerio, della corruzione delle proposizioni teoretiche della Chiesa, perché non ne possono pareggiare la forza, e infatti le troviamo tutte e solo al 3° grado di 'munus' magisteriale, il 'pastorale', che per definizione è grado di natura pratica."
Sennonché, obietterei:
1) "le dottrine erronee sono pratiche": questo, se è vero, vale non solo per le dottrine erronee che il Signore può permettere che prevalgano più o meno nella Chiesa, ma per qualunque errore dottrinale, anche per l'eresie: ne seguirebbe quindi che anche se la Chiesa, per fare un'ipotesi che sappiamo impossibile, insegnasse l'eresia, il domma cattolico sarebbe intatto, e seguiterebbero a verificarsi le promesse del Signore; ma questo è manifestamente assurdo: sicché l'argomento, se non isbaglio, non prova nulla perché prova troppo;
2) chi ha detto che gl'insegnamenti ritenuti erronei (non voglio qui considerare se a ragione o a torto) dal Radaelli appartengano, e tutti, al magistero pastorale, epperò pratico? Considerando l'elenco che ne fa più sopra lo stesso autore, non mi pare che questo si possa affermare.
Maso
Quanto poi all'ermeneutica della continuità, forse la dovremmo intendere anzitutto come un cànone per la lettura e l'interpretazione del magistero conciliare – ferma restando sempre la natura prevalentemente (anche se non esclusivamente) pastorale dell'ultimo concilio.
In altre parole: più che discutere "a priori" se il Concilio sia o no stato in continuità, o quanto, col magistero precedente, faremmo forse bene a promuovere un'interpretazione dei suoi testi che sia il più possibile in armonia colla tradizione.
E il cànone di cui dicevo potrebb'essere il seguente: gl'insegnamenti del Concilio vanno intesi alla luce del magistero precedente, e un'interpretazione innovativa non va ammessa ammenoché non sia provata a evidenza.
Si potrebbe forse parlare d'un "favor traditionis": come i canonisti parlan di "favor matrimonii", per cui un matrimonio si presume valido finché non sia provato invalido, così si potrebbe dire che, di due interpretazioni confliggenti d'un testo conciliare, si deve preferire quella non innovativa finché quella innovativa non sia dimostrata vera. Non si nega che qualchevvolta, entro limiti ben definiti, un insegnamento del magistero possa esser effettivamente in contrasto con un insegnamento precedente; ma una tale contraddizione – eccezione e non regola – non può esser presunta, o affermata con leggerezza, o estesa indebitamente.
Così, e senza punto approfondire (non ne sarei fra l'altro in grado): l'ecumenismo va inteso come ansia della Chiesa, riflesso di quella del suo fondatore, per coloro che son fuori del suo corpo visibile, come atteggiamento di rispettosa carità, non come irenismo o indifferentismo, fermissimi restando perciò i dommi della necessità della fede ortodossa per la salvezza, dell'infallibilità della Chiesa, della necessità d'appartenere a essa per esser salvati; la libertà religiosa si riferisce al fòro esterno, e non nega, anzi conferma, l'obbligo di cercar la verità oggettiva e di conformarsi a essa; eccetera.
Maso
Ringrazio Maso per la sua riflessione che richiede una risposta meditata.
Sicuramente si sentirà interpellato anche Radaelli e non mancherà di rispondere.
Io stessa avevo formulato il pensiero di Maso, salvo poi a parlare come ho fatto, strada facendo con la riflessione più su, che ho vergato di corsa prima di uscire.
Ma Maso ora mi induce ad approfondire a tornarci su in maniera più meditata. E lo farò volentieri.
Spero che ci sia chi mi precede.
il problema, caro Maso, e' che chi avrebbe dovuto fare quel che tu dici, cioe' i papi postconcilio, il resto della gerarchia e " gli intellettuali d'area", si sono ben guardati dal farlo. altrimenti tutto 'sto bailamme del concilio non ci sarebbe stato. e quelli che ultimamente han provato a farli, a cominciare forse da Ratzinger, sono stati o deboli, o praziali, o inascoltati, o puniti.
Rosa
postconcilio: mi viene im mente l' antifascismo, valore "fondante" della nostra cosituzione e epubblica, per cui, se si cerca di modificare.l' una el' altra, si diventa subito rei di anti- antifascismo. se si cerca di piegare il CVII al Magistero precedente, si e' subito rei di anticonciliarismo, che e' visto come un' eresia. se non e' ideologia questa...
Forse, quando i padri conciliari ed i loro "figli" spirituali saran deceduti, ci si liberera' del monstre CVII, e si ritornera' alla buona vecchia dottrina di un tempo.
Rosa
Che cose` l'anicologia? Discorso su come non vincere?
Grazie a te, Mic!
Maso
Per Bedwere: non mi pare che si tratti di vincere o perdere, ma appunto della verità.
Maso
Poscritto. "Anicologia": bellino; non l'avevo mai sentito.
Poscritto. "Anicologia": bellino; non l'avevo mai sentito.
Forte, l'interpretazione etimolgica di Bedwere ;)
Forse si potrebbe intendere:
non a-nicologia (nike=vittoria)
ma an-ico[no]logia (icona=immagine)
...
Lo sapremo meglio dall'Autore.
Per quanto riguarda la questione dell'ermeneutica, è strano che un Papa solleve questo problema e il suo sucessore non parle più sul questo. Ancora sembra che il problema della continuità tra concilio e tradizione non vi è di interesse del magistero o della propria Chiesa. Anche nel caso della FSSPX, se comincia le cose e non se finisce...
Un saluto dal Brasile
P.S.: Qualcuno può dirmi per favore se è vero che Santa Rita si alzava in piedi, al momento della consacrazione e allungava le braccia? Mi è stato detto questo qui in Brasile, e che questo avrebbe diminuito dopo il Concilio. Potete dirmi dove posso trovare informazioni su di esso? Grazie ;)
le promesse di Cristo non tendono infatti tanto a garantire la Verità (che non ne ha bisogno, essendo come tale incorruttibile) quanto la Chiesa: poiché l'errore è un male, per noi viatori, il Signore ci ha promesso di liberarcene.
E' per questo che nella mia analisi ho spostato l'attenzione dal logos filosofico al Verbo incarnato e agli effetti sulla Redenzione.
Ma la Chiesa, non potrà perdere la verità come Corpo mistico del Signore e secondo le sue promesse.
C'è comunque un prezzo per i guasti nel frattempo operati...
lasciando alla competenza dei Pastori ogni verifica della cosa e ogni successiva conseguenza...
Ecco. Questo é il perno della questione: dei laici cercano un'intepretazione in continuità mentre il solo pastore competente (il papa) ha già detto tutto: ha predicato e insegnato gli errori (già presenti nei testi del Concilio) ribadendoli e bollandoli come validi ripetutamente e senza dubbi.
Non c'é Redealli e Amerio che tenga, neanche un membro della chiesa docente potrebbe fare qualcosa. Non é colpa dei cattivoni che vedono la rottura se per esempio nella "Dives In Misericordiae" GPII insegna la salvezza unversale...
Mic, abbiamo un appuntamento col libro di Mons.Levenbre "J'accuse le Concile". Si tornerà li' ... prima o poi.
boom!
Il pontificio consiglio per i laici, diventera' la Pontificia Congregazione per i Laici, incentrato su di un "incremento" del ruolo dei laici, del ruolo dei diaconi (a cavallo con la congregazione per i religiosi) e dei movimenti. L'aria che tira se ho ben capito sarebbe di una progressiva parificazione dei movimenti con gli ordini, magari non nell'aspetto canonico ma in quello sostanziale.
i novatori c'erano anche ai tempi di Pio X, basta leggere la pascendi dominici gregis (1907):
"..i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima.."
Per mic, messaggio del
27 ottobre 2013 15:34
citazione:
"Tuttavia, se riconduciamo il logos al Logos, la Seconda Persona della Santissima Trinità, mi sovviene il latino Verbum e anche l'ebraico Dabar, che lo connota sì come Parola - Azione, ma contemporaneamente come Fatto.
Dunque come possiamo essere sicuri che gli odierni "fatti" in aumento esponenziale (la prassi ateoretica che veicola errori) che in fondo contengono in sé la de-formazione del logos, espressione della 'forma' primigenia, non intacchino le verità?
Non ne intaccano di sicuro l'espressione teoretica formulata dalla ragione illuminata, tuttavia incuneano nell'uomo e nella sua storia - intesa come storia divino-umana conseguente all'Incarnazione del Verbo - e operano guasti nella Redenzione da Lui operata.
Guasti di certo non irreversibili (ed è questo che l'Autore fondato anche sulla proposizione Ameriana conclude). "
Sicuramente quest'ambiguità a "doppia via" come ermeneutica odierna,
favorisce soltanto l'errore, la devianza, sul piano pratico.
Su un piano di "condotta", che è inerente l'ambito pratico.
Per quanto riguarda invece il campo del Logos:
lla Verità è semplicemente ciò che è, ab-aeterno, quindi nella sua immutabilità, poichè "vera in essenza \ di per sè", niente e nessuno la può intaccare.
Quindi nella sfera del "concetto-idea", il Logos rimane compiutamente e inviolabilmente incorrotto.
Si intende ovviamente una verità che sia tale, dogmaticamente infallibile.
Quindi questo processo di "de-formalizzazione" del Logos, non può che intaccare e rovinare soltanto il risvolto PRATICO del tale, senza mai minarne anche solo minimamente l'essenza (se non cadendo nell'errore appunto, contrapponendo una menzogna alla sua Verità di Logos, ovvero ancora sarebbe come opporre il non-essere all'essere, con l'immediata sconfitta della menzogna, che "non è").
Un pò come coprire dell'oro col fango:
sotto tutto lo sporco, continua comunque a esserci oro.
Il problema... è per chi si interfaccia e rapporta all'oro infangato.
In altri termini:
l'uomo può benissimo compiere un cammino di perdizione personale derivante dal seguire vie a-teoretiche, che appunto lo allontanano dal Logos veritiero e dalla salvezza personale.
Ma questo riguarda solo la perdizione di uomini, che si svincolano dalla Verità, non il Concetto di verità infallibile del Logos, che rimane immutato in ogni caso e permane nel suo splendore (quando dogmaticamente infallibile, se vero in sè).
Quindi e a ragione la situazione si può dire gravissima e nociva per le Anime, che in questo clima nebuloso sono esposte a facile perdizione, MA al tempo stesso, finchè le cose sono ancora tali, il Logos continua a restare incorrotto, salvo.
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