Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

martedì 7 gennaio 2025

Quando i vescovi francesi condannarono la laicità

Riprendo da Res Novae – Perspectives romaines – Lettera di analisi e di prospettive a cura di don Claude Barthe.

Quando i vescovi francesi condannarono la laicità

Nove mesi prima dell’enciclica di Pio XI, Quas Primas dell’11 dicembre 1925 sulla regalità di Cristo e sul rifiuto dell’ateismo di Stato, l’ACA (Assemblea dei Cardinali e degli Arcivescovi di Francia) l’aveva anticipata condannando la laicità in quanto contraria ai diritti di Dio sulla società. Questo accadde cent’anni fa.

Un episcopato francese in prevalenza intransigente
La Separazione della Chiesa e dello Stato nel 1905 aveva provocato un profondo trauma nell’episcopato francese, che si sentiva privato allo stesso tempo, oltre che dei propri palazzi, anche di gran parte della sua influenza sociale. Tuttavia, mentre sotto il regime concordatario qualsiasi riunione nazionale era vietata, dopo la Grande Guerra poté organizzarsi liberamente un’Assemblea di Cardinali e Arcivescovi, l’ACA[1], con la benedizione di Benedetto XV e poi di Pio XI.

Dal 1919 al 1930, nel periodo che ci interessa, l’episcopato francese era rimasto delineato dalle nomine che san Pio X aveva fatto dopo la Separazione e dalla linea da lui stesso impressa con questi intransigenti in diverso grado, che erano in particolare NNSS Humbrecht (Besançon), du Bois de La Villerabel (Rouen), Ricard (Auch), Dubillard (Chambéry), Castellan (Digne), Monestès (Dijon), Maurin (Grenoble), Durfort (Poitiers), Charost (Rennes), Marty (Montauban), de Cabrières (Montpellier), Penon (Moulins), Bougouin (Périgueux), Nègre (Tours), Métreau (Tulle).

Alla morte di Pio X, l’orientamento dell’episcopato non si trovava più in linea con quello di Roma, rappresentato dal nunzio Cerretti. Il Segretario di Stato Gasparri, facendo leva sulla sacra unione suggellata durante la guerra tra cattolici e repubblicani, volle fare in modo che venissero integrate le direttive del Ralliement di Leone XIII. In concreto, si trattava di assicurare la ripresa delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica francese e la Santa Sede e di concludere con quest’ultima un compromesso accettando le associazioni diocesane, che fornissero una base giuridica alle diocesi francesi, contrariamente a san Pio X, che aveva viceversa esortato l’episcopato a rifiutare le associazioni cultuali (enciclica Maximam gravissimamque del 1924).

La commissione permanente dell’ACA era presieduta da Louis Luçon, arcivescovo di Reims, creato cardinale da Pio X, segretario ne era mons. Chollet, arcivescovo di Cambrai dal 1913, entrambi di tendenza intransigente; mons. Chollet era assistito da Padre Marie-Albert Janvier, domenicano, rappresentante dei cattolici non aderenti alla Terza Repubblica (aveva sbattuto la porta dell’Azione liberale popolare di Jacques Piou).

Ma se ci furono tensioni tra l’ACA – l’accettazione della Repubblica era ben lontana dall’esser fatta propria da molti prelati francesi – e l'accomodamento di Roma, esse non ebbero nulla a che vedere con la condanna della Separazione e della laicità, ritenute entrambe inaccettabili da Pio XI («Noi confermiamo la disapprovazione dell’iniqua legge della Separazione», disse Pio XI nella Maximam gravissimamque).

Nel 1924 la Camera dei Deputati dominata dal Cartello delle Sinistre succedette a quella del 1919, in cui il Blocco nazionale era largamente maggioritario (detto Camera Blu aviazione, alludendo al colore dell’uniforme di numerosi veterani che vi sedevano). Édouard Herriot del Partito radicale, politico tanto colto quanto accorto, nuovo presidente del consiglio dei ministri (14 aprile 1924-10 aprile 1925), predisponendosi a «rispettare scrupolosamente le leggi laiche», volle rompere di nuovo le relazioni diplomatiche, ricominciare ad espellere le congregazioni, abrogare lo statuto concordatario nell’Alsazia-Lorena sottratta alla Germania e ripristinare le leggi sulla laicità nell’insegnamento.

Senza tener conto della linea scelta da Roma, l’ACA scelse quella dello scontro.

«Le leggi sulla laicità non sono leggi»
La dichiarazione «sulle cosiddette leggi di laicità e sulle misure da assumere per contrastarle» del 10 marzo 1925[2], preparata da Padre Janvier, teneva certamente conto dell’enciclica di Leone XIII Au milieu des sollicitudes [In mezzo alle sollecitudini] e se la prendeva con le cattive leggi della Repubblica, non con le istituzioni repubblicane. Ma, sul punto relativo alla laicità, essa attaccava di fatto la matrice della Rivoluzione: «Le leggi sulla laicità sono ingiuste prima di tutto perché contrarie ai diritti formali di Dio. Derivano dall’ateismo e ad esso conducono nella sfera individuale, familiare, sociale, politica, nazionale, internazionale. Implicano una totale ignoranza di Nostro Signore Gesù Cristo e del suo Vangelo. Tendono a sostituire al vero Dio degli idoli (la libertà, la solidarietà, l’umanità, la scienza, ecc.); a scristianizzare tutte le vite e tutte le istituzioni. Coloro che ne hanno inaugurato il regno, coloro che l’hanno consolidato, esteso, imposto, non avevano altro scopo. Di conseguenza, esse sono opera dell’empietà, che è l’espressione della più colpevole delle ingiustizie, così come la religione cattolica è l’espressione della più alta giustizia». Ed enumera quattro complessi legislativi della laicizzazione: la legge sulla scuola, che «toglie ai genitori la libertà loro propria» nello stesso momento in cui inganna l’intelligenza dei bambini, perverte la loro volontà, altera la loro coscienza; la legge di Separazione, che priva la Chiesa dei beni, che erano necessari al suo ministero, «senza contare ch’essa comporta la frattura ufficiale, pubblica, scandalosa della società con la Chiesa, la religione e Dio»; la legge sul divorzio, che «autorizza legalmente l’adulterio»; e l’insieme delle disposizioni, che laicizzino gli ospedali e privano i malati del conforto spirituale, esponendoli ad una morte senza sacramenti.

Giunge poi al cuore della questione: disobbedire ad esse non è soltanto un diritto, bensì un dovere. «Le leggi sulla laicità non sono delle leggi. Sono leggi solo di nome, un nome usurpato; non sono altro che corruzioni della legge, violenze piuttosto che norme, dice San Tommaso[3] […]. Dopo aver rovinato i principi essenziali su cui poggia la società, esse sono nemiche della vera religione, che ci ordina di riconoscere e di adorare, in ogni ambito, Dio ed il suo Cristo, di aderire al loro insegnamento, di sottometterci ai loro comandamenti, di salvare le nostre anime a qualsiasi costo; non ci è permesso di obbedir loro, noi abbiamo il diritto e il dovere di combatterle e di esigerne, in tutti i modi leciti, l’abrogazione».

I prelati francesi, liberati dai vincoli concordatari, rafforzati dal sacrificio di sacerdoti, religiosi e seminaristi durante la guerra, e non ancora imbrigliati dalla condanna dell’Action française, erano chiaramente combattivi, quasi sovversivi.

Le tattiche possibili sono due, spiegavano. «La prima consisterebbe nell’evitare lo scontro frontale con i legislatori laici; nel cercare di tranquillizzarli e di ottenere che, dopo aver applicato le loro norme in uno spirito di moderazione, finiscano per lasciarle cadere in dimenticanza». Ma ciò presenta – proseguivano – delle conseguenze gravi:
«Lascia le leggi in piedi. Supponendo anche che uno o più ministeri ne usino con benevolenza oppure cessino di usarle contro i cattolici, è facoltà di un nuovo governo farle uscire dall’oblio». Gli effetti del laicismo sono provvisoriamente attenuati, ma il principio resta. «Si dirà che un atteggiamento conciliante ci è valso qualche favore speciale. Piccoli vantaggi, se si pensa all’immensa corrente di errore che invade le anime e le trascina verso l’apostasia!». «Le più dannose di queste leggi sono ancora in vigore, indipendentemente dalle intenzioni dei ministeri succedutisi».
«Questa politica incoraggia i nostri avversari, che, contando sulla nostra rassegnazione e sulla nostra passività, si abbandonano ogni giorno a nuovi attentati contro la Chiesa».
Era dunque un’altra tattica ad essere promossa, «più militante e più energica». Essa richiedeva che «su qualsiasi terreno, in qualsiasi regione del Paese, si dichiari apertamente ed unanimemente guerra al laicismo ed ai suoi principi fino all’abolizione delle leggi inique che ne derivano», con «tutte le armi legittime», elencate ancora qui in tre punti, come in una buona predica:

Agire sull’opinione pubblica attraverso una propaganda insistente, in particolare attraverso giornali e conferenze ed anche attraverso «manifestazioni all’esterno». Agire sui legislatori, essenzialmente votando solo per politici contrari alla laicità. La dichiarazione, riferendosi al parere di «uomini seri», rifiutava la tattica di voto del «male minore», che consisteva, in assenza di un buon candidato, nel votare il candidato ritenuto meno peggio.
Agire sul governo, imitare i manifestanti, che «si recano in massa alle porte dei municipi, delle prefetture, dei ministeri», nel rivolgere a coloro che governano proteste, delegazioni, ultimatum e nello scatenare scioperi.

Una preparazione dei percorsi dell’enciclica Quas primas
La dichiarazione dell’ACA suscitò tempeste alla Camera dei deputati. Herriot, interpellato da un deputato del Cartello delle Sinistre circa l’atteggiamento che il governo intendesse assumere, rispose in modo alquanto misurato, ma denunciò in particolare, come fonte ideologica del testo episcopale, la dottrina del Seminario francese di Roma, dove si reclutavano in abbondanza i vescovi di Francia (Herriot si riferiva al suo superiore Padre Henri Le Floch, spiritano, una delle figure di spicco del cattolicesimo integrale). E soprattutto denunciò l’aspetto più sovversivo del testo dei vescovi: «La dichiarazione degli arcivescovi e dei cardinali non dice affatto che si debba riformare la legge, bensì che si debba violarla».

A Roma, il cardinale Gasparri scoprì la dichiarazione dei cardinali e degli arcivescovi leggendola su La Croix. Si può immaginare il suo disappunto. Disse al cardinale Luçon che si rammaricava di non esserne stato informato, deplorando soprattutto il tono “aggressivo” del documento. Tanto il cardinale Luçon quanto mons. Chollet si difesero invocando l’urgenza…

Ma, se la diffidenza di Pio XI nei confronti dei prelati francesi, troppo segnati a suo avviso dallo stile di Pio X, era evidente, il papa, che aveva scelto come motto Pax Christi in regno Christi, condivideva pienamente, sul fondo delle cose, la loro condanna della laicità. Nella sua enciclica Ubi arcano del 1922, affermò che «Gesù Cristo regna nella società quando, rendendo sovrano omaggio a Dio, essa riconosce che da Lui derivano l’autorità ed i suoi diritti» e che non c’era «la pace di Cristo, se non attraverso il regno di Cristo». Il papa riteneva che fosse l’apostasia delle nazioni ad averle condotte al suicidio collettivo della Grande Guerra. La dichiarazione dell’ACA anticipava così i temi dell’enciclica Quas primas, pubblicata nove mesi più tardi, il cui scopo, istituendo una festa annuale di Cristo Re l’ultima domenica d’ottobre, mirava anche alla «peste del nostro tempo, […] il laicismo, come viene chiamato, con i suoi errori e le sue imprese criminali».

Qualunque sia la forma di governo, aveva detto Leone XIII nell’Immortale Dei e diceva ancora Pio XI, «tutti i capi di Stato devono assolutamente avere lo sguardo fisso su Dio, sovrano Moderatore del mondo, e, nell’adempimento del loro mandato, prenderLo come modello e regola. […] I capi di Stato devono quindi tener per sacro il nome di Dio e porre tra i loro principali doveri quello di favorire la religione, di proteggerla con la loro benevolenza, di coprirla con l’autorità tutelare delle leggi e di nulla decretare e decidere che sia contrario alla sua integrità». Pio XI precisava: «I governanti ed i magistrati hanno l’obbligo, come anche i privati, di rendere a Cristo un culto pubblico e di obbedire alle sue leggi».

Bei tempi, quando il magistero del papa e dei vescovi ricordava che l’obbligo per la società politica di rendere un culto pubblico a Dio apparteneva al diritto naturale.

Il «braccio armato» dei vescovi di Francia?
La dichiarazione dell’ACA del 10 marzo 1925 era stata preceduta dalla fondazione, nel febbraio 1924, della Federazione nazionale cattolica (FNC) ad opera del generale Édouard de Castelnau, il più intelligente dei generali del 14-18 secondo i suoi pari, su incoraggiamento di cardinali e arcivescovi. Costituì un potente gruppo di pressione, la cui organizzazione in unioni diocesane, unioni cantonali, unioni parrocchiali, ricalcava quella del cattolicesimo francese in diocesi, decanati, parrocchie. Il suo primo congresso nazionale, gli Stati generali della FNC, sorta di assemblea di tutto il cattolicesimo militante, ebbe luogo precisamente nel febbraio 1925, poco prima della pubblicazione della dichiarazione dell’ACA, che galvanizzò i militanti rientrati nei loro paesi natii. Tutto era ben calcolato. Bisogna dire che ci si trovava in qualche modo in un «circolo ristretto», essendo Padre Janvier anche cappellano della FNC.

Il programma militante dell’ACA venne applicato dalla FNC alla lettera. Le manifestazioni su larga scala si moltiplicarono fino al 1927, specialmente nell’ovest della Francia (50.000 manifestanti ad Angers, 60.000 a Saint-Laurent-sur-Sèvre, ecc.), ma anche nei dipartimenti dell’est, a Tolosa, dove i vescovi non avevano paura di prendere la parola.

Tuttavia, la FNC del generale de Castelnau, che riuniva molte correnti e tendenze, si collocava nel complesso un gradino sotto l’ACA dal punto di vista politico: essa non era certo sostanzialmente democratica come il Sillon di Marc Sangnier, da cui sarebbero usciti i democratico-cristiani francesi, ma non si riteneva nemmeno sovversiva come l’Action française, tanto che quest’ultima all’epoca conservava il suo progetto di «colpo di Stato».

L’AF contribuiva, del resto, alle manifestazioni oceaniche della FNC. Padre Janvier (anche dopo la sua condanna del 1926), e con lui non pochi vescovi, simpatizzavano per il movimento di Charles Maurras, come Pio XI sperimentò amaramente quando lo condannò l’anno successivo. Castelnau, invece, era chiaramente «non Action française». Infatti, aveva abbandonato qualsiasi ambizione politica dopo esser stato deputato durante la legislatura della Camera Bleue horizon, all’interno di quel grande partito liberale e conservatore, che era la Federazione repubblicana.

I vantaggi del processo di rivendicazione avviato dalla dichiarazione degli alti prelati francesi non furono trascurabili, poiché nel 1925 Édouard Herriot fece marcia indietro di fronte a questa pressione proveniente da tutte le Destre: il concordato del 1801 fu mantenuto in Alsazia-Lorena, le relazioni diplomatiche con la Santa Sede proseguirono e le congregazioni religiose, tanto quelle rientrate in Francia dopo la Grande Guerra quanto quelle che non l’avevano lasciata, rimasero.

Ma la Repubblica laica rimase laica. Fino a che punto i vescovi di Francia erano pronti a spingersi con le loro direttive? La dichiarazione dell’ACA del 10 marzo 1925 conteneva un passaggio-chiave, un po’ oscuro, che era curiosamente messo tra parentesi: «(La religione lascia a ciascuno la libertà d’esser repubblicano, realista, imperialista, poiché queste diverse forme di governo sono conciliabili con essa; non gli lascia la libertà di esser socialista, comunista o anarchico, poiché queste tre sette sono condannate dalla ragione e dalla Chiesa. Salvo circostanze particolari, i cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi di fatto per tutto il tempo in cui questi operino per il bene temporale e spirituale dei loro amministrati [il corsivo è nostro]; non è loro permesso dare il proprio appoggio a misure ingiuste o empie assunte dai governi; sono tenuti a ricordarsi che la politica, essendo parte della morale, è soggetta, come la morale, alla ragione, alla religione, a Dio. In modo analogo conviene che si confutino gli altri pregiudizi diffusi nella popolazione)».

L’ACA si pose così nell’alveo di un’ambiguità calcolata: rispettava le direttive di Ralliement di Leone XIII verso il potere repubblicano costituito, semplicemente qualificato come «governo di fatto», ma rendeva possibile il passaggio dalla disobbedienza alle leggi ingiuste alla secessione: i cattolici sono tenuti a servire lealmente i governi «finché questi lavorino al bene temporale e spirituale dei loro sudditi».

Nonostante tutto, la difesa della Città cristiana per questi vescovi si riduceva a generare un gruppo di pressione conservatore. Ed il suo capo, il generale de Castelnau, pur essendo a capo di un movimento considerevole che, in un anno soltanto, era giunto a raggruppare due milioni di cattolici, si accontentava d’esser riuscito a mantenere un nunzio del papa in viale Presidente Wilson, a Parigi. Egli non coltivava, nemmeno sotto forma di utopia, il progetto di istituire uno Stato cattolico.
Don Claude Barthe 
__________________________
[1] L’ACA sussistette dal 1919 al 1964, data in cui lasciò il posto alla Conferenza episcopale francese, CEF. 
[2] Déclaration sur les «lois dites de laïcité» [Dichiarazione sulle «leggi dette di laicità»], La Documentation catholique, no 282, 21 marzo 1925, col. 707-712, e La Porte latine, Quand les évêques de France déclaraient : « Les lois laïques ne sont pas des lois » • LPL [Quando i vescovi di Francia dichiaravano: “Le leggi laiche non sono leggi”].
[3] Somma Teologica, Ia IIæ, q. 96, art. 4.

4 commenti:

Da Padre Pio ha detto...

7 GENNAIO.
Bisogna tenere sempre salde queste due virtù, la dolcezza col prossimo e la santa umiltà con Dio (Epist. III, p. 944).

Anonimo ha detto...

Poi tutto è cambiato e la laicità è diventata un valore positivo! Il tutto nell'ottica dell'autodistruzione che impazza nella neochiesa!!!

Laurentius ha detto...

Oggi, 7 gennaio 2025, Jean-Marie Le Pen è morto.
Pie Jesu Domine, dona ei requiem sempiternam.

Anonimo ha detto...

Vorrei sottolineare come il Cardinal Gasparri, poi Segretario di Stato, non fosse, a ragione, nelle simpatie di San Pio X, e neanche del Card. Merry del Val (Segr. di Stato).
Era considerato giustamente troppo moderato e comprensivo con il movimento e l'ideologia -eretica- modernista, che a inizio novecento stava già alzando la testa.
Figure come la sua aiutano a capire come la mala pianta modernista non sia stata estirpata, in quanto sottovalutata, o, forse, tollerata per ragioni politiche.