Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 9 gennaio 2023

Benedetto XVI “Doctor Caritatis”. Profezia della Lettera ai vescovi lefebvriani

Riprendo dall'Osservatorio Card. Van Thuân, una interessante riflessione su una delle quaestiones più discusse e delicate del Pontificato di Benedetto XVI.
Benedetto XVI “Doctor Caritatis”.
Profezia della Lettera ai vescovi lefebvriani


In questi giorni molti sono i commenti emersi attorno alla figura del Santo Padre Benedetto XVI, ora asceso in anima al cospetto di Dio Onnipotente. Non sono mancati quanti già si propongono con titoli ufficiali, quali Dottore della Chiesa e simili. E allora vorrei omaggiare anche io il Santo Padre con un titolo, che sia poi occasione per una riflessione più ampia su un punto a mio avviso cruciale del Magistero benedettiano. Il tiolo è quello di Doctor Caritatis, la carità è uno dei contenuti strategici del suo insegnamento e l’attualità di tale ammaestramento sarà illustrata qui di seguito. Si tratta di uno dei tanti punti della lezione pontificia che è stato dimenticato e gli esiti si vedono già tutti nel campo civile, mentre si vedranno fra non molto in quello ecclesiale. Andiamo per gradi.
Riferirsi alla carità certo porterà molti a pensare all’indiscusso e audace capolavoro che fu la Deus Caritas Est, prima enciclica di Benedetto XVI. Personalmente preferisco un altro approccio, almeno al fine della modesta meditazione odierna.

Riprenderò il delicato testo della lettera “Ai vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei 4 vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre” (qui). Come molti ricorderanno, all’indomani della revoca della scomunica ai succitati vescovi si accese un vespaio di rara durezza nei confronti del Santo Padre. Benedetto XVI fu costretto a scrivere una apologia che, nata come rimedio alla querelle mediatica, gli permise di fare chiarimenti teologici fondamentali e utili a tutti. In fondo, una delle migliori lezioni attorno all’altra vexata quaestio: la differenza tra Concilio dei Media e Concilio dei Padri, che attraverserà le lezioni dell’ultimo periodo di Pontificato. Più ancora, la dimostrazione di come il Magistero in mentem Patrum possa finemente e risolutamente scalzare le ombre del Contro-magisterio mediatico.

Nella lettera incriminata Benedetto XVI, chiarite le questioni di cronaca, si sposta su argomenti sostanziali di pastorale, ma ancora sceglie di introdursi dando voce all’opposizione mediatica: “Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti?”

La risposta sembra andare incontro alle rivendicazioni del Mondo, ma subito le rincalza, rimproverando fermamente la superficialità degli interlocutori: “Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva”.

Qui inizia la costruzione del pensiero teologico pastorale di Benedetto XVI, la cui attualità è direttamente proporzionale alla lungimiranza strategica e al coraggio applicativo dello stesso:
“La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: ‘Tu … conferma i tuoi fratelli’ (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: ‘Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi’ (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più”.
Il fondamento è biblico, perché nelle e dalle Scritture fiorisce l’autentica tradizione cattolica. E nella tradizione si esprime il vero magistero pontificio, che Benedetto XVI riporta al comandamento del Signore (“conferma i tuoi fratelli”) e interpreta alla luce della parenesi petrina (rendere ragione della speranza). Il tutto assume particolare significato nel contesto storico di ateismo galoppante e dilagante che viviamo. E dunque, in sintesi, compito del Papa è preoccuparsi dell’umanità disorientata, la quale va soccorsa con un richiamo alla fede. Qui per fede si intende il contenuto della Rivelazione di Cristo, il quale comprende la relazione di amore col Crocifisso Risorto ed è però un contenuto di cui bisogna rendere ragione. Ecco così individuata la suprema priorità, cioè la meta oltre la quale nulla si colloca e al servizio della quale ogni iniziativa pastorale si giustifica e si orienta: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo”.

Polemiche che non tengono conto di tale criterio supremo sono solo chiacchiere o tradimenti della missione. Ogni progettazione pastorale invece deve discendere da questo principio sommo. E quali sono i primi valori ad emergere? Il richiamo all’unità dei credenti, con la quale poi si avvia il dinamismo ecclesiale nella sua forma tanto testimoniale quanto evangelizzatrice. L’evangelizzazione, cioè l’annuncio del Vangelo e la chiamata alla vera fede, si esprime in quello sforzo comune che richiama ogni credente a unirsi, avendo come punto di fuga di tale movimento riunitivo il Crocifisso Risorto. Di qui i tre riferimenti che fa Benedetto XVI: al dialogo interreligioso, all’ecumenismo, alla revoca della scomunica per i vescovi lefebvriani.
“Dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso”.
Fuori di tale sforzo l’annuncio di Dio non è credibile e non raggiunge e non salva l’umanità dispersa del mondo contemporaneo. Ecco perché dialogo religioso ed ecumenismo sono irrinunciabili. Ma ecco perché è ugualmente irrinunciabile lo sforzo unitivo verso i membri della Fraternità Sacerdotale San Pio X. E tutto ciò senza minimamente transigere su quale sia la fonte della Luce cui tutti sono chiamati a rivolgersi, al di là di ogni indifferentismo o qualunquismo religioso. La verità di Dio e il dovere di portare gli uomini al vero Volto di Dio sono la ragione che muove il Papa: nel rimproverare i vescovi riottosi, nel richiamare i cristiani acattolici, nell’invitare gli ebrei e i fedeli non cristiani, nell’aprire le porte alla FSSPX. A tutti però è chiaro che il Papa accoglie e raccoglie nella luce di Cristo, senza entrare in giochi di faziosità culturali, religiose, politiche o teologiche.

Dal principio supremo oltre all’evangelizzazione scaturisce anche il dinamismo della testimonianza, come accennavo più sopra. Quanti già si muovono nel cono di Luce del Cristo non possono se non preoccuparsi di essere espressione della sua Carità: “Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est”.

Il passaggio ulteriore fatto dal Pontefice ci porta ad argomentare la tesi esposta in esergo. Dal principio della fede, della cui speranza si dà ragione ai lontani evangelizzandi, e che si testimonia nella carità, procediamo senza soluzione di continuità alle applicazioni che concretizzano tali dinamiche ideali. Espressione concreta e certa di tutto ciò è la disponibilità alla riconciliazione: “Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie”.

E così, con grande semplicità e robustezza si risponde alla domanda iniziale: “Era tale provvedimento necessario?” Sì, era necessario come è necessario dare applicazione concreta, coerente e completa all’imperativo di carità, espressione di quella vera fede, ragionevole, che così deve manifestarsi per ricondurre gli uomini disorientati al loro Oriente.

Nella parte finale della lettera è il Papa a porre le domande: “Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme?”

La fila di domande retoriche mette all’angolo tutti i disobbedienti della ‘Chiesa di Benedetto’, svelandone in pochi tratti la fragilità nel sensus fidei, nello spirito pastorale, nella visione teologica, nonché la inadeguatezza a vivere l’attuale momento storico sociale in modo fecondo e propositivo. Non ci si stupisca che abbiano fatto di tutto per portarlo all’abdicazione, Benedetto XVI non solo li ha confutati (confutatis maledictis) ma ne ha svelato al pubblico i cuori.

Ora, prima di procedere, vorrei richiamare tutti a riflettere sulla portata profetica di quest’ultimo paragrafo del Santo Padre. Lo ripeto: “Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme?” La risposta per il Cristiano è certa. L’opposto esprimerà dunque il parere del Mondo e del suo maligno Principe. L’umanità disorientata e lontana da Cristo è quella che suscita le radicalizzazione, isola gli esponenti scomodi, produce segregazione, favorisce irrigidimenti e restringimenti, sacrifica anche il recuperabile alla causa dominante. Stiamo descrivendo il mondo in cui ormai siamo immersi e che negli ultimi tre anni si palesato sempre più. La cultura LGBT, l’idolatria ucraina, la segregazione dei novax, lo stigma per i sovranisti: ecco alcuni esempi concreti, tra i tanti che sempre più strozzano il nostro tempo. E tutto questo, alla luce del Magistero benedettiano, indica un percorso che dimentica la lezione della Carità, attenua ed estingue la credibilità della fede, disgiunge gli uomini da Dio e condanna l’umanità alla confusione e alla dispersione.

Il tutto pende come spada di giudizio grave particolarmente su quei cattolici che, disdegnando l’insegnamento pontificio, scelgono di avallare anche solo in parte questa logica mondana e divisiva (diabolica).

Ho precisato ‘anche solo in parte’, perché la carità cristiana è totalizzante e l’amore di Cristo non permette sacche di neutralità. Così lo esprime Benedetto XVI in un passaggio che reputo di altissima levatura teoretica, seppur apparentemente marginale: “a volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio”. E ahimè questo vale anche per troppi cattolici. Troppi credono di esser buoni, perché accolgono in modo indiscriminato, senza verificare di essere pienamente nella Luce di Cristo e mentre si ostinano a coltivare spazi di odio nel proprio cuore. Spazi piccoli, certamente, ma sufficienti ad inficiare la credibilità del loro amore e della loro fede.

E mi avvio a concludere dunque. La tesi iniziale era che la carità fosse uno dei contenuti strategici dell’insegnamento del Pontefice tedesco. Spero di aver fatto intendere in che senso ciò vada compreso. Benedetto XVI è stato autentico maestro di carità, in quanto ha fermamente testimoniato l’imprescindibilità dell’amare cristiano, con tutte le sue esigenze, di totalità verso il prossimo, e al contempo di schietta radicazione nella verità e nella fede, che della verità è manifestazione piena, quale via di risanamento dell’umanità.

Che altro manca a questo quadro? Manca la dimensione etica del coraggio. Perché l’amore cristiano è eroico, chiede coraggio, coraggio per essere vissuto nonostante le ostilità del mondo e i tradimenti dei fratelli. Ma anche tale elemento è stato riconosciuto dal Papa, che ben sapeva di dover pagare personalmente il prezzo della propria autentica missione petrina: “A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza…

E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo”. Ci si è giustamente lamentati delle critiche rivolte a Papa Francesco nel corso dell’ultimo decennio; chissà quanti di tali censori hanno anche appreso la lezione di Benedetto XVI e quanti invece a suo tempo furono protagonisti non di generiche critiche ma di vibrante “odio senza timore e riserbo” nei confronti del Papa stesso.

Benedetto XVI doctor caritatis, perché ha riportato alla sua radice il vero senso dell’amore cristiano, contestualizzandolo nelle tensioni del mondo contemporaneo (laico ed ecclesiale), e perché ha incarnato tale amore nonostante l’onda di odio che ne sarebbe derivata dai lupi rapaci. La marginale lettera ai vescovi lefebvriani è un gioiello, perché ricorda che la radicalità dell’amore cristiano si mette alla prova nelle piccole cose, nei dettagli, capaci peraltro di svelare quanto grande possa essere la cattiveria che pur solo nei dettagli si intrattiene. Benedetto XVI, che ha affrontato questa cattiveria senza cedervi e anzi bacchettandola, e che all’avanzata dell’odio ha risposto nell’amore sia pur con una resa delle armi, come il beato Pio IX alla presa di Porta Pia, è per molti aspetti il più autentico dottore, condottiero ed esempio di carità, di quella carità non falsa e non ideologica, della verità carità di cui si sente sempre più la nostalgia dentro e fuori la Chiesa. Carità che è la presenza di Cristo stesso nei cuori degli uomini e non uno slogan ideologico da agitare contro i fedeli coscienziosi e gli uomini di buona volontà. In calce, per i lettori più affezionati dell’Osservatorio, non dimentichiamo mai che la Carità è uno dei quattro valori della Dottrina Sociale della Chiesa, vera chiave di volta che garantisce stabilità definitiva allo sforzo per il bene comune. L’approfondimento di tale principio, nella sua vastità teologica e nella sua proiezione pastorale è dunque tutt’altro che irrilevante per il nostro campo di studi. Precisazioni di tale calibro (mi riferisco al testo pontificio e non alle mie chiose sbrigative) aiuteranno meglio in futuro a rettamente intendere e applicare concetti altrimenti vaghi (se intesi in senso marxisticheggiante) e perniciosi (se intesi in senso gnosticheggiante) come quello di ‘atto d’amore’.
Don Mattia Rosa
Collegio degli Autori - Fonte

18 commenti:

Anonimo ha detto...

Don Georg dice che Ratzinger a suo tempo si dimise perché si sentiva mancare le forze.
Certo si può rinunciare perché si è stanchi e mancano le forze, ma quali sono stati i motivi che rendevano il papato tanto ‘stancante’? Forse il fatto che l’autorità di Benedetto XVI finiva ‘alla porta del suo studio’ come ebbe a dire a causa delle manifeste e occulte insubordinazioni di vescovi e cardinali? Personalmente ritengo che questa dichiarazione del segretario non contrasti con il fatto che Ratzinger può aver rinunciato al solo Ministerium, che è l’esercizio pratico del papato, ma non al Munus, che è la carica spirituale. D’altronde nella Declaratio non aveva detto che avrebbe continuato il suo compito con la preghiera? Inoltre mi sembra che Don Georg abbia battuto il tasto sul motivo della rinuncia ma che non sia entrato nel merito della distinzione Munus – Ministerium (per quello che mi risulta, a meno che non mi sia perso qualcosa).
Certo se fosse possibile, mi piacerebbe però anche fare alcune domande a Padre Georg, domande che sicuramente si sarà fatte e a cui probabilmente delle risposte personali avrà dato (se non le avrà addirittura avute dallo stesso Ratzinger) e precisamente: perché Benedetto ha continuato a portare la veste bianca? Perché si firmava P.P.? Perché è rimasto in Vaticano? Non aveva il timore che tutto ciò avrebbe potuto innescare nei fedeli, come poi in effetti è avvenuto, il dubbio che ci fossero due Papi? Sul fatto che c’è rimasto molto male per la Summorum Pontificum che ha limitato la Messa in latino già sappiamo, ma cosa ha pensato dell’intronizzazione in Vaticano della Pachamama o delle frequenti frasi al limite dell'eresia di Bergoglio?

Anonimo ha detto...

Chissà quante ne sa e non ne può dire. Vedo addensarsi nubi nerissime.
Io spero che vada ad unirsi al numero sempre crescente di veri vescovi cattolici che guideranno l’assalto.

giacomo muraro ha detto...

Il "richiamo all'unità dei credenti" deve escludere l'errore. Ci può essere unità soltanto nella verità. Il dialogo interreligioso e l'ecumenismo sottindendono dei cedimenti da parte dell'unica vera religione, quella fondata da Nostro Signore Gesù Cristo. E questo non potrà mai, mai, mai avvenire. Se i sacerdoti della FSSPX avessero accettato l'esca gettata da papa Benedetto (pace all'anima sua) avrebbero fatto la fine dei Francescani dell'Immacolata.

Anonimo ha detto...


Ancora e sempre con questa distinzione farlocca tra munus e ministerium nell'ufficio papale, che è solo una carica di governo, sia pure su tutta la Chiesa. Non è una "carica spirituale". Che vuol dire, poi, "carica spirituale"? Non vuol dire niente. IL papa possiede una summa potestas o sovranità assoluta sulla Chiesa, un potere reale non "spirituale", un potere di governo - sovranità che non ha più se abdica e apre la sede vacante. Le sue eventuali dimissioni proprio questo significano: che ha deposto quell'unico potere di governo, estremamente concreto, che possedeva in quanto Papa. E quindi non è più Romano Pontefice e non può più dare ordini a nessuno.
Il papato non è un sacerdozio o una forma di ascesi.
È a quel posto il Papa per governare la Chiesa, non per dire Rosari.
La "carica spirituale" che può metterci, nell'azione di governo, è un fatto personale suo, che può esserci o non esserci.

Anonimo ha detto...

Sia come sia il Papa non può tradire Gesù Cristo.

Anonimo ha detto...

Invece Artemide ha fatto capolino nientemeno che nella Messa esequiale di Benedetto XVI Pontefice della Chiesa. Di più: nella Preghiera Eucaristica III recitata dai cardinali Re, Sandri e Arinze durante la consacrazione. E l’errore non sta tanto nel nome, dato che, trattandosi di Messa celebrata secondo la lingua latina, almeno si sarebbe dovuta chiamare con il suo corrispettivo romano, Diana.

È tutto nero su bianco al minuto 1.26.14 della celebrazione di giovedì 5 gennaio. Il cardinale Sandri, sottodecano del collegio cardinalizio prende la parola dopo il cardinal Re, che della Messa di Papa Ratzinger era il celebrante. E con solenne e certo eloquio da latinista invoca: «...in primis, cum beatissima Virgine, Dei genetrice Maria, cum beato Joseph, eius sponso, cum beatis apostolis tuis et gloriosis martyribus, cum sancto Joannes Baptista et Artemide».

La soluzione è in questo capoverso, sveliamo l’arcano grazie alla segnalazione di un attento lettore. L’Artemide a cui ci si riferiva nella preghiera, non era ovviamente la dea della fertilità, inseguitrice di cervi dal piede veloce e saetta infallibile, ma il santo Artemide Zatti, omonimo della figlia di Zeus e Latona, appena canonizzato il 9 ottobre scorso e già finito in cima nell’elenco dei santi da invocare nel momento più solenne della Messa, appena dopo la Vergine Maria, il suo sposo San Giuseppe, gli apostoli, i martiri, ma prima di tutti i santi della Chiesa. Che scalata per il missionario salesiano che dalle rive padane di Boretto si conquistò nella prima metà del ‘900 i galloni della santità nelle lande patagoniche di Viedma dove ancora oggi è venerato: citato in cima ai santi da invocare durante il funerale di un Papa. E che Papa!

..congetture, con un indizio molto preciso. Come detto, Artemide Zatti è stato solennemente canonizzato da Papa Francesco il 9 ottobre scorso e si dà il caso che quella sia stata anche l’ultima celebrazione solenne in piazza san Pietro prima del funerale di Papa Ratzinger. Vuoi vedere che il nome di Zatti è rimasto nei fogli del messale d’altare preparati per la messa di Benedetto XVI dalla Messa precedente e sfuggito ad una revisione attenta dei cerimonieri?

L’indizio si fa prova quando si considera che il Joannes Baptista invocato appena prima di Zatti, non è il “precursore”, ma Giovanni Battista Scalabrini, vescovo emiliano, fondatore delle suore di San Carlo Borromeo e guarda caso, canonizzato sempre il 9 ottobre scorso, proprio insieme al santo argentino. Il sospetto che qualcosa nella preparazione del Messale non abbia funzionato per il verso giusto, è concreto. E con esso anche dubbio che per comodità - diciamo così - si sia utilizzato una parte di messale di un’altra messa, non ad hoc per Papa Benedetto, ma quella che veniva più comoda. L’ultima a disposizione, quella appunto per i due santi emiliani appena canonizzati.
https://lanuovabq.it/it/artemide-un-intruso-al-funerale-di-benedetto

Ehhhh! Sta' a guarda' ar capello..!

Catholicus ha detto...

Un parere inoppugnabile il suo, caro amico, che mi trova totalmente d' accordo. Quanto alla FSSPX, che ammiro da anni, spero non tradisca il suo Fondatore, il cui testamento spirituale era inequivocabile " nessun accordo con Roma, se prima non ritorna cattolica", e tutto è, questo carrozzone bergogliano, fuorché cattolico.

Da Fb ha detto...

La crisi neomodernista è una crisi della Fede mariana.
La perdita di Fede nei dogmi mariani e lo svilimento del ruolo della Vergine hanno portato al disastro

False apparizioni, banalizzazioni e dubbi volontari; come insegna sant'Alfonso, il diavolo dopo aver "cacciato" Gesù da un'anima, si prodiga per spegnere in lei ogni devozione mariana dato che Maria è la sola speranza morale di chi pecca.

Ogni discorso di restaurare la Fede o prende seriamente la Vergine come punto di partenza o è inutile.

Pio ha detto...

Muraro e Catholicus hanno ragione: il tanto decantato ecumenismo, dialogo religioso ecc. sono il grimaldello che scardina la Verità. Ma la porta è stata sfondata da Paolo VI 60 anni fa.

Anonimo ha detto...

Il Seminario di Vicenza, anni '50 contava circa 400 seminaristi e ogni anno ordinava 25/30 Sacerdoti. Oggi nello stesso Seminario ci sono 9 (nove) seminaristi. Con forte arroganza qualcuna osa demenzialmente dire che ieri sbagliavano ed oggi al contrario fanno bene. O sono in mala fede o appunto sono dementi.

Anonimo ha detto...

Che arroganza crassa di fronte a queste cose!
Proprio non hanno voglia di approfondire e studiare. Vanno dove va l’onda.

Anonimo ha detto...

[...]. Ma la porta è stata sfondata da Paolo VI 60 anni fa.

10 gennaio, 2023 20:07
Montini ha consumato lo scisma con la Chiesa di Sempre. Adesso siamo al punto che NON POSSO recitare il Padre Nostro con mia nipote di sette anni.
Le suore lo hanno insegnato con il "NON Abbandonarci [sic!]".
Il Confessore mi ha invitato a fare di "necessità virtù" e prendere la palla al balzo per insegnarlo in latino. Pregate che vada bene .

Anonimo ha detto...

Veramente incredibile l'infortunio, chiamiamolo così, segnalato nel commento delle 9 e 53 del giorno 10.

Si dirà che ci son cose peggiori.

Ovviamente, ci son cose molto peggiori.

Ma queste son quelle piccole cose che ne fan capire altre, più grandi e più profonde: quando non si prende sul serio nulla, neanche la liturgia, neanche i santi del paradiso... be’, è brutto segno!

martina ha detto...

Concordo pienamente. Non è possibile che dopo duemila anni si debba disquisire su questo argomento, come se fosse ancora tutto da scoprire e regolamentare. Purtroppo BXVI, ha aperto una voragine in seno alla Chiesa, ha insinuato un atroce dubbio che ci ha divisi e le dichiarazioni di mons. Gänswein, che a suo tempo, avrebbero dovuto essere chiarificatrici, non hanno fatto altro che alimentare ulteriormente confusione e divisioni. Il papa 'emerito': una brutta ed infelice invenzione di cui non avevamo proprio bisogno!

Anonimo ha detto...

Sant’Alfonso si lamentava di come alcuni sacerdoti celebrassero con sciatteria. Cosa direbbe oggi?

[…] nel celebrare la Messa è necessaria la riverenza e la devozione. È noto che l’uso del manipolo fu introdotto per comodo di asciugare le lacrime poiché anticamente i preti, celebrando, per la devozione non facevano altro che piangere. Già si è detto che il sacerdote all’altare rappresenta la stessa persona di Gesù Cristo […]. Ma […], parlando del modo nel quale dicono la Messa la maggior parte dei sacerdoti, bisognerebbe piangere, ma piangere a lacrime di sangue! È una compassione, diciamo così, vedere lo strapazzo che fanno di Gesù Cristo molti preti e religiosi e anche taluni di ordini religiosi riformati. Si osservi con quale attenzione ordinariamente dai sacerdoti si celebra la Messa. A costoro bene starebbe detto quel che rimproverava Clemente alessandrino ai sacerdoti gentili, cioè ch’essi facevano diventare scena il cielo, e Dio il soggetto della commedia: O impietatem! scenam coelum fecistis, et Deus factus est actus. Ma no, che dico, commedia? Oh che attenzione ci metterebbero questi tali, se dovessero recitare una parte in commedia! E per la Messa che attenzione vi pongono? Parole mutilate, genuflessioni che sembrano piuttosto atti di disprezzo che di riverenza, benedizioni che non si sa che cosa siano, si muovono per l’altare e si voltano in modo che quasi muovono a ridere, complicano le parole colle cerimonie, anticipandole prima del tempo prescritto dalle rubriche; […]. Tutto avviene per la fretta di finire presto la Messa. Come dicono alcuni la Messa? come se la chiesa stesse per crollare o stessero per venire i corsari e non ci fosse tempo di fuggire. Sarà stato due ore a ciarlare inutilmente o a trattare faccende di mondo, e poi tutta la fretta dove la mette? a dir la Messa. E nel modo poi con cui questi tali la cominciano così procedono a consacrare e a prendere tra le mani Gesù Cristo e a comunicarsi con tanta irriverenza come se fosse in realtà un pezzo di pane.

Anonimo ha detto...

Quanti sacrifici immani che bisogna fare per mantenersi puri nella fede.
Avrai un’enorme ricompensa nei cieli.

Anonimo ha detto...

Una piccola cosa rimanda ad un’altra piccola cosa e pian piano diventano montagne.
Solo chi non vuole vedere non vede.

Anonimo ha detto...

Una ciliegia tira l’altra, come diceva la saggezza dei nostri bisnonni.