Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

venerdì 30 agosto 2013

Giovanni Turco. Positivismo giuridico e positivismo teologico

Non si può continuare a governare la Chiesa con la prassi ateoretica e con la creatività giuridica che sfociano nell'arbitrio e nell'anomia. Se le voci di studiosi e teologi non bastano, parlino anche giuristi, canonisti, filosofi del diritto come in questo caso.

Giovanni Turco insegna attualmente Lineamenti di Filosofia del diritto pubblico, presso l’Università degli Studi di Udine. È socio corrispondente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, ed è presidente della sezione di Napoli della Società Internazionale Tommaso d’Aquino (SITA). È collaboratore di molte riviste scientifiche e autore dei volumi: I valori e la filosofia. Saggio sull’assiologia di Nicola Petruzzellis (L.E.R, Napoli-Roma 1992), Della politica come scienza etica (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012), La politica come agatofilia (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012).

Le recenti vicende dei Francescani dell’Immacolata hanno suscitato una serie di riflessioni di carattere teologico, filosofico, storico e giuridico che vanno al di là del caso specifico e che riguardano la grave crisi oggi interna alla Chiesa. Il contributo del prof. Giovanni Turco, contribuisce in maniera esemplare a chiarire alcuni punti cruciali del dibattito in corso.
Positivismo giuridico e positivismo teologico

1. Sembrerebbe che il commissariamento dei Francescani dell’Immacolata sia una questione interna ad un ordine religioso. Sicché ad essa sarebbero da riservare solo considerazioni puramente fattuali. Come il numero dei dissenzienti rispetto alle indicazioni del Fondatore e Superiore generale. Come l’autorevolezza o il ruolo interno di quanti hanno sollecitato la “visita canonica”. Come le successive reazioni al Decreto di commissariamento. O al più avrebbero interesse riflessioni sulla procedura, sugli antefatti e sugli esiti del provvedimento.

Ora, non è difficile notare che un tale accostamento al problema è del tutto superficiale ed incapace di intenderne la profondità. Infatti, il numero di per sé non è in grado di fornire ragioni. Né la quantità di sostenitori di qualsivoglia tesi costituisce razionalmente un argomento a favore o contro qualcosa. Per quanto riguarda l’autorevolezza dei frati dissenzienti, ci si può chiedere: di quale autorevolezza si tratta? Di autorevolezza morale, di autorevolezza intellettuale, di autorevolezza sociologica? Si potrebbe avere la seconda, senza avere la prima. Si potrebbe avere un’autorevolezza data esclusivamente dal ruolo. Si potrebbe avere un’autorevolezza meramente sociologica, anche sostenuta da un certo seguito (ma eventualmente limitata solo a ciò). In ogni caso, una qualsivoglia autorevolezza non è tale da legittimare intrinsecamente, di per sé, qualsivoglia atto.

Se si trattasse di una mera questione di dissidi interni ad un ordine religioso, la gravità dei provvedimenti adottata dalla Congregazione degli Istituti di vita consacrata – destituzione del Fondatore e Superiore generale ed addirittura imposizione di un divieto di celebrazione della Messa tradizionale (“mai abrogata”, come dichiarato solennemente da Benedetto XVI) – resterebbe incomprensibile. Non solo in relazione all’istanza razionale della proporzionalità tra  pena (inflitta) e colpa (quale?). Ma anche per l’incidenza del provvedimento su diritti propri di ciascun sacerdote.

Anche in questo caso, i fatti non spiegano i fatti. Considerare i fatti senza ricercare la luce dei principi significa precludersi la stessa intelligenza dei fatti. Non ci sono questioni puramente fattuali ed avalutative. A maggior ragione allorché si tratta di problemi che afferiscono al campo della morale, del diritto, della disciplina (ecclesiastica).

In sostanza, ciò che nella vicenda del Commissariamento [vedi] - [vedi anche] dei Francescani dell’Immacolata costituisce un dato che presenta un interesse essenziale, non sono le vicende interne dei Frati (per se stesse, appunto, interne – come in ogni caso analogo – ad una famiglia religiosa), ma il Decreto della Congregazione degli Istituti di vita consacrata (11 luglio 2013, prot. 52741/2012)[1]. La sua lettura pone molti e gravi problemi. Non solo al giurista, ma a qualsiasi fedele. A cui non solo non è proibito – né potrebbe esserlo – porsi domande, ma è profondamente consentaneo alla fede (cristiana), che in quanto tale è rationabile obsequium. Avendo ciascuno – per natura – il dovere (morale) di cercare la verità.

Ebbene, tra le questioni che il Decreto vede emergere, si presenta – come sullo sfondo, o meglio al fondo – quella della sua stessa sostanza giuridica (tanto più che esso pretende di porre nel nulla gli effetti – quanto ai Frati Francescani dell’Immacolata – tanto della Bolla di san Pio V Quo primum, quanto del Motu proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum). Qual è il suo valore giuridico? Su cosa fa leva la sua validità? Deriva, questa, dal suo atto o dal suo contenuto? Può il suo atto sussumere assolutamente il suo contenuto?

Se il Decreto facesse agio semplicemente sull’atto che lo pone (trovando solo in esso la propria consistenza), sarebbe tale da ammettere qualsiasi contenuto, quindi qualsiasi imposizione, e così da presumere ipso facto di legittimarla. Obiettivamente, ed al di là di qualsiasi riferimento alle intenzioni (di chicchessia), ci si troverebbe, allora, di fronte ad una (più o meno implicita) espressione del positivismo giuridico (sia pure, in questo caso, canonistico-disciplinare). Ne emerge una questione che è al contempo giuridica, filosofica e teologica. E che, per se stessa, trascende il “caso” ed ha un rilievo universale.

2. Il positivismo giuridico – come è noto – riduce il diritto alla legge, e questa alla norma. Fa della effettività – cioè, dell’essere posto e dell’essere capace di determinati effetti – la caratteristica essenziale del diritto. Secondo l’espressione di Hobbes, sarebbe l’autorità, anzi propriamente il potere (in atto), a fare sì che la legge sia tale. Non la sua verità. Il diritto sarebbe il risultato del potere, non una determinazione della giustizia. Sarebbe un effetto del volere, non l’intelligenza del dovuto. Insomma, dipenderebbe dall’arbitrio (eventualmente formalizzato e proceduralizzato) del potere, piuttosto che dall’ordine del bene. Nella prospettiva del positivismo giuridico, quindi, non ci sarebbe diritto se non nelle norme e nelle altre deliberazioni del potere (effettivo), a prescindere dal loro contenuto. Il diritto, ridotto all’ordinamento ed ai suoi effetti, non avrebbe alcuna verità in sé. Il suo valore starebbe nel suo vigore. Non viceversa. Il nichilismo (che vi soggiace) lo renderebbe, in ogni caso ed in qualunque campo, strumentale all’esercizio del potere (quale che ne sia il fine).

Non è arduo osservare che il positivismo giuridico vanifica il significato stesso del diritto. Lo svuota di contenuto proprio. Lo fa consistere nello stesso attuarsi del potere di determinare la condotta altrui. Lo rende suscettibile di imporre qualsiasi atto. Pretende (contro ogni evidenza) di renderlo assiologicamente neutrale rispetto alla (sua stessa) finalità.

Benedetto XVI ha chiarito che il positivismo giuridico (esplicitamente o implicitamente tale) è incompatibile con il diritto canonico (e con la giurisdizione che ne deriva). I termini dell’argomentazione sono inequivocabili: “Qualora si tendesse a identificare il diritto canonico con il sistema delle leggi canoniche, la conoscenza di ciò che è giuridico nella Chiesa consisterebbe essenzialmente nel comprendere ciò che stabiliscono i testi legali. […] Ma risulta evidente l’impoverimento che questa concezione comporterebbe: con l’oblio pratico del diritto naturale e del diritto divino positivo, come pure del rapporto vitale di ogni diritto con la comunione e la missione della Chiesa” (Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del tribunale della Rota Romana, 21/1/2012).

Anche nel caso in cui si affermi “una creatività giuridica in cui la singola situazione diventerebbe fattore decisivo per accertare l’autentico significato del precetto legale nel caso concreto” (ibidem), ci si troverebbe di fronte ad una forma di positivismo giuridico. In questa prospettiva – osserva Benedetto XVI – “manca il senso di un diritto oggettivo da cercare, poiché esso resta in balia di considerazioni che pretendono di essere teologiche o pastorali, ma alla fine sono esposte al rischio dell’arbitrarietà” (ibidem).

In definitiva, “il vero diritto è inseparabile dalla giustizia. Il principio vale ovviamente anche per la legge canonica, nel senso che essa non può essere rinchiusa in un sistema normativo meramente umano, ma deve essere collegata a un ordine giusto della Chiesa, in cui vige una legge superiore” (ibidem).

Il diritto canonico, quindi, trova fondamento nel diritto naturale e nel diritto divino positivo. Fa agio sull’ordine della giustizia e del fine ultimo. Non può deliberare ad arbitrio. A maggior ragione, ciò non può non valere per qualsivoglia provvedimento disciplinare. Senza o contro la giustizia, senza o contro l’ordine delle leggi universali della Chiesa, esso risulta obiettivamente privo della sua stessa ragion d’essere, ovvero della sua (intrinseca) validità.

3. Il positivismo giuridico, dal piano filosofico a quello teologico, appare come il sintomo di una serie di ipotesi teoriche, sottese come altrettante premesse remote (e prossime). A ben vedere, come il positivismo giuridico, in quanto tale, assolutizza il potere – qualsiasi potere – il positivismo giuridico-canonistico assolutizza (indistintamente) qualsivoglia potere ecclesiastico. Sicché fa di ogni atto di questi, al di là del contenuto e del fine dello stesso, una sorta di succedaneo della Rivelazione. In questa prospettiva il potere (effettivo) finisce per sostituirsi alla verità di ragione e di fede. Così la Rivelazione sarebbe (implicitamente) considerata sempre in fieri, sempre suscettibile di svolgimento o di mutamento. Il suo contenuto coinciderebbe con le variazioni degli atti del potere ecclesiastico, ridotto inevitabilmente alla sua effettività, ovvero alla sua capacità di imporsi. Qualsiasi atto riferibile ad un qualche tipo di potere ecclesiastico, capace di effettività, risulterebbe, allo stesso modo, impegnativo per chi lo riceve, semplicemente in forza della sua attualità. Al di là della verifica della sua congruenza con principi naturali e rivelati, con la razionalità intrinseca richiesta da qualsivoglia atto di giurisdizione, nonché con la suprema finalità (che è principio finalizzatore del diritto nella Chiesa) della salus animarum. Di fronte a tale genere di atti non resterebbe che l’esecuzione (o l’assuefazione). Qualsiasi considerazione relativa alla loro sostanza, come alla loro natura, al loro grado di cogenza, alla loro coerenza rispetto ad ogni analogo antecedente, costituirebbe una deviazione. Anzi, nessuna iniziativa sarebbe possibile se non in dipendenza di disposizioni positive. Al punto da considerare come delictum lesae maiestatis qualsiasi riflessione su tali atti. Al punto da non distinguere più questioni dottrinali, questioni morali, questioni legislative, questioni disciplinari e questioni pastorali. Anzi, da assimilare le prime alle ultime. La loro realtà sarebbe ridotta al loro apparire, al loro essere percepite, al loro essere interpretate.

Il positivismo giuridico – anche in campo teologico-canonistico – rivela il prassismo di fondo che lo caratterizza. Il primato della prassi, che il positivismo sottende, riduce inevitabilmente, anche in campo teologico, ogni problema ad un problema di prassi. Fino al punto da considerare le eresie, piuttosto che in rapporto alle verità di fede, come opposte deviazioni della prassi (tali da estendersi dalle attitudini soggettive alle attività interpretative). Implicitamente o esplicitamente, esso fa della prassi il criterio della prassi, ovvero esclude qualsiasi criterio che trascenda la prassi stessa. Fino alla identificazione della realtà (anche nel campo dottrinale, morale e sacramentale) con l’effettualità, cioè con il complesso degli effetti (posti). Di modo che l’obbedienza finirebbe per trasmutarsi nel conformismo. E la fedeltà alla Chiesa giungerebbe ad estenuarsi nel sociologismo dell’appartenenza.

Insomma il positivismo giuridico – tanto sotto il profilo canonistico, quanto sotto quello disciplinare e pastorale – sottende una concezione soggettivistica della fede, una rappresentazione evoluzionistica della Rivelazione, una visione carismatica della Chiesa, una impostazione quietistica della vita spirituale. La fede sarebbe svuotata di sostanza intellettuale, per consistere nell’esperienza delle sempre mutevoli indicazioni imposte dalla prassi ecclesiastica. Da essa la Rivelazione ricaverebbe un contenuto in permanente divenire. La realtà divino-umana della Chiesa si identificherebbe con sua effettività sociologica. Al fedele non resterebbe altro che attendere (quietisticamente) gli atti di un volere (ritenuto normativo per se stesso), il cui attuarsi sarebbe vincolante persino nei suoi desideri (manifestati come che sia).

Il positivismo giuridico canonistico-disciplinare-pastorale presuppone il positivismo teologico (oltre che filosofico). In questa prospettiva ogni principio di fede e di morale sarebbe posto, come risultato dell’esperienza e della volontà, individuali o collettive che siano. Come tale, ogni principio (ed ogni criterio) potrebbe essere disposto o riposto. Anche solo per via interpretativa o pastorale. Insomma, come dato del volere, in balia del volere medesimo. Da questo quadro affiorano, evidentemente, i caratteri distintivi del modernismo (analizzato e respinto da san Pio X, con l’enciclica Pascendi, del 1907). Del modernismo che svolge (coerentemente) il soggettivismo in attivismo, e l’attivismo in prassismo (ovvero in una prassi che pretende di essere il metro di se stessa, cioè di non avere alcuna misura che la trascenda).

4. La questione del positivismo giuridico è questione essenziale. Perciò non può essere aggirata, né accantonata. È una questione sostanziale: è una questione di giustizia, quindi è una questione di verità (naturale e rivelata). La (retta) ragione e la fede (autentica) riconoscono che è la giustizia che giudica la giurisdizione. Non viceversa. Una giurisdizione contro la giustizia, nega se medesima e si dimostra ipso facto ingiusta. E non c’è giustizia dove non c’è il riconoscimento della verità delle cose. Dove questa è disattesa, è negata di conseguenza anche la Verità per la quale ogni verità è verità.

Una legge (a maggior ragione, quindi, un decreto) – insegna san Tommaso d’Aquino – può essere ingiusta se contraria al bene umano e se contraria al bene divino. Nel primo caso una legge può essere ingiusta, quanto al fine – perché contraria al bene comune – quanto all’autore – perché questi comanda al di là delle sue prerogative (ultra sibi commissam potestatem) – quanto al contenuto, perché contraria alla giustizia. Nel secondo caso è ingiusta una legge che in qualsiasi modo sia contraria alla legge divina (cfr. S. Th., I II, q. 96, a. 4). La potestà di dare leggi (da Dio partecipata) – prosegue l’Aquinate – non comporta la facoltà di imporre gravami ingiusti (ad quod [de lege quae infert gravamen iniustum subditis] ordo potestatis divinitus concessus non se extendit).

Nessuna autorità ha potere di convertire in giustizia il proprio volere (a prescindere dal contenuto) solo perché tale. Piuttosto ha il dovere di conformarsi alla giustizia – al suum cuique tribuere – donde obiettivamente trae legittimità il suo esercizio. Nessuna autorità può vantare il potere di esercitare una giurisdizione senza subordinarsi alla giustizia. Nessuna autorità – dalla suprema alla infima – può obiettivamente presumere di identificare il proprio volere con il proprio potere. Altrimenti, se lo facesse, eserciterebbe propriamente un dominio, piuttosto che una direzione. Da autorità si ridurrebbe a mero potere. L’esercizio della forza si muterebbe logicamente in violenza. 
                                                          Giovanni Turco
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[Fonte: Corrispondenza Romana]

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1. Nota di Chiesa e post-concilio

CONGREGATIO PRO INSTITUTIS VITAE CONSECRATAE
ET SOCIETATIBUS VIATE APOSTOLICAE 

PROT. N. 52741/2012 

DECRETO 

    La Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e la Società di vita apostolica, attese le considerazioni formulate nella Relazione presentata dal Rev.do Mons. Vito Angelo Todisco a conclusione della Visita Apostolica disposta con decreto del 5 luglio 2012, al fine di tutelare e promuovere l'unità interna degli Istituti religiosi e la comunione fraterna, l'adeguata formazione alla vita religiosa e consacrata, l'organizzazione delle attività apostoliche, la corretta gestione dei beni temporali, ha ritenuto necessario nominare un Commissario Apostolico per la Congregazione dei Frati Francescani dell'Immacolata con le conseguente attribuite dal diritto particolare ed universale al Governo Generale del citato Istituto religioso.
    Atteso che la suddetta decisione il 3 luglio 2013 è stata oggetto di approvazione in forma specifica a norma dell'art. 18 della cost. ap. Pastor Bonus dal Santo Padre Francesco, con il presente decreto si nomina

il Reverendo P. Fidenzio Volpi O.F.M. Cap.
Commissario Apostolico
ad nutum Sanctae Sedis,
per tutte le Comunità e i sodali
della Congregazione dei Frati Francescani dell'Immacolata

Nell'espletamento delle sue mansioni, il Rev.do P. Volpi assumerà tutte le competenze che la normativa particolare dell'Istituto e quella universale della Chiesa attribuiscono al Governo Generale.
Sarà inoltre sua facoltà avvalersi, se lo riterrà opportuno, di collaboratori scelti a sua discrezione e da lui nominati previo assenso di questo Dicastero, a cui potrà chiedere il parere quando lo riterrà necessario.
Il Rev.do P. Volpi ogni sei mesi, dovrà informare questo Dicastero del suo operato, inviando una dettagliata relazione scritta circa le decisioni adottate, i risultati conseguiti e le iniziative che riterrà utili realizzare per il bene dell'Istituto.
Infine, spetterà all'Istituto dei Frati Francescani dell'Immacolata sia il rimborso delle spese sostenute da detto Commissario e dai collaboratori da lui eventualmente nominati, sia l'onorario per il loro servizio.
In aggiunta a quanto sopra, sempre il 3 luglio u.s. il Santo Padre Francesco ha disposto che ogni religioso della Congregazione dei Frati Francescani dell'Immacolata è tenuto a celebrare la liturgia secondo il rito ordinario e che, eventualmente, l'uso della forma straordinaria (Vetus Ordo) dovrà essere esplicitamente autorizzata dalle competenti autorità per ogni religioso e/o comunità che ne farà richiesta. 

Nonostante qualunque disposizione contraria

Dato dal Vaticano, l'11 luglio 2013

f.to Joao Braz Card. de. Aviz
prefetto

+ José Rodrìguez Carballo, O.F.M.
Arcivescovo Segretario  

14 commenti:

Anonimo ha detto...

Osservatore dice,

Ottimo e significativo.

Adesso, il Cardinal de Aviz deve defendersi...

Io penso che dobbiamo domandare la dimissione del Cardinal dal suo posto nella Congregazione, come l'unica pena adatta al suo reato...gli non ha mostrato una goccia di capacità per tale incarico pastorale alto

Epiphanio ha detto...

Con questa illuminante esposizione del prof. Turco viene da chiedersi la ragione per cui i FI hanno seguito "l'andare degli eventi". Hanno accettato seguire la prassi canonica presente per conformarsi ai fatti? Che sarebbe successo se P. Manelli si fosse opposto a questa disposizione ingiusta (tenendo conto dei chiarimenti di prof Turco, ed altri?) Forse l'opposizione a seguiere un ordine giuridicamente positivista avrebbe lasciato, da un'altra parte, in una situazione irregolare la cura delle anime affidate ai FI, cioè avrebbe creato confusione ai più semplici. Sembra che tutto o molto si risolva nell'appartenenza o meno di ciascuno alla cosiddetta "Chiesa conciliare" (mi richiamo a un articolo di Mons. Tissier de Mallerais).

Anonimo ha detto...

Eccolo! dice,

Ecco, secondo Bergolio, Martini è un "padre per tutta la Chiesa"...

http://www.ansa.it/web/notizie/collection/rubriche_cronaca/08/30/Papa-card-Martini-padre-la-Chiesa_9219988.html

così Bergolio mostra che non è capo della Chiesa Cattolica, ma capo della Chiesa progressivista

Anonimo ha detto...

Chi sa dire dove celebra abitualmente Volpi?

Anonimo ha detto...

Cristina Siccardi nel suo intervento ha posto un altro punto importante, citando il messaggio di Volpi ai novizi. (Da Riscossa cristiana 28 agosto)

«Il teologo Von Balthasar in un saggio sulla spiritualità (Verbum Caro) sosteneva che quando una realtà religiosa ed ecclesiale si preoccupa essenzialmente di distinguersi dagli altri ponendo le proprie convinzioni come unica eccellenza a cui fare riferimento, è segno di una chiusura che non può che danneggiare il futuro stesso della Chiesa. Come potrebbe esserlo, aggiungo io, una certa confusione tra i fini ed i mezzi, per cui i testi, i suggerimenti, gli atteggiamenti o le parole dei fondatori potrebbero essere considerati più decisivi dell’insegnamento del magistero quando se non addirittura non degli stessi testi biblici. In questo caso il movimento che si professa ufficialmente come una mediazione verso una forma nuova di evangelizzazione, ne diventa il sostituto».

La faziosità e l’insostenibilità dottrinale del principio deriva da una serie voluta e ben calcolata di omissioni. Si omette di rilevare che, se gli insegnamenti del Padre fondatore, sia esposti come dottrina, sia riverberantesi negli Statuti, fossero stati in contrasto con la dottrina cattolica, la Gerarchia non avrebbe dovuto approvare l’Ordine. Si mette, inoltre, sul medesimo piano la Scrittura ed il Magistero, quasi fossero entrambi fonti della Rivelazione, omettendo di citare, tra le fonti, la Tradizione. Così concepita, la virtù dell’obbedienza, lungi dall’essere strumento di adeguamento alla certissima ed immutabile volontà di Dio, rivelata una volta per tutte, diviene strumento dell’arbitrio del Superiore, ai cui mutevoli capricci sembra tenuto ad adeguarsi ogni monaco.

[..] Nel documento non si riportano fatti, ma tutto è costruito sulle insinuazioni. Sotto i toni delicati, si comprende la volontà matrigna di accorpare questa meravigliosa realtà religiosa – con numerose vocazioni – nel bacino dell’ordinarietà religiosa dei nostri tristi tempi ecclesiali: ciò che palesemente spaventa è la sempre più profonda riscoperta della Tradizione: «Una delle problematiche centrali a mio avviso, viene proprio dalla minaccia di una certa autoreferenzialità, cioè nel desiderio di sottolineare a tutti i costi la propria peculiarità caratterizzante. Ritengo invece prova certa di maturità cercare di superare tale atteggiamento, riconoscendo con spirito umile e francescano l’edificazione della Chiesa come referente ultimo della propria esperienza carismatica». È chiarissima la malafede.
La ricchezza della Chiesa sta proprio nel «carisma»: come ogni figlio di Dio è diverso l’uno dall’altro, così ogni famiglia religiosa della Chiesa deve essere diversa una dall’altra e questa diversità le viene data proprio dal «carisma» del fondatore, come sta scritto nel decreto conciliare sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis al § 2:

Areki ha detto...

Ottimo e chiaro l'articolo del Prof. Turco. Questo articolo mostra chiaramente l'errore di fondo commesso dal Vaticano nella vicenda del commissariamento dei FFI e ci fa capire anche in pratica il grande "bluff" che è la chiesa conciliare con la sua pretesa di cancellare secoli di dogma, di disciplina e di tradizione. E' in pratica un voler mettere l'uomo al di sopra di Dio. Dio non è più la fonte prima del diritto, della legge e del culto, ma il più forte, chi ha il potere.
Il grande errore satanico attuato al Concilio Vat. II e applicato dopo.

Amicus ha detto...

"Ecco, secondo Bergoglio, Martini è un "padre per tutta la Chiesa"...

Di bene in meglio. Allora procediamo col sillogismo: Martini è un padre per tutta la Chiesa (proposizione maggiore); ma Martini era massone (proposizione minore): dunque la 'Chiesa Conciliare' trae la sua ispirazione dai princìpi massonici.

Anonimo ha detto...

Il cattolicesimo che chiedete rappresenta una summa di tutti gli errori preconciliari. Fortunatamente esiste solo nei vostri sogni.

Silente ha detto...

Ottimo, veramente ottimo articolo. Profondo e articolato. La sua essenza sta in questa frase: "Il diritto canonico, quindi, trova fondamento nel diritto naturale e nel diritto divino positivo."
Ma con il cvii il positivismo giuridico "à la Kelsen" è entrato, come fumo di Satana, nella Chiesa, assieme al resto. E' l'autorità che fa la legge, a prescindere dalla Tradizione (che è, invece, imprescindibile fonte normativa).
E se l'autorità confligge con la Tradizione, tanto peggio per la Tradizione, anche se Questa è legge divina.
La dogmatizzazione del cvii, impossibile da un punto di vista del diritto canonico e, soprattutto, della legge divina, nasce da questa applicazione dei principi giuspositivistici.
Il cvii è "vero" e "dogmatico" perché così è stato stabilito. Non occorre dimostrazione.
Quanto tutto ciò sconfini nel relativismo e nell'arbitrio, è ben intuibile.
D'altronde, esempi ben evidenti non mancano nell'applicazione dei principi del positivismo giuridico nella legislazione ordinaria: dal divorzio, all'aborto, all'eutanasia, ai matrimoni omosessuali. La "vocazione totalitaria" del positivismo giuridico è ben illustrata dall'approvanda, famigerata legge "contro l'omofobia".
Come ben rilevato dal Professor Turco, i provvedimenti contro i FI sono solo l'ultimo esempio della penetrazione di questa mostruosità giuridica nella Chiesa. Sono, in punta di diritto canonico, impossibili perché contraddicono un Motu Proprio Pontificio. Ma che importa? E' la legge positiva che fa la legge, non il diritto divino, né la Tradizione, né il diritto precedente.

Anonimo ha detto...

Il cattolicesimo che chiedete rappresenta una summa di tutti gli errori preconciliari. Fortunatamente esiste solo nei vostri sogni.

Quel cattolicesimo non lo chiediamo, lo viviamo. Ed esiste, non è morto col concilio.
Ed è la "Summa" della Tradizione autentica bimillenaria, mentre dal concilio in poi nessun errore è più condannato, tant'è che la Chiesa, da Una Santa Cattolica Apostolica Romana, è diventata un patchwork di nuovi venti di dottrina che non sono altro che il riaffacciarsi di vecchie eresie... e la Rivelazione Apostolica è custodita solo da un pusillus grex.

Gederson Falcometa ha detto...

"Ecco, secondo Bergoglio, Martini è un "padre per tutta la Chiesa"...

Martini è stato un apostata, ma se viene considerato come un Padre per tutta la Chiesa, è perchè doppo la proclamazione del culto dell'uomo tutti pensando essere uguale a Gesù Cristo, e fanno i suoi Vangeli che nella Chiesa conciliare, è diventata un'araba fenice o una sorta di mantra buddista. Se vede Francesco, lui parla, e parla, continua parlando non dice niente di sostanzieale e parla che è Vangelo...

Anonimo ha detto...

Bergoglio porta come esempi Martini e Kasper, nella sua prima omelia da papa ha citato Leon Bloys. Il Giovedí Santo ha centrato l'omelia sul sacerdozio di Aronne e sull'odore delle pecore.
Ha istituito il "consiglio della corona".
Ha un'esperienza e uno stile pentecostali.
Inoltre viene dalla cordata Sodano Re Bertone.
Cosa ci si può aspettare di diverso da quello che stiamo vedendo?

Gederson Falcometa ha detto...

Un'altra cosa da considerare è che - secondo il Padre Garrigou Lagrange - nella Nouvelle Theologie la verità viene definita in funzione della azione. Così quando l'azione cessa, non ha più verità...

Gederson Falcometa ha detto...

L'amore di Bergoglio per i poveri sembra molto simile a quello di Giuda. Quando la moglie ha lavato i piedi di nostro Signore con quello profumo, Giuda si arrabbia, e dice che quello potrebbe essere venduto e il denaro dato ai poveri. Francesco fa qualcosa simile e sembra per lui che i poveri sono solo quello che hanno fame di cibo...