Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

lunedì 22 dicembre 2025

L’ultima enciclica antimoderna, che progettava Pio XII

Ringrazio per la segnalazione Res Novae – Perspectives romaines. È bene che si parli del nostro Pastor Angelicus.  Qui l'indice degli articoli dedicati a Pio XII. Troverete sia insegnamenti che notizie sulla sua persona e dul suo pontificato. E, a proposito di un altro schema preparatorio lasciato cadere, in questo caso dell'ultimo concilio, [vedi]. 

L’ultima enciclica antimoderna, che progettava Pio XII

Quattro anni prima del Concilio Vaticano II, nel 1958, un ultimo documento antimoderno, un’enciclica, era in fase di preparazione nei palazzi apostolici. La morte del Papa ne ha interrotto la stesura finale e la pubblicazione. È quanto ha rivelato l’apertura nel 2020 degli archivi del pontificato di Pio XII, da allora consultabili fino al 1958, anno della morte di questo Papa.

Quest’apertura aveva provocato l’arrivo negli archivi vaticani di un nugolo di ricercatori, che pensavano di poter dimostrare le colpevoli debolezze del Pontefice verso il regime hitleriano e che, com’era prevedibile, hanno avuto invece la delusione di trovare tutte prove dell’esatto contrario. Di contro, gli storici seri hanno visto aprirsi vaste prospettive su argomenti di grandissimo interesse.

Si sapeva che Pio XII avesse lanciato nel 1948 la preparazione di un concilio ecumenico, oggetto di importanti lavori sino al 1951. Si trattava peraltro, in modo alquanto caratteristico, non di convocare un altro concilio, bensì di «continuare» quello riunito da Pio IX nel 1869 e che si era dovuto interrompere nel 1870 a causa della guerra franco-prussiana. Ma il progetto fu abbandonato[1].

D’altra parte, generalmente si ignorava quanto riportato già nel marzo 2020 dallo storico tedesco Matthias Daufratshofer. Volendo studiare negli archivi dell’ex-Sant’Uffizio i lavori, che avevano preceduto la proclamazione del dogma dell’Assunzione della Beata Vergine, egli scoprì i testi preparatori, gli schemi, di un’enciclica antimoderna elaborata negli ultimi anni del pontificato pacelliano, che avrebbe sviluppato e precisato la lettera enciclica del 1950, Humani generis, «su alcune opinioni errate, che minacciavano di rovinare i fondamenti della dottrina cattolica»[2].

Due ricercatori, suor Sabine Schratz, OP, dell’Institutum Historicum Ordinis Prædicatorum, e Daniele Premoli (Archivum Generale Ordinis Prædicatorum), si sono dedicati allo studio di questo progetto. Stanno lavorando alla pubblicazione dello schema con le sue successive versioni, che era stato realizzato da una commissione, ed il 3 gennaio 2024 hanno pubblicato un articolo sullo stato dei loro lavori nel Journal of Modern and Contemporary Christianity: «L’Enciclica Pascendi dei tempi moderni. Il progetto per l’ultima enciclica di Pio XII (1956-58)».

Il progetto iniziale: pubblicare un’enciclica nel 1957 per i 50 anni dalla condanna del modernismo ad opera della Pascendi
Nel corso del pontificato di Pio XII non aveva cessato di crescere a Roma la preoccupazione per la diffusione di nuove correnti, chiamate nell’entourage del Papa con la denominazione generale di «Nouvelle Théologie». L’espressione era dello stesso Pio XII e venne utilizzata in un discorso alla Congregazione generale dei Gesuiti il 19 settembre 1946[3], a seguito della quale Padre Réginald Garrigou-Lagrange OP pubblicò sulla rivista Angelicum, nell’ottobre 1946, un articolo, che suscitò grande scalpore: «La nouvelle théologie, où va-t-elle ?» [vedi]. La critica era rivolta soprattutto al fatto che questa Nouvelle Théologie, in nome di un «ritorno» ideologizzato alla teologia dei Padri, denigrava la teologia scolastica (e, attraverso di essa, le formulazioni dogmatiche, che dipendevano grandemente da questa). Parlando di questo nuovo modo di affrontare la dottrina, Humani generis disse nel 1950 che si voleva rimpiazzare «una presentazione sempre più esatta delle verità di fede» con «nozioni congetturali ed espressioni fluttuanti e vaghe».

Roma era particolarmente preoccupata dal fermento teologico, che regnava in Francia. In occasione dell’Assemblea plenaria dei vescovi francesi, che si sarebbe tenuta nell’aprile 1957, mons. Joseph Lefebvre, arcivescovo di Bourges, fatto cardinale da Giovanni XXIII, della stessa famiglia di industriali del Nord di mons. Marcel Lefebvre, s’apprestava a presentare una relazione dottrinale basata sulle risposte ad un questionario inviato a tutti i vescovi francesi[4]. Il rapporto sottolineava come il relativismo, il razionalismo, il naturalismo e l’umanesimo ateo avessero portato ad una «mutilazione della nostra natura», che recideva il riferimento dell’uomo a Dio, poiché idealismo ed esistenzialismo lo richiudevano su sé stesso, mentre il marxismo lo conduceva verso il determinismo ed il materialismo. Da qui, in un certo numero di cattolici, una perdita del senso di Dio, del peccato e della Chiesa ed una serie di deviazioni, che la relazione qualificava come debolezza della fede o errata comprensione della fede, rivendicando il diritto alla libertà personale, ignorando la natura dell’autorità ecclesiastica, separando la Chiesa visibile da quella invisibile, ponendo la Chiesa a margine delle questioni dello Stato e della società, riducendo infine la testimonianza cristiana alla pura interiorità. La relazione parlava di «una sorta di neo-protestantesimo» e del fatto che un certo numero di teologi dipendesse dalle idee dell’epoca.

Ma il rapporto Lefebvre, dopo questa critica al «progressismo», denunciava anche l’«integralismo» di coloro che si ergevano a censori dei vescovi francesi, giudicati troppo deboli di fronte ai teologi, i quali difendevano le nuove posizioni. Accusava sacerdoti e fedeli di lasciarsi andare ad «interventi inammissibili» con cui impartivano lezioni di ortodossia «anche alla gerarchia».

Per questo la relazione Lefebvre non mancò di ricordare la lettera pastorale del cardinale Suhard, arcivescovo di Parigi, intitolata Essor ou déclin de l’Église [Ascesa o declino della Chiesa] e pubblicata nella Quaresima 1947, in cui il cardinale respingeva entrambe le opzioni contrapposte, che ritardavano l’auspicata ascesa ovvero il «modernismo» e l’«integralismo». La relazione Lefebvre aveva peraltro cura di sottolineare come gli errori moderni, ch’egli enumerava, non dovessero essere considerati in modo generico, dato che alcuni vescovi assicuravano addirittura che stessero perdendo terreno e che in ogni caso ci si dovesse guardare – sottinteso rivolto agli «integralisti» – dal «trasformare in un orizzonte nero carico di tempeste le poche nuvole, che si trascinavano in un cielo altrimenti luminoso». Tema, questo, che si ritroverà nel discorso d’apertura del Concilio Vaticano II di Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, dell’11 ottobre 1962 [vedi] , con la celebre accusa rivolta contro questi «profeti di sventura che annunciano sinistri presagi come se la fine del mondo stesse per arrivare».

Questo portò a notare come la situazione del cattolicesimo francese sotto Pio XII preannunciasse ciò ch’essa sarebbe stata all’epoca del Concilio e del post-Concilio. Da una parte un «progressismo» con diverse sfumature: movimento ecumenico, in parte movimento liturgico, questione dei Preti Operai, riviste diversamente affascinate dal marxismo, Esprit, Témoignage chrétien, La Quinzaine, pubblicazione di opere che mettevano in discussione la teologia tradizionale sotto diversi aspetti coi domenicani Congar e Chenu (quest’ultimo ha coniato la denominazione di «scuola di Saulchoir»), col Padre de Lubac, con i gesuiti detti della scuola di Fourvière, e con altri ancora. Sulla sponda opposta si era costituita una sorta di minoranza «integralista», erede del cattolicesimo intransigente, come don Luc Lefèvre, fondatore de La Pensée catholique, don Victor Berto, che sarà il teologo di Marcel Lefebvre durante il Concilio, don Alphonse Roul e Raymond Dulac, Padre Fillère e don Richard, fondatore de L’Homme Nouveau.

Tuttavia, questi ecclesiastici, emarginati in Francia, erano in sintonia col personale teologico del pontificato di Pio XII ovvero i domenicani Réginald Garrigou-Lagrange, Marie-Rosaire Gagnebet, Luigi Ciappi, i gesuiti quali il moralista Franz Hürth, Sébastien Tromp, il francescano Ermenegildo Lio, il religioso stigmatino Cornelio Fabro, il carmelitano Philippe de la Trinité e sacerdoti secolari come Pietro Parente, Pietro Palazzini, Dino Staffa e Antonio Piolanti, che diverrà rettore dell’Università del Laterano nel 1957. Essi costituivano quella che è stata definita la Scuola romana di Teologia, alla quale si rifacevano anche i cardinali Pizzardo e Ottaviani, succedutisi alla carica di Segretario del Sant’Uffizio, Ruffini, arcivescovo di Palermo, Siri, arcivescovo di Genova.

A causa della particolare attenzione riservata dalla Curia a quanto stesse accadendo in Francia, l’imminenza della riunione dell’Assemblea plenaria dell’Episcopato, che doveva fare il punto sulla situazione dottrinale, fece adottare nel 1956 la decisione di riprendere il tema della critica alla Nouvelle Théologie in un documento pontificio. La commissione preparatoria dell’Assemblea dell’Episcopato aveva chiesto una relazione a Padre Paul Philippe, domenicano, commissario del Sant’Uffizio, futuro cardinale. Paul Philippe in una sessantina di pagine collegò al modernismo la Nouvelle Théologie, spiegando che le deviazioni di quest’ultima non avevano il carattere razionalista dell’eresia denunciata dall’enciclica Pascendi nel 1907, ma si presentavano in modo più «mistico» e volevano essere molto ottimistiche. Il cardinal Ottaviani giudicò il rapporto Philippe adatto a servire come base per la preparazione del documento pontificio previsto per il 1957.

I lavori preparatori dell’enciclica (1956-1958)
Pio XII approvò formalmente il progetto nel Natale del 1956. Immediatamente, negli ultimi giorni di dicembre, fu nominata una commissione ad hoc all’interno del Sant’Uffizio (Sant’Uffizio che, dopo il Vaticano II, sarebbe diventato Congregazione per la Dottrina della Fede). Di questa congregazione romana, incaricata della dottrina, all’epoca la più eminente della Curia (chiamata la Suprema), il Papa si riservò la presidenza (essa non aveva un Prefetto, ma era diretta da un Segretario). La commissione non giunse a terminare i suoi lavori entro il 1957 e li stava ancora continuando quando Pio XII morì, nel 1958.

Si riunì una prima volta all’inizio del 1957. I suoi membri erano tra i più eminenti del Sant’Uffizio: i domenicani Paul Philippe, presidente, Gagnebet e Garrigou-Lagrange, tutti e tre vicini al Maestro generale dell’Ordine, Michael Browne, e formavano con lui un quartetto domenicano estremamente influente; i gesuiti, che avevano contribuito alla redazione dell’Humani generis, i Padri Tromp e Bea, quest’ultimo, confessore di Pio XII, cambiò posizione dopo il 1958; il grande mariologo Karlo Balić, cappuccino; il carmelitano francese Philippe de la Trinité e Antonio Piolanti.

La relazione di mons. Joseph Lefebvre, inviata al Sant’Uffizio, divenne, col rapporto Philippe, una fonte disponibile per l’esame che ci si proponeva di fare degli errori dottrinali del momento. La sua critica agli «integralisti» è stata invece giudicata del tutto controproducente.

Il 20 marzo 1958, Padre Tromp presentò un primo progetto, uno schema di 64 pagine, che iniziava con le parole Instaurare omnia in Christo, il motto di san Pio X. Anche Padre Philippe presentò un altro progetto. Entrambi verranno pubblicati da Suor Sabine Schratz e Daniele Premoli.

Nel maggio 1958, il Sant’Uffizio dovette prendere una decisione: tenuto conto dell’importanza dei materiali raccolti dalla commissione, era opportuno pubblicare un documento solo o più d’uno? Il cardinal Ottaviani intendeva riservare la questione delle relazioni tra Chiesa e Stato ad un documento specifico, che era peraltro in preparazione già dal 1950 (Padre Gagnebet ne era il principale artefice) e che mirava di fatto a richiamare la dottrina tradizionale contro le idee anticipatrici della dottrina sulla libertà religiosa di Padre Courtney Murray, gesuita americano, e di Jacques Maritain, il filosofo francese. Il documento del Sant’Uffizio è servito come base, durante la preparazione del Vaticano II, per il capitolo 9 dello schema De Ecclesia preparato dalla commissione teologica e ripreso per l’occasione da Padre Gagnebet[5]. L’intero schema verrà peraltro abbandonato e rimpiazzato da quello, che porterà poi alla costituzione Lumen Gentium. Quanto al contenuto del capitolo 9, questo venne invalidato dalla dichiarazione Dignitatis humanæ. A proposito di tutto il materiale raccolto dalla commissione, Pio XII, informato passo dopo passo dei lavori preparatori, fece sapere di voler pubblicare un testo unico e non più encicliche.

La commissione, ridotta a Philippe, Piolanti, Bea, Tromp, Balić e Gagnebet, si riunì una terza volta il 10 giugno 1958 e formulò delle raccomandazioni che Padre Tromp incorporò nella sua seconda versione dello schema preparatorio. Da quel momento in poi, esso iniziava con le parole: Cultum Regi Regum, Culto del Re dei re. Quest’ultimo schema venne comunicato agli altri membri della commissione il 27 settembre 1958. Ma Pio XII morì dodici giorni dopo, il 9 ottobre. Poiché gli archivi successivi non sono consultabili, non si sa se il progetto di enciclica venne presentato a Giovanni XXIII, ciò che è molto probabile. Ad ogni modo non ebbe seguito.

Il contenuto dello schema Cultum Regi Regum
In realtà, il progetto aveva assunto la forma di una prosecuzione e di un approfondimento dell’Humani generis. Il testo affrontava tutti gli ambiti della vita ecclesiale, morale e sociale, esponendo, cinquant’anni dopo Pascendi, «l’eresia globale della modernità»[6] ovvero l’accettazione di una frattura tra la società e Dio. Lo faceva in sei capitoli:
  1. La natura della religione.
  2. Il culto liturgico e le devozioni private (culto la cui importanza sociale spiegava il titolo che avrebbe ricevuto l’enciclica). 
  3. La teologia morale.
  4. La professione di fede.
  5. Il rapporto tra autorità e libertà nella Chiesa.
  6. Le relazioni tra ordine religioso ed ordine profano
Lo schema dell’enciclica ricordava che la religione è una virtù attraverso la quale l’uomo, riconoscendo l’eccellenza divina, rende culto a Dio creatore e signore dell’intero ordine naturale ch’Egli trascende. Non è una realtà di ordine puramente affettivo ed emozionale, né è l’oppio dei popoli. Il trattamento della questione liturgica, nel secondo capitolo, riprendeva dei temi dell’enciclica Mediator Dei del 1947 e prendeva di mira diversi errori, tra i quali quello secondo cui «la celebrazione di una sola Messa, alla quale assistono religiosamente un centinaio di preti, è la stessa cosa di cento Messe celebrate separatamente da un centinaio di sacerdoti[7]». Lo schema insisteva anche sulla gravità e sul danno sociale derivante dal mancato rispetto della santificazione della domenica attraverso il culto ed il riposo.

Nella parte morale, veniva richiamata la dottrina tradizionale sulla legge naturale e venivano esaminate le questioni più controverse: pericoli del materialismo, tanto comunista quanto capitalista; carattere sovrano del giudizio della Chiesa, la cui autorità è stata costituita da Dio in persona, ciò che le permette di chiarire difficili questioni morali – e di risolvere questioni oggi controverse – come quella del primato della procreazione nella gerarchia dei fini del matrimonio, restando la verginità per il Regno di Dio uno stato più perfetto del matrimonio.

Nel quarto capitolo è stato affrontato il tema dell’ecumenismo, sotto l’aspetto della collaborazione con i cristiani di altre confessioni in opposizione al comunismo ateo. Veniva rilevato il carattere problematico derivante dal metter da parte ciò che separa il Cattolicesimo da tali confessioni, particolarmente per ciò che le ha fondate nell’odio verso la Chiesa. Più in generale, la collaborazione sia pure per fini lodevoli tra cattolici e non-cattolici, benché accettabile in linea di principio, sollevava importanti riserve: «Se un medico in buona salute collabora con un medico affetto da lebbra per combattere la lebbra, onorerà il suo collega, ma più la collaborazione col suo collega sarà stretta, più dovrà stare attento per timore d’esser lui stesso contagiato dalla malattia».

Il quinto capitolo del progetto trattava della relazione tra autorità e libertà ovvero tra magistero e teologi: si può raggiungere il Regno di Dio solo attraverso «la via dell’autorità e dell’obbedienza»; tuttavia quest’ultima, soprattutto dopo la caduta dei totalitarismi in Germania e in Italia, era entrata in crisi, non solo negli Stati, ma anche all’interno della Chiesa cattolica. Cultum Regi Regum riaffermava con forza che il munus docendi, il compito dell’insegnare nella Chiesa, risiedeva unicamente nella gerarchia, costituita dal Pontefice romano e dall’episcopato.

Il testo aggiungeva: «Lungi da noi l’idea di negare che i teologi abbiano una vocazione particolare in seno al Corpo mistico di Cristo, alla quale corrispondono la grazia e la luce dello Spirito Santo. È in effetti a loro che la Sposa di Cristo affida la formazione del futuro clero; sono chiamati dallo stesso sacro Magistero a preparare i documenti dottrinali; spetta a loro approfondire e precisare le decisioni offerte dal Magistero autentico; spetta a loro soprattutto manifestare al mondo la meravigliosa e divina armonia con cui le verità divinamente rivelate s’accordano tra loro e con le diverse scienze umane. È allo stesso modo dovere dei teologi determinare per quale ragione ed in quale misura tali verità siano contenute nel deposito della fede o siano proposte dal Magistero per esser credute e professate; e, di conseguenza, in che senso ed in quale misura sia opportuno definire gli errori contrari. Se i teologi agiscono così sotto la vigilanza dei Pastori, essi non si arrogano in alcun modo la competenza del Magistero, ma contribuiscono grandemente a preservare la purezza della fede».

L’ultimo capitolo del documento, intitolato Ordo religiosus et ordo profanus, era in realtà una sorta di anticipazione del documento preparato dal Sant’Uffizio già dal 1950, di cui si è parlato sopra, in cui si trattava dei rapporti tra le due società perfette (ciascuna delle quali possiede tutto ciò che è necessario al compimento del proprio fine), società distinte ma unite, quali sono Chiesa e Stato[8].

* * *

Pio XII voleva così coronare il suo pontificato con una sorta di grande opera testamentaria, che riprendesse i temi da lui trattati nelle sue varie encicliche e che cercasse di arginare il diluvio, che sentiva arrivare dopo di lui. La nostra allusione alla frase attribuita a Luigi XV, «dopo di me, il diluvio», è intenzionale. L’attività di approfondimento e di difesa dottrinale attraverso una serie di grandi encicliche (Mystici Corporis nel 1943, sul Corpo mistico di Cristo, Divino afflante, pure del 1943, sugli studi biblici, Mediator Dei del 1947 sui principi della liturgia, Humani generis del 1950 sugli errori del nostro tempo), attraverso la definizione controcorrente dell’Assunzione della Beata Vergine in corpo ed anima ed anche attraverso la canonizzazione di Pio X nel 1954, non può non evocare, a parità di condizioni, il tentativo di consolidamento, almeno su un punto, di quello che sarebbe divenuto l’Ancien Régime, quello della giustizia, alla fine del regno di Luigi XV, tentativo interrotto dalla morte del monarca nel 1774.

Non essendo proseguito il concilio Vaticano riunito da Pio IX, è stato con la continuazione della Pascendi di Pio X, che fu accompagnata da un documento del Sant’Uffizio con cui si chiudeva la strada alle tesi che sarebbero divenute poi la dottrina sulla libertà religiosa, che Pio XII avrebbe chiuso il suo pontificato. Ma Dio, nelle misteriose disposizioni della sua Provvidenza, aveva deciso di punire il suo popolo. 
Don Claude Barthe
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[1] Patrick Descourtieux «La preparazione del mancato Concilio ecumenico del 1951 secondo l’Archivio del Sant’Uffizio», al simposio su L’Inquisizione romana. Nuove ricerche, nuove prospettive, 22-24 novembre 2023, atti in corso di pubblicazione.
[2] Kathpress, 10 marzo 2020.
[3] Discorso ispirato ad un articolo di Pietro Parente su L’Osservatore Romano del 1942, «Nuove tendenze teologiche».
[4] Rapport doctrinal présenté le 30 avril 1957 à l’Assemblée plénière de l’Épiscopat Français (edizioni Tardy, 1957).
[5] Traduzione del testo in: Claude Barthe, Quel avenir pour Vatican II?, François-Xavier de Guibert, 1999, pagg. 163-179. J. A. Komonchak, in Giuseppe Alberigo (a cura di), Histoire du Concile Vatican II (1959-1965), t. 1, Cerf, 1997, pag. 336. Si veda anche: Philippe Chenaux, «Maritain devant le Saint-Office: le rôle du père Garrigou-Lagrange, OP», Archivum Fratrum Prædicatorum, Nova Séries, vol. 6, 2021, pagg. 401-420.
[6] Claus Arnold, Giovanni Vian, La Redazione dell’Enciclica Pascendi. Studi e documenti sull’antimodernismo di Papa Pio X, Anton Hiersemann, 2020.
[7] Già negli anni Quaranta apparvero in effetti delle anticipazioni della concelebrazione: preti in cotta e stola, disposti a semicerchio davanti all’altare ove celebrava uno di loro, assistevano alla sua Messa e ricevevano la Comunione dalla sua mano.
[8] Il documento del Sant’Uffizio, così com’era stato introdotto nello schema preparatorio al Vaticano II De Ecclesia, recitava: «Come il potere civile ritiene suo compito provvedere alla moralità pubblica, così, per preservare i cittadini dalle seduzioni dell’errore ed affinché lo Stato sia conservato nell’unità della fede, ciò che è il bene supremo e la fonte di una moltitudine di benefici ivi compreso di ordine temporale, il potere civile può da sé medesimo regolamentare le funzioni pubbliche degli altri culti e difendere i propri cittadini dalla diffusione di false dottrine per le quali, secondo il giudizio della Chiesa, la loro salvezza eterna è posta in pericolo» (Claude Barthe, Quel avenir pour Vatican II?, op. cit., pag. 174-175).

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