Peregrinatio Summorum Pontificum 2022

giovedì 22 febbraio 2024

P. Pasqualucci. La libertà religiosa della “Dignitatis humanae”, Laico corpo estraneo nel Vaticano II?

In un precedente articolo (qui) si era posto il controverso tema della libertà religiosa e le implicazioni conciliari, mentre in articoli successivi (qui - qui - qui), interessanti oltre che per i rispettivi contenuti anche per le nutrite discussioni suscitate, veniva affrontata la questione della laicità e i rapporti tra Chiesa e stato. Ne riprendo dunque il filo per proporre uno scritto molto esaustivo di Paolo Pasqualucci: l'intero capitolo: La libertà religiosa della Dichiarazione “Dignitatis humanae”, tratto dal libro Unam Sanctam (qui). Si tratta di un testo certamente impegnativo, una vera e propria monografia, con tanto di indice.
Lo propongo anche nella copia in pdf scaricabile qui, per i molti lettori che apprezzano approfondimenti del genere. Si ringrazia l'Editore Solfanelli per aver consentito la pubblicazione.

Indice del cap. XVI
La libertà religiosa della Dichiarazione 'Dignitatis humanae', laico corpo estraneo nel Vaticano II?
da: Paolo Pasqualucci, "Unam Sanctam. Studio sulle deviazioni dottrinali nella Chiesa Cattolica del XXI secolo", Solfanelli, Chieti, 2013, pp. 245-330.

1. Secondo mons. Gherardini, la "Dignitatis humanae" apre la strada all'indifferentismo religioso e morale;
2. | La supposta continuità di DH con la dottrina della Chiesa: gli argomenti del prof. Cantoni; 2.1 Non il Magistero anteriore ma la roncalliana "Pacem in terris" propugnava al nuova dottrina, fissata nell'ambiguo "Proemio" di DH;
3. Una timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna essenziale di DH;
4. La DH "caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale"?
5. L'idea della "libertà religiosa" è storicamente un risultato delle Guerre di Religione e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche;
6. La critica tendenziosa di Spinoza alle Sacre Scritture quale presupposto del concetto di "libertà religiosa"; 6.1 L'immanentismo di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del Sovrannaturale e quindi del miracolo; 6.2 Anche la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non insegnavano come semplici "dottori privati"; 6.3 La predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito Santo; 6.4 Per sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il senso di Mt 10, 19-20 e dell'incipit delle Lettere stesse; 6.5 Per sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune, Spinoza altera li senso di Rm 15, 20; 6.6 diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone una religione di Stato solo "civile", priva di ogni elemento sovrannaturale, incompatibile con il Cristianesimo; 6.7 La vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum regni;
7. Come ha potuto li Concilio "far suo" questo principio della libertà religiosa quale diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo, quale lo Stato moderno? Su quasi basi?;
8. DH 2, che definisce il nuovo concetto della libertà religiosa, appare minata da gravi aporie e propone un concetto contraddittorio di verità, incompatibile con quello di verità rivelata da Dio; 8.1 Quale concetto di verità ci propone la DH? Un concetto non conforme alla Tradizione della Chiesa, perché incompatibile con quello di verità rivelata;
9. La dottrina della "libertà religiosa" affonda le sue radici nella Rivelazione? Dall'analisi dei Testi, non si direbbe;
10 I Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e convertire i Pagani, assai più che per al "libertà religiosa", ed aspiravano ad uno Stato cristiano;
11. La DH salvaguarda l'unicità del Cattolicesimo? La cosa è alquanto dubbia;
12. Quale "diritto naturale" ci propone la DH?
1. Secondo mons. Gherardini, la “Dignitatis humanae” apre la strada all’indifferentismo religioso e morale
Il capitolo più lungo del suo saggio, il prof. Cantoni lo dedica al “caso serio” della libertà religiosa, in relazione allo “sviluppo della dottrina cristiana”271. È un capitolo ricco di lunghe citazioni nel quale viene difesa a spada tratta la nuova dottrina della libertà religiosa propugnata dal Vaticano II, considerata notoriamente tra i punti di “manifesta rottura” con il Magistero precedente da tutti i critici del Concilio. Il testo si trascinò a lungo in Aula provocando aspri dibattiti, come si può facilmente immaginare. Mons. Gherardini, nel suo primo libro sul Concilio, quello sul “discorso da fare”, ha dedicato venticinque fitte pagine di riflessioni a questa famosa Dichiarazione. Il prof. Cantoni non si avventura in una confutazione articolata. Più comodamente, si limita alla sintetica critica nei confronti della libertà religiosa del Vaticano II, contenuta [qui] nell’Epilogo di Quod et tradidi vobis272. Ciò gli è sufficiente per affermare perentoriamente che mons. Gherardini ha affermato cose assolutamente false273. Osserviamo, dunque, attentamente.

Il prof. Cantoni riporta in apertura la critica dell’illustre teologo. Qual è stato l’errore della Dignitatis humanae? Non si è limitata a mantenere “le due immunità che la Chiesa ha sempre difeso”, e che sono: «l’immunità dalla costrizione a pensar ed agir in conflitto con le proprie convinzioni, e quella di esser con la forza impedito di praticar in pubblico o in privato la propria religione». Queste “immunità” appaiono effettivamente “fondate nella persona umana e quindi, in ultima analisi, nella natura stessa dell’uomo”. Cosa ha fatto, allora, il Vaticano II? Ha parlato di queste immunità «in modo non perfettamente corretto. Considerando la libertà religiosa nella cornice del pluralismo contemporaneo, vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie religioni non un male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad ogni Credo pari dignità ed identici diritti [...]. Il diritto d’ognuno all’autodeterminazione diventava così la ragione giustificativa dell’indifferenza di fronte a verità ed errore [...]. Chi ne fa una questione di linguaggio, non si rende conto che l’urto, anziché fra parole di diverso significato, è fra i contenuti dei significati diversi: diversa, insomma, è la sostanza della dottrina. E la diversità è di per sé rottura, non continuità»274.

Questo il pensiero di mons. Gherardini sull’argomento, come riportato dal prof. Cantoni, al quale si debbono le parentesi quadre nel testo. Quest’ultimo postilla: questa Dichiarazione “implicherebbe insomma un’aperta professione di indifferentismo, più volte condannato dalla Chiesa”275. Accusa poi l’illustre teologo di non aver citato la “bibliografia cospicua” sul “tema della continuità della Dignitatis humanae con il magistero precedente”276. Di questa bibliografia riporta in nota un lunghissimo elenco, di due pagine277. Osservo: il fatto che non l’abbia citata, non significa che mons. Gherardini non ne sia a conoscenza. Ma non è questo il punto. Se si legge l’elenco fornito dall’Autore, si nota che si tratta in gran parte di contributi usciti dalle università e dagli istituti pontifici, in genere tesi a dimostrare la validità della vulgata impostasi, ossia la perfetta conformità dottrinale della novità clamorosa di DH con tutto il magistero precedente. Ma i lavori di mons. Gherardini non sono mica tesi di laurea, nelle quali il laureando deve diligentemente elencare tutte le fonti che ha consultato per ben impressionare la Commissione sulla serietà della sua ricerca.

Tralasciando quest’insignificante critica del prof. Cantoni, vengo all’osservazione secondo la quale mons. Gherardini avrebbe il torto di accusare il Concilio di “aperta professione di indifferentismo”. Per la verità, dal passo citato da don Cantoni, non mi sembra che mons. Gherardini accusi il Concilio di aperta professione di indifferentismo, visto che afferma: “chi ne fa una questione di linguaggio non si rende conto etc.”, riferendosi evidentemente allo spirito della DH, che mirava ad emanciparsi dal linguaggio del Magistero anteriore (Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, san Pio X, Pio XII), il quale condannava senza remissione la cosiddetta “libertà religiosa” quale espressione del “diritto d’ognuno all’autodeterminazione”. L’accusa di mons. Gherardini mi sembra più calibrata, anche se la sostanza ultima non cambia di molto: DH insegna una dottrina “diversa”, questo è il punto, che di per sé si dimostra “in rottura” con la tradizione e apre oggettivamente le porte all’indifferentismo. Quanto ne fossero consapevoli i Padri conciliari, è questione a ben vedere secondaria, che non riguarda noi ma la loro coscienza.

Per capire al meglio la critica di mons. Gherardini bisogna però considerare anche la parte tralasciata dal prof. Cantoni. Perché è un errore dottrinale, per i Cattolici, “riconoscere ad ogni Credo pari dignità ed identici diritti”? Perché in tal modo si prevarica nei confronti dell’unica verità: «Il problema della verità veniva così non superato, ma ignorato: verità ed errore indisturbatamente insieme»278. Che cosa si intende qui con “il problema della verità”?

Il fatto che la Verità Rivelata non può esser messa sullo stesso piano dell’errore ossia dei Credi delle religioni non rivelate (sia detto senza offesa per nessuno). E tantomeno quando si vuol far prevalere “il diritto d’ognuno all’autodeterminazione”. Questo “diritto” non può esser più forte del diritto dell’unica Verità rivelata da Dio ad esser professata liberamente e ad esser tutelata nei confronti dell’errore, il che implica che le altre religioni, non vere perché non rivelate, devono esser ammesse (si diceva una volta “tollerate”) subordinatamente all’unica e vera e a certe condizioni, per esempio che i loro precetti non violino i buoni costumi e l’ordine pubblico. E quindi, ammesse appunto come un male da tollerare per esigenze imposte dall’opportunità e dalla carità cristiana. C’è dunque un “problema della verità” in relazione alla “libertà religiosa” e di questo problema il prof. Cantoni non sembra rendersi conto. Della verità che inerisce oggettivamente all’unica e vera religione, imponendo il suo riconoscimento nella società da parte dell’autorità costituita, che non può restar indifferente ad essa, poiché anche sull’autorità costituita grava l’obbligo di conoscere ed attuare la volontà dell’unica vera religione rivelata, la Cattolica Apostolica Romana.

Il prescindere dal problema della verità, comporta per mons. Gherardini anche un’altra conseguenza, estremamente negativa, esposta nel secondo passo messo tra parentesi dal prof. Cantoni. «Questo prescindere dal problema del vero/falso o buono/cattivo scioglieva il soggetto umano dalla sua stessa obbligazione naturale alla ricerca e alla scelta del bene con relativa fuga dal male, alla conoscenza di Dio, all’osservanza della sua legge, almeno nei limiti di quella naturale»279. È un peccato che il prof. Cantoni abbia tralasciato anche questo spunto critico di mons. Gherardini, che mi sembra del massimo interesse. Esso spinge a riflettere su questo dato essenziale: che l’etica e quindi il comportamento morale cui ciascuno di noi è tenuto secondo l’umana natura, non può prescindere dalla ricerca dell’autentica verità in religione, dato che è la religione a fondare l’etica. Tutti i tentativi di fondare l’etica sulla “sensibilità” o sul “sentimento” o sulla “ragion pratica” o addirittura sull’“ utile”, a cosa hanno portato?

Come ho ricordato prima, mons. Gherardini ha dedicato un intero capitolo del suo primo libro sul Concilio al problema spinoso della “libertà religiosa”. Riporto qui alcune sue osservazioni. 1. L’affermazione di DH 9 che la libertà religiosa ha il suo fondamento nella Rivelazione, se non diretto almeno indiretto, non sembra potersi effettivamente appoggiare ai Testi Sacri; 2. «Le considerazioni e gli enunciati [di DH] sulla libertà religiosa fan di essa un principio d’etica sociale, o un puro e semplice monito, indirettamente rivolto a quegli Stati che con la Chiesa stian comportandosi — o si sian precedentemente comportati — come tiranni? Come far pervenire, e soprattutto come render operativo il pensiero del Concilio presso quegli Stati che oggi aman definirsi “laici”, o seguon un certo relativismo morale, o esibiscon un vero e proprio indifferentismo religioso e, per definizione, si pongono al di là — se non contro — ogni affermazione di libertà religiosa?»280; 3. La riduzione della religione “all’esperienza puramente personale” nell’Occidente di oggi (dominato dal relativismo dei valori) non sarà involontariamente dipesa “anche dall’esaltata dichiarazione conciliare DH?”; 4. Perché la Chiesa Cattolica sostiene oggi con tanta sollecitudine come diritto personale e comunitario, fondato sulla Parola di Dio e sulla natura umana, “una libertà di cui ieri non parlò o considerò diversamente”?281. Ricordo, inoltre, che in questo capitolo del suo libro, mons. Gherardini, in un breve excursus storico, mostra come la Chiesa non abbia mai proceduto a conversioni forzate, predicando sin dagli inizi la necessità di una adesione del tutto libera e dichiarando sempre nulle secondo il diritto le eventuali conversioni forzate o i battesimi di figli di non cattolici effettuati contro la volontà dei genitori. Le eccezioni a questa politica furono poche e dovute soprattutto all’errata iniziativa di qualche imperatore, come Eraclio o Carlo Magno. Ma vediamo gli argomenti del prof. Cantoni contro mons. Gherardini ossia la sua difesa dell’interpretazione dominante.
2. La supposta continuità di DH con la dottrina della Chiesa: gli argomenti del prof. Cantoni
Il prof. Cantoni vuole dimostrare la perfetta continuità della nuova dottrina muovendo innanzitutto dalle dichiarazioni della Prima Sedes. Riporta pertanto un lungo passo dell’ormai celebre discorso papale del 22 dicembre 2005, nel quale si fissa il canone della “riforma nella continuità” quale unico criterio valido per interpretare le novità emerse dal Vaticano II. Nel suo discorso, il Papa apporta anche l’esempio del nuovo modo di concepire la “libertà religiosa” da parte della Chiesa. Nel far adesso suo questo “principio essenziale dello Stato moderno”, afferma, il Concilio “ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”. Infatti, secondo il Papa, i Martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede ma anche “per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede”282. Allora la Chiesa, nel coniugare le esigenze della fede con quelle della libertà di coscienza cara allo Stato moderno, si riprenderebbe il suo “patrimonio più profondo”, quello dei Martiri. Commenta il prof. Cantoni: “qui il problema viene reinterpretato in modo nuovo”.

In effetti, non mi sembra che fosse mai stata avanzata da parte cattolica un’interpretazione del genere, che sembra mettere in contraddizione tutta la Chiesa preconciliare con il “patrimonio più profondo” della Chiesa stessa. Non credo si manchi di rispetto al Romano Pontefice se si afferma che queste sue dichiarazioni, rilasciate come dottore privato, dovrebbero essere verificate nel confronto con la dottrina precedente e i fatti della storia, in particolare per quanto riguarda il significato che i Martiri attribuivano alla loro testimonianza. È vero che volevano morire anche per la libertà di coscienza come la intendiamo noi oggi?

Del discorso del Papa, don Cantoni fa un’applicazione rigida, senza verifiche di sorta. Egli ne ricava che “i princìpi non sono forme a priori”, essi devono potersi “innervare al reale in modi e forme sempre nuove e mutevoli”. Ciò vale evidentemente anche per “il tema della libertà religiosa”, che “è un tema di morale sociale”. Infatti, se “i princìpi morali fondamentali sono immutabili, le loro applicazioni possono cambiare in funzione delle situazioni”. E come si evita il pericolo di cadere nella “inaccettabile morale della situazione”283? La morale “della situazione”, lo ricordo, fu un’invenzione dell’Esistenzialismo, ateo e nichilista. Essa sosteneva che la regola morale nasce unicamente dall’esigenza della “situazione” concreta nella quale si trova l’individuo, come vissuta secondo le sue soggettive esigenze vitali, delle quali deve ritenersi l’unico giudice. Ad ogni “situazione” la sua “morale”. L’Esistenzialismo rendeva pertanto impossibile ogni morale degna di questo nome. Il pericolo di cadere in un nichilismo del genere non sussiste, per il prof. Cantoni, perché la “morale della situazione” viene in essere «solo quando si nega la presenza di essenze e nature immutabili e, conseguentemente, l’esistenza di atti “intrinsecamente cattivi”, tali cioè che nessuna motivazione o situazione potrà mai contestarli»284. E la dottrina cattolica, lo sappiamo, ammette di certo sia le “essenze” che gli atti “intrinsecamente cattivi”.

La “morale sociale” (cattolica) lascia dunque un legittimo margine di adattamento a situazioni nuove nel rispetto dei princìpi fondamentali. L’esempio classico in materia è quello del “prestito ad interesse”, nei cui confronti, come è noto, l’atteggiamento della Chiesa è mutato nel corso dei secoli: dalla condanna più radicale si è passati alla sua accettazione, sia pure non incondizionata285. La tipologia della “libertà religiosa” sembra allora assimilabile, per l’autore, a quella del “prestito ad interesse”, in quanto espressione di una “morale sociale” che può adattarsi ai tempi, entro certi limiti.

In parallelo con questa evoluzione nei confronti del modo di concepire il prestito ad interesse, l’Autore, sempre appoggiandosi al discorso del Papa, delinea il mutato atteggiamento della Chiesa nei confronti dello Stato moderno, in passato condannato già per il fatto stesso della sua laicità. «Nella DH la Chiesa formula un giudizio sui doveri dello Stato in materia religiosa, ma lo fa nella consapevolezza che lo Stato, in quanto organizzazione della società, ha cambiato considerevolmente nel corso del tempo, in particolare nell’età moderna»286. Che la forma dello Stato sia “considerevolmente” cambiata “nel corso del tempo”, soprattutto a partire dalla Rivoluzione Francese, non può esserci dubbio alcuno. Ma com’è cambiato, in meglio o in peggio? Citando sempre il Papa, l’Autore sostiene che è cambiato in meglio. Si tratterebbe di un modello di Stato moderno di tendenze più moderate rispetto a quelle apparse nelle “tendenze più radicali” della Rivoluzione Francese; modello quale si vede, ad esempio, nel costituzionalismo americano. Questo tipo di Stato, evidentemente democratico, non sarebbe ostile al Cattolicesimo. Lo dimostrerebbe il fatto che, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, «uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo»287.

La frase è del Papa. A quali uomini di Stato cattolici si riferiva egli? Forse ad Adenauer. O anche a De Gasperi? Ma può effettivamente esistere “uno Stato moderno laico” che tuttavia sia capace di “attingere alle grandi fonti etiche aperte dal Cristianesimo”? E quali sarebbero queste “fonti”? Rispetto per il Cristianesimo e nutrimento spirituale dalle sue fonti si possono trovare presso singole personalità del mondo laico. Ma l’evoluzione o meglio l’involuzione dello “Stato moderno laico”, arrivato oggi a tutelare con legge dello Stato le deviazioni morali e gli orrori che ben conosciamo, non permettono forse di considerare troppo ottimistica la considerazione nella quale il Pontefice sembra tenere lo Stato moderno? Uno Stato per principio senza religione, senza Dio, senza morale, preoccupato quasi esclusivamente del benessere materiale dei suoi cittadini!

Il problema, ben presente a mons. Gherardini, rappresentato dall’attuale, gravissima involuzione dello “Stato laico”, i cui “valori” sono sempre più distanti da quelli cristiani, non tocca il prof. Cantoni. L’accettazione del principio della libertà religiosa da parte della Chiesa è dunque avvenuta sul presupposto di una riconciliazione con lo Stato laico, in quanto capace di non essere “neutro riguardo ai valori”. Questa (supposta) apertura dello Stato laico a “valori” riconducibili in qualche modo al Cristianesimo, permette allora di accettarne certi principi essenziali, quali la libertà religiosa. Così avrebbe ragionato il Concilio. La libertà religiosa è infatti “principio essenziale dello Stato moderno” e la Chiesa, riconciliandosi con quest’ultimo, lo avrebbe adesso accettato, naturalmente non per “canonizzare il relativismo” (che mette tutte le religioni sullo stesso piano), ma per far valere nella società il principio che “la verità non può esser imposta dall’esterno” al soggetto: essa “deve esser fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento”288. È sempre il Papa che sta parlando. Egli mette in guardia dal cadere nell’equivoco di credere che l’adozione del principio della libertà religiosa significhi accedere in qualche modo ad una visione relativistica dei valori, sorgente di indifferentismo per quanto riguarda la religione. Che il Concilio non sia caduto in quest’errore, risulta chiaramente, secondo il prof. Cantoni, già dall’art. 2 di DH, che contiene in pratica le dichiarazioni di principio di tutto il documento. Vi si proclama che “la persona umana ha diritto alla libertà religiosa”. Si tratta di un diritto “che si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana”. In cosa consiste concretamente questa libertà? Nel lasciare del tutto “immuni da coercizione”, da chicchessia esercitata, in modo che “in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza” e “sia impedito ad agire in conformità alla sua coscienza privatamente o pubblicamente”. Inoltre, questo diritto deve esser “riconosciuto e sancito come diritto civile dall’ordinamento giuridico” (DH 2).

Nessuno deve esser costretto ad abiure o conversioni forzate, nessuno deve esser impedito nell’esercizio del culto della sua religione. Affermato in modo così assoluto per tutte le religioni, questo diritto alla libertà religiosa non comporta il livellamento di tutte le religioni, come se fossero tutte uguali? Non c’è pericolo, fa rilevare il Nostro, poiché il Concilio precisa che la libertà religiosa «riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (DH 1, contenente il Proemio). 

Questa “immunità dalla coercizione” in materia di convinzioni religiose, ricorda anche il prof. Cantoni, “ha sempre fatto parte della convinzione e della prassi cattoliche”. La “tolleranza dei culti c’è sempre stata in territorio cristiano”, tranne che per “eretici e scismatici (anche se in modo molto ridotto e differenziato)”, considerati come traditori della fede che andavano puniti (perché, ricordo, oltre a distruggere l’unità della Chiesa, con le loro false dottrine spingevano le anime verso la Gehenna)289. Ma questa “tolleranza” o “immunità”, mi chiedo, era intesa come fondata su di un diritto naturale incoercibile della persona alla libertà religiosa o sulla carità cristiana, unita a semplici criteri di opportunità, che spingevano a concedere una più o meno ampia libertà di culto? È noto che un diritto di quel tipo non veniva affatto riconosciuto dalla dottrina della Chiesa, nemmeno quando Pio XII annoverava tra i diritti fondamentali della persona “il diritto al culto di Dio, privato e pubblico” (vedi infra). Però, secondo il prof. Cantoni, “sul punto”, ossia nella delicata materia della libertà religiosa, “si era innescato uno sviluppo che DH porta consapevolmente a compimento”, come risulta dalle righe finali dell’art. 1 o Proemio: «Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della società ».

Una simile dichiarazione d’intenti già dimostrerebbe, secondo l’Autore, la continuità della dottrina del Vaticano II. Ma qual era questa “dottrina” sui diritti della persona e sull’ordinamento giuridico della società, che il Concilio si proponeva di sviluppare? Si trattava degli approfondimenti in tal senso apportati dai Papi nei decenni precedenti, per difendere l’umanità dall’avanzata dei regimi totalitari, sino alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, abbondantemente citata in nota assieme ad un famoso radiomessaggio di Pio XII. La nuova dottrina sulla libertà religiosa costituirebbe dunque il coronamento della dottrina precedente sui diritti inviolabili della persona.

Da ciò l’Autore conclude che «è dunque assolutamente falso affermare, come fa mons. Gherardini, che: “[il Concilio] vide nella compresenza delle varie e spesso contraddittorie religioni non un male da tollerare, ma un bene da tutelare, riconoscendo ad ogni Credo pari dignità ed identici diritti”»290. In cosa sarebbe consistita “la falsità” di mons. Gherardini? Se il “dunque”, come da sintassi, collega il presente periodo al precedente, la falsa interpretazione consisterebbe nell’attribuire ad una dottrina (quella del Concilio) che porta a compimento la dottrina pontificia più recente sui diritti della persona, il peccato di aver considerato ogni Credo come un bene da tutelare da parte dello Stato. Se ne deve concludere che la dottrina del Concilio sarebbe uguale a quella preconciliare, nella quale non v’è di sicuro l’accettazione di tutti i Credo come un bene da tutelare, perché espressione di un diritto inviolabile della persona alla libertà di coscienza.

2.1 Non il Magistero anteriore ma la roncalliana “Pacem in terris” propugnava la nuova dottrina, fissata nell’ambiguo “Proemio” di DH

Se noi andiamo a controllare la Pacem in terris, che è dell’11 aprile 1963 (mentre la DH è del 7 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio), non troviamo proprio la nuova dottrina al § 8, intitolato, nella traduzione: “Il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza”? Scriveva infatti Papa Roncalli: «Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico»291. Affermazione lapidaria, senza sfumature, che fa parte di un elenco di “diritti” che l’Enciclica vuol riconoscere alla persona in quanto tale. Un diritto “naturale”, per esprimersi con una terminologia tradizionale. “Ognuno” qui è evidentemente ogni uomo, e il culto che egli avrebbe il diritto di esercitare, in privato e in pubblico, non può che riferirsi ad ogni religione esistente sulla faccia della terra. Ma dalla struttura della frase si evince che il fondamento di questo diritto non è costituito dall’appartenenza dell’individuo ad una religione esistente ma dal “dettame della retta coscienza”. C’è l’idea di una scelta della coscienza individuale che deve esser riconosciuta in quanto tale, quale che sia, purché sia “retta”. E quand’è che la coscienza è “retta” nel suo “dettato”, qual è il criterio per stabilirlo? Il testo non lo dice.

Il testo roncalliano prosegue con due citazioni, per dimostrare l’ortodossia dell’affermazione. La prima riguarda un noto passo di Lattanzio, Padre della Chiesa vissuto nel IV secolo; la seconda proviene dall’Enciclica Libertas praestantissimus sulla libertà umana, di Leone XIII, del 1888.

«Infatti, come afferma con chiarezza Lattanzio: “Siamo stati creati allo scopo di rendere a Dio creatore il giusto onore che gli è dovuto, di riconoscere lui solo e di seguirlo. Questo è il vincolo di pietà che a lui ci stringe e a lui ci lega, e dal quale deriva il nome stesso di religione”. Ed il nostro predecessore di i.m. Leone XIII così si esprime: “Questa libertà vera e degna dei figli di Dio, che mantiene alta la dignità dell’uomo, è più forte di qualunque violenza ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora. Siffatta libertà rivendicarono con intrepida costanza gli apostoli, la sancirono con gli scritti gli apologisti, la consacrarono gran numero di martiri col proprio sangue”»292.

Da queste due citazioni, per il modo nel quale sono inserite nel contesto, sembra indubbiamente che sia Lattanzio che Leone XIII propugnassero la libertà religiosa o di culto come “diritto” che deriva dalla natura umana in quanto tale e identico per tutte le religioni. Ma Lattanzio, a quale “Dio creatore” si riferisce? Ad un Dio creatore in generale, deisticamente, o al Dio rivelatosi in Cristo Nostro Signore, al Dio nel quale credono i Cristiani? A quest’ultimo, ovviamente, se solo si pon mente, oltre che a tutta la sua produzione, agli altri passi delle sue Divinae institutiones, per esempio a 4,13,1 nel quale analizza a fondo il rapporto tra il Padre e il Figlio, anche se con gli strumenti di una teologia ancora imperfetta (san Girolamo). E a chiarire in modo definitivo il concetto che il “giusto onore” da rendere al vero Dio è in realtà solo quello che si rende al Dio del Nuovo Testamento, valga quanto scrive in 4, 30, 11 della stessa opera: «Solo la Chiesa Cattolica possiede il vero culto. Qui è la fonte della verità, dove risiede la fede, dov’è il tempio di Dio: e chi non vi sia entrato o l’abbia abbandonato, è escluso dalla speranza della vita [eterna] e della salvezza»293. L’enciclica roncalliana usa pertanto Lattanzio in modo a mio avviso del tutto improprio perché l’Apologeta non riconosce in alcun modo ad ogni uomo in generale “un diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza”, quale che sia la sua religione. Sostiene, al contrario, che l’unico vero culto è quello cristiano perché culto del vero Dio che si è rivelato nella Chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. La religione pagana per lui altro non è che “stoltezza, con la quale questi cultori degli dèi non cessano di affliggerci”294. E vengo alla citazione di Leone XIII. Ancor più della precedente, essa sembra favorevole alla libertà di coscienza in religione uguale per tutti, propugnata da Giovanni XXIII. Ma non si può che restar stupiti da un simile uso del testo leoniano, dato che esso si trova in un documento che è proprio uno di quelli nei quali il riconoscimento di una libertà di coscienza in religione, come diritto naturale di ogni individuo da potersi esercitare illimitatamente sempre e dovunque, viene esplicitamente riprovato! Leone XIII, dopo aver ricordato (contro gli errori di Manichei, Protestanti, Giansenisti, Fatalisti) che la libertà dell’uomo, inerente alla sua dignità di ente razionale creato da Dio, si doveva ammettere ma non si poteva intendere in modo assoluto poiché doveva esercitarsi con il limite di obbedire alla ragione, di perseguire il “bene morale” e di non discostarsi mai dal “sommo fine” proprio dell’uomo (la vita eterna), ribadiva la condanna dell’opinione di chi voleva concepire come “diritti naturali” la libertà di pensiero, di espressione, di insegnamento e di “promiscua religione”. Infatti, scriveva, «se fosse stata la natura a conferire questi diritti, sarebbe allor legittimo ricusare i comandi divini e nessuna legge potrebbe temperare la libertà dell’uomo». Cosa gravissima, evidentemente. Perciò, “questi tipi di libertà” si potevano solo “tollerare”, con la dovuta moderazione, unicamente “si iustae causae sint”, ad esempio per evitare mali peggiori, in certe situazioni295.

Contro la distorsione operata da Pacem in terris 8, bisogna allora restituire alla frase di Leone XIII il suo giusto significato ovvero ricollocarla nel suo contesto, animato da uno spirito ben diverso da quello della Pacem in terris. Dopo aver affermato l’esistenza della libertà dell’uomo, nel senso del libero arbitrio, che lo rende responsabile delle sue azioni, da sottoporre sempre al controllo della ragione, Leone XIII ci rammenta che la nostra ragione deve sottoporsi alla legge naturale, che è di origine divina (lex aeterna), e alla legge umana, “promulgata per il bene comune dei cittadini”. Ciò significa che «la norma e regola della libertà dell’uomo — singolo e in società — deve esser posta integralmente nell’eterna legge divina». Ragion per cui, «la vera libertà non è tale da consentire di far ciò che si vuole [...] ma consiste nel far sì che le leggi possano ancor meglio farci vivere secondo i dettami della legge eterna »296. Ciò stabilito, il Papa viene a «quella [libertà] che è tanto propagandata [oggi], che chiamano libertà di coscienza [quem conscientiae libertatem nominant]: e se la si intende — scrive testualmente — come liceità di rendere o non rendere a Dio il culto come piaccia a ciascuno [ut suo cuique arbitratu], gli argomenti sopra addotti la confutano a sufficienza»297.

Gli “argomenti” risultano appunto dal concetto stesso della libertà dell’uomo, come esposto da Leone XIII, secondo la filosofia cristiana tradizionale, ossia inquadrata nei limiti posti ad essa dalla legge divina e naturale oltre che dal diritto positivo. Poiché la legge divina (lex aeterna) deve sempre esser riflessa dalla legge umana, che disciplina l’uso che l’uomo fa della sua libertà (fondata sul suo libero arbitrio), la “libertà di coscienza” non potrà mai comportare una libertà indiscriminata per tutti i culti religiosi. Lo impedisce la legge divina, che pretende l’osservanza del culto del vero Dio. La “libertà di coscienza” dovrà pertanto essere intesa nel modo giusto. Continua l’enciclica: «Ma dall’opinione appena vista può anche ricavarsi che sia lecito all’uomo in società, seguire e mettere in pratica, con la coscienza di compiere un dovere, la volontà di Dio senza alcun impedimento». Segue la frase citata dalla Pacem in terris: «E proprio questa è la vera libertà, degna dei figli di Dio etc.». La libertà religiosa che è lecito esercitare nella società è quella dei “figli di Dio”, cioè dei Cristiani, che rende l’onore dovuto al vero Dio, non la libertà per tutti ed ognuno di adorare qualsivoglia divinità, in nome di un “diritto della persona” che (in questo senso) il Papa non riconosce in alcun modo, nel prosieguo dell’Enciclica.

La “dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana” che costituirebbe il fondamento della “libertà religiosa” che spetterebbe a ciascun uomo, preesiste alla Pacem in terris, simultanea al Concilio ed ispirata alla stessa mens? Nella nota n. 2 di DH 2, oltre all’enciclica roncalliana, e alla Libertas praestantissimus, ripresa evidentemente sulla scia della Pacem in terris, si rammentano la famosa enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937 di Pio XI e il non meno famoso radiomessaggio di Pio XII, del 24 dicembre 1942, quali ulteriori documenti dei Papi “più recenti”, che avrebbero insegnato la libertà religiosa nel senso di DH. Certamente, Pio XI e Pio XII hanno rivendicato, di contro al totalitarismo nazista e comunista, i diritti della persona umana, fondati sul diritto naturale e divino, ivi compreso il diritto alla libertà religiosa. Ma solo nel testo di Pio XII si può trovare uno spunto che apparentemente anticipa l’impostazione della Pacem in terris. Vediamo.

DH 2 fa riferimento in nota ad una pagina della Mit brennender Sorge nella quale il Papa afferma: «Il credente possiede un diritto irrinunciabile a confessare la sua fede e a praticarla nelle forme confacenti. Leggi che soffocano od ostacolano sia la confessione che la pratica di questa fede, contraddicono la legge di natura»298. Il “credente” (Der gläubige Mensch) non è qui l’uomo in generale ma il Cattolico. L’enciclica riguardava la preoccupante situazione della Chiesa Cattolica in Germania, ampiamente vessata dal regime nazista, che cercava di promuovere una religione “cristiana” nazionale (i “Cristiani Tedeschi”) e sopprimeva le scuole cattoliche, oltre a perseguitare in varie forme il clero per via amministrativa. Dopo aver criticato, con un linguaggio moderato nei toni ma chiarissimo nei concetti, i capisaldi naturalistici e neopagani dell’ideologia nazista, l’enciclica si appellava al diritto naturale per difendere il diritto dei Cattolici a professare e praticare la loro religione e, in particolare, quello dei genitori cattolici a educare i loro figli “nello spirito della vera religione e in accordo con i suoi princìpi e comandamenti”299. L’appello al diritto naturale per giustificare la libertà di professare la propria religione e di educare i figli secondo i principi di questa, riguardava sempre i Cattolici ossia la “vera religione” non tutte le religioni indiscriminatamente.

Vengo ora al radiomessaggio natalizio di Pio XII, effettuato nel bel mezzo della seconda Guerra Mondiale, nel quale egli menzionò, tra le vittime innocenti dell’immane tragedia, anche «le centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento»300. Per giungere un giorno alla vera pace, spiegava il Pontefice, occorreva “ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio”. Seguiva un elenco dei “fondamentali diritti della persona”, che gli Stati dovevano rispettare: «il diritto a mantenere e sviluppare la vita corporale, intellettuale e morale, e particolarmente il diritto ad una formazione ed educazione religiosa; il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l’azione caritativa religiosa; il diritto, in massima, al matrimonio e al conseguimento del suo scopo, il diritto alla società coniugale e domestica; il diritto di lavorare come mezzo indispensabile al mantenimento della vita familiare; il diritto alla libera scelta dello stato, quindi anche dello stato sacerdotale e religioso; il diritto ad un uso dei beni materiali, cosciente dei suoi doveri e delle limitazioni sociali»301.

La frase sottolineata sembra proprio la stessa della Pacem in terris, là ove essa dice: «quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico». Inteso come “diritto fondamentale della persona”, tale diritto sembra effettivamente riconosciuto anche da Pio XII ad ogni persona e quindi ad ogni religione alla quale la persona appartenga. Era proprio questo che voleva dire Pio XII? In base alla terminologia usata, il diritto alla libertà religiosa sembra soprattutto quello dei Cattolici, visto che nel “culto privato e pubblico” viene compresa anche “l’azione caritativa religiosa”, espressione che si riferisce sicuramente alle opere di carità tipiche della Chiesa Cattolica e vessate dal nazismo (per non parlare del comunismo). Il “culto privato e pubblico” è allora quello cattolico, così ben spiegato dal Papa nella posteriore Mediator Dei, del 1947. Anche il linguaggio usato per gli altri riferimenti alla religione nell’elenco dei diritti della persona indica che si tratta della religione cattolica. “Il diritto ad una formazione ed educazione religiosa” della persona (sin dall’infanzia, evidentemente) era espressione tipica per indicare il diritto dei genitori a far avere ai figli un’educazione secondo i princìpi della religione cattolica; diritto, come si è ricordato, conculcato in Germania dai nazisti. Chiarissimo poi il riferimento al solo Cattolicesimo nell’indicazione del “diritto alla scelta del libero stato”, se deve ricomprendere anche il diritto individuale alla scelta dello “stato sacerdotale e religioso” ossia di ognuno ad esser lasciato libero di seguire la vocazione d’esser sacerdote o religioso (monaco conventuale, “frate” nell’uso popolare). Sappiamo quanto le vocazioni fossero avversate nella Germania nazista, per tacere sempre dell’identico atteggiamento della Russia Sovietica. Ma possiamo pensare che, in quel terribile frangente storico, Pio XII volesse rivendicare il “diritto della persona” a professare liberamente la sua religione solo per i Cattolici, tanto più che egli si riferiva ai diritti fondamentali che avrebbero dovuto riconoscersi agli uomini in un mondo che fosse uscito dalla guerra, in un mondo capace di costruire finalmente la pace? E del quale i Cattolici erano solo una parte? Non credo possiamo. E allora Pio XII non sembra contraddire l’insegnamento precedente (di Pio IX, Leone XIII) che, come si è visto, quel diritto non riconosceva? Tanto più che, cinque anni dopo, nella Mediator Dei, egli scrisse che l’uomo ha il dovere di prestare “il debito culto all’unico e vero Dio”, culto che è ovviamente quello della Chiesa Cattolica. Se solo il culto cattolico è rivolto al vero Dio, come poteva egli riconoscere quale “diritto fondamentale della persona” il diritto al culto di Dio privato e pubblico che non fosse quello cattolico? Quanto insegnato nella Mediator Dei non è in contraddizione con il tenore del radiomessaggio?

Così sembrerebbe. Ma a mio avviso il diritto della persona alla libertà religiosa viene inteso dal Papa sempre nell’ambito della religione alla quale la persona appartiene (quella del culto pubblico e privato che egli professa) e non quale manifestazione individuale della sua coscienza o libertà di pensiero, come sembra invece fare Giovanni XXIII, che introduce una significativa variante perché sposta l’accento dal diritto all’esercizio della propria religione (nella quale ci si trova oggettivamente e quasi sempre per nascita) al diritto all’esercizio del culto che si ritiene individualmente preferibile. Nella rivendicazione dei “diritti fondamentali della persona” Pio XII non include la libertà di coscienza e d’opinione, che sappiamo esser intesa dal pensiero laico liberale come il valore assoluto.

Interpretato in questo modo, l’assunto di Pio XII non mi sembra contraddica l’insegnamento anteriore mentre lo stesso non può dirsi con certezza di quello di Roncalli. Si dirà: Pio XII parla di diritto “fondamentale della persona” non di diritto della religione. Vero. Ma la mancanza di qualsiasi riferimento al “dettame della retta coscienza” dimostra che questo “diritto” andava per lui giustificato in base all’appartenenza religiosa, che andava rispettata, anche se l’unica religione vera era quella cattolica, che non poteva esser messa sullo stesso piano di quelle non rivelate. Era l’appartenenza religiosa a giustificare questo diritto, poiché non era giusto perseguitare qualcuno per il solo fatto della sua religione di appartenenza; non era questo diritto a giustificare l’appartenenza. Il senso autentico dell’asserto pacelliano mi sembra dunque il seguente: in quanto persona, ognuno ha il diritto di rendere a Dio il culto privato e pubblico della religione alla quale appartiene, non quello di professare come religione (tutto) ciò che gli detta la coscienza (“retta” fin che si vuole ma sempre individuale e non certo fonte di verità rivelate). Quest’ultimo è appunto il concetto laico della libertà della coscienza, che mette tutte le religioni sullo stesso piano perché le considera tutte false.

L’interpretazione estensiva del radiomessaggio, che sembra esser prevalsa, secondo la quale Pio XII avrebbe già stabilito lo sviluppo nuovo, sancito poi da Giovanni XXIII in Pacem in terris 8, forza il testo, poiché lo sviluppo nuovo è racchiuso proprio nella frase aggiunta da Roncalli, che àncora questo diritto ad una libertà assoluta della “retta coscienza”, sconosciuta a Pio XII, così come lo era ai suoi predecessori. A mio avviso, nel difendere il diritto naturale di ciascun uomo a praticare il culto della propria religione di appartenenza, Pio XII, anche se si serviva dell’espressione moderna “diritto fondamentale della persona”, non si discostava in realtà dallo spirito con il quale san Gregorio Magno, in una lettera al vescovo di Napoli Pascasio, proibiva nell’AD 602 di impedire agli Ebrei di Napoli l’esercizio pubblico e privato del loro culto.

In un famoso sinodo “degli Israeliti di Francia e del Regno d’Italia”, ordinato da Napoleone I nel 1806, Monsieur Avigdor, nizzardo, elevò spontaneamente ed inaspettatamente un ispirato ringraziamento al Papato, approvato all’unanimità dall’assemblea, “per aver protetto Israele durante la servitù di diciotto secoli tra le Nazioni”. Dopo aver ricordato come i più celebri “moralisti cristiani” antichi avessero sempre proibito le persecuzioni e professato la tolleranza e la carità fraterna (faceva i nomi di sant’Atanasio, san Giustino martire, sant’Agostino, Lattanzio, san Bernardo), egli si profondeva nell’elogio dei Pontefici Romani, i quali, diceva, “hanno protetto e accolto nei loro Stati gli Ebrei perseguitati ed espulsi da varie parti d’Europa”, e degli “ecclesiastici di ogni paese che li avevano spesso difesi in vari Stati di questa parte del mondo”, contro i Cattolici troppo zelanti o contro le plebi, quando li volevano massacrare. Seguiva un lungo ma incompleto elenco di nomi di Pontefici, a partire da san Gregorio Magno302.

Perché ho voluto ricordare questi precedenti storici, oggi forse ignorati dai più? Per arrivare a questa riflessione: il culto ebraico, pubblico e privato, non era certo considerato culto al vero Dio, come quello cattolico. E tuttavia era ammesso ed anche protetto dal Papa. Se diciamo che era solo “tollerato”, cosa cambia? Era ammesso solo sulla base dello spirito di carità e per la futura conversione di Israele o sulla base di un riconoscimento, anche tacito, di un diritto, per forza di cose naturale, degli Ebrei a celebrare la religione nella quale nascevano ed erano stati educati, anche se notoriamente ostile alla nostra? A mio avviso, il riconoscimento implicito di un diritto c’era, così come c’era nella dichiarata nullità canonica del Battesimo dei figli degli Acattolici somministrato contro la volontà dei loro genitori. Qui, non si riconosceva il diritto naturale dei genitori sui propri figli, per ciò che riguardava anche l’educazione religiosa? Ora, il riconoscimento, sia pure implicito, di questo diritto non impediva l’esistenza di limitazioni al suo esercizio. Le feste religiose ebraiche non erano certo riconosciute come festività e il Sabato non era certo considerato giorno di festa. C’erano poi altre restrizioni di carattere pubblico. Similmente, esistevano restrizioni giuridiche (a prescindere dalla loro effettiva applicazione) nei confronti degli Ebrei per ciò che riguardava i loro rapporti con i Cristiani. Ma le restrizioni all’esercizio del culto non contraddicevano il riconoscimento (implicito) alla titolarità di questo esercizio come titolarità di un diritto naturale? Si può pensare che vi contraddicessero solo se si ha una concezione assoluta della libertà religiosa, come diritto della persona ad una libertà di coscienza che non tollera alcun effettivo limite al suo esercizio. Fino al Vaticano II, questa concezione non è mai stata accettata dalla Chiesa Cattolica. Il diritto fondamentale alla libertà di culto proposto da Pio XII mi sembra, pertanto, compatibile con la distinzione tra titolarità del diritto e suo esercizio, non sopprimibile questa titolarità ma gravata dalla possibilità di restrizioni al suo esercizio nei confronti dell’esercizio dell’unica e vera religione rivelata, quella Cattolica. La proposta di Pio XII sembra limitarsi a formulare l’obbligo per lo Stato di non perseguitare nessuno per la sua religione di appartenenza, non quello di considerare tutte le religioni meritevoli di un’uguale tutela, in nome della libertà individuale di coscienza, come farà poi il Vaticano II.

Dopo aver chiarito quest’aspetto, torniamo alla cantoniana apologia della continuità della nuova dottrina.
La dottrina dei sommi pontefici “più recenti” (del solo Pio XII) si dimostra dunque solo in apparenza conforme a quanto proposto poi dal Concilio. Fa eccezione la Pacem in terris ma con essa siamo già alla dottrina nuova, al Concilio. Ma la fedeltà al deposito della fede sarebbe comunque garantita, secondo il prof. Cantoni, dalla Professione di fede contenuta nel Proemio di DH, da me già ricordata (vedi supra). Una dichiarazione di intenzioni non è di per sé sufficiente a garantire l’ortodossia di una dottrina che si presenti come nuova, poiché bisogna comunque e sempre analizzarne il contenuto commisurandolo con la dovuta acribia alla dottrina tramandata. E proprio da questa analisi risalta l’ambiguità di DH 1.
«DH dichiara piuttosto, anzi “il sacro concilio anzitutto professa [profitetur]” — e l’espressione è di particolare gravità e importanza — che: “[...] Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo divenire salvi e beati. Crediamo che questa unica vera religione sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli Apostoli [segue il testo di Mt 28, 19-20]. E tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa, e una volta conosciuta abbracciarla e custodirla”»303.

I motivi di perplessità che questo testo solleva sono molteplici: 1. Ricorda che Cristo è “la via” ma non dice che è “l’unica via”, come forse avrebbe dovuto; 2. il “possono in Cristo divenire salvi e beati” è in realtà nell’originale “possano” (possint), che nella versione francese, per motivi grammaticali, diventa “potrebbero”; 3. “l’unica e vera religione” è sempre quella di LG 8 e UR 3, che “sussiste” nella Chiesa Cattolica e nelle “Chiese e comunità” degli Acattolici, tant’è vero che il testo non dice che sussiste “unicamente” nella Chiesa Cattolica, avverbio che suggerirebbe la doverosa esclusione degli Acattolici; 4. la “Chiesa di Dio” è sempre la “Chiesa di Cristo” che sussiste nella Chiesa Cattolica e presso gli Acattolici, come si è visto. Il Concilio, nonostante l’uso del “profitemur” non sembra affatto esprimersi con la gagliardia di una vera professione di fede. L’espressione “profitemur” potrà anche apparire al prof. Cantoni “di particolare gravità ed importanza” ma resta il fatto che essa si traduce in una “professione” di fede che usa il congiuntivo o il condizionale, immergendo il tutto nell’aura incerta della possibilità, offerta per di più da una Chiesa di Cristo che “sussiste” nella Chiesa Cattolica nel modo che sappiamo cioè non integralmente.
3. Una timida critica del prof. Cantoni al Concilio, che coglie tuttavia una lacuna essenziale di DH
Anche i suoi difensori ed apologeti rilevano che DH sembra accontentarsi di uno Stato “assolutamente neutrale” in materia religiosa, cosa lontana dalla realtà. E in pratica impossibile, «perché “l’evangelizzazione integrale” comporta anche l’evangelizzazione della società e quindi, come risultato, anche dello Stato». E “l’evangelizzazione”, mi chiedo, può non essere “integrale”? Può trascurare la salvezza dell’anima di una sola “pecorella smarrita”? Lo stesso Proemio della DH, appena citato, non dice forse che permane intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere “delle società” nei confronti della vera religione?304

Dovere di fare che cosa, mi chiedo: il Concilio non avrebbe potuto essere più esplicito? E dovere “delle società” o anche dello Stato? I due concetti non sono identici, indicano realtà strettamente connesse ma non uguali. Se lo Stato diventasse cristiano, osserva il prof. Cantoni, non potrebbe comunque mai applicare la coercizione in materia religiosa, «perché il principio della non-coercizione in materia religiosa, è un diritto naturale, che uno Stato cristiano è tenuto a rispettare»305. Tant’è vero che la DH si è voluta cautelare in questo senso, affermando addirittura che se in una determinata società «viene attribuita ad un determinato gruppo religioso una speciale posizione civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutti i gruppi religiosi venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa» (DH 6.3). Come a dire: se la Chiesa Cattolica venisse nuovamente riconosciuta come religione dello Stato italiano, questo riconoscimento non dovrebbe mai danneggiare “il diritto alla libertà in materia religiosa” delle altre religioni riconosciute dallo Stato. E poiché “il potere civile” deve far sì che “l’uguaglianza giuridica dei cittadini non sia mai lesa per motivi religiosi”, bisogna che non ci siano “discriminazioni” per questi “motivi” (DH 6.4). Che cosa può significare un asserto del genere, se non che tutte le religioni esistenti nello Stato italiano avrebbero diritto agli stessi privilegi eventualmente concessi alla religione cattolica, che, oltre ad essere l’unica vera, è parte integrante della nostra identità nazionale da circa due millenni? Il centurione Longino, originario di Lanciano, che per dovere d’ufficio trafisse con la lancia Nostro Signore morente sulla croce, ricevendone in viso uno spruzzo di sangue che lo guarì da un difetto alla vista, secondo una consolidata tradizione si fece cristiano. E i primi pagani in assoluto a farsi cristiani non furono il centurione Cornelio e altri componenti della Coorte “detta l’Italica” di stanza a Cesarea Marittima in Palestina, composta di volontari italici (Atti 10, 1 ss.)? 

Il principio generale che risulta da DH 6 mi sembra oggettivamente ostile al Cattolicesimo perché impedisce ad uno Stato di diventare cristiano. Esso costituisce una pietra d’inciampo posta alla conversione. Infatti, se lo Stato deve sempre rispettare il supposto inviolabile diritto naturale di ogni singolo e comunità religiosa ad esercitare il proprio culto senza restrizione alcuna, non potrà mai diventare cattolico dato che il vero Cattolicesimo non può ammettere un “diritto naturale” concepito in modo da non poter distinguere tra il diritto dell’unica vera religione ad esser professata e quello delle altre. L’intrinseca superiorità della vera religione implica “discriminazioni” a sfavore delle altre, pur ammesse, quando si tratti del loro esercizio. Si ripropone pertanto in termini contraddittori il problema del rapporto tra “verità” e “libertà”, lucidamente messo in rilievo da mons. Gherardini (vedi supra, § 1 del capitolo). Come ha osservato di recente uno studioso citato dal prof. Cantoni, «è un difetto di questo testo conciliare che non sia andato sino in fondo nella sua problematica, astenendosi dall’affrontare la temibile questione dei doveri dello Stato nei confronti di Dio»306.

Ma perché il Concilio “non è andato sino in fondo”, tralasciando una questione così importante? Esso ha scritto che “le società” hanno il dovere di ricercare in coscienza il vero Dio ma non ha avuto il coraggio di proclamare questa verità anche per lo Stato. Ciò che vale per “le società” non vale anche per gli Stati cioè per le classi dirigenti e di governo, per le leggi che esse fanno? In realtà, mi sembra che la minoranza progressista che ha menato le danze in Concilio sia rimasta coerente con sé stessa. Data la prevalenza che si è voluta concedere alla libertà della coscienza, intesa come diritto naturale, per logica conseguenza lo Stato, vincolato al rispetto assoluto di questo diritto, doveva restare neutrale e relegato nel ruolo di “guardiano notturno” per quanto riguardava la libertà di coscienza. Se si fosse detto che anche lo Stato aveva il dovere di ricercare il vero Dio, sarebbe stato come dire che aveva il dovere di farsi cristiano, visto che per un Concilio ecumenico della Chiesa Cattolica “il vero Dio” non può che essere la Santissima Monotriade. E uno Stato cristiano, pur ammettendo l’esercizio di culti diversi, non può certamente metterli tutti sullo stesso piano della religione cristiana, che è la vera ed unica e come tale da esso professata. Uno Stato cristiano, come è avvenuto in passato, farebbe prevalere la “verità” (della Rivelazione) sulla “libertà” (della coscienza individuale). Esiste quindi “un limite” in DH, riconosce il prof. Cantoni: «limite ma non errore. La contemporanea insistenza del magistero sulle radici cristiane dell’Europa tende a superarlo»307. Questo “limite” non è dunque “un errore”? Forse in sé non lo è, ma a mio avviso deriva da un errore, quello di voler concepire come diritto naturale inviolabile della persona il diritto alla libertà religiosa per tutte le religioni. Diritto assoluto, di fronte al quale lo Stato deve inchinarsi, rinunciando così a priori alla propria eventuale conversione a Cristo! 

Che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano tentato di “superare” questo limite, cercando di far inserire nei princìpi fondamentali della Costituzione dell’Europa Unita la clausola sulle “radici cristiane” del nostro continente, è senz’altro vero. Ma ogni tentativo è fallito, come ben sappiamo. L’ideale dello Stato cristiano, cacciato dalla porta ad opera del Concilio, non poteva rientrare dalla finestra, mediante la Costituzione dell’Unione europea. Ed era inevitabile che fosse così, se si guarda al contenuto ultralaico ed anticristiano dei princìpi fondamentali di questa Costituzione: al di là della retorica umanitaria e solidaristica essi codificano il materialismo e l’edonismo spinto oggi dominanti nelle nostre società atee e miscredenti. La menzione delle “radici cristiane” in un documento del genere sarebbe stata a dir poco fuori posto.
4. La DH “caso tipico moderno dello sviluppo dottrinale”?
Nonostante l’ammissione di questo (grave) “limite” della DH, che comporta di per sé la messa in ombra di un aspetto essenziale della dottrina della Chiesa sui rapporti tra il potere civile e la religione, il prof. Cantoni vuol presentare la DH addirittura come un “caso tipico” dello “sviluppo dottrinale che caratterizza il magistero cattolico”: altro che “rottura” con la Tradizione della Chiesa! A questo proposito, nella seconda metà del capitolo, riespone sinteticamente la dottrina del cardinale Newman sul concetto di “sviluppo” ortodosso del dogma, con i tradizionali richiami al Lerinense e a san Tommaso308. Secondo l’Autore, la dottrina newmanniana permetterebbe di contemplare anche una “discontinuità”, purché appunto in armonia con la dottrina di sempre. Ora, quest’esposizione riassuntiva dell’idea dello “sviluppo dottrinale” non mi sembra interessi tanto di per sé. Interessa vederla all’opera ossia vedere se essa possa applicarsi al Concilio. In altre parole: con il ricorso a Newman riusciamo a dimostrare che la nuova dottrina proposta dal Concilio sulla libertà religiosa è conforme al Deposito della Fede? 

Il riscontro l’abbiamo nell’interpretazione della condanna di Pio IX della moderna libertà religiosa nell’enciclica Quanta cura309. Si concilia il dettato di Pio IX con quello del Vaticano II? La conciliazione l’Autore, richiamandosi espressamente ai contributi di teologi contemporanei, la vede nel fatto che Pio IX non avrebbe condannato lo stesso diritto oggetto invece della tutela di DH. Egli avrebbe condannato l’erronea concezione della libertà religiosa intesa come “diritto individuale dell’assolutismo liberale”. Pio IX avrebbe condannato il diritto che risultava dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, avrebbe condannato il 1789, la Rivoluzione Francese, non il vero diritto naturale alla libertà religiosa310. Egli lottò contro il “liberalismo indifferentista e laicista”, che non era (secondo il prof. Cantoni) quello di cattolici liberali come Montalembert e Acton311. Ragion per cui, «non ha senso affermare che Pio IX ha condannato la libertà religiosa così come la concepisce la Dignitatis humanae e come si andava affacciando alla storia attraverso la vicenda degli Stati Uniti d’America, perché all’epoca la democrazia americana era ancora, secondo la colorita espressione di Joseph de Maistre, “un bambino in fasce” »312. Non la Tradizione della Chiesa per la Chiesa, dunque, ma il modello americano, di una democrazia che pone il diritto alla felicità terrena, materiale dell’individuo tra i suoi princìpi fondamentali e in quest’ottica concepisce la “libertà religiosa”!

Pio IX non avrebbe dunque condannato la vera libertà religiosa ma solo la concezione deformata che ne avevano certe correnti liberali, che riflettevano le componenti estreme della Rivoluzione Francese. Non solo, la corretta visione della libertà religiosa, adottata dal Concilio, farebbe tesoro dell’esperienza della democrazia americana. In questa sua conciliazione degli opposti (le condanne di Pio IX e la laica libertà religiosa), l’Autore segue una tendenza oggi prevalente nella pubblicistica cattolica. Dove si riscontra un’evidente incompatibilità con la dottrina della Chiesa, si cerca di dimostrare che si tratta di conflitto apparente o di equivoci. Così, nei confronti di Pio IX, e dei suoi fulmini contro la libertà di coscienza nella religione, si cerca di dimostrare che egli ha condannato un diverso modo di concepire quella libertà o semplicemente il suo esercizio. A mio avviso si tratta di distinzioni di lana caprina: la libertà religiosa propugnata in nome della libertà di coscienza riconosciuta dalla Rivoluzione Francese non è meno assoluta, in quanto principio, di quella esaltata dalla Rivoluzione Americana. Entrambe presuppongono che il fondamento della religione sia nella coscienza e sentimento dell’individuo non in una Rivelazione sovrannaturale, storicamente avvenuta.

Cercherò di replicare alla vulgata professata dal prof. Cantoni e da altri, concentrandomi sui seguenti punti: l’origine anticattolica ed anticristiana dell’istanza moderna della tolleranza religiosa, con particolare riguardo a quel suo classico esponente che fu Spinoza; le contraddizioni presenti nella definizione conciliare della libertà religiosa (DH 2,9-11); il vero significato della testimonianza dei Martiri, per i quali la libertà di coscienza era un valore del tutto secondario; il carattere anomalo del concetto di “diritto naturale” proposto dal Vaticano II che, nella DH, non sembra tale da conservare al Cattolicesimo la sua unicità.
5. L’idea della “libertà religiosa” è storicamente un risultato delle Guerre di Religione e del deismo professato dalle filosofie secolaristiche
L’art. 9 DH afferma: «Quanto questo Concilio Vaticano dichiara sul diritto degli esseri umani alla libertà religiosa ha il suo fondamento nella dignità della persona, le cui esigenze la ragione umana venne conoscendo sempre più chiaramente attraverso l’esperienza dei secoli [cuius exigentiae rationi humanae plenius innotuerunt per saeculorum experientiam]». Uno sviluppo plurisecolare della “ragione umana” avrebbe condotto dunque al presente concetto di “libertà religiosa”, che il Concilio non esita a far suo. A questo sviluppo la Chiesa non avrebbe ovviamente partecipato (sino al Vaticano II escluso), opponendovisi con decisione, come si è visto. Con il Vaticano II, nuova Pentecoste, l’illuminazione e la conseguente entusiastica accettazione dell’opera secolare della laica ragione.

Ora, la tesi proposta qui dal Concilio mi sembra semplificare alquanto le vere vicende storiche, quali ce le mostra “l’esperienza dei secoli”. La “libertà religiosa” è presentata come una conquista della “ragione”, che avrebbe gradualmente enucleato le “esigenze” della “dignità della persona”. Questa interpretazione recepisce acriticamente un canone ermeneutico tipico del pensiero moderno. In realtà, l’istanza della “libertà religiosa”, nella prassi “libertà di culto”, quale espressione della libertà di coscienza, che si attua mediante la libertà di parola, si era posta storicamente solo dopo la rottura dell’unità cattolica dell’Europa occidentale a causa dello scisma dei Protestanti eretici e le conseguenti guerre di religione. Si era posta in modo grave già nell’ambito delle lotte fra le varie sette protestanti. Si era imposta alla fine come soluzione di compromesso elaborata dai politici e dalla ragion di Stato assai più che dalla “ragione”. In Francia il partito dei Politiques, il cui teorico fu Jean Bodin, anche per controbattere l’endemica guerra civile confessionale e la conseguente anarchia, cominciò a teorizzare un concetto assoluto di sovranità, indipendente dalla religione e fondato sullo Stato stesso. Il mancato rientro dello scisma, dopo lotte sanguinose, aveva dato vita ad una realtà basata sul compromesso, con la coesistenza forzata di Protestanti e Cattolici in uno stesso Stato in alcuni paesi dell’Europa continentale: Germania, Francia, Olanda, Svizzera. Dove i protestanti avevano la netta supremazia, controllando interamente il potere, come a Ginevra, nel regno d’Inghilterra, in Scozia, nei paesi scandinavi, la persecuzione dei cattolici era durissima e spietata. Qui una libertà di coscienza anche relativa non esisteva in nessun modo. Come non esisteva in Ispagna e negli Stati italiani, con la parziale eccezione della Repubblica di Venezia.

La cultura, nelle sue componenti laiche, che si andavano affermando sempre più grazie anche alle scoperte che creavano una nuova immagine del mondo, proclamava il principio della tolleranza, con il conseguente riconoscimento statale della libertà di coscienza ossia di professione religiosa e di culto per le varie fedi. Ma tale indirizzo (che annoverò gli Spinoza, i Locke, i Voltaire tra i suoi maggiori esponenti) si ispirava in modo evidente ad una concezione deista e razionalista della divinità, che metteva ogni religione storicamente esistente sullo stesso piano, aprendo la strada all’indifferentismo e all’agnosticismo non solo nei confronti della religione rivelata ma anche del fenomeno religioso in quanto tale. Credere in Dio, per il gentiluomo e l’uomo colto, stava assurdamente diventando sinonimo di “superstizione”. Il laico principio di tolleranza in nome della libertà individuale di coscienza stabiliva in tal modo (all’insegna dell’indifferentismo e dell’agnosticismo) il presupposto concettuale della “libertà religiosa” che sarebbe stata poi professata dallo Stato laico, liberale, affermatosi in Europa dopo la Rivoluzione Francese.

L’esigenza della “dignità della persona” di cui all’art. 9 DH citato, era in realtà l’esigenza fatta valere dal deismo razionalista e panteista che gli intellettuali rivendicavano contro la religione rivelata. Vi confluirono il panteismo di due apostati come Bruno e Spinoza, il razionalismo protestante e quello degli Illuministi. Però questa esigenza si presentava mascherando la sua vera natura poiché affettava una completa neutralità nei confronti della religione, in nome delle esigenze della libertà individuale e della pace sociale. Una cosa che il Concilio sembra aver dimenticato, nel suo elogio del progresso della “ragione umana” nel corso dei secoli, è che la “ragione” ha rivendicato la libertà di coscienza in religione come fase essenziale della sua lotta contro il Sovrannaturale, al fine di emanciparsi interamente da esso. Ma questa dimenticanza non deve stupire, visto che la mens progressista affermatasi nel Concilio non ha voluto lasciar spazio alcuno al concetto del Sovrannaturale (vedi supra, cap. V e XIII).
6. La critica tendenziosa di Spinoza alle Sacre Scritture quale presupposto del concetto di “libertà religiosa”
La connessione tra libertà religiosa e negazione del Sovrannaturale e quindi del carattere autenticamente rivelato della religione rivelata, è particolarmente evidente nel Tractatus theologico-politicus pubblicato anonimo da Spinoza nel 1670, uno dei testi fondamentali della rivendicazione della moderna “libertà religiosa”. Il lavoro, condannato dalle autorità della protestante Olanda nel 1674, nonostante il clima di relativa tolleranza esistente in un paese nel quale le fazioni politico-religiose protestanti (arminiani fedeli alla tradizione erasmiana contro gomaristi calvinisti) ancora si fronteggiavano duramente, procurò inevitabilmente all’Autore un crescente “odio teologico”, che lo spinse a rinviare la pubblicazione dell’Ethica (la cui stesura lo aveva impegnato per quindici anni) avvenuta postuma nell’anno stesso della sua morte per tisi, il 21 febbraio 1677 all’Aja. Il Trattato spinoziano è considerato dalla cultura laica dominante un esempio ancora valido e persino classico di quella conoscenza sempre più chiara della dignità della persona e dei suoi diritti che la ragione avrebbe sviluppato nell’esperienza degli ultimi secoli, per esprimermi nel linguaggio di DH 9, sopra citato.

Non bisogna lasciarsi fuorviare dal carattere esteriormente affabile e mite di Spinoza, dalla coerenza e anche dal coraggio delle sue scelte di vita, dalla logica ferrea che sa imprimere ai suoi ragionamenti in relazione alle premesse da cui muove, dall’eccezionale capacità di ordinare il suo pensiero in sistema, dalle sue professioni di “amor Dei intellectualis”. Il Trattato è un testo pervaso da cima a fondo di orgoglio luciferino, nel quale l’Autore sottopone l’Antico Testamento e in subordine il Nuovo ad una critica che mira ad una loro radicale delegittimazione in quanto fonti della Verità Rivelata, dell’autentica Parola di Dio. Caratteristico è il Cap. VI Dei miracoli, tutto inteso a dimostrarne l’impossibilità.

6.1 L’immanentismo di Spinoza nega a priori la possibilità stessa del Sovrannaturale e quindi del miracolo

I cosiddetti miracoli non sono altro che “un fatto di cui si ignora ordinariamente la causa”. È cosa comune che “il volgo chiami miracoli, e cioè opere di Dio, i fatti non comuni della natura”, poiché esso “preferisce ignorare le cause naturali delle cose”313. Furono “gli antichi Ebrei” a presentare come miracoli certi fatti per dimostrare ai pagani “che l’intera natura era regolata a loro esclusivo vantaggio dalla potenza del Dio che essi adoravano”314. Alla fede nei miracoli, Spinoza oppone un’impossibilità logica. Infatti, nella realtà, “nulla avviene contro la natura, ma questa, al contrario, procede secondo un ordine eternamente fisso e immutabile”. L’immutabilità della natura dipende dal modo nel quale Spinoza si rappresenta Dio: «E siccome nulla è necessariamente vero, se non per il solo decreto divino, ne segue nel modo più evidente che le leggi universali della natura non sono se non decreti di Dio, discendenti dalla necessità e dalla perfezione della natura divina. Perciò, se avvenisse in natura qualcosa che ripugnasse alle sue leggi universali, ciò ripugnerebbe necessariamente anche alla volontà, all’intelletto e alla natura di Dio; ovvero, se si affermasse che Dio opera alcunché contro le leggi della natura, si dovrebbe contemporaneamente affermare anche che Dio agisce contro la propria natura»315.

Osservo: le “leggi della natura” dipendono sì dalla “perfezione della natura divina” ma non dalla sua “necessità”, come se Dio non potesse esistere di per sé, come l’Essere perfettissimo che non ha bisogno della natura per esser ciò che è. Spinoza, rifiutando l’idea di creazione, identifica Dio con la natura (Deus seu natura, come scrisse in una celebre pagina dell’Ethica)316. In tal modo, le leggi della natura sono divine e non possono mutare senza contraddirsi, perché Dio è immutabile, in quanto Sostanza infinita che è nello stesso tempo pensiero ed estensione. Ergo: il miracolo non può esistere. Esso è “fandonia” o “finzione”, come diceva in altri suoi scritti317.

L’errore di fondo di Spinoza nasce dal suo rigetto dell’esistenza di un Dio creatore, Dio personale, Dio vivente, come quello, appunto, già testimoniato nell’Antico Testamento. Se è Dio che ha creato la materia e quindi tutta la natura, compreso l’uomo, dal nulla, cioè non dalla potenza all’atto ma dal non-essere all’essere (poiché la natura non poteva in alcun modo preesistergli), dando Egli stesso alla natura le sue leggi; è logico ammettere che Egli stesso, nella sua onnipotenza, possa modificare in tutto o in parte, secondo il suo intendimento, quelle leggi mentre sono in atto, in un dato momento nel tempo e nello spazio. Si può sostenere l’impossibilità logica del miracolo solo se si nega l’atto di Creazione, togliendo così a Dio l’onnipotenza con la quale dispone della materia. Ma ciò tuttavia comporta che la materia, che pur appare come ciò che viene sempre formato secondo un modello o idea o disegno, debba esser considerata eterna e capace di darsi un ordine e quindi di pensare, il che sembra chiaramente assurdo.

Tornando al Trattato. L’esistenza di Dio non si deduce dai miracoli ma si percepisce meglio “attraverso l’ordine fisso e immutabile della natura”. Anzi, i miracoli, «come fatti contrari all’ordine naturale ci indurrebbero invece a dubitare di essa; mentre, prescindendo da essi, potremmo averne l’assoluta certezza, sapendo che ogni cosa segue l’ordine certo e immutabile della natura »318. Spinoza rovescia il modo normale di ragionare: il miracolo non dimostrerebbe ma addirittura negherebbe l’esistenza di Dio. Ma siamo sempre lì: tale rovesciamento è possibile solo sulla base del Deus seu natura, dell’identificazione arbitraria ed irrazionale, panteistica di Dio con la natura e del conseguente determinismo.

Se poi volessimo comunque spiegare il miracolo come un fatto effettivamente avvenuto, naturale o non, bisogna ammettere, secondo Spinoza, che il miracolo «è un fatto che non si può spiegare mediante la sua causa, cioè è un fatto che supera l’umana comprensione. Ma da un fatto, e in assoluto da ciò che supera la nostra comprensione, noi non possiamo conoscere nulla. Infatti, tutto ciò che noi intendiamo in modo chiaro e distinto deve essere a noi noto, o per sé o per mezzo di altro che è per sé conosciuto chiaramente e distintamente. Per la qual cosa dal miracolo, ossia da un fatto che supera la nostra comprensione, noi non possiamo capire né l’essenza né l’esistenza di Dio, né in modo assoluto alcunché intorno a Dio o alla natura»319.

Si vede qui all’opera il razionalismo spinoziano, desunto come metodo da Cartesio ma applicato all’idea di Dio peculiare a Spinoza. Dal “fatto” in sé non comprensibile non possiamo risalire alla sua causa, dice. Altrimenti sarebbe comprensibile. Ma osservo, contro Spinoza: nemmeno dal fatto in sé comprensibile, ovvero dalla natura nella sua per noi normalità quotidiana, possiamo risalire alla sua causa, se quest’ultima è da vedersi nel “decreto” di un Dio che è però la natura stessa. Identificando Dio e natura, viene meno la necessaria distinzione tra la causa e l’effetto. Tutto si confonde. Tale indispensabile distinzione può mantenersi solo se si separa nel concetto una mente ordinatrice della realtà dalla realtà stessa, ordinata appunto in seguito all’azione concreta di questa mente (creazione e suo mantenimento).

E proprio questa distinzione riporta san Paolo nel famoso passo di Rm 1, 20, sulla deducibilità dell’esistenza di Dio per chi usa rettamente della sua intelligenza, nel senso comune del termine: «poiché le perfezioni invisibili di Lui fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità [Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quae facta sunt, intellecta, conspiciuntur: sempiterna quoque eius virtus, et divinitas]». Ora, se le “cose fatte” non ci permettono di risalire a Chi le ha fatte, perché non esiste per Spinoza un Dio come ente e mente separati dalla natura e anteriore ad essa, bisogna dire che nella sua filosofia c’è comunque l’impossibilità di avere l’idea dell’esistenza di Dio, sia che si tratti di dedurla dalla natura dei miracoli che da quella della normalità quotidiana.

6.2 Anche la filologia dimostra, contro Spinoza, che gli Apostoli non insegnavano come semplici “dottori privati”

Vengo ora al modo nel quale Spinoza (nel cap. XI del Trattato) cerca di dimostrare che gli Apostoli non parlavano per autorità divina ma come “dottori privati” e per di più senza aver avuto un fondamento dottrinale comune, cosa che sarebbe stata all’origine delle eresie che affliggono periodicamente la Cristianità. Con questi assurdi argomenti, Spinoza tenta chiaramente di delegittimare anche il Nuovo Testamento in quanto fonte della Verità Rivelata. Le analisi scritturistiche con le quali cerca di dare un fondamento alle sue tesi, sono condotte all’insegna di un pregiudizio, affermatosi poi nella critica biblica successiva, in particolare protestante razionalista: che gli Scrittori sacri non abbiano mai cercato di riferire fedelmente fatti effettivamente avvenuti ma abbiano scritto soprattutto per educare il popolo alla pietà e alla devozione, sulla base delle idee e dei modi di sentire di loro stessi che scrivevano o raccontavano320.

Ma vediamo il suo attacco al Nuovo Testamento.
Con quale autorità parlavano gli Apostoli, si chiede? Leggendo il Nuovo Testamento, essi appaiono come “profeti”. Ma “profeti”, come? Spinoza non specifica. Si capisce tuttavia che per lui il vero profeta è solo quello dell’Antico Testamento. È pertanto lecito chiedersi, «se gli apostoli abbiano scritto le loro lettere in qualità di profeti in seguito a rivelazione e per espresso mandato, come Mosè, Geremia e altri, ovvero come privati e dottori. E ciò tanto più perché nella prima Epistola ai Corinti 14.6 Paolo distingue due generi di predicazione, l’una per rivelazione e l’altra per conoscenza: onde si può dubitare, dico, se nelle epistole essi si presentino come profeti o come dotti»321.

Questa distinzione di “due generi di predicazione” attribuita a 1 Cr 14,6 in realtà non esiste, come vedremo. Per l’intanto rilevo che la distinzione stessa non è neutra, quanto ai suoi effetti: se gli apostoli parlano come semplici “dotti” allora la loro testimonianza è solo quella di individui privati (“privati e dottori”, in modo simile ad un semplice interprete privato della Legge). Già dallo “stile” delle loro lettere, continua Spinoza, “diversissimo da quello profetico”, si vede che essi non si presentavano come profeti. I profeti attestavano continuamente di parlare per volontà di Dio, usando le espressioni “Così dice Dio”, “Dice il Dio degli eserciti” etc. Nelle lettere degli Apostoli non c’è nulla di simile. «Al contrario, nella prima Epistola ai Corinti 7,40 Paolo parla secondo il suo parere. In moltissimi luoghi, ricorrono espressioni che denotano incertezza e perplessità, come nell’Epistola ai Romani 3,28: “Crediamo dunque”, e nell’8.18: “Infatti io ritengo”; e così in molti altri luoghi». Nel cap. 7 di 1 Cr san Paolo dà ordini e anche semplici consigli sullo stato matrimoniale e sul celibato. Spinoza ne conclude che «quando, nel detto capitolo egli dichiara di avere o di non avere un precetto o mandato di Dio, non intende un precetto o un mandato a lui rivelato da Dio, ma soltanto gli insegnamenti che Cristo diede ai discepoli sulla montagna»322.

Si impongono alcune osservazioni. I luoghi nei quali incorrono quelle che Spinoza chiama “espressioni di incertezza e perplessità” non sono affatto “moltissimi”. Che poi certe espressioni indichino “incertezza e perplessità”, non è vero. Ugualmente, sono pochi i casi nei quali san Paolo “parla secondo il suo parere”, tant’è vero che Spinoza è costretto a citare tre volte in proposito sempre lo stesso capitolo 7 di 1 Cr, che è quello nel quale la cosa è evidente. Vediamo subito i due esempi di prosa paolina che rivelerebbe una supposta incertezza da parte dell’Apostolo. Nel primo caso (Rm 3,28), se il “crediamo dunque” esprime “incertezza”, quest’ultima dovrà risultare dal contesto nel quale il verbo si trova. Spinoza isola completamente dal loro contesto le espressioni da lui scelte, il che mi sembra scorretto dal punto di vista di una sana ermeneutica. Vediamo dunque il contesto. Il verbo in questione si trova a conclusione di una lunga esposizione che dimostra come la salvezza delle anime non dipenda dall’osservanza delle opere della Legge giudaica (con tutto il suo formalismo) ma dalla fede in Cristo, Figlio di Dio, il Messia atteso. Rivolgendosi al suo ideale contraddittore israelita, san Paolo scrive: «Dov’è dunque il tuo vanto? è escluso. Per qual legge [la salvezza]? quella delle opere? No, ma per la legge della fede [in Cristo], poiché riteniamo [loghizómetha gár, arbitramur enim] essere l’uomo giustificato [di fronte a Dio] per la fede, all’infuori delle opere della Legge [giudaica]. Forseché soltanto dei Giudei è Dio? no, anche delle genti; sicuro, anche delle genti, se è unico Dio quello che giustificherà i circoncisi in seguito alla fede [in Cristo], come i non circoncisi mediante la fede [in Cristo]. Annulliamo dunque la Legge per via della fede? Non sia mai; anzi confermiamo la Legge» (Rm 3,27-31). La “confermiamo” perché l’insegnamento di Cristo, depurandola degli elementi caduchi, rappresenta il compimento della Legge, non la sua negazione.

In questa potente pagina dobbiamo forse ritenere che il “poiché riteniamo” o “crediamo dunque” esprima dubbio ed incertezza? Direi che esprime proprio il contrario! Questo verbo afferma con forza il concetto predicato dall’Apostolo: che la salvezza viene solo dalla fede in Cristo non dalle opere della Legge giudaica, perché Dio è Dio di tutti non dei soli Ebrei. L’affermazione è netta e recisa. Spinoza prevarica sul significato autentico del passo e anche la filologia gli dà torto. “Arbitramur”, con il quale si è tradotto l’originale greco, ha anche il senso di “tener per certo, fermamente” e corrisponde ad uno dei significati di “loghízomai”, che non vuol dire solamente “calcolo” o “penso”, come sembra ritenere Spinoza, nella nota erudita che egli appone nel suo testo al punto. Seguito dall’infinito, come in questo caso, ha il significato di “far conto fermamente su qualcosa”.

E vengo a Rm 8,18. Qui san Paolo dice, ad un certo punto, “infatti io ritengo”. Ma ritiene, che cosa? Se non abbiamo tutto il periodo come possiamo farci un’idea precisa? Certo, all’epoca il limitato pubblico colto conosceva abbastanza bene i Testi Sacri e non abbisognava di lunghe citazioni. E tuttavia è impossibile verificare l’assunto di Spinoza senza collocare il verbo nella sua frase e questa nella parte dell’Epistola che le compete. Anche qui il verbo è retto da un “poiché” o “infatti” che lo connette al periodo precedente. In esso, san Paolo spiegava come i convertiti al Cristianesimo fossero diventati “figli adottivi di Dio” ai quali è destinata in eredità la vita eterna: «e se figli, anche eredi; eredi di Dio, coeredi in Cristo, se pur soffriamo con lui al fine di esser anche con lui glorificati» (Rm 8, 12-17). Coeredi nella Gloria futura ma solo se accettiamo le sofferenze della nostra vita terrena “con Cristo”, cioè mantenendo la fede in Lui e sopportandole come Lui le ha sopportate. «Poiché io ritengo [loghízomai gár, existimo enim] che le sofferenze del tempo presente non han nulla a che fare colla gloria che dev’essere manifestata in noi, giacché l’ansiosa aspettativa del mondo creato attende la manifestazione dei figli di Dio...» (Rm 8, 18-19).

“Ritengo”, “existimo”. Questa non è forse l’opinione personale di san Paolo? Egli sta incoraggiando i fedeli a resistere di fronte alle grandi difficoltà della vita, doppie per i Cristiani perseguitati. In effetti, come potremmo paragonare la miseria attuale con la Gloria futura degli Eletti, nella vita eterna presso Dio, nel godimento perpetuo della Visione Beatifica? Bisogna dunque aver coraggio e aver fiducia nella Provvidenza, che ci darà una premio incommensurabile, in termini umani. Il verbo usato qui dall’Apostolo è sempre “loghízomai”, che però il latino rende stavolta con “existimo”, che contiene indubbiamente una valenza soggettiva. La diversa traduzione è giustificata dal costrutto, oltre che dal contesto: qui “loghízomai” non regge l’infinito ma hóti, quod. “Existimo quod, ritengo che...”: costruzione usata quando il verbo greco ha più il significato di ponderare, ritenere. In Rm 3,28 san Paolo usava il plurale, qui parla in prima persona. Perché il plurale? Sembra il “noi” maiestatico della fede professata dalla Chiesa, per divina rivelazione. In ogni caso, possiamo dire che lo “existimo” di Rm 8,18 esprima “incertezza o perplessità” come vuol far credere Spinoza? Direi proprio di no. L’affermazione dell’Apostolo appare fatta in assoluta sicurezza. Essa non costituisce articolo di fede, come l’asserto sulla salvezza dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge giudaica. È una constatazione offerta alla riflessione dei fedeli per rafforzarli nella fede; offerta senza dubbi di sorta, da ritenersi conforme al vero perché sempre fondata sulla Rivelazione, dato che la “Gloria futura” dei predestinati è creduta sempre per rivelazione, è parte del Deposito della Fede. 

Ma con quale fondamento Spinoza afferma che quando san Paolo dichiara di insegnare un precetto ricevuto per rivelazione da Dio non intende un precetto “a lui rivelato da Dio ma soltanto gli insegnamenti del Discorso della Montagna”? La sicurezza con la quale Spinoza fa quest’affermazione lascia sbalorditi dato che san Paolo ha più volte detto di aver ricevuto direttamente dal Signore, per rivelazione privata, la dottrina che insegnava. Tant’è vero che quando parla a titolo personale (dando semplici consigli di vita cristiana o esortando alla perseveranza nella fede) lo dice espressamente, come appunto in 1 Cr 7. Nella lettera ai Galati, che si stavano allontanando dalla retta dottrina ricevuta da lui, scrisse: «Dovete sapere, o fratelli, che il Vangelo da me predicato non è secondo l’uomo, e di fatto non l’ho mica ricevuto da un uomo, né io ne fui ammaestrato, ma l’ho avuto per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 11-12). L’affermazione è ripetuta in 1 Cr 11,23, a proposito dell’istituzione dell’Eucaristia («Poiché quello che io ho trasmesso, anche a voi, l’ho ricevuto dal Signore; e ciò è che il Signore Gesù la notte in cui fu tradito, prese del pane, etc.»); nonché nella Lettera agli Efesini, 3,3 («e come per rivelazione fu da me conosciuto il mistero» della redenzione dei Gentili); e fors’anche in Tess 4, 15, in relazione alla Parusia di Nostro Signore: «Questo vi diciamo colla parola del Signore...». Non bisogna poi dimenticare i “detti indicibili” e quindi le rivelazioni che udì quando fu rapito in ascesi al terzo cielo – 2 Cr 12,2-9)323.

Dati tutti questi elementi, come fa Spinoza ad affermare senza mezzi termini, contro la lettera delle dichiarazioni dell’Apostolo, che egli “non intendeva” in realtà riferirsi ad un precetto “rivelato da Dio” quando diceva di insegnare un precetto rivelato da Dio? Quali prove ci dà di questa contraddizione, che farebbe di san Paolo in sostanza un impostore? Prove, non ne può offrire alcuna. Può solo speculare sulle dichiarazioni dell’Apostolo. Infatti cosa dice quest’ultimo in 1 Cr 7? «Ai coniugati invece ordino [paraggéllo, praecipio] non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, ma qualora si separasse, non passi ad altre nozze, o si riconcili col marito; e il marito non ripudi la moglie. Agli altri poi dico io, non il Signore: se un fratello ha una moglie non credente...» (1 Cr 7,10-11). Qui viene dichiarata l’indissolubilità del matrimonio e il divieto del ripudio. Ma tutto ciò non era stato già insegnato da Nostro Signore e non solo nel Discorso della Montagna? Ecco che allora, insinua Spinoza, quest’insegnamento che viene dichiarato frutto di una rivelazione privata a Paolo, è in realtà sempre quello pubblico di Gesù, durante la sua predicazione terrena. Se le cose stanno così, allora l’invocazione paolina di una specifica rivelazione privata nei suoi confronti dovrebbe considerarsi o una bugia o una metafora. 

In realtà, Spinoza può apportare solo quest’esempio a sostegno della sua tesi. Deve passare sotto silenzio tutti i passi delle lettere paoline nei quali l’Apostolo dichiara di aver ricevuto direttamente da Cristo insegnamenti che non si trovano nel Discorso della Montagna. Così per l’istituzione dell’Eucaristia, per il mistero della redenzione dei Gentili. E anche le dichiarazioni espresse di aver ricevuto tutta la sua dottrina direttamente dal Cristo Glorioso. Ma anche riandando a 1 Cr 7 cosa troviamo? Che san Paolo espone con chiarezza i suoi personali consigli in assenza di mandati ricevuti direttamente da Nostro Signore sull’argomento di specie. E che tali mandati costituissero norme imperative risulta anche linguisticamente dall’ultimo suo riferimento: «Riguardo a chi è vergine non ho nessun ordine da parte del Signore, ma dò un consiglio, come uomo che, per grazia del Signore, è degno di fede» (1 Cr 7, 25). Ordine: epitagé, praeceptum, nel senso appunto di comando, precetto, come lo erano stati quelli precedenti nel corso dello stesso cap. 7 della lettera. È vero che in 1 Cr 7, 10-11 egli usa il verbo paraggéllo, che significa anche consiglio. Ma significa anche comando, ordino, come fa fede la traduzione latina con praecipio. E che valore ha l’obiezione che si trattava degli stessi insegnamenti del Cristo terreno sul matrimonio? Nessuno, secondo me. San Paolo non aveva certo ricevuto il mandato di insegnare dottrine sue personali o nuove, rispetto a quello che il Cristo ci aveva già fatto sapere. Si trattava di svilupparle nel modo dovuto e di applicarle al caso concreto. E difatti, nel cap. 7 di 1 Cr egli risponde ad una serie di questioni che gli erano state poste per lettera dai fedeli sul matrimonio e il celibato. Si trattava dunque di applicare la dottrina di Cristo al caso concreto, che poteva favorire l’eccezione o spingere alla violazione della norma. Ebbene, forte dell’autorità di Cristo che ribadisce in modo imperativo attraverso di lui la dottrina a sua tempo insegnata sulla terra, san Paolo dirime le varie questioni. Il fatto, dunque, che si tratti qui degli stessi insegnamenti del Cristo terreno non dimostra di per sé che Nostro Signore non abbia ordinato di osservarli direttamente tramite l’Apostolo, la cui predicazione, tranne espressa dichiarazione in contrario, rendeva sempre noti ed applicava i “mandata” del Signore, con l’aiuto dello Spirito Santo. Ma procediamo con gli argomenti di Spinoza. Egli fa molto caso alla differenza di stile riscontrabile tra il linguaggio dei profeti e quello degli Apostoli. I profeti, osserva, usano sempre argomenti perentori mentre gli Apostoli, poiché “ragionano”, sembra “discutano”. Le profezie veterotestamentarie «contengono solo dogmi e decreti, perché in esse è Dio che prende la parola, Dio che non ragiona ma decreta secondo l’autorità assoluta della sua natura, e perché l’autorità del profeta non sopporta il ragionamento, giacché chiunque voglia sostenere con la ragione i dogmi che espone, li sottopone per ciò stesso al giudizio e al discernimento di ciascuno»324. Ma, annoto, nel passo di san Paolo appena visto, nel quale scrive “ai coniugati invece ordino, non io ma il Signore”, “discute” egli o si esprime al modo “perentorio” dei profeti? 

Inoltre i profeti non usano il lume naturale e proprio da questo si capisce che essi sono dotati di una conoscenza soprannaturale, che si traduce nell’enunciazione di “puri dogmi o decreti o massime”. Pertanto ritengo, continua Spinoza, «che il sommo profeta Mosè non ha prodotto alcun legittimo argomento; mentre ammetto che le lunghe deduzioni e argomentazioni di Paolo, quali si trovano nell’Epistola ai Romani, non sono state scritte in alcun modo per rivelazione soprannaturale». Le epistole apostoliche sono state scritte “soltanto sulla scorta di un naturale giudizio”. Esse non contengono «altro se non fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia (dalla quale rifugge del tutto l’autorità profetica), come nella formula con la quale Paolo, nell’Epistola ai Romani 15,15 si scusa dicendo: “Vi ho scritto in termini un po’ troppo arditi, o fratelli”.»325

Spinoza equivoca del tutto il significato di Rm 15,15: l’arditezza cui si riferiva l’Apostolo riguardava solo il fatto che la Chiesa di Roma non era stata fondata da lui. L’aveva fondata san Pietro ma egli aveva tuttavia avuto l’ardire di scriver loro pur non essendo da essi conosciuto, nell’AD 57. Non si trattava di scuse per presunti termini troppo arditi della sua lettera. Ma Spinoza sembra anche contraddirsi in re ipsa. Infatti, prima dice che la Lettera ai Romani contiene “lunghe deduzioni e argomentazioni” e poi che tutte le epistole degli Apostoli contengono solo “fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”. Dobbiamo allora ritenere che le “lunghe deduzioni ed argomentazioni” dell’Epistola ai Romani, ossia tutta la profonda e complessa teologia rivelata sul rapporto tra la fede e le opere, sulla giustificazione, sulla predestinazione, sul destino finale di Israele e la parte parenetica, che applica l’etica cristiana alla vita sociale con esortazioni, consigli e comandi; che tutto questo sia nient’altro che “fraterni ammonimenti, mescolati a cortesia”? Qui “l’ermeneutica” di Spinoza sfiora addirittura il ridicolo.

E circa la profezia sulla conversione finale di Israele a Cristo (Rm 11,25) che conto ne tiene Spinoza? Nessuno, anche se essa dimostra come si potesse esser profeti senza ricorrere allo stile dei profeti dell’Antico Testamento. 

6.3 La predicazione apostolica è unitaria e in ogni sua forma viene dallo Spirito Santo 

San Paolo avrebbe dunque distinto “due generi di predicazione, uno per rivelazione e uno per conoscenza”. Questi due generi sarebbero tra loro alquanto diversi, dato che uno comporta una rivelazione divina e l’altro no, esprimendosi solo “per conoscenza”, si intende secondo i criteri della conoscenza umana. Ma cosa dice san Paolo? «Difatti, o fratelli, se io mi presentassi a voi parlando le lingue, di qual profitto vi sarei, se non vi parlassi per rivelazione, o per conoscenza, o per profezia, o per dottrina?». Altri traduce: «se non vi parlassi con qualche rivelazione, o con la scienza, o con la profezia, o con qualche ammaestramento?». Non inquadrato nel suo contesto, il passo paolino appare difficilmente comprensibile. E di nuovo si vede l’arbitrarietà del metodo di Spinoza, che isola dal contesto la distinzione tra predicazione “per rivelazione” e “per conoscenza”, come se si trattasse di due categorie generali e assolute elaborate dall’Apostolo a fondamento della sua predicazione. Il che non è.

Leggendo l’intero passo si vede, infatti, che il contenuto della predicazione san Paolo lo divide in quattro argomenti: rivelazione, scienza o conoscenza, profezia, dottrina nel senso di ammaestramento. E questa specificazione egli la fa a che proposito? A proposito del fenomeno della glossolalía o “parlar in lingue”: se egli avesse predicato “parlando le lingue” nessuno lo avrebbe capito. Di quali “lingue” si trattava? Di lingue arcane e misteriose, incomprensibili ai presenti. Venivano recitate in uno stato estatico e tradotte agli astanti da un fedele che a sua volta aveva ricevuto il dono di tradurle. La traduzione rivelava lodi a Dio, a Nostro Signore. Il fenomeno della “glossolalìa” era frequente nei primi tempi del Cristianesimo. Si trattava di uno dei “càrismi” o doni spirituali particolari ed eccezionali che lo Spirito Santo effondeva sulla Chiesa nascente, per aiutarla. Nella prima Lettera ai Corinti san Paolo si sofferma a lungo su questi “carismi” (capp. 12-14) spiegando che cosa sono e come devono esser utilizzati. Su tutto ciò Spinoza si guarda bene dall’aprir bocca. 

I diversi “doni” o “carismi” vengono dallo Spirito Santo per l’utilità della Chiesa. «Poiché c’è bensì diversità di doni, ma lo Spirito è il medesimo; come c’è diversità di ministeri, ma il medesimo Signore; e diversità di operazioni ma il medesimo Dio, che opera tutto in tutti. La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità comune. Infatti dallo Spirito ad uno è dato il linguaggio della sapienza; ad un altro il linguaggio della scienza, però secondo il medesimo Spirito; ad uno la fede, nel medesimo Spirito; ad un altro il dono delle guarigioni, nell’unico Spirito; ad uno il dono di operar miracoli; ad un altro la profezia; ad uno il discernimento degli spiriti, a un altro la diversità delle lingue, e a un altro l’interpretazione delle lingue. Or, tutte queste cose le compie un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare secondo vuole» (1 Cr 12, 4-11).

Si vede chiaramente da questo passo che i due generi di “predicazione” individuati da Spinoza nel testo paolino, in realtà non esistono, in quanto categorie fondamentali e non conciliabili tra loro della predicazione apostolica (non conciliabili perché una di origine divina e l’altra umana). La “sapienza”, la “scienza” (o “conoscenza”), la “profezia”, così come gli altri doni, vengono tutte da un unico Spirito, dallo Spirito Santo, per il bene e l’utilità della Chiesa nascente. Sono manifestazione di un’unica realtà sovrannaturale, rappresentata sempre dallo Spirito Santo; emanano come tanti raggi da un unico centro. Pertanto realizzano in modo diverso ma complementare la “predicazione”, in tutti i suoi aspetti. Spiegando il loro significato ai fedeli, san Paolo dimostra che il dono della profezia è superiore a quello delle lingue (1 Cr, 14 1 ss.) anche se non bisogna mai dimenticare che tutti questi “doni” o “carismi” sono perfettamente inutili se non si ha la carità poiché “la scienza gonfia ma la carità edifica” (il cap. 13 della lettera contiene il celebre elogio della carità cristiana, come atteggiamento spirituale di chi si rimette completamente al vero Dio in tutto ciò che fa e pensa, per obbedirne sempre e comunque la volontà).

Un’analisi precisa e ancora valida dei “carismi nel Cristianesimo primitivo” si trova, a mio avviso, nella classica biografia di san Paolo dell’abate Ricciotti. Di questi particolari fenomeni, san Paolo è colui che ne parla più ampiamente e più a lungo. Li chiama «sia carismi (charísmata [doni], Rm 12,6), sia (cose) spirituali (1 Cr 12,1), sia semplicemente spiriti (1 Cr 14,12- 32). La ragione di questa omonimia è chiara, giacché il carisma è il prodotto della cháris ossia della grazia, e la fonte unica di tutti questi carismi si ritrova in colui che è chiamato lo Spirito per eccellenza (1 Cr 12,4), il quale è Dio (ivi, 6); quindi, per spontanea metonimia, questi prodotti dello Spirito potevano chiamarsi anche (cose) spirituali, oppure spiriti»326. Più volte san Paolo ci dà un elenco di questi carismi, senza pretesa di completezza. In questi elenchi troviamo: «Discorso di sapienza (Apostoli), Discorso di conoscenza (Profeti), Fede (Insegnanti), Guarigioni (Possanze), Operazioni di possanze (Guarigioni), Profezia (Incarichi), Discernimenti di spiriti (Governi), Generi di lingue (Generi di lingue), Interpretazioni di lingue»327. 

Dalla prima lettera ai Corinti (1 Cr 14, 23-39) si desume l’azione dei carismi nelle prime adunanze cristiane. «Quel primo oratore che, subito dopo la celebrazione dell’Eucaristia, parlò in lingua sconosciuta dagli astanti, possedeva il carisma dei Generi di lingue, chiamato anche Glossolalìa. Il secondo oratore, che tradusse nella lingua usuale il discorso del primo, aveva il carisma delle interpretazioni di lingue. Quel tal fedele che impose le mani sul vecchio malato e pregando lo guarì, aveva il carisma delle Guarigioni. L’ultimo che con le parole consolò la vedova, aveva il carisma del Commiserante »328.

E veniamo ai carismi che più ci interessano, in relazione all’ermeneutica di Spinoza: quello della profezia e quello dell’insegnante, che ricomprende il discorso di conoscenza.

«Di particolare rilievo è il carisma della Profezia. Il profeta aveva un compito affine, ma non uguale, al profeta dell’Antico Testamento. La sua era parola di edificazione ed esortazione e consolazione [nam qui prophetat, hominibus loquitur ad aedificationem et exhortationem et consolationem] (1 Cr 14,3); egli poteva anche svelare i segreti del cuore altrui (ivi, 25), e annunziare eventi futuri. Secondo la Didaché il profeta parla in Spirito (XI, 7), ha diritto dopo la celebrazione dell’Eucaristia di rendere pubbliche grazie a Dio conforme alla sua propria ispirazione (X, 7) e gode di vari privilegi in seno alle comunità già costituite (XIII,1-6). Questo è il carisma sommamente raccomandato da Paolo (1 Cr 14,1 ss.), a causa della sua diretta efficacia nelle comunità»329. Per ciò che riguarda il ministero della parola in senso stretto, abbiamo «i tre carismi dell’Insegnante (didáskon, didáskalos), del Discorso di sapienza e del Discorso di conoscenza, che dovevano avere un fondo comune pur con talune divergenze specifiche. Queste oggi a noi sfuggono: forse il Discorso di sapienza (lógos sophías) era abituale al profeta, mentre il Discorso di conoscenza (lógos gnóseos) era abituale all’insegnante; il primo si rivolgeva piuttosto al sentimento e al cuore, il secondo all’intelligenza e all’erudizione. Tutti e tre, in genere dovevano mirare a far conoscere ed amare la dottrina di Cristo mediante il ministero della parola. La Didaché (XV,2) fa sapere che l’insegnante era onorato al pari del profeta; di esso parla spesso anche il Pastore di Erma»330. 

Da tutta questa messe testuale si vede come san Paolo pregiasse assai più lo spirito di profezia perché contribuiva potentemente all’edificazione della comunità cristiana. La figura del profeta che qui appare si distingue da quella dell’Antico Testamento. Mentre quest’ultimo aveva ricevuto da Dio soprattutto il compito di scuotere la classe dirigente e il popolo dai loro vizi, per ricondurli al rispetto dell’autentica Rivelazione, mediante una predicazione incentrata in prevalenza su visioni, comandi, minacce ed imperiose esortazioni, che faceva nello stesso tempo apparire una concezione più morale, più spirituale e veramente universale della Rivelazione; il dono della profezia nella primitiva comunità cristiana era conferito da Dio — come spiega lo stesso Apostolo delle Genti — soprattutto “per edificare, esortare, consolare”; per svelare occasionalmente “i segreti del cuore” e per predire all’occorrenza eventi futuri. Profeta, in questo molteplice significato, si rivela lo stesso san Paolo, come appare dalle sue stesse Lettere.

I primi Cristiani erano dei convertiti dal Paganesimo o dall’Ebraismo, rinascevano alla vera vita per opera della Grazia e quindi in seguito alla predicazione e all’esempio di vita cristiana offerto dagli Apostoli e dai loro collaboratori, uomini e donne. Era con la mansuetudine dello spirito di carità che essi venivano salvati dalle tenebre spirituali che li opprimevano. Si trattava di fondare una nuova religione, anche se rappresentava il compimento di una precedente, dell’Ebraismo. Una religione che non aveva una base nazionale ma mondiale, in tutta l’umanità. Il Profeta dell’Antico Testamento era invece “l’araldo”, il “parlatore” di Jahwé, che fustigava senza riguardo tutte le colpe del popolo e dei capi, per ricondurli a Dio. Agiva spinto da un impulso irresistibile, chiaramente sovrannaturale, ed era sempre uomo di vita coraggiosa ed eroica. Un santo, che finiva quasi sempre ammazzato dai potenti di turno331.

Gli Apostoli non appaiono molto diversi dai Profeti dell’Antico Testamento. Anche la loro vita fu santa ed eroica, infaticabilmente al servizio di Dio, ora rivelatosi definitivamente nel Verbo incarnato, Nostro Signore Gesù Cristo. E se la loro predicazione privilegia l’argomentazione, l’esortazione e la consolazione rispetto alle visioni e alle minacce di castighi, anche presso di loro si trovano severi ammonimenti e profezie, in specie sugli ultimi tempi. E anch’essi, come i Profeti, preferirono sempre fare la volontà di Dio piuttosto che quella degli uomini, senza curarsi delle conseguenze. Non per nulla, quasi tutti gli Apostoli subirono il martirio, come i Profeti.

Tornando a Spinoza. Dal fatto che, a suo avviso, la conoscenza sovrannaturale dei profeti si manifestasse solo “in puri dogmi, decreti o massime”, egli ne ricava che le Lettere degli Apostoli, non rientrando in nessuna di queste categorie, non potevano esser scritte per mandato divino. Ma questa contrapposizione appare del tutto arbitraria. Se non si guarda allo stile ma al contenuto si vedrà che, come si è detto, anche le Lettere degli Apostoli contengono dogmi, i dogmi della nuova fede che perfezionava l’antica, e “decreti e massime” ossia ordini, ammonimenti e massime dal significato imperativo. Chi ha detto, poi, che nei profeti dell’Antico Testamento non si trovino mai “ragionamenti”? Basta leggere, tanto per fare un esempio, il cap. 7 di Zaccaria, che profetò attorno al 520 a.C., per trovare una dettagliata spiegazione data da Dio tramite il profeta di come debba intendersi il giusto rapporto tra il digiuno e le opere buone. L’insegnamento qui impartito è di una chiarezza cristallina, allo stesso modo del ragionamento che lo sostiene esponendo il giusto significato delle opere buone.

Ma le argomentazioni di Spinoza non si fermano qui. Egli cerca di trovare tutti gli argomenti possibili per dimostrare che gli Apostoli non avevano ricevuto da Dio alcun mandato, quando scrivevano le loro lettere apostoliche. Un suo ulteriore argomento è il seguente: all’opposto dei Profeti, gli Apostoli non erano inviati da Dio nei luoghi dove si recavano a predicare. «Al contrario, si trovano alcuni passaggi, i quali — scrive — indicano esplicitamente che gli apostoli sceglievano di loro iniziativa le località in cui si recavano a predicare: donde la divergenza di opinioni, che diede luogo perfino al dissidio tra Paolo e Barnaba, sul quale vedi gli Atti 15.37, 38, ecc. E spesso tentarono anche inutilmente di recarsi in talune località etc.». Da tutto ciò si dovrebbe concludere «che gli apostoli predicavano in veste di dottori soltanto, e non anche in quella di profeti»332. Di nuovo Spinoza ignora bellamente tutti i passi del Nuovo Testamento che contraddicono la sua ermeneutica perché vi si dimostra che gli Apostoli si recarono o non si recarono in un luogo in seguito ad un’ispirazione divina. Per san Paolo, l’Abate Ricciotti ne elenca otto333. E san Pietro, non iniziò ad evangelizzare i Pagani in seguito ad una famosa visione personale, che gli ingiungeva di farlo (At, 10,9 ss.)?

Inoltre, la ricostruzione testuale di Spinoza è ancora una volta imprecisa. Il “dissenso” tra san Paolo e san Barnaba non fu sulla direzione da prendere, proposta da san Paolo, ma sul compagno di viaggio. Barnaba aveva proposto il giovane Marco suo cugino (il futuro evangelista) che Paolo invece non voleva, perché già in precedenza non li aveva accompagnati in maniera continuativa, per motivi a noi ignoti. In conseguenza del dissenso che ne nacque, Barnaba, “preso con sé Marco, si imbarcò per Cipro”, sua patria, mentre Paolo, “sceltosi a compagno Sila”, partì per la Siria e la Cilicia, rivisitando le comunità già fondate, secondo il piano originario, al quale Barnaba non aveva fatto obiezioni. Il momentaneo dissenso tra i due Apostoli verteva dunque su una questione marginale. Sarebbe del tutto sbagliato ricavarne che gli Apostoli dibattessero di frequente dove andare, nei loro viaggi missionari334. 

Ma anche questi temporanei dissensi o i desideri incompiuti di andare a predicare in un paese invece che in un altro, cosa dimostrano? Solo la giusta autonomia delle Cause seconde, permessa da Dio, che ci vuole liberi cooperatori della sua volontà, avendoci dotati di libero arbitrio, e che si serve anche di quell’autonomia per realizzare il suo disegno di salvezza. Ma dell’esistenza di un effettivo libero arbitrio, che concorra al piano divino di salvezza, un determinista come Spinoza non voleva evidentemente sentir parlare.

6.4 Per sostenere che le Lettere degli Apostoli non erano ispirate, Spinoza altera il senso di Mt 10,19-20 e dell’incipit delle lettere stesse 

Ma qual è, comunque, la conclusione finale di Spinoza? Che gli Apostoli agivano in tutto come privati dottori ossia come privati cittadini? No. Bisogna ammettere, scrive, che essi ricevettero effettivamente un mandato da Cristo. Però Cristo non è ovviamente, per Spinoza, il Verbo incarnato. Egli è colui che “non fu tanto il profeta, quanto la bocca di Dio”. Espressione di origine biblica, ci informa il commento al Trattato, anche se non di immediata evidenza. Per Spinoza, «attraverso la mente di Cristo, Dio rivelò alcune cose al genere umano, così come prima le aveva rivelate attraverso gli angeli, ossia attraverso una voce creata, visioni ecc.»335. Un’immagine di Cristo che non sarebbe dispiaciuta ad un ariano.

Come si deve concepire il mandato ricevuto da Cristo? Gli Apostoli, al contrario dei Profeti, lo ricevettero per «convertire tutte le genti alla religione. Dovunque andavano, infatti, essi eseguivano il mandato di Cristo, né avevano bisogno che, prima di partire, fossero loro rivelate le cose che dovevano predicare ». E perché non ne avevano bisogno? Ce lo spiegherebbe un passo di san Matteo. Prosegue, in effetti, il Nostro: «Lo stesso Cristo, infatti, aveva detto ai suoi discepoli: “Ma quando vi consegneranno a loro, non preoccupatevi di come e di che cosa dobbiate dire; vi sarà infatti suggerito in quella circostanza che cosa dobbiate dire”, ecc. (vedi Matteo 10.19,20). Concludiamo, dunque, che gli apostoli ricevettero mediante singolare rivelazione soltanto quelle cose che predicarono a viva voce e che confermarono anche con i segni; mentre invece le cose che insegnarono semplicemente a viva voce o per iscritto, senza servirsi né di testimonianza né di segni, le dissero o le scrissero per conoscenza (cioè naturale); intorno a ciò vedi la prima Epistola ai Corinti 14.6»336.

Si nota come Spinoza, sempre analizzando la Bibbia con la Bibbia (come diceva), cerchi di imbastire un’ermeneutica volta a dimostrare che le Lettere degli Apostoli non erano divinamente ispirate. Tutta la sua costruzione poggia sul versetto di Mt 10,19-20, che abbiamo già incontrato precedentemente (vedi supra cap. V, § 1). Come ognuno può vedere, il significato del versetto non è quello che gli attribuisce Spinoza. Qui, infatti, Nostro Signore promette l’assistenza decisiva dello Spirito Santo nel momento della persecuzione, che sarebbe puntualmente giunto durante la missione apostolica. Della persecuzione, non della predicazione. Era inutile prepararsi mentalmente anzitempo ad affrontare i persecutori, cosa molto difficile e praticamente impossibile per lo spirito umano. L’unica cosa da fare era aver fiducia in Dio: al momento opportuno, lo Spirito Santo avrebbe sorretto gli Apostoli nella prova suggerendo e dettando loro ciò che avrebbero dovuto dire, così come avrebbe poi sorretto tutti i fedeli nella medesima situazione.

Questo versetto è stato sempre inteso nel suo valore universale di promessa dell’assistenza divina al credente, per consentirgli di rimaner fedele e perseverare nell’ardua prova della persecuzione. Appare, perciò, del tutto errato volerne applicare il significato alla predicazione stessa, per dimostrare la tesi (evidentemente preconcetta) che gli Apostoli non possedevano una dottrina rivelata da predicare; rivelata, ossia loro insegnata da Gesù anteriormente alla predicazione. In questa loro prima missione, ci informa san Matteo, essi ricevettero i poteri taumaturgici del Signore: «Diede loro potere sopra gli spiriti immondi per cacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità» (Mt 10,1). Inoltre, i Dodici avevano ben ascoltato gli insegnamenti morali di Cristo, che dovevano evidentemente a loro volta predicare alla “Casa di Israele”. Su quell’errato fondamento, Spinoza enuncia dunque il canone della sua “esegesi”: gli Apostoli ebbero una “singolare rivelazione” (ossia ad hoc) solo per ciò che predicarono “a viva voce” e che “confermarono anche con i segni”. Cosa intende egli con “segni”? Nel cap. II del Trattato, dedicato ai Profeti, ricorda che, secondo Deut. 18,21, il segno che si esigeva dal profeta era “la predizione di un evento futuro” che si sarebbe avverato337. Questo era il “segno” in senso proprio. Ma anche con i “segni”, osserva Spinoza, si aveva sempre “una certezza profetica soltanto morale”, come risulta dalla Scrittura stessa, che denuncia l’esistenza di falsi profeti che potevano compiere “segni e miracoli” e ingannare il popolo (Deut., 13), concetto ribadito da Cristo in Mt 24,24, a proposito dei “segni” degli ultimi tempi338.

L’effettivo significato sovrannaturale del “segno” dell’autentico profeta resta allora dubbio, se anche i falsi profeti possono ingannarci con falsi “segni”. Tuttavia il segno ci doveva sempre essere, presso i Profeti, anche se la Bibbia ne parla raramente339. E noi dobbiamo supporre ci fosse sempre anche presso gli Apostoli, nella loro predicazione “a viva voce”, per “rivelazione singolare”. Non c’era invece in tutto il resto del loro insegnamento, “a voce o per iscritto”, privo di “testimonianze o di segni”340. Qui essi agivano per mera conoscenza naturale. A sostegno, Spinoza cita di nuovo 1 Cr 14,6. Ma ho già dimostrato come la sua tesi di una distinzione paolina radicale tra due tipi ontologicamente diversi di predicazione, sia del tutto insostenibile. Tutta la sua teoria poggia dunque solo su Mt 10,19-20, estrapolato dal suo contesto ed utilizzato per dimostrare una cosa chiaramente contraria a quanto detto nella Scrittura, che ci testimonia come Nostro Signore istruisse gli Apostoli nella dottrina e li dotasse degli opportuni “carismi”, prima di mandarli in missione.

A questo punto resta un’ultima possibile obiezione alla quale Spinoza deve rispondere. Il mandato divino di predicare e di essere quindi “profeti” (uomini di Dio, che parlano in luogo di Dio) gli Apostoli non lo attestano forse all’inizio di quasi tutte le loro Epistole, quando si presentano alle Chiese appunto come inviati da Cristo, Figlio di Dio? «Paolo, chiamato apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio... grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e Signore Gesù Cristo!»; «Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai Santi che sono in Efeso e ai fedeli in Gesù Cristo...»; «Giacomo, servo di Dio e del Signor nostro Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono nella dispersione, salute!»; «Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo hanno ottenuto una fede pari alla nostra...»; etc.

Come risponde Spinoza all’obiezione? Che il fatto “non rappresenta per noi una difficoltà”. Gli Apostoli avevano ricevuto anche “l’autorità di insegnare”, onde era logico che iniziassero le loro lettere “con la dichiarazione del loro apostolato”. Anzi, prosegue, per “conciliarsi più facilmente l’animo del lettore”, vollero dichiarare che “erano appunto quelli che tutti i fedeli conoscevano per la loro predicazione”. E che questo fosse il significato delle attestazioni dell’apostolato, è dimostrato, secondo Spinoza, dal fatto che «tutto ciò che in quelle lettere si dice della vocazione degli apostoli e dello Spirito Santo e divino, che li ispirava, si riferisce alle predicazioni che essi avevano tenuto, ad eccezione soltanto dei passi in cui le espressioni “Spirito di Dio” e “Spirito Santo” sono usate per indicare una mente sana, beata e dedicata al servizio di Dio ecc., come abbiamo detto nel cap. I [dedicato al tema della profezia]»341. Nelle Lettere, gli Apostoli si riferivano certamente alle predicazioni “che essi avevano tenuto”, ma questo impediva loro di ribadirle sviluppando e approfondendo, in relazione ai temi nuovi, sollevati dai fedeli, cui le lettere dovevano rispondere? Sembra che per Spinoza le lettere apostoliche dovessero avere a proprio contenuto solo argomenti del passato! Ma questo non è del tutto assurdo? I fatti dimostrano il contrario: le lettere nascevano proprio per rispondere a domande e problemi correnti, anche dottrinali, posti dalla comunità, dalla singola Chiesa. Nelle risposte, la dottrina veniva affinata e a volte sviluppata in modo più approfondito rispetto alla predicazione orale anteriore, come si vede chiaramente nelle lettere di san Paolo. Si doveva evitare il sorgere di errori ed eresie, divisioni. Ridurre pertanto il contenuto delle Lettere apostoliche alla sostanziale ripetizione del precedente insegnamento orale degli stessi Apostoli è cosa del tutto falsa.

Allo stesso modo della consueta riduzione spinoziana di ogni elemento sovrannaturale ad una dimensione puramente umana. Giocando sull’interpretazione di alcune espressioni dell’Antico Testamento, egli vuol far intendere che ogni riferimento apostolico allo “Spirito Santo” sia in realtà un modo di indicare la mente dell’uomo. E a sostegno di questa sua “ermeneutica” cita ancora il cap. 7 di 1 Cr., là ove san Paolo scrive: «ma è felice [la vedova], secondo il mio avviso, se essa rimane quale è, giacché credo anch’io che lo Spirito di Dio sia in me». E qui, appunto, secondo Spinoza, «per “Spirito di Dio” egli intende la sua stessa mente, come indica lo stesso contesto del discorso, il cui senso è: la vedova che non vuol passare a seconde nozze, è giudicata beata da me, che ho deciso di vivere celibe e mi stimo a mia volta beato»342.

In realtà, san Paolo si riferisce allo Spirito Santo proprio per conferire efficacia al suo consiglio. Anche se non erano comandi, i consigli degli Apostoli provenivano sempre da uomini di santa vita, assistiti dallo Spirito Santo. Questo vuol sottolineare san Paolo. La traduzione letterale è: “e credo di aver anch’io lo Spirito di Dio”, cioè lo Spirito Santo, che mi consente di dare buoni consigli di vita cristiana, se necessario. Il consiglio di non risposarsi sembrava non incontrare il favore della maggioranza, che riteneva la vedova più felice se si fosse risposata. E forse anche la vedova la pensava così. Ma san Paolo, che aveva appena fatto il giusto elogio della verginità, ribatte che se la vedova non si risposa è meglio per lei. E nel dir questo, conclude, non parlo da dissennato o da insensibile ma come uomo che, come gli altri fedeli, ha anch’egli il dono dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo, dal quale ricevevano tanti “carismi”, non era certo, per i fedeli e san Paolo, la stessa cosa della loro mente, del loro io! Sapevano ben distinguere! Insinuare, come fa Spinoza, che l’Apostolo in realtà parlasse per metafora, intendendo riferirsi alla sua propria mente, di uomo che si considerava sano e beato nel suo stato, significa stravolgere completamente la frase, appiccicandole un significato del tutto alieno, che la separa in maniera radicale dal contesto nel quale si trova, rendendola priva di senso.

6.5 Per sostenere, alla fine, che gli Apostoli non predicavano una dottrina comune, Spinoza altera il senso di Rm 15,20 

La conclusione cui giunge Spinoza, sulla base della sua errata esegesi, limita dunque fortemente il “mandato” ricevuto dagli Apostoli: esso valeva solo per la predicazione orale, confermata con i “segni”. Qual è allora il valore delle loro Lettere, ridotte da lui ad esser testimonianza di un insegnamento dipendente unicamente dal loro intelletto o “lume naturale”?

«Stabilito, dunque, che le lettere degli apostoli furono dettate dal solo lume naturale, è ora da vedersi come gli apostoli potessero insegnare in base alla sola conoscenza naturale le cose che non rientrano nel dominio di questa »343. La risposta è abbastanza semplice, secondo Spinoza: la religione che essi predicavano era “semplicemente il racconto della storia di Cristo”, cosa che non rientrava nel “dominio della ragione” (per qual motivo, non è spiegato). Tuttavia, essa «poteva nel suo complesso esser compresa da ciascuno col lume naturale, essendo essa costituita, come tutta la dottrina di Cristo, essenzialmente di precetti morali», quali risultano, precisa in nota, dal Discorso della Montagna344. L’insegnamento di Cristo è sempre e solo quello di un predicatore ebreo itinerante, che era “la bocca di Dio” per ciò che riguardava gli insegnamenti lasciatici nel Discorso della Montagna. Altro non c’è. Stop. Pertanto lo scopo delle lettere degli Apostoli era appunto questo: «istruire ed ammonire gli uomini con quei mezzi che ciascun apostolo ritenesse più adatti a confermarli nella religione»345. Se l’insegnamento di Cristo era nient’altro che un’etica comprensibile da ognuno col lume naturale (cosa che sicuramente in parte è), allora poteva esser insegnato per iscritto sulla base del semplice lume naturale degli Apostoli, che quindi potevano scegliere “il mezzo più adatto per istruire e ammonire”. Noto, sul punto, che se l’insegnamento di Cristo era tutto racchiuso nel Discorso della Montagna, accessibile con il lume naturale di ognuno, non si comprende allora perché gli Apostoli avessero bisogno di un suo mandato ad hoc per la predicazione a voce, da confermare in ogni circostanza con “segni” particolari. A voce o per iscritto, non si trattava sempre di insegnare le stesse cose ossia delle verità morali accessibili a tutti? C’era bisogno di “segni” particolari che ne dimostrassero la verità? Non c’era già il “lume naturale”? Seguendo la logica intrinseca all’argomentazione spinoziana, resta quindi privo di vera motivazione il “mandato” a predicare determinate verità servendosi di “segni”, allo stesso modo dei profeti. Resta privo, si intende, all’interno del discorso messo in piedi da Spinoza. 

Comunque sia, dalla (arbitraria) riduzione dell’insegnamento scritto degli Apostoli a mera esposizione con il loro lume naturale di una dottrina a sua volta accessibile al semplice lume naturale di tutti, Spinoza ne ricava che ogni apostolo potesse scegliere i mezzi di esposizione da lui stesso ritenuti più opportuni e addirittura il suo personale “metodo”, cosa che impediva l’unità della dottrina insegnata. Ciò a suo dire risulterebbe da un passo della Lettera ai Romani. «[Dalla Scrittura] risulta chiaramente infatti che ciascuno degli apostoli seguì una propria via, come si vede dalle parole di Paolo, nell’Epistola ai Romani 15,20: “Avendo cura di predicare non là dove era già invocato il nome di Cristo, per non edificare sopra un fondamento posto da altri”.» Poiché Paolo chiama quelli di un altro apostolo “fondamenti altrui, si deve necessariamente concludere che ciascuno costruì l’edificio della religione sopra un diverso fondamento”. Quale la conseguenza ultima? Il caos dottrinale, gli errori: “vediamo che gli apostoli convenivano bensì nella medesima religione, ma non erano d’accordo circa i fondamenti di essa”346. La prova si ha, secondo Spinoza, nella salvezza per la sola fede che san Paolo avrebbe insegnato nella lettera ai Romani, di contro alla giustificazione per mezzo delle opere riproposta da san Giacomo, nella sua lettera347. Per ovviare a questo stato di cose e ai mali che ne sono seguiti, occorre allora ritornare all’insegnamento primitivo di Cristo, “a quei pochissimi e semplicissimi dogmi che Cristo insegnò ai suoi discepoli”348.

Questo il risultato cui giunge l’esegesi filologica dell’irreligioso Spinoza, considerato uno dei padri della moderna critica (detta storico-critica) al Testo Sacro, e pertanto celebrato come uno dei padri spirituali del Modernismo: le Lettere degli Apostoli sono piene di contraddizioni, ognuno insegna una dottrina sua particolare, i Cristiani devono ritornare al primitivo insegnamento di Cristo, semplice e lineare, con pochi e semplici dogmi, accessibili a tutti! Suona familiare? Ma si è visto di quante arbitrarie interpretazioni si serva Spinoza per giungere alle sue false conclusioni. E la conta degli errori ermeneutici del filosofo non è finita, altri ce ne sarebbero da denunciare. Non posso comunque tralasciare la sua clamorosa distorsione di Rm 15,20. Il “fondamento” o la “base” altrui cui l’Apostolo si riferisce non riguarda la dottrina: è invece la Chiesa già fondata da altri, alla quale egli non voleva in linea di principio aggiungere la sua opera proprio perché la sua vocazione era quella di fondare la Chiesa tra i Gentili, dove nessuno era ancora arrivato. Lui ha avuto l’onore di esser chiamato a questo compito dal Signore in persona349.

Ricorrendo sempre al metodo ermeneutico corretto, situo il passo nel suo contesto specifico. Siamo prossimi all’epilogo della grande Lettera ai Romani, siamo alle notizie di carattere personale. La lettera fu scritta nell’AD 57 da Corinto. Paolo non era ancora mai stato a Roma ed era ardente il suo desiderio di visitarvi la comunità cristiana. La Provvidenza ve l’avrebbe fatto giungere circa tre anni dopo, per esservi alla fine martirizzato durante la persecuzione di Nerone, nel 67, all’età di circa sessant’anni350. Egli si giustifica, come si è visto, per l’iniziativa insolita di predicare per iscritto ad una Chiesa non fondata da lui ed espone sinteticamente la sua attività di Apostolo delle Genti, sempre guidata da Cristo e dallo Spirito Santo, sviluppatasi in tutti quegli anni, “da Gerusalemme e dai paesi all’intorno fino all’Illirico” (Rm 15, 17-19), cioè nel bacino orientale del Mediterraneo e nei Balcani centro-meridionali. La Macedonia e la Tracia (dove c’era la città di Filippi, di cui alla Lettera ai Filippesi) erano provincie balcaniche dell’impero romano, confinanti con l’Illirico, regione che dai Balcani centrali giungeva sino all’Adriatico, nel cuore dell’impero. 

«Da Gerusalemme e dai paesi intorno fino all’Illirico ho adempiuto la mia missione rispetto al Vangelo di Cristo. E mi sono studiato di evangelizzare non là dov’era già stato nominato Cristo, per non edificare su base [themélion, fundamentum] d’altri, secondo sta scritto: “Vedranno quelli a cui non è giunta notizia di lui, e quelli che non l’hanno udito l’intenderanno” (Rm 15,19-21)». Perché san Paolo, sempre per mandato divino, “si è studiato” di svolgere la sua missione in quelle parti dell’impero romano dove Cristo non era stato ancora “nominato” ossia non era ancora conosciuto, evitando in tal modo di “edificare su base d’altri”, sulle Chiese già fondate da altri prima di lui? Perché era lui, Paolo, colui che era stato scelto per far conoscere la Buona Novella della venuta del Messia a chi non ne aveva avuto notizia, in adempimento della profezia di Isaia. 

Il passo veterotestamentario citato dall’Apostolo è Isaia 52,15. La sua presenza è fondamentale alla comprensione dell’esatto significato del testo ma Spinoza lo passa completamente sotto silenzio. Si tratta dei versetti introduttivi al famoso testo nel quale il grande profeta preannuncia l’avvento del Messia nella figura del “Servo di Jahwé”, l’uomo dai molti dolori; di un Messia non nazionale (liberatore temporale di Israele) ma redentore di tutti gli uomini. Il “servo del Signore”, vaticina Isaia, sarà “senza gloria” nel suo aspetto, sarà l’uomo della sofferenza, ma «aspergerà molte genti; dinanzi a lui i re si chiuderanno la bocca; perché quelli che non avevano sentito parlare di lui lo vedranno, e quelli che non avevano nulla udito lo contempleranno» (Is 52,14- 15). Lo “vedranno” e “l’intenderanno” i Pagani “che non avevano sentito parlare” di Nostro Signore Gesù Cristo, tramite la fondazione presso di loro (dai paesi a Nord di Gerusalemme sino all’Illirico) delle comunità della Chiesa di Cristo ad opera di Paolo, apostolo di Cristo.

Questo è il senso del riferimento paolino al fondamento della Chiesa. Il greco e il latino significano sia base in senso proprio di tempio, città, trono, che fondamento in senso figurato351. Qui sembra esserci soprattutto il significato concreto del fondamento di una Chiesa (intesa non come edificio ma come comunità), fatto da altri e/o da Paolo. La dottrina non c’entra. San Paolo vuol solo ricordare ai fedeli di Roma, molti dei quali convertiti dal Paganesimo, che egli finora non ha svolto la sua opera missionaria là ove Cristo era già conosciuto (dove la “base” era già stata costruita “da altri”) ma unicamente dove era completamente sconosciuto, cooperando in tal modo all’attuazione della profezia messianica di Isaia. Si tratta di fondazione di comunità cristiane, di Chiese, non di fondamenti dottrinali.

L’altro grave fraintendimento testuale di Spinoza riguarda la contrapposizione tra S.Paolo e S. Giacomo in ordine al rapporto tra la fede e le opere per la salvezza. Non occorre profondersi qui in complesse analisi testuali per confutare quest’eresia, basta rimettersi all’insegnamento ufficiale della Chiesa e della teologia ortodossa da essa utilizzata. Mi limito a ricordare che san Paolo, in una delle sue ultime lettere, la prima a Timoteo, da lui convertito e consacrato vescovo di Efeso, scritta verso l’AD 65, nelle raccomandazioni finali, per la parte dedicata alla pastorale dei ricchi, raccomanda di incitarli oltre che alla fede, ad “arricchirsi di opere buone [divites fieri in bonis operibus]”, in modo da costituirsi “un buon fondamento per l’avvenire”, cioè per la vita eterna (1 Tm 6,18-19). Anche per san Paolo, dunque, le buone opere, non meno della fede, sono indispensabili per la salvezza della nostra anima. Quest’ultimo fraintendimento di Spinoza deriva direttamente, direi, dagli errori teologici professati dall’ambiente protestante del suo Paese. La conoscenza che Spinoza aveva del Cristianesimo proveniva da fonti inquinate.

Infatti, a vent’anni, insofferente di quella ebraica, cominciò a frequentare la scuola privata di un ex-gesuita e libero pensatore, tale Franciscus van den Enden, dalla cultura poliedrica, nella cui casa si incontravano cristiani liberali e liberi pensatori e dove imparò il latino e si perfezionò nell’olandese352. Fu poi influenzato, almeno in parte, dalla “esegesi” razionalistica del materialista Hobbes, il cui famoso libro sullo Stato, il Leviathan, uscito in inglese nel 1651 e nel 1668 in latino, in versione ridotta, proprio ad Amsterdam, si occupava ampiamente della religione e del rapporto tra Stato e religione353. 

 6.6 Il diritto ad una libertà religiosa fondata sulla coscienza individuale presuppone una religione di Stato solo “civile”, priva di ogni elemento sovrannaturale, incompatibile con il Cristianesimo 

L’esegesi razionalista di Spinoza fa ulteriormente progredire l’arbitraria separazione protestante fra Sacra Scrittura e insegnamento orale della Chiesa, costitutivo anch’esso del dogma. Ma in un senso del tutto opposto e non meno esiziale per il Cristianesimo. Infatti, Spinoza preferisce l’insegnamento orale perché sarebbe avvenuto per mandato di Cristo, e svaluta completamente quello scritto degli Apostoli, riducendolo a produzione di “dottori privati”. Ma in realtà svaluta tutti e due, poiché gli insegnamenti di Cristo li riduce al Discorso della Montagna, per di più reinterpretato in chiave razionalistica, come semplice sistema di precetti morali ragionevoli, sintetizzabili nel comandamento di praticare la giustizia e amare il prossimo. Li riduce ad un insegnamento e ad una dottrina che di per sé non presuppongono e non contengono alcunché di sovrannaturale. Né devono trarre in inganno le sue affermazioni sull’insegnamento dei profeti, che, di contro a quello degli Apostoli, sembrerebbe effettivamente godere di un “mandato” divino. L’analisi spinoziana del profetismo (nei primi due capitoli del Trattato) mira in realtà ad eliminare la possibilità stessa di ogni effettiva origine sovrannaturale della “missione” dei profeti. Infatti, una conoscenza come quella professata da loro (e dagli Apostoli) di verità effettivamente rivelate da Dio, nell’ottica di Spinoza non può esistere. E perché non può? Perché tra “conoscenza naturale” e profezia non c’è differenza: “la conoscenza naturale si può chiamare profezia”. E com’è possibile? È possibile alla luce dell’identificazione spinoziana di Dio con la Natura (vedi supra, § 6.1). «Infatti, le cose che conosciamo per lume naturale dipendono tutte dalla sola conoscenza di Dio e dai suoi eterni decreti». Anche la conoscenza naturale «si può chiamare divina allo stesso titolo di qualunque altra perché essa ci viene dettata dalla natura di Dio, in quanto noi ne siamo partecipi, e dai decreti divini»354. Nella visione immanentistica e panteistica di Spinoza, la sostanza infinita che è Dio è ab aeterno res cogitans e res extensa, senza atto di creazione che stabilisca un realtà gerarchicamente ordinata di creatura e Creatore, onde la mente umana partecipa di per sé della natura di Dio e pertanto della mente di Dio, per il solo fatto di essere res cogitans. La nostra mente “ha la potenza di formare talune nozioni esplicative della natura delle cose e direttive della vita”. E ce l’ha questa potenza, “per il fatto solo che contiene in sé obiettivamente la natura di Dio e di essa partecipa”355. Non è questa la divinizzazione della nostra mente? O, all’opposto: non si ha qui l’estinzione dell’idea di Dio, ridotto alla dimensione limitata della nostra mente? Posto in tal modo il concetto della conoscenza ed il rapporto tra la nostra mente e Dio, la conclusione ultima, luciferina, non può che esser questa: «possiamo ben affermare che nella natura della mente, concepita come tale, consiste la causa prima della divina rivelazione; tutte le cose, infatti, che noi conosciamo chiaramente e distintamente sono a noi dettate (come or ora abbiamo detto) dall’idea e dalla natura di Dio, non a parole, ma in modo assai più eccellente e conforme alla natura della mente, come ha potuto sperimentare in se stesso chiunque abbia gustato la certezza dell’intelletto»356.

Su simile fondamento, cosa ci dobbiamo aspettare dalla definizione spinoziana della conoscenza profetica? Che essa è nient’altro che un prodotto della mente dei profeti, dotata di una “immaginazione” sconosciuta al comune degli uomini. Ciò che caratterizza il profeta è “una più viva facoltà di immaginare” 357. La predicazione dei profeti mostra la capacità della loro immaginazione, non che ciò che essi dicono venga da Dio. Cosa caratterizza il profeta? L’immaginazione, i segni, l’animo “inclinato soltanto all’equità e al bene”358. Consistendo il sapere profetico soprattutto nell’immaginazione del profeta stesso, esso dipende in misura rilevante dalla personalità del profeta e quindi dalle sue opinioni personali. Si può perciò dire, a proposito delle visioni di Dio narrate dai profeti, “che ciascuno, senza dubbio, vide Dio così come era solito immaginarlo”359. Ma Spinoza, come fa a dirlo? Egli non crede nell’esistenza di un Dio personale ossia nell’esistenza effettiva di Dio: deve quindi dire che le visioni di Dio dei profeti erano quelle delle immagini di Dio che i profeti possedevano, nella loro accesa immaginazione; in sostanza, un parto della loro mente esaltata. I profeti, inoltre, “professarono opinioni contrastanti”360. Come faccia a dirlo, resta per me un mistero. Chi legge i libri dei Profeti senza preoccuparsi delle bizantinerie di certe scuole esegetiche ma immergendosi nello spirito del Testo, agitato dalla Parola di Dio, non ha affatto l’impressione di trovarsi di fronte ad “opinioni contrastanti”. È Dio che parla ed ammonisce attraverso visioni, immagini e ragionamenti. Anche se a volte in modo assai aspro, parla sempre per il nostro bene: sono sempre gli stessi concetti, le stesse verità che vengono ripetute, anzi ribattute. L’evoluzione dottrinale che appare nei Profeti, il perfezionarsi della Rivelazione, che, grazie all’Incarnazione e all’opera dello Spirito Santo, si concluderà con la dottrina insegnata dagli Apostoli, è invece, per Spinoza, nient’altro che sintomo di “opinioni contrastanti”. Lo schema interpretativo costruito per i profeti, che espunge il sovrannaturale e riduce la profezia ad un’opinione personale del profeta e il profetismo biblico ad un coacervo di “opinioni contrastanti”, lo ritroviamo paro paro nello schema applicato agli Apostoli. Eliminato il sovrannaturale dalla religione rivelata, che cessa pertanto di esser rivelata, Spinoza può allora procedere alla parte “politica” del suo Tractatus, nella quale viene teorizzato il concetto della libertà religiosa come espressione della libertà di coscienza (capp. XVI-XX). Ma la libertà religiosa intesa come espressione della libertà della coscienza individuale per ciò che riguarda la fede, presuppone una fede di tipo deistico- razionalistico ovvero l’eliminazione delle religioni rivelate e la loro sostituzione con una religione “civile”, i cui articoli di fede siano stabiliti dalla ragione come i più adatti alla convivenza pacifica tra i cittadini.

Lo Stato “ben ordinato” ossia costruito secondo ragione nasce (alla maniera di Hobbes) dal patto sociale con il quale gli individui rinunciano in favore del potere sovrano al loro (supposto) diritto ad ogni cosa, tipico della loro condizione naturale, regno della “forza” e della “cupidigia”. Nello stato di natura non ci sono pertanto né giustizia né ingiustizia né religione né idea del peccato. La ragione ci impone dunque di uscire dalla natura e di sottometterci allo Stato, per il nostro vantaggio ed utilità non per attuare la giustizia. Solo vivendo secondo i dettami della ragione si è liberi361. E la ragione spinge l’uomo ad accettare la Rivelazione “perché ciò gli è utile, oltre che necessario alla salvezza”362. Ma la Rivelazione vale per l’uomo in società unicamente come “diritto divino rivelato” che si accetta con un patto esplicito, con il quale gli uomini “promettono di obbedire a Dio in ogni cosa”363.

La “suprema autorità” dello Stato mantiene e garantisce il “diritto divino rivelato” senza esser vincolata dall’opinione dei singoli in materia. Lo Stato spinoziano, come quello teorizzato da Hobbes, gode di una sovranità assoluta, che gli deriva dal modo nel quale è concepito il patto sociale. Il potere sovrano ha il diritto di imporre un culto pubblico cui tutti devono obbedire, religione senza dogmi di origine sovrannaturale, costruita dalla ragione per realizzare la pace sociale ed evitare la guerra civile. Religione non rivelata, dunque, ma i suoi princìpi o articoli di fede o “nozioni di Dio” tutti li devono rispettare perché coincidono con la vera “fede cattolica” o “universale”, che Spinoza estrae dalla religione rivelata. Essi sono: 1. Esiste Dio, “un ente supremo sommamente giusto e misericordioso esemplare della vera vita”; 2. È un Dio unico; 3. È presente ovunque; 4. Ha “di diritto il dominio supremo su ogni cosa”; 5. “Il culto di Dio e l’obbedienza a lui consistono nella sola giustizia e nella carità, ossia nell’amore verso il prossimo”; 6. Sono “salvi” unicamente coloro che seguono la “regola di vita” del punto n. 5, gli altri, sono “perduti”; 7. Dio perdona i peccati a coloro che ne sono pentiti364.

Questa, dunque, la vera “religione cattolica”, nel senso letterale di “universale”, che tutti, secondo Spinoza, possono accettare perché conforme a ragione e che tutti devono accettare in quanto imposta dallo Stato come unico culto pubblico. Si tratta, come ognun può vedere, di un eptalogo deista, con reminiscenze veterotestamentarie e protestanti. Sono i sette “dogmi” di una vera e propria religione civile, laica, che lo Stato deve sostituire a quella rivelata; religione che circa un secolo dopo ritroveremo, fatte le opportune differenze, nell’ultimo capitolo del Contrat Social di Jean-Jacques Rousseau (aprile del 1762), dedicato alla laica “religione civile”. Non mi sembra anacronistico designare la “fede” civile elaborata da Spinoza con il posteriore appellativo di “religione civile”, che quella fede già adombra365.

Il punto essenziale per ciò che riguarda la libertà religiosa è il quinto, dato che il culto reso pubblicamente a questo Dio costruito dalla ragione deve integrarsi con la libertà di coscienza che si deve riconoscere a ciascuno. Scrive, infatti, Spinoza, che, per evitare le discordie e le guerre civili, «nulla di più sicuro si può escogitare per lo Stato che riporre la pietà e il culto religioso nelle sole opere, e cioè nell’esclusivo esercizio della carità e della giustizia, lasciando a ciascuno libertà di giudizio in tutto il resto»366. La “carità” verso il prossimo e la “giustizia” sono per Spinoza l’unico vero contenuto della Rivelazione, deducibile dal Discorso della Montagna e in definitiva dall’intera Bibbia; sono i due precetti che la ragione può legittimamente dedurre dalla Rivelazione, che viene così ridotta a due massime ragionevoli della vita in comune, gravate di un preminente significato sociale dal momento che vengono a dipendere dalla legge del Sovrano e si esercitano “soprattutto in vista della pace e della tranquillità dello Stato”367.

La libertà di coscienza nelle cose della religione appare nell’inciso: “lasciando a ciascuno libertà di giudizio su tutto il resto”. Come si giustifica questa “libertà di giudizio”? E che significa “tutto il resto”? E da dove emerge? Con il patto sociale, l’individuo non ha forse alienato al potere sovrano anche questa libertà? Ma questa “libertà di giudizio” è assoluta nel suo principio dal momento che non può essere alienata dall’individuo. Non è però assoluta nella sua attuazione pratica. La manifestazione di questo diritto inalienabile della persona è legittimamente sottoposta a limiti da parte dello Stato. Infatti, «se è impossibile togliere completamente ai sudditi questa libertà, d’altra parte sarà assai pericoloso concederla loro senza riserve»368. Differenziandosi qui da Hobbes, Spinoza teorizza che nel patto l’individuo non trasferisce tutti i suoi diritti allo Stato. Non li trasferirà al punto da «cessare di essere uomo; e nemmeno si darà mai un potere così assoluto, che possa fare tutto ciò che vuole. Così, inutilmente esso ordinerebbe al suddito di odiare colui che lo ha beneficiato, di amare chi lo ha danneggiato, di non reagire alle offese etc.»369. Sono esempi per assurdo, che ancora non ci illuminano sul motivo per il quale l’individuo non alieni il suo diritto alla libertà di coscienza in fatto di religione. Perché la religione occupa presso ognuno una sfera che non può costituire materia di contrattazione pattizia con il potere sovrano dello Stato?

Perché, come spiega l’Autore nel cap. VII, Dell’interpretazione delle Scritture, non consistendo «tanto negli atti esterni, quanto nella semplicità e nella sincerità dell’animo, essa non è di competenza di alcun diritto pubblico né di alcuna pubblica autorità. La semplicità e la sincerità dell’animo infatti non si infondono negli uomini con l’imperio delle leggi e con la forza della pubblica autorità, e nessuno assolutamente può essere costretto con la forza o con le leggi a raggiungere la beatitudine»370.

La religione è costituita per Spinoza unicamente dalla “semplicità e sincerità dell’animo”, dalla nostra buona disposizione interiore (che pur deve esserci). Il suo è un concetto incompleto, parziale della religione e della fede perché è un concetto puramente soggettivo di religione, simile a quello dei Protestanti ma anche caratteristico di chi non ammette l’esistenza di un Dio vivente, creatore, personale, che si sia rivelato con delle verità alle quali il nostro intelletto deve prestare l’assenso dovuto. Queste “semplicità e sincerità dell’animo” non sono quelle invocate da Profeti e Apostoli quando esortano gli uomini a credere in Dio e ai suoi comandamenti non solo a parole, con le labbra, esteriormente ma anche e soprattutto col cuore, con tutta l’adesione della loro anima, del loro intelletto e quindi con le buone opere che traducono quell’adesione in vita concreta. La “sincerità” evocata nella Bibbia riguarda sempre il modo con il quale si deve assentire alla verità rivelata, mettendone poi in pratica ogni giorno gli insegnamenti, ribaditi da Profeti ed Apostoli. Invece in Spinoza la “semplicità e sincerità interiore” sono disposizioni che legittimano il nostro diritto a “pensare liberamente”: non sono concepite in funzione della verità proclamata da Dio ma di una libertà interiore fondata in modo assoluto sull’io stesso, per il fatto stesso di esistere.

«Godendo ognuno del pieno diritto [naturale] di pensare liberamente, anche in materia di religione, e non potendosi concepire che alcuno possa perdere questo diritto, ognuno avrà anche il pieno diritto e la piena autorità di giudicare liberamente in materia religiosa e, per conseguenza, di spiegarla e interpretarla a se stesso»371. Il “libero esame” dei Protestanti era concepito inizialmente come indagine affidata espressamente dal singolo credente alla guida dello Spirito Santo. Ma ogni connessione con il sovrannaturale scompare nel “libertinismo” teologico di Spinoza. Le verità della religione appartengono solo al singolo e al suo diritto, sono un puro fatto di coscienza, privato, senza intromissioni sovrannaturali qualsivoglia. Questo diritto del singolo è, in linea di principio, assoluto, nel senso che non deriva dal riconoscimento di un’autorità superiore, anche se (come si vedrà) esso può ed anzi deve esser limitato quanto al suo esercizio. E che sia assoluto lo si deduce dal paragone stabilito subito dopo da Spinoza con il diritto “del magistrato”. «Per nessun altro motivo, infatti, la somma autorità di interpretare le leggi e di giudicare dei pubblici interessi è affidata al magistrato [al potere politico], se non perché si tratta di diritto pubblico: e per lo stesso motivo la somma autorità di spiegare la religione e di giudicare in materia religiosa resta propria di ciascuno, per la ragione che appartiene al diritto di ciascuno»372. Né i teologi né i Papi né i rabbini possono pretendere di interpretare per noi le Scritture: «la norma di interpretazione non può essere che quella del lume naturale che è comune a tutti, e non un lume sovrannaturale né un’autorità esterna»373. Prevale il “lume naturale”, che non è vincolato all’“autorità esterna” (sia essa della Chiesa Cattolica, del Concistoro calvinista o della Sinagoga), ma nemmeno (annoto) all’autorità delle Scritture in sé e per sé considerate, se esso può giungere ad elaborare l’eptalogo di cui sopra o comunque ad aderirvi. Il “lume naturale” può evidentemente fabbricarsi o comunque scegliersi la religione che vuole, purché la ritenga conforme alla ragione.

Il “lume naturale” è tuttavia vincolato a riconoscere la “religione civile”, l’eptalogo posto dallo Stato come religione (apparentemente) semplice e naturale i cui principi devono esser accettati da tutti i cittadini. Come si concilia, allora, un diritto naturale alla libertà di coscienza proclamato in modo così radicale con il culto pubblico di Stato all’Ente Supremo, che impone di attuare la “giustizia” e la “carità” verso il prossimo sulla base di un teismo che si sostituisce alle religioni rivelate? Si concilia, dal punto di vista di Spinoza, perché la religione civile o dello Stato deve limitarsi a imporre le buone opere, così come concepite dal punto di vista dello Stato. “Per tutto il resto”, invece, il cittadino conserva il suo diritto naturale o assoluto alla libertà di pensiero e può giudicare le Scritture con il suo “lume naturale”.

Ci sono almeno due osservazioni da fare. La prima è la seguente: lo Stato non si limita ad imporre le “buone opere” senza entrare nel dogma religioso, visto che a sua volta esso impone degli articoli di fede, che sono quelli di una religione diversa da quella rivelata, il teismo appunto. Le “buone opere” richieste dalla “religione civile” si sorreggono per l’appunto sui dogmi della “religione civile”. La posizione dello Stato spinoziano è quindi solo in apparenza neutrale rispetto alla religione: esso al contrario oppone la sua propria religione (il teismo civile, potremmo chiamarlo) alla religione rivelata e a tutte le religioni.

Seconda osservazione. Se lo Stato riconosce ai singoli il diritto innato di interpretare le Scritture con il loro “lume naturale”, non ricominceranno le dispute teologiche, le fazioni ed infine le lotte civili? È chiaro che, nella prassi, l’esercizio del nostro assoluto diritto naturale deve esser sottoposto a dei limiti, che incideranno nel merito delle varie opinioni religiose. Ma il “lume naturale” può anche condurmi a negare validità ai sette comandamenti della spinoziana religione civile imposta dallo Stato, del tutto inaccettabile per un Cattolico. Cosa succederà, in questo caso? Che il Cattolico verrà considerato un “sovversivo” (seditiosus).

Il limite insuperabile che trova l’esercizio della “propria libertà di giudizio” nei confronti della religione è quello del diritto sovrano dello Stato, che non può esser messo in discussione. L’esercizio di questa libertà non può “arrecar pregiudizio al diritto della suprema potestà”, derivante ad essa dal patto sociale. Questo “diritto” si manifesta nello “ius circa sacra” dello Stato: diritto di regolare tutti gli affari ecclesiastici o diritto pubblico ecclesiastico, che dir si voglia. Con esso, lo Stato regola “l’esercizio esterno del culto religioso” in modo da mantenere “la pace della Res Publica”, la pace sociale. E quand’è che l’esercizio della suddetta libertà si rivela “sedizioso”? Quando si manifestano opinioni che contraddicono il patto sociale sì da “annullarlo”, per esempio negando la legittimità del potere sovrano, negando l’obbligo di mantenere le promesse o affermando il diritto di ciascuno di vivere “a proprio arbitrio”, come se fosse ancora nello stato di natura374. E quando si professano opinioni che incitano alla “vendetta, all’odio etc.”, anche se esse devono considerarsi “sovversive” solo in uno Stato già corrotto da “uomini superstiziosi e ambiziosi, che non possono tollerare gli spiriti liberi”375.

Ora, come non vedere che chi non si riconosce nei sette comandamenti della religione civile può esser facilmente accusato di essere un “sovversivo” dallo Stato e perseguito come tale? Ho già detto che l’eptalogo spinoziano è inaccettabile per un Cattolico (si intende, che abbia mantenuto il sensus fidei). Glielo impedisce proprio la sua coscienza di credente. Il Dio professato dalla Res publica spinoziana non è il Dio vivente, che si è rivelato, e ha parlato tramite i Profeti e gli Apostoli; non è la Santissima Monotriade; è un’idea della ragione che viene onorata non con un vero culto religioso, in pratica impossibile, ma unicamente con un comportamento conforme ad un’idea laica ed umanitaria (solidale, si direbbe oggi) di giustizia e carità, idea socialmente utile e imposta dallo Stato. Le verità rivelate della salvezza e della dannazione eterna sono ridotte a burletta al punto n. 6, visto che sarebbero salvi o dannati solo coloro che si dimostrassero o non caritatevoli nel senso laico del termine, gradito allo Stato. Il “perdono dei peccati” è poi concepito alla maniera dei Protestanti eretici. Di sacerdozio, liturgia, Sacramenti e Sacra Scrittura nessuna traccia, ovviamente.

Non potendo in coscienza accettare un simile caricatura della vera religione, un Cattolico non negherebbe con ciò, anche solo implicitamente, la legittimità dello “ius circa sacra” dello Stato che se lo fosse attribuito? E non potrebbe venir pertanto considerato alla stregua di un “sedizioso” che incita, anche indirettamente, i suoi compatrioti alla disubbidienza, foriera di discordia civile? I limiti posti necessariamente da Spinoza all’esercizio della libertà di coscienza, sono dunque tali da impedire di fatto ai Cattolici di professare pubblicamente la loro religione. Di professarla pubblicamente — si intende — sempre come opinione privata perché come culto pubblico essa si troverebbe già sostituita dalla religione civile dello Stato o comunque ad essa adattata. Spinoza non fa cenno della permanenza e liceità di un culto pubblico diverso da quello teistico voluto dalla Respublica e configurato nella “religione civile”. Diverso, perché non conforme ai suoi sette articoli di fede. 

La verità è che, nell’ottica di Spinoza, la religione rivelata non ha un proprio diritto ad esser riconosciuta come tale dallo Stato. Ce l’ha solo l’opinione privata dell’individuo purché non attenti al diritto dello Stato. E questo è perfettamente logico, trattandosi di uno Stato che riconosce solo il culto della religione che esso stesso si dà, regolando a suo modo il ius circa sacra, e che ho chiamato teismo civile (o politico, se si preferisce). Ed è autorizzato a darselo, secondo Spinoza, in conseguenza del patto sociale (naturalmente, come inteso da un pensatore che professa il Deus seu natura e nega il libero arbitrio). Sulla falsariga di Hobbes, afferma anch’egli la competenza esclusiva dello Stato in materia di culto religioso pubblico. Pertanto, la religione acquista “forza giuridica” (vis iuris) nello Stato “soltanto in seguito al decreto di coloro che hanno il diritto di imperio”, cioè che detengono il potere sovrano. Le “somme potestà” hanno quindi in esclusiva il diritto di stabilire e regolare “il culto religioso e l’esercizio della pietà”, dato che entrambi “devono conformarsi alla pace e all’interesse dello Stato”. Le “somme potestà devono essere anche le interpreti” del culto376. Se ne deduce, perciò, che se un culto pubblico cattolico fosse ammesso, lo sarebbe solamente dopo esser stato “interpretato” dal potere sovrano ovvero reinterpretato e modificato da quest’ultimo secondo i dogmi della sua “religione”, quella “civile”.

Nel “culto esterno” si realizzerebbe, inoltre, anche il Regno di Dio perché «quello è regno di Dio, nel quale la giustizia e la carità hanno vigore di legge e decreto»377. Per l’immanentista Spinoza il Regno di Dio può realizzarsi solo in questo mondo e ad opera dello Stato. “Giustizia” e “carità” non possono ricevere il loro “vigore” se non “dal diritto d’imperio” cioè dalla legge dello Stato. Infatti, «Dio non esercita sugli uomini alcuna sovranità, se non per mezzo di coloro che sono investiti del potere» e questa è la “vera religione”, dato che “solo nel diritto della giustizia e della carità” è la “vera religione”378. Pertanto, obbedire alla volontà di Dio significa far sì che «il culto religioso esterno ed ogni esercizio della pietà debbano uniformarsi alla pace e alla conservazione dello Stato»379. Ogni “atto di pietà” verso il prossimo che provochi (senza volerlo, evidentemente) “un danno per lo Stato”, si risolve oggettivamente “in empietà” ed è giusto che chi l’ha posto in essere sia punito, anche con la morte380. Persino il significato dell’“atto di pietà” viene stravolto da Spinoza. Lo Stato è quindi “interprete e vindice” della religione. Di quale religione? Di nessuna religione storica, si intende, tantomeno se rivelata, ma — ripeto — della “religione civile” racchiusa nei sette comandamenti che tutti devono osservare nel loro culto esterno di Dio.

Su questi fondamenti, in che senso può allora affermare Spinoza, nell’ultimo capitolo del Trattato, che “il vero fine dello Stato è la libertà”? La libertà perché il suo fine non è quello di dominare, schiacciare col terrore, angustiare col timore, ma di garantire una vita sicura in modo che ognuno «possa godere nel miglior modo del proprio naturale diritto di vivere e di agire senza danno né suo né degli altri»381. È dunque quello di permettere un certo grado di libertà nella vita privata e pubblica. Cosa su cui possiamo esser in generale tutti d’accordo. Ma ciò non basta.

Poiché ciascuno è “per diritto imprescrittibile della natura padrone dei propri pensieri” sì da non poter “rinunciare ad esprimere il proprio giudizio intorno a qualunque cosa” (dalla religione alla “filosofia”) e di fatto non vi rinunzia, come dimostra l’esperienza, bisogna consentire a ciascuno di “pensare e giudicare, e quindi anche parlare, contro il decreto” della pubblica autorità, ma con una condizione: «purché parli o insegni semplicemente, e sostenga ciò che dice seguendo la sola ragione, e non con inganno, con ira e con odio, né con l’intenzione di introdurre qualcosa nell’amministrazione dello Stato basandosi sull’autorità della propria decisione»382. È quindi lecito criticare una legge ma da filosofo e saggio, senza agitarsi troppo, rimettendosi sempre al giudizio dell’autorità e senza far nulla contro la legge stessa. Non è, infatti, lecito criticare “con l’intenzione di accusare il magistrato di iniquità e di renderlo odioso al popolo”; e chi critica con «il sedizioso proposito di abrogare quella legge contro la volontà del magistrato, è senz’altro un ribelle e un perturbatore»383.

Secondo questa logica, chi critica oggi la normativa aberrante che concede alle donne nell’odierna laicissima Respublica la libertà indiscriminata di abortire, con l’intento evidente di vederla abrogata, sarebbe da considerarsi un sedizioso e un ribelle!

La libertà di espressione deve quindi esercitarsi “senza pregiudizio del diritto e dell’autorità del potere supremo e cioè senza pregiudizio della pace dello Stato”, ossia a condizione «che si lasci all’autorità costituita la facoltà di decidere tutto il da farsi e di non contravvenire in nulla alla sua decisione»384. In questo modo Spinoza è convinto di aver conciliato il “diritto” del potere sovrano ad esercitare le sue funzioni e l’incoercibile diritto naturale di ognuno a pensare liberamente e a manifestare il suo pensiero, anche nell’ambito della religione oltreché della “filosofia”. Lo Stato non può entrare nelle coscienze e il suo potere “viene limitato alle azioni” vale a dire alla sfera esterna, pubblica, sia in campo civile che religioso. Pertanto, ad ogni cittadino “è consentito non solo di pensare quello che vuole ma anche di dire quello che pensa”385.

6.7 La vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza è fictio ed instrumentum regni

La tanto vantata libertà di coscienza teorizzata da Spinoza poteva sembrare un’importante innovazione ai suoi tempi, dominati dal bisogno di trovare un compromesso tra l’esigenza di pace e di ordine e il permanere dei conflitti politico-religiosi. Ma la condanna che all’epoca ricevette dai rappresentanti di tutte le religioni è significativa. Oltre a dare un’interpretazione tendenziosa delle Scritture, il Trattato propugna una libertà che appare fittizia. Infatti, se chi la esercita mira “ad abrogare la legge contro la volontà del magistrato” ossia del potere che l’ha emanata, deve esser considerato un “sovversivo” e sottoposto al rigore delle leggi. Come a dire: alla coscienza individuale è consentito solamente di fare “l’opposizione di Sua Maestà”, come si diceva una volta, che si svolga cioè rispettosamente nell’ambito del sistema ed ordine costituito, senza mai pretendere di modificarlo. Per ciò che riguarda la religione, è evidente che è proibito esprimere opinioni che mirino anche solo a modificare il deismo imposto dallo Stato, con i suoi sette comandamenti elaborati a tavolino da Spinoza. La “religione civile” che sostituisce quella rivelata è intoccabile, chi non l’accetta e non la mette in pratica è un “sovversivo”, un “sedizioso”, e come tale va trattato.

La concezione di Spinoza mi sembra falsa e contraddittoria. Falsa la libertà di coscienza ipotizzata, perché in funzione dell’ordine costituito (per di più non cristiano) e subordinata in maniera radicale alle sue esigenze. Falsa, perché, dietro l’apparente neutralità lo Stato, mediante il culto esteriore da esso predisposto e mantenuto, impone in realtà a tutti il suo culto deista e razionalista. Abbiamo allora una religione (quella “civile” dello Stato) contro tutte le altre, ammesse solo come opinione privata di saggi o eruditi, che non graffi e non morda, quando si manifesti in pubblico. C’è poi la contraddizione di una libertà così raccorciata nel suo esercizio e così funzionale all’interesse del potere sovrano, da sembrar concepita addirittura come “instrumentum regni” del potere stesso.

La libertà di coscienza postulata da Spinoza offre, a mio avviso, meno tutele alla religione delle minoranze di quante ne offrissero la dottrina e la prassi della Chiesa Cattolica. Consideriamo i due rispettivi schemi concettuali. Cosa troviamo in quello cattolico tradizionale, durato sino al Vaticano II escluso? Il riconoscimento (tacito sino a Pio XII) di un diritto naturale dell’Acattolico a praticare la propria religione di appartenenza, compatibilmente con il rispetto dovuto alla vera religione (quella cattolica, riconosciuta e protetta dallo Stato cattolico e socialmente dominante) per ciò che ne concerne l’esercizio, ossia il culto pubblico. Ciò comportava dei limiti evidenti all’esercizio del diritto dell’Acattolico, come si è ricordato sopra, ed una posizione di privilegio della religione cattolica. Il riconoscimento tacito o espresso di questo “diritto naturale” non costituiva in nessun modo riconoscimento di un supposto diritto innato dell’individuo a professare e praticare qualsiasi religione egli ritenesse la vera ed unica, sulla base del suo sentimento interiore o “lume naturale”, in definitiva della sua semplice o p i n i o n e. La libertà innata di pensiero dell’individuo in materia religiosa non era pertanto riconosciuta, né avrebbe potuto esserlo, perché in tal modo si sarebbe negata la validità della Rivelazione.

Cosa offre, invece, la libertà di coscienza propugnata da Spinoza? La libertà di criticare pubblicamente e in modo ragionevole come individuo privato “il decreto del sovrano” senza però mai pretendere di “abrogarlo”. Tale libertà dovrebbe esercitarsi anche nei confronti della “religione civile”, visto che anch’essa risulta da un decreto del sovrano. Ma ciò è impossibile. Essa è intoccabile, essendo l’unico culto pubblico ammesso dallo Stato. A che serve, allora, questa libertà di critica? Inoltre, gli altri culti (com’è ovvio) non risultano ammessi, in quanto culti pubblici. Ciò significa che la laica Respublica di Spinoza non riconosce un diritto naturale all’esercizio pubblico (anche se limitato) della propria religione di appartenenza, come riconosciuto invece dalla Chiesa Cattolica. Spinoza ammette l’individuale libertà di critica (sempre ragionevole, immune dalle passioni) non nei confronti del culto pubblico posto dallo Stato ma solo nei confronti di quello che egli chiama “tutto il resto” e nel modo estremamente limitato che si è visto. Ma non ammette la libertà di professare, anche in modo limitato, una religione diversa da quella ufficiale, cosa ammessa invece dalla Chiesa Cattolica.

Allora: libertà individuale di critica più apparente che reale e nessuna vera libertà di culto per le minoranze. Mi sembra meno di quanto concedesse la Chiesa. Essa non ammetteva la libertà di opinione in religione ma concedeva libertà di culto, sia pure con limiti evidenti al suo esercizio. Il sistema di Spinoza sembra concedere molto sul piano della libertà d’opinione ma in realtà partorisce una libertà del tutto accademica per non dire platonica e non concede alcuna libertà di culto. E dico: accademica, non per il fatto in sé di esser sottoposta a limiti. I limiti alla manifestazione della “libertà di giudizio” di ciascuno sono necessari, se non si vuole che la società sprofondi nel caos. Solo un’epoca che abbia smarrito il vero concetto della libertà può pretendere una libertà di coscienza senza limiti, per tutti. Accademica, dunque, per come sono concepiti questi limiti: tali da rendere di fatto innocua la libertà di pensiero. In ogni caso, applicato al Cattolicesimo, considerato religione di minoranza rispetto al teismo della “religione civile”, il sistema di Spinoza implica la scomparsa ufficiale del culto cattolico, salvo la sua “reinterpretazione” secondo i dogmi del teismo di Stato, della “religione civile”. Questo lo schema che risulta dal principio di tolleranza di Spinoza, ancora considerato a tutt’oggi un apostolo della libertà di coscienza, anche dai Cattolici di tendenza liberale.

Lo schema spinoziano è tipico di un pensiero che vuole eliminare la religione rivelata dalla vita di relazione. Prendendo a pretesto le dispute e le lotte provocate dagli eretici e facendo leva su di un legittimo desiderio di pace sociale, il pensiero moderno ha voluto ridurre la religione in senso proprio a semplice elaborazione del sentimento individuale e del lume naturale di ciascuno, ad un fatto del tutto privato, che non deve incidere sul surrogato che lo Stato o la “Volontà Generale” propinano per religione ufficiale, in nome della pace e della sicurezza di tutti. In tal modo si elimina Dio dallo Stato e dalla società e si dichiara l’incompatibilità del Cattolicesimo (ma anche di tutte le altre religioni) con lo Stato “ben ordinato” che la ragione pretende di sostituire a quello Cristiano, dilaniato dalle guerre confessionali. La messa al bando del Cattolicesimo è ancora implicita in Spinoza. Diventerà esplicita nella “religione civile” propugnata a sua volta da Rousseau, vero e proprio invito alla persecuzione che troverà i suoi esecutori nei rivoluzionari dell’89.

«Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al corpo sovrano fissare gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socialità senza i quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a credere in essi, può bandire dallo Stato chiunque non vi creda; può bandirlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole, in quanto incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e di immolare, se occorra, la sua vita al suo dovere. Se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente quegli stessi dogmi, si comporta come se non vi credesse, sia punito di morte; egli ha commesso il più grande dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi. I dogmi della religione civile devono essere semplici, pochi di numero, enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti. L’esistenza della divinità potente, intelligente, benefica, previdente e provvida, la vita futura, la felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santità del contratto sociale e delle leggi; ecco i dogmi positivi. In quanto ai dogmi negativi, io li limito ad uno solo: l’intolleranza; essa rientra nei culti che abbiamo escluso»386.

Tra i culti “esclusi”, nella prima parte dello stesso capitolo, era stato messo “il cristianesimo romano”, detto anche “religione del prete”, perché (a dire di Rousseau ma si trattava di una vecchia e consunta accusa) dava agli uomini “due legislazioni, due capi, due patrie” impedendo loro di essere “allo stesso tempo devoti e cittadini”387. Il Cattolicesimo era dunque un culto da escludersi dalla società nuova, che si voleva fondare sul Patto Sociale, sulla ragione, su sentimenti di socialità e umanità. Escluso proprio per la sua pretesa fondamentale, derivante dall’insegnar esso la vera Parola di Dio, l’unica che dà la salvezza. Non è più il tempo delle religioni “nazionali ed esclusive”, conclude Rousseau. Si devono tollerare tutte quelle che tollerano le altre e “fin tanto che i loro dogmi non abbiano niente di contrario ai doveri del cittadino”. Ma questa “tolleranza” il nuovo Stato non può esercitarla nei confronti del Cattolicesimo. Perché? Perché «chiunque osi dire: “Fuori della Chiesa non vi è salvezza”, deve essere espulso dallo Stato, a meno che lo Stato non sia la Chiesa, e il principe non sia il pontefice»388.
7. Come ha potuto il Concilio “far suo” questo principio della libertà religiosa quale diritto assoluto della persona, che presuppone uno Stato agnostico e ateo, quale lo Stato moderno? Su quali basi?
Quanto appena visto a proposito di un autore esemplare per la moderna “libertà di pensiero” come Spinoza, permette, anche alla luce dello sviluppo storico successivo, di ricavare un concetto generale del rapporto tra lo Stato e la “libertà religiosa” nel senso moderno del termine? A mio avviso, il concetto è il seguente: il riconoscimento di una paritaria libertà di coscienza per le religioni esistenti in uno Stato presuppone che quello Stato non ne professi alcuna. Se ne professasse qualcuna, inevitabilmente la favorirebbe rispetto alle altre. Presuppone, quindi, uno Stato agnostico o ateo. Lo Stato di Spinoza si presenta con un suo culto pubblico, i cui articoli di fede sono estrapolati dal monoteismo ebraico e dal Protestantesimo. Ma abbiamo ben visto che essi altro non sono se non gli articoli di quel deismo o concezione puramente “razionale” di Dio fabbricata dall’uomo, che la filosofia nemica della Rivelazione opponeva alla Rivelazione stessa. E il deismo, come sappiamo, oltre a comportare l’agnosticismo nei confronti della verità rivelata, è in realtà l’anticamera dell’ateismo, quando non è esso stesso vero e proprio ateismo mascherato. 

Il primo passo nell’ateismo consiste in genere nel negare la storicità della Rivelazione e l’esistenza di un Dio vivente e personale, che ci ha creato e ci giudicherà subito dopo la nostra morte. Il secondo, nel proporre per l’appunto il Deus seu natura. Il terzo, nel proclamare il puro e semplice regno della natura, quale unica realtà, increata, eterna ed immutabile, irresistibile nelle sue pulsioni. Una lettura del Trattato libera dalle pastoie del politicamente corretto, non può che confermare l’impressione negativa dei contemporanei, che scorsero immediatamente la mano dell’ateo nell’“esegesi” razionalista dell’anonimo Autore: «infamem illum discursum theologico-politicum cuius auctor creditur Benedictus Spinoza qui ex Judaeo factus est deista, si non atheus...», scriveva l’arminiano olandese Limborch ad un suo amico, inviandogliene un esemplare389. Lo Stato moderno, aconfessionale, in apparenza ancora legato in Spinoza a forme di religiosità, ha poi, nel suo sviluppo storico, gettato la maschera, nel senso che il sostrato ateistico della sua ideologia è venuto sempre più allo scoperto. Lo constatiamo noi oggi anche nel nostro Stato repubblicano, una democrazia atea che ha messo completamente da parte Dio, e più non vuole professare, come in passato, il Cattolicesimo come religione ufficiale dello Stato.

Il Concilio ha voluto proporre una “libertà religiosa” che ricalca quella dello Stato laico agnostico e ateo del nostro tempo, accettandola cioè come diritto insopprimibile della coscienza individuale, la cui “dignità” riposa su sé stessa, poiché la “coscienza” per i Moderni si pone da sé come valore in sé, è autopoietica. Ma come poteva far ciò, non solo senza contraddire l’insegnamento precedente della Chiesa ma anche senza aprire le porte all’agnosticismo e all’ateismo? E difatti queste malattie dello spirito hanno o non attecchito ampiamente nel corpo un tempo sano della Cattolicità, a partire dal Concilio? Ma il Concilio non sembrava rendersi conto delle gravi antinomie presenti nel principio della “libertà religiosa”, in particolare per ciò che riguarda il nesso Stato agnostico-ateo/libertà religiosa; antinomie che credo di aver fatto emergere dall’analisi del pensiero di Spinoza sul tema. Il Concilio presentava quella libertà come una sorta di coronamento della riflessione sempre “più chiara” della “ragione umana” sulle esigenze autentiche della “dignità della persona” (DH, 9), come se quella libertà fosse stata il risultato di uno sviluppo intellettuale lineare e positivo, cui anche la Chiesa doveva ora allinearsi, e non, invece, il risultato dell’affermarsi di una filosofia anticristiana, agnostica ed atea, la quale, oltre a sostituire la verità della coscienza individuale alla verità rivelata da Dio, faceva dello Stato un nemico del Cattolicesimo e alla fine di ogni religione.

L’inserimento del tema della “libertà religiosa” laicamente concepita nella dottrina della Chiesa avveniva pertanto al prezzo di una falsificazione di prospettiva per ciò che riguardava l’esatto significato storico di quella “libertà”, costruita in antitesi al Cattolicesimo e proprio in odio al dogma “fuori della Chiesa non c’è salvezza”. Ma il Concilio doveva nello stesso tempo giustificare le sue tesi anche alla luce della dottrina della Chiesa, nel senso di farvi apparire in qualche modo il tema della “libertà religiosa”. Mancando un appiglio sicuro nel Magistero, poiché la strombazzata “apertura” di Pio XII, oltre ad esser troppo recente, in realtà non faceva concessioni alla “libertà religiosa” intesa come diritto individuale assoluto della coscienza (vedi supra, § 2.1 di questo capitolo), bisognava trovare dei riferimenti nel Nuovo Testamento. Questo ha cercato di fare DH agli articoli 9-11.

Ho richiamato dianzi le perplessità di mons. Gherardini, che fa valere in termini rispettosi i suoi dubbi sulla validità dell’esegesi proposta dalla Dignitatis humanae, che si sofferma sul “modo di agire di Cristo e degli Apostoli” al fine di dimostrare che essi già praticavano la “libertà religiosa” nei confronti di coloro che volevano convertire. A sostegno delle tesi del Concilio, Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia tenuto nel Natale del 2005, ha introdotto un nuovo concetto, che chiama in causa il significato della testimonianza dei Martiri cristiani. Come si è già visto, egli ha richiamato proprio la “libertà di religione” quale esempio di continuità dottrinale nella Chiesa, pronunciando le frasi ormai celebri: «Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa». Questo patrimonio era quello dei Martiri. Infatti, «i martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede — una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza»390.

Da questo intervento del Papa si deduce che il Concilio sarebbe appunto tornato alle origini, riprendendo “il patrimonio più profondo della Chiesa”, patrimonio che evidentemente era stato trascurato durante tutti i secoli fin qui intercorsi. E nel far ciò, avrebbe “fatto suo” un principio dello Stato moderno, laico e anticristiano sino al midollo. Come si è potuta realizzare una simile quadratura del cerchio? Ma, prescindendo da quest’aspetto della tesi di Benedetto XVI, ciò che conta è il concetto che nel sacrificio dei Martiri cristiani la rivendicazione della libertà di coscienza nel senso moderno sarebbe stata un motivo essenziale. Con tutto il rispetto per l’opinione del Romano Pontefice, manifestata qui del resto in qualità di dottore privato, sulla validità di una simile interpretazione della testimonianza dei Martiri avrei più di un dubbio.

Prima di analizzare la questione, devo però soffermarmi su DH 2, che contiene la definizione della libertà religiosa, e DH 9-11, che cerca di trovare nel Nuovo Testamento un fondamento alla nuova dottrina.
8. DH 2, che definisce il nuovo concetto della libertà religiosa, appare minato da gravi aporie e propone un concetto contraddittorio di verità, incompatibile con quello di verità rivelata da Dio
L’art. 2 della DH, che ha a contenuto l’“oggetto e fondamento della libertà religiosa”, stabilisce che “la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa” (DH 2.1). Non semplicemente (annoto) quello di praticare il culto della religione di appartenenza senza esser perseguitati (Pio XII) ma alla “libertà religiosa”: concetto assai più ampio, perché è il diritto di un soggetto indeterminato, della persona umana ossia di ogni uomo in quanto persona, che deve poter manifestare il dettato della sua “retta coscienza”, secondo l’espressione di Giovanni XXIII. Posto il principio, l’articolo distingue poi tra il “contenuto” e il “fondamento” di questo diritto. Il contenuto consiste nell’assenza di coercizione (da parte di singoli, gruppi, poteri di ogni tipo), in modo che «in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma privata o associata» (DH 2.1). Il principio qui affermato è in linea con la dottrina tradizionale della Chiesa, da ultimo ribadita, come si è visto, nella Mystici Corporis. Nessuno deve esser convertito a forza né costretto ad agire contro la propria coscienza, né impedito a praticare la propria religione, in pubblico o in privato. Si tratta di quelle che mons. Gherardini chiama “le due immunità sempre difese dalla Chiesa” (vedi supra, § 1 di questo capitolo).

La novità dottrinale appare invece nella definizione del “fondamento” di questo diritto. «Il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione [fundatum in ipsa dignitate personae humanae, qualis et verbo Dei revelato et ipsa ratione cognoscitur]» (DH 2.1). In nota l’articolo cita a sostegno la dottrina dei Pontefici al tempo più recenti. Abbiamo visto che solo la contemporanea Pacem in terris di Giovanni XXIII poteva esser legittimamente invocata in aiuto (vedi supra). Il fondamento di questo diritto è dunque costituito dalla “dignità della persona umana”. Ciò significa che questo diritto è posto come un valore assoluto poiché la “dignità della persona umana” è a sua volta un valore assoluto. Fa parte di quelli che la tradizione giusnaturalistica laica chiama “diritti inalienabili della persona”. 

Ora, secondo il Concilio, questa “dignità” risulterebbe dalla Rivelazione (dalla “parola di Dio rivelata”) e dalla “ragione stessa”. Che cosa si deve intendere qui con “ragione stessa”? Evidentemente la “ragione umana” menzionata poi in DH 9, che avrebbe chiarificato nei secoli “le esigenze” della “dignità della persona”. Questa “ragione umana” che ha indagato le profondità del concetto della persona nella sua dignità, non può che essere, come si è già detto, il pensiero filosofico moderno, che ha appunto elaborato l’idea dei diritti della persona e delle connessa dignità della persona. Va notato che DH 2 pone sullo stesso piano la “Parola di Dio rivelata” ossia — mi sembra evidente — il Nuovo Testamento e la “ragione”: entrambi avrebbero concorso a costituire il concetto della “dignità della persona” e dei suoi “diritti”. A me sembra che questo accostamento sia del tutto errato. Come credo di aver fatto vedere a proposito di Spinoza, il modo in cui la “ragione” ossia la filosofia moderna ha inteso la dignità della persona con i suoi diritti, ivi compresa la “libertà religiosa”, non solo non ha nulla a che vedere con il concetto di persona che (secondo il Concilio) si può rinvenire nella Sacra Scrittura o con quello elaborato dalla filosofia del Cristianesimo, ma vi si oppone radicalmente, già per il fatto di negare da un lato il concetto della sostanza e dell’essenza dell’ente; dall’altro, quello del peccato originale, che ci ha fatto perdere la somiglianza con Dio, ulcerando le nostre capacità intellettuali, e dato vita ad un conflitto continuo tra di esse e le passioni, che solo con grande fatica e con l’aiuto della Grazia riusciamo a dominare.

Il Concilio vuol vedere unità concettuale là ove unità non può esservi. Esso ingiunge allo Stato di sancire come “diritto civile” un concetto di libertà religiosa presentato come risultato unitario di una tradizione di pensiero cui avrebbero contribuito e “la Parola di Dio” e la “ragione”, senza contraddizione reciproca. Ma una tradizione di pensiero unitaria, tra la Rivelazione e la laica e moderna “ragione”, non esiste né può esistere, per il semplice fatto che la moderna e laica “ragione”, come si è detto e ripetuto, si è affermata proprio in antitesi alla Rivelazione, pretendendo di sostituirsi essa stessa alla Parola di Dio e ponendo essa stessa l’uomo al centro dell’universo, al posto di Dio. Si noti che il testo dice: “la Parola di Dio”; non può dire: “la filosofia cristiana” o “la tradizione cristiana”, non può mettere assieme Boezio, san Tommaso e Spinoza.

Questa è dunque la prima contraddizione che mi sembra doveroso rilevare in DH 2, contraddizione lesiva della verità, per quanto riguarda la “storia delle idee”. Nel secondo paragrafo dell’art. 2 si stabilisce l’importante principio dell’obbligo morale per ogni uomo di ricercare la verità e la connessione di quest’obbligo con la libertà religiosa. Anche qui si palesano, a mio avviso, evidenti difficoltà.

Si ripropone il tradizionale principio cattolico dell’obbligo morale della ricerca della verità religiosa da parte del soggetto, dotato da Dio di libero arbitrio. A causa della loro “dignità” tutti gli uomini, in quanto “persone” (homines cuncti, quia personae sunt), “sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione”, e ad “aderirvi”, una volta conosciutala, “ordinando la loro vita ad essa” (DH 2.2). Osservo: ciò risulta espressamente dalla Sacra Scrittura. “Credete in Dio e credete anche in Me” (Gv 14,1). “Or, senza la fede è impossibile piacere a Dio, perché è necessario che chiunque si accosta a Lui, creda che Dio esiste e dà la ricompensa a quelli che lo cercano” (Eb 11,6). Difatti, “Egli [Dio Padre] ha voluto che gli uomini cercassero Dio e si sforzassero di trovarlo, come a tastoni...” (Atti 17,27, discorso di san Paolo all’Areopàgo). A quest’obbligo però, continua il Concilio, gli uomini non possono soddisfare “se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna” (DH 2.2). Occorre, dunque, che non vi siano né coercizione interna né esterna perché la coercizione impedirebbe non solo l’esercizio del diritto alla libertà religiosa ma anche l’adempimento dell’obbligo di ricercare la vera religione. Il diritto alla libertà religiosa sembra allora correlativo all’obbligo di cercare la verità ossia la vera religione.

A mio avviso, si ha qui una connessione paradossale: si vuol far dipendere l’adempimento di un obbligo dal godimento di un diritto, godimento che presuppone già adempiuto l’obbligo (dato che presuppone l’aver già trovato la religione che si vuole professare). Osservo, inoltre, che un obbligo è un obbligo, a prescindere da un diritto corrispondente o collegato e dalle circostanze che ne impediscano in tutto o in parte l’adempimento. L’individuo, in quanto persona, dotato quindi di volontà, ragione e perciò responsabile (come ricorda la stessa DH 2.2), se ha moralmente l’obbligo innato di cercare la verità nella religione, ce l’ha a prescindere dal suo diritto a professare pubblicamente e privatamente la verità che abbia trovata. L’obbligo va adempiuto ex sese, senza condizioni, soprattutto un obbligo morale di questo tipo, scaturente dalla nostra stessa natura di uomini, creati da Dio come esseri dotati di libero arbitrio (indebolito ma non eliminato dal peccato originale).

Quest’obbligo incondizionato e senza nessun riferimento alla “libertà religiosa”, non lo ritroviamo, oltre che nei passi appena visti, anche nell’esortazione di Nostro Signore, che è in realtà un comando: «Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù» (Mt 6,33)? L’obbligo di credere in Dio, cercare di attuare il suo Regno in questo mondo ossia la sua giustizia nei rapporti con il nostro prossimo, deriva da un comando che esige in modo incondizionato (un imperativo incondizionato, direbbe Kant). Un comando del genere non può esser condizionato dalla presenza di coercizioni interne o esterne. Non può esserlo, dal momento che il mondo è “il regno del principe di questo mondo”, che già esercita tutte le coazioni possibili ed immaginabili, interne (tentazioni, cattivi pensieri) ed esterne (intimidazioni, calunnie, persecuzioni), su chi vuole credere in Dio e attuare il suo Regno con l’osservare la sua giustizia nella vita di ogni giorno. Non sembra pertanto esatto porre la libertà da ogni forma di costrizione quale condizione pregiudiziale al soddisfacimento dell’obbligo di cercare il vero Dio. Storicamente, molti si sono convertiti a Cristo nelle situazioni di vita più difficili, circondati dall’odio e dal disprezzo, e senza godere di alcuna libertà religiosa, al posto della quale hanno spesso trovato spietate persecuzioni e la morte. La libertà di professare la vera fede se la sono presa, pronti a pagarne le conseguenze sino in fondo, con l’aiuto dello Spirito Santo: «Non pensate che io sia venuto a portar la pace sulla terra; non sono venuto a portar la pace, ma la spada» (Mt 10,34). Naturalmente, molti si sono convertiti grazie anche ad un clima opposto, nel quale la religione cristiana veniva riconosciuta, accettata ed onorata. La conclusione, allora, qual è? Che l’esistenza della libertà religiosa, che pur può favorire le conversioni, non può tuttavia esser ritenuta conditio sine qua non dell’attuazione del dovere morale di cercare il vero Dio.

C’è poi un altro aspetto da considerare, nel dettato di DH 2.2. Il fatto che il diritto alla libertà religiosa abbia, secondo il Concilio, natura ontologica, implica che esso “si fonda sulla natura stessa della persona”. Ciò significa che tale diritto, “perdura [perseverat] anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa” (ivi). Che significato può avere una frase del genere? E a chi si riferisce? La risposta mi sembra evidente: agli agnostici, agli scettici, agli atei. Sembra qui di trovarsi di fronte ad un nuovo paradosso: che la libertà religiosa, in quanto “fondata sulla natura” di ciascuno, deve esser riconosciuta anche ai nemici dichiarati della religione rivelata e di ogni religione, quali appunto agnostici, scettici, atei. DH 2.2 sembra allora usare il concetto di “natura umana” in modo del tutto ambivalente perché costitutivo di due realtà tra loro nettamente contrapposte. Riflettiamo. Infatti, per il Concilio: 1) la “natura umana” fa nascere simultaneamente il diritto alla libertà di coscienza e l’obbligo di cercare il vero Dio, quando in realtà l’una e l’altro non si implicano necessariamente a vicenda. Nei Testi Sacri troviamo l’obbligo di cercare Dio non il diritto alla libertà religiosa quale condizione imprescindibile di questa ricerca. 2) La “natura umana” comporterebbe l’esistenza di questo diritto anche per chi nega l’esistenza di Dio o si dichiara non interessato a stabilirla, come se la “natura umana” amasse la contraddizione e vivesse di essa. Infatti, se da essa natura si ricava il diritto alla libertà religiosa per chi cerca Dio, questo stesso diritto non può essere dalla natura umana attribuito anche a coloro il cui credo consiste nel negare la legittimità stessa della religione e di quella ricerca, convinti come sono che Dio non esiste o, se c’è, che non si cura del mondo. Seguendo la logica qui professata dal Concilio, si dovrebbe dire che la “natura umana” costituisce nello stesso tempo in ognuno di noi un diritto individuale di adorare il vero Dio e uno di negare il vero Dio. Allora, cos’è questa “natura umana”? Il suo concetto non appare incoerente?

DH 2.2 non dice che anche per atei e miscredenti perdura l’obbligo di cercare Dio. Che perduri, è ovvio; non c’è bisogno di dirlo. Dice che permane il diritto all’immunità (ius ad hanc immunitatem perseverat) da ogni coercizione anche per gli atei e miscredenti, i quali non perdono questo diritto, dato che esso non dipende “dalla disposizione subbiettiva della persona” ma, appunto, dalla “sua stessa natura”. Ciò può significare una cosa sola: che scettici ed atei hanno il diritto di veder tutelate le loro opinioni contro Dio e la religione, come se fossero opinioni religiose di segno contrario. L’ateismo e l’irreligiosità non possono esser perseguiti o comunque limitati il più possibile quanto alla loro pubblica professione: devono esser tutelati come se si trattasse della libertà religiosa, ma di segno opposto. Tutelati, anche se si tratta di antireligioni. A conferma di quanto dico, si consideri l’atteggiamento della Gerarchia odierna di fronte alle proteste dei devoti verso pubblicazioni o spettacoli apertamente e volutamente blasfemi nei confronti del Cristianesimo, cosa che sta diventando abbastanza frequente. In primis, l’attuale Gerarchia si preoccupa di difendere il diritto alla libertà di espressione, la libertà di coscienza, qui irreligiosa perché dell’autore blasfemo e anticristiano, che peraltro viene in genere riprovato in termini assai blandi, quasi sempre su sollecitazione pubbliche dei devoti, quasi mai ad iniziativa della stessa Gerarchia, che evidentemente ritiene la libertà di coscienza più meritevole di tutela della Verità Rivelata stessa e dell’onore e decoro della nostra religione.

Se questa conclusione appare eccessiva, guardiamo che cosa dice il Concilio in uno dei tre articoli dedicati dalla Gaudium et spes all’ateismo (GS 19- 21). “Pur respingendo in maniera assoluta l’ateismo”, recita GS 21.7, la Chiesa «riconosce sinceramente che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono contribuire alla giusta costruzione di questo mondo, entro il quale si trova303 no a vivere insieme: ciò sicuramente non può avvenire senza un leale e prudente dialogo». Ancora una volta compare qui la rinuncia a convertire le anime a Cristo, tipica del Vaticano II: l’invito alla conversione è sostituito da quello ad un “leale e prudente dialogo”. Nel prosieguo dell’articolo, infatti, il Concilio “invita cortesemente” gli atei (i discepoli di Spinoza, di Voltaire, di Marx, di Darwin etc.) “a voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto” (GS 21.8). In quest’ottica, l’articolo «deplora la discriminazione tra credenti e non credenti che alcune autorità civili ingiustamente introducono, a danno dei diritti fondamentali della persona umana. Rivendica poi, in favore dei credenti, una effettiva libertà...» (GS 21.7). A quali “autorità civili” si riferiva l’articolo? A quelle comuniste? In ogni caso, sembra evidente dal testo che la libertà di espressione dei “non credenti” è posta dal Concilio sullo stesso piano di quella da attribuirsi ai “credenti”. Connettendo GS 21.7 con il passo sopra visto di DH 2.2, se ne ricava, allora, che il diritto alla libertà di opinione nelle cose religiose deve intendersi come specie del genere “diritti della persona” e quindi includere anche il diritto a manifestare la propria opinione in religione da parte di atei e miscredenti, come diritto naturale, innato.

A questo punto, bisogna chiedersi: qual è il concetto di “natura umana” che emerge da DH 2.2? È esso in armonia con la Tradizione della Chiesa e il pensiero cristiano? A me sembra di no poiché la “natura umana” per la dottrina cattolica non può esser altro che quella creata da Dio, perché lo onorasse e glorificasse. Cosa che, con l’aiuto di Dio, può riuscire a fare nonostante gli effetti nefasti del peccato originale. La negazione dell’esistenza di Dio, in qualunque modo manifestata, è sempre stata intesa, oltre che come peccato, anche come stoltezza, vacuità intellettuale che rappresenta una caduta rispetto al retto ragionamento e una diminuzione della “natura umana” nel senso proprio, profondo del termine. Come dice il Salmo 14,1: “Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus”: “Ha detto lo stolto in cuor suo: Dio non c’è”. E perché l’ha detto? Per colpa della superbia e malvagità dell’animo suo, ribelle al Creatore, che per punizione lo lascia nella sua confusione intellettuale e nei suoi peccati: «I falsi ragionamenti separano da Dio / L’Onnipotente messo alla prova / Confonde gli stolti» (Sap 1,3).

Questa mi sembra dunque la seconda grave contraddizione di DH 2.2: proporre un concetto di libertà religiosa come libertà di adempiere l’obbligo di cercare il vero Dio, fondandola su una “natura umana” che, come tale, costituirebbe anche il fondamento della libertà di opinione antireligiosa di chi è ateo e miscredente e non intende in alcun modo assolvere quell’obbligo, che anzi avversa.

8.1 Quale concetto di verità ci propone la “Dignitatis humanae”? Un concetto non conforme alla Tradizione della Chiesa, perché incompatibile con quello di verità rivelata

Tutto l’impianto del discorso conciliare si basa, a sua volta, su di un concetto utopistico, non cattolico di verità, come appare in DH 1.3 o Proemio della Dichiarazione. Si afferma, infatti, che «la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore». Poiché la «libertà religiosa [...] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (DH 1.3). Dovere, si suppone, di ricercare la verità sulla “vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”. Ho ripetuto qui questa frase solamente in relazione al concetto della verità. Poiché la verità possiede una sua intrinseca “forza”, si suppone che, grazie al “dialogo”, le menti dei dialoganti si lasceranno convincere dalla verità ossia dal fatto dell’esistenza della “vera religione e dell’unica Chiesa di Cristo”. Soprassedendo all’ambiguità della formulazione (già rilevata in antecedenza), mi limito al punto essenziale.

Perché ho definito utopistica la concezione della verità qui propugnata? Non è forse vero che la verità possiede una sua intima forza di convinzione, cui è difficile resistere? È vero. La verità, una volta accertata, ci costringe con la sua indefettibile autorità. La verità possiede un’autorità di fronte alla quale non possiamo far valere la nostra opinione personale: dobbiamo invece inchinarci ed obbedire. La verità e l’autorità si implicano a vicenda, nel senso che la verità ha come tale autorità. Ma chi la riconoscerà l’autorità della verità, della verità in sé e per sé, nella sua intrinseca oggettività? Tutti gli uomini, senza eccezione, una volta convinti con validi ragionamenti?

La riconosceranno soprattutto coloro che sono disposti ad accettare la verità. Non quelli, in genere la maggioranza, che non sono disposti, per i più vari motivi, e che anzi arrivano persino a respingere la verità proprio perché è la verità. Con la sua predicazione, le profezie, i miracoli, Nostro Signore ha forse convinto tutto Israele o solo una piccola parte? San Giovanni scrive che molti “tra i capi” di Israele (anche tra i Farisei) credettero in Cristo, “ma non lo confessavano per paura di esser scacciati dalla sinagoga” ad opera dei Farisei (Gv 12, 42). Avevano capito Chi era effettivamente Gesù di Nazareth ma le loro passioni e le loro paure facevano velo alle loro volontà, e in quelli che non credettero, al loro intelletto. Pensare che la verità possa convincere semplicemente con la sua propria forza, e portare di per sé all’azione, significa avere un concetto utopistico della natura umana, misconoscere come le passioni, i pregiudizi, i vizi, gli interessi facciano spesso aggio sull’intelligenza. E tanto più nelle verità sovrannaturali della nostra fede, cui non possiamo credere senza l’aiuto dello Spirito Santo poiché esse sono “scandalo per i Giudei e follia per i Greci” (1 Cr 1, 23). Come ripetevano i Santi Padri, senza amare le Sacre Scritture è impossibile comprenderle (“non introitur in veritatem, nisi per charitatem” – sant’Agostino) e non si amano senza la fede. Senza la fede è impossibile comprendere le Sacre Scritture: esse restano un libro chiuso con sette sigilli. Senza la fede, vuol dire senza l’aiuto dello Spirito Santo, della Grazia391. Per tal motivo, la Chiesa Cattolica ha sempre insegnato che il senso delle Scritture (che non è mai facile a cogliersi) spetta alla Chiesa stessa stabilirlo, godendo essa sempre dell’aiuto sovrannaturale dello Spirito Santo (il quale, nei momenti di crisi del Magistero, impedisce alle cattive dottrine di radicarsi, e successivamente illumina e sostiene il Magistero stesso nell’opera di pulizia e restaurazione).

Il concetto del vero posto dal Concilio a fondamento dell’intera Dignitatis humanae, che ne costituisce come lo spirito, appare utopistico, irrealistico, non conforme alla Tradizione della Chiesa, al suo sano realismo e al giusto concetto della verità da applicarsi alla comprensione dei dogmi della fede. E forse, non immune da una tinta pelagiana. Consideriamo, infatti, come debba esser condotta la “ricerca della verità in materia religiosa” secondo DH 3. Rifacendosi a san Tommaso, il Concilio ci ricorda che «norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con sapienza e amore ordina, dirige e governa l’universo e le vie della comunità umana» (DH 3.1). Di questa legge, Dio «rende partecipe l’essere umano, cosicché l’uomo, sotto la sua guida soavemente provvida, possa sempre meglio conoscere l’immutabile verità» (DH 3.1). Ma come deve esser concretamente ricercata “l’immutabile verità”? Già il fatto che il Concilio senta il bisogno di stabilire il criterio di questa ricerca suscita perplessità. Che cos’è “l’immutabile verità”? Sarà la verità che concerne Dio e l’ordine da Lui stabilito. La sua ricerca da parte dell’uomo sarà la ricerca della presenza della “legge divina” che ordina e regge l’universo e la “comunità umana”. Ora, dalla Rivelazione e dal Magistero della Chiesa, dalla teologia ortodossa e dalla filosofia cristiana, non abbiamo noi un’idea sufficiente dell’immutabile verità, sia nelle sue componenti strettamente religiose che in quelle morali e metafisiche? E per conseguenza sociali e politiche? Voglio solo dire che l’immutabile verità invece che come saldo possesso, sulla base del Deposito della Fede, che garantisce tutta una serie di verità fondamentali anche non strettamente religiose, viene qui presentata e sentita come problema, come se essa dovesse risultare da un’ulteriore “ricerca”.

DH 3 si propone, pertanto, di illustrare i giusti criteri di questa “ricerca”, che devono tener conto del valore assoluto della “dignità umana”. Prosegue, infatti, nel seguente modo: «La verità, però, va cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento e dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta [invenerunt] o che ritengono di aver scoperta» (DH 3.2). Il principio qui affermato fa consistere la verità “in materia religiosa” in qualcosa che è “scoperto”, trovato dalla coscienza individuale nella ricerca con “gli altri”, nello “scambio e nel dialogo” reciproci, ove gli “altri” [alii] non sono semplicemente gli altri Cattolici, ma gli altri in generale, tutti gli altri uomini, a qualsiasi credo appartengano. Una “ricerca” della verità circa Dio concepita in questo modo ha sì ad oggetto la lex aeterna, la legge morale naturale, ma alla maniera dei deisti: coinvolgendo tutti (senz’escludere nemmeno i miscredenti — vedi supra) non può avere ad oggetto la Verità Rivelata, negata in toto dai non-cristiani e in parte dagli eretici e scismatici, pur invitati alla “ricerca”.

DH 3.1 dice, come si è visto, che l’uomo gode della “guida soavemente provvida” da parte di Dio, per conoscere “sempre meglio l’immutabile verità”. Ma a questo riferimento di carattere generale, il Concilio, nell’indicare il metodo della ricerca, non dovrebbe far seguire un preciso riferimento allo Spirito Santo? Detto altrimenti: non avrebbe dovuto aggiungere che senza l’aiuto dello Spirito Santo la “libera ricerca” della verità “nel dialogo” non approderebbe a nulla? Invece il Concilio tace completamente dell’indispensabile apporto dello Spirito Santo! E come avrebbe potuto parlarne, nel propugnare una “ricerca dell’immutabile verità” da farsi in comune con tutti gli Acattolici, i non-cristiani e persino gli atei e miscredenti? Non è vero che anche con gli atei e miscredenti dobbiamo noi Cattolici lavorare “in leale e prudente dialogo” per costruire un mondo migliore? Vedi GS 21.7, già citato. 

Questa dottrina sulla “libera ricerca” della verità in materia religiosa, a mio parere contraddice apertamente l’insegnamento tradizionale, secondo il quale, per il Cattolico, la verità “in materia religiosa” e nella morale è una verità rivelata da Dio e conservata nel Deposito della Fede custodito dal Magistero; verità assolutamente oggettiva che esiste indipendentemente da noi e che perciò richiede, esige l’assenso del nostro intelletto e della nostra volontà, assenso possibile solo con l’aiuto determinante della Grazia. Essa esige di esser riconosciuta e fatta propria dal credente, non di essere da lui “trovata” con le sue sole forze e per di più in una cosiddetta ricerca comune con gli eretici, gli scismatici, i non-cristiani, i miscredenti! Non ha qui il Concilio in maniera evidente messo in comune Cristo e Beliar? Al criterio oggettivo e tipicamente cattolico della verità “in materia religiosa”, che è tale perché rivelata da Dio, si sostituisce quello soggettivo, di origine protestante e tipico del pensiero moderno, suo vero e proprio feticcio, di una verità che è tale perché “trovata” dalla coscienza individuale nella sua “ricerca” in comune con gli “altri”, perché risultato della “ricerca” del soggetto, individuale e collettiva. In questo modo non si è aperta la porta all’irruzione nel Cattolicesimo di una religiosità individuale anomala; una religiosità della “ricerca”, del “cuore”, del “sentimento di umanità” o di “solidarietà”, della “coscienza”, del “dialogo”, caramellosa, falsa e dolciastra, che ricorda la pappa del cuore scodellata dai romanzi sentimentali del Settecento?

Quest’idea della verità come ricerca viene applicata dal Concilio anche alla definizione del concetto di “progresso estrinseco” nella conoscenza delle verità di fede risultanti dalla “tradizione di origine apostolica”. L’art. 8.2 della costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione afferma, infatti, che, nel crescere della comprensione delle verità di fede, «la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8.2). La “verità divina”, ossia la verità rivelata nella sua “pienezza”, la Chiesa non la possederebbe ancora, dopo venti secoli. Essa vi “tende incessantemente” così come la “coscienza morale” dei Cattolici tende alla verità rappresentata dalle “norme oggettive” della morale, nel dialogo planetario con tutti gli uomini! (Sul punto, infra, cap. XVIII, § 3).

Infatti, l’idea della “verità come ricerca” anche nelle cose della religione, è a sua volta basata su di un certo modo di intendere la coscienza. «L’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza, che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza » (DH 3.3). Giustissimo. Il principio è sacrosanto. Ma andiamo a vedere più da vicino il ruolo della “coscienza” nella “ricerca della verità”, nell’art. 16 di GS, dedicato alla “dignità della coscienza morale”. L’articolo fa un grande elogio della “coscienza morale” del soggetto, nella quale l’uomo scopre “la legge di Dio scritta nel suo cuore”, alla quale deve obbedire. Anche questo principio è coerente con la dottrina cattolica di sempre. Ma le cose cambiano subito dopo, allorché il testo introduce il tema della “ricerca della verità” in comune con gli altri uomini. È il medesimo principio di cui a DH 3.2.

«Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità» (GS 16.2). Di quale “verità” si tratta qui? Verosimilmente, di quella concernente la religione ed i costumi. E questa verità non dovrebbe già risultare dall’insegnamento infallibile della Chiesa Cattolica, dalla Tradizione e dal Magistero? Al possesso sicuro della verità della fede e dei costumi stabilito nei secoli dal Magistero, il Concilio sostituisce la “ricerca” della verità come criterio generale, della verità in generale; qualcosa di indeterminato, ma conforme, come sappiamo, allo spirito del Secolo, che ama la “ricerca”, cioè l’esperimento, la novità, la stravaganza, il moto perpetuo. Non solo. Questa ricerca, sempre in conformità allo spirito del Secolo, deve aver luogo in unione “con gli altri uomini”, e quindi anche e soprattutto con gli Acattolici e i non-cristiani, cioè con coloro che negano tutte o quasi tutte le verità insegnate dalla Chiesa Cattolica. Come può una “ricerca” del genere pervenire a risultati positivi per la fede e per i credenti, tanto più che essa deve applicarsi anche ai “problemi morali”? I Cristiani, i Cattolici, i “problemi morali” li dovranno d’ora in poi risolvere ecumenicamente, nel dialogo con gli altri, non in applicazione delle regole tramandate della loro fede e della loro morale. Infatti, l’intesa “con gli altri uomini” è affidata alla certezza dell’esistenza di “norme oggettive della moralità”, che possono esser trovate in comune da tutti gli uomini cosiddetti di buona volontà, che si affidino alla loro coscienza morale.

L’insostenibilità dell’assunto mi sembra palese. Come possano, tanto per fare un esempio, trovare una norma morale comune per una sana vita familiare, i Cattolici, per i quali l’indissolubilità del matrimonio è dogma di fede, ed i Protestanti e gli Ortodossi, che invece la negano (per tacere di chi ammette la poligamia, il concubinato, il ripudio, il matrimonio temporaneo), non si riesce a comprendere. E quando mai le “norme oggettive” della moralità sono state stabilite in questo modo, nella ricerca comune di tutti? Ma ciò che colpisce di più è la separazione della morale dalla Rivelazione: le “norme oggettive” della moralità non dipendono più dalla Rivelazione, ma dalla “coscienza morale”, che le trova nella ricerca comune con gli “altri uomini”, con tutti gli “altri uomini”. La contraddittorietà intrinseca a questo concetto di “norme oggettive” della moralità mi sembra del pari evidente. Le norme “oggettive” vengono in realtà ad esser poste dalla coscienza, e sono quindi “soggettive”. E come possono esprimere un ordine “oggettivo” norme che dovrebbero essere trovate in comune da uomini che professano concezioni morali diver308 se e persino opposte? E come può costruirsi una vita sociale in comune su queste basi?

GS 16.2 fa riferimento, come si è visto, alla “legge scritta da Dio dentro il cuore” dell’uomo, in corde suo: questa legge sarebbe quella che si riscontra nelle “norme oggettive” della moralità. Ma come si fa a riscontrarla se le sue “norme oggettive” devono risultare da una ricerca in comune, condotta da uomini che hanno la loro propria visione soggettiva della moralità, spesso in contrasto con ciò che prescrive “la legge scritta da Dio dentro il cuore”? Non è il riconoscimento dell’intelletto nostro alla Verità Rivelata, è la coscienza (dialogante) a far emergere la legge dalle profondità del “cuore”: la coscienza è quindi l’autorità che determina alla fine le norme della moralità da applicarsi. Compare l’ombra di Jean-Jeacques Rousseau, della sua “Professione di fede del Vicario Savoiardo”, deistica e pelagiana, incentrata sulla narcisistica esaltazione della “coscienza” individuale.

Il testo conciliare precisa, infine, che, quando prevale la coscienza “retta”, gli uomini si allontanano dal “cieco arbitrio”. Ma per resistere al “cieco arbitrio” delle passioni, delle tentazioni, dei cattivi pensieri e desideri, non occorre l’aiuto della Grazia? Come ho già ripetuto più volte, questa è sempre stata la verità cattolica, basata sulla Tradizione e sulla Scrittura: senza la Grazia, senza l’aiuto dello Spirito Santo, non riusciamo ad osservare né la morale naturale (della legge “inscritta nei nostri cuori”) né quella rivelata che la perfeziona. Non per nulla il Signore ha detto: “Senza di Me non potete far nulla”, Gv 15,5. Ma della Grazia il testo del Concilio non fa cenno alcuno. La “conformità” alle norme “oggettive” della legge morale, posta da Dio nei nostri cuori, dipende ora, anche per i Cattolici, esclusivamente dalla “rettitudine” della coscienza e cioè dall’individuo, immerso nella “ricerca della verità” insieme a tutti gli altri. (E sempre sul presupposto che questi “altri” siano effettivamente interessati alla ricerca della verità, da soli e in comune, cosa della quale il sano realismo è costretto a dubitare fortemente).

E non è estremamente grave che, al modo dei deisti, si sia concesso di fatto spazio all’idea secondo la quale la “coscienza morale” unisce gli uomini al di là e al di sopra delle religioni positive? Infatti, la coscienza non rappresenta al massimo grado ciò che è umano, quei “valori umani” tanto cari all’ala progressista del Vaticano II? La quale è riuscita a far filtrare nel testo il principio non cattolico che la “verità”, anche quella da applicare nelle questioni morali pratiche, non la possediamo ancora (non si ricava, lo ripeto, da un Magistero infallibile di circa venti secoli), ma deve risultare dallo sforzo comune e comunitario della “coscienza” di ciascuno.

Per questo, cinquant’anni di “dialogo”, condotto secondo le intenzioni di questa dottrina conciliare, non hanno portato a nulla. Anzi, hanno sortito l’effetto contrario: inevitabilmente, le “verità” delle quali si sono “soavemente” imbevuti tanti Cattolici dialoganti sono state quelle delle controparti ed i cattolici hanno apostatato a milioni o sono caduti in massa nell’indifferentismo. 

E questa potremmo definirla la terza grave contraddizione di questa Dichiarazione: porre a fondamento del concetto della “libertà religiosa” un concetto di verità palesemente astratto ed utopistico, fondato sulla coscienza individuale e pertanto privo di ogni riferimento al sovrannaturale, per ciò stesso inapplicabile al concetto stesso di verità rivelata come sempre inteso dalla dottrina della Chiesa. Secondo il suo insegnamento costante, l’indispensabile adesione del nostro intelletto alle verità di fede avviene sempre e solamente con l’aiuto dello Spirito Santo e mai per la sola e pura forza di convinzione di quelle verità o per le sole capacità del nostro intelletto, che pur deve dare il suo contributo, fin dove può giungere. Ma nemmeno nell’ambito delle conoscenze profane si può dire che la verità si imponga unicamente per la forza che pur possiede. Anche qui devono intervenire altri fattori.

Per concludere, alla luce di tutti questi rilievi come dobbiamo alla fine valutare l’affermazione già ricordata del Proemio della DH, secondo la quale la nuova dottrina della libertà religiosa è da ritenersi coerente alla Tradizione della Chiesa perché «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (DH 1)? Questo dovere di ricercare la vera religione viene indubbiamente mantenuto. E tuttavia, se ad esso presiede un concetto di verità succube del pensiero moderno, che non lascia spazio al concetto stesso di “verità rivelata”, possiamo dire che quel dovere venga mantenuto nel modo giusto? Si ponga mente, poi, a quest’idea nuova di una ricerca della verità nelle cose della morale e della religione da farsi in modo ecumenico, vale a dire in comunione “con gli altri uomini”, in nome del vincolo comune rappresentato dalla “coscienza morale” di ognuno, che si suppone “retta”. “Retta”, lo sarà anche ma apparterrà pur sempre a membri di religioni diverse e tra loro antagoniste, che, tanto per restare ai fatti, differiscono sempre anche su aspetti fondamentali della morale. Come è possibile che una ricerca condotta con un simile metodo giunga alla conoscenza del vero Dio e trovi la soluzione di problemi morali comuni? Non si risolverà in un’impressionante Babele?

Tanto più se si riflette che nella già ricordata Nostra Aetate 2.5, sulla relazione della Chiesa con le religioni non cristiane, sembra addirittura proporsi una vera e propria inversione della missione dei Cattolici nei confronti dei seguaci delle altre religioni. Invece di esortare i credenti ad un rinnovato slancio morale e religioso per convertire il maggior numero possibile di infedeli, il Concilio esorta i Cattolici, “per mezzo del dialogo e della collaborazione” a «riconoscere, conservare e far progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in essi [illa bona spiritualia et moralia necnon illos valores socio-culturales, quae apud eos inveniuntur, agnoscant, servent et promoveant]». Naturalmente, c’è l’inciso “sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana”. Ma la “fede e la vita cristiana” non vengono concepite, oltre che per la santificazione personale, anche per la conversione dei non cristiani? Se “la fede e la vita cristiana” devono ora concorrere, con il “dialogo”, a riconoscere ed anzi addirittura a far progredire i valori nei quali credono coloro che dovrebbero convertirsi, allora cosa resta dell’esigenza della conversione? E dell’autentica nozione di “testimonianza” della propria fede con l’esempio della propria vita?

Questo che appare un vero e proprio rovesciamento della missione dei Cattolici nei confronti degli infedeli, non equivale di fatto a proporre un’oggettiva controverità quale criterio guida per la ricerca del vero Dio e della soluzione dei “problemi morali”, da ricercarsi con “gli altri uomini”? E questa direttiva di aprirsi e addirittura di “far progredire” i valori spirituali, morali e sociali delle altre religioni, è conforme al comando di Nostro Signore, più volte già ricordato: «Andate e fate miei discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19)? Forse che gli Apostoli riconoscevano, volevano conservare e cercavano di far progredire i valori spirituali dei Pagani, che avevano il dovere di convertire all’unico e vero Dio? E questa direttiva è veramente conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa invocata in DH 1? Forse che la dottrina tradizionale della Chiesa Cattolica invitava i fedeli a cercare la verità morale e nelle cose della religione, basandosi soprattutto sulla loro libera coscienza morale individuale e in comunione o dialogo che dir si voglia con “gli altri uomini” e cioè con tutte le altre religioni, esortando per di più i Cattolici a far progredire “tutti gli altri uomini” nei valori delle loro religioni; incitandoli, quindi, in definitiva a far progredire le altre religioni?
9. La dottrina della “libertà religiosa” affonda le sue radici nella Rivelazione?
Dall’analisi dei testi, non si direbbe Procediamo ora ad indagare “la libertà religiosa alla luce della Rivelazione”, come titola la II parte di DH (artt. 9-15). Ai fini del nostro tema, mi limiterò agli articoli 9-11. Come si è visto, dovrebbe esser qui dimostrata la presenza nella Sacra Scrittura di un concetto di “libertà religiosa” non dissimile da quello propugnato dal pensiero e dallo Stato moderni, come diritto inalienabile della persona, di ogni uomo a professare la religione che gli detta la sua coscienza.

DH 9, l’ho citato più volte richiamando la sua frase d’apertura, ove c’è l’acritico elogio, falso sul piano dell’effettiva “storia delle idee”, alla “ragione umana” in generale (ma è in realtà soprattutto quella dei Moderni) per il suo contributo al concetto della “dignità della persona”. Ma la “ragione umana” non ha lavorato nel deserto, in tutti questi secoli, ci insegna inaspettatamente il Concilio. «Anzi, una tale dottrina sulla libertà [religiosa] affonda le sue radici nella rivelazione divina, per cui tanto più va rispettata con sacro impegno dai cristiani. Quantunque, infatti, la rivelazione non affermi esplicitamente il diritto all’immunità dalla coercizione esterna in materia religiosa, fa tuttavia conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà umana degli esseri umani [homines] nell’adempimento del dovere di credere alla parola di Dio, e ci insegna lo spirito che i discepoli di un tale Maestro devono assimilare e manifestare in ogni loro azione» (DH 9).

Il Nuovo Testamento non contempla espressamente questo “diritto” e diciamo, più in generale, che esso non sembra preoccuparsi affatto dei “diritti dell’uomo”, dato che la Missione del Figlio di Dio è quella di salvare i peccatori dalla perdizione non quella di far prendere agli uomini coscienza dei loro supposti “diritti”, esaltandone in tal modo la superbia. Il diritto alla “libertà religiosa”, come diritto fondato sulla dignità della persona umana, si può tuttavia ricavare, secondo il Concilio, dai testi stessi, perché in essi vi si mostra “il rispetto [observantiam] di Cristo per la libertà umana” di coloro che ascoltavano la sua Parola. E questo “rispetto” devono praticare anche i suoi discepoli. E l’hanno sempre praticato, aggiungo, dal momento che il Concilio stesso ci ricorda subito dopo (DH 10) che, per la Chiesa, “nessuno può esser costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà”. DH 10 ripropone pertanto la dottrina di sempre della Chiesa sulle famose due “immunità” circa la professione della religione. È nel lungo art. 11, dedicato al “Modo di agire di Cristo e degli Apostoli”, che il Concilio vuol trovare nei Testi Sacri il riconoscimento di un diritto alla libertà religiosa fondato sul concetto della dignità innata della persona, in quanto tale.

Ma cosa ci mostra quest’analisi? A mio avviso, niente che confermi la tesi del Concilio, ossia che la predicazione di Nostro Signore mostri un riconoscimento di un diritto alla libertà religiosa da parte della persona umana, a causa della sua dignità. Citando numerosi passi neotestamentari l’articolo ricorda come Nostro Signore fosse mite e umile di cuore; come avesse invitato ed atteso i suoi discepoli pazientemente; come non avesse mai esercitato coercizione alcuna sui suoi uditori, nonostante i miracoli che aveva fatto dinanzi a loro, mostrando la sua divina potenza; come, mandando gli Apostoli per il mondo preannunciasse la condanna di chi non avrebbe creduto (Mc 16,16, citato qui invece che nei paragrafi iniziali di Lumen gentium) ma precisando che il loglio sarebbe stato separato dal grano solo alla fine dei tempi; come si presentasse sempre quale perfetto “servo di Dio” e rispettasse la potestà civile ammonendo tuttavia di “rispettare i superiori diritti di Dio”; come compisse infine sulla Croce l’opera della redenzione. Insomma, Egli «rese testimonianza alla verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano» (DH 11.1).

Gesù Cristo Nostro Signore non era Maometto, lo sappiamo. Ma tutto ciò, cosa dimostra: che nel suo modo di agire si rispecchiava il rispetto per un supposto diritto innato dei suoi ascoltatori ad esser trattati come persone, vale a dire come se avessero per natura un diritto a non subire alcuna coazione da parte sua o degli Apostoli? Per nulla, a mio modesto avviso. Dimostra solamente che il Signore operava per divina misericordia, gratuitamente, mosso da una carità sovrannaturale nei confronti dei peccatori. E la misericordia è al di là e al di sopra di ogni schema del tipo diritto-dovere, di ogni rapporto di questo tipo. Tra l’altro, non ci poteva essere da parte sua il riconoscimento alla nostra natura umana di un diritto di questo tipo o altro che sia. Noi sappiamo che al diritto di un soggetto corrisponde in genere il dovere di un altro soggetto di tutelarlo o realizzarlo. Se si dice che Nostro Signore mostrava di rispettare il supposto diritto alla libertà religiosa di ciascun uomo, ciò è come dire che tale rispetto costituiva per Lui un dovere. Conclusione assurda e in ogni senso poiché il Verbo incarnato non poteva esser obbligato da alcun dovere nei nostri confronti. E pericolosa per il dogma, perché di fatto mette in discussione il carattere gratuito dell’opera della Salvezza.

DH 11.2 si sofferma sul “modo di agire” degli Apostoli, per rimarcare che essi “hanno seguito la stessa via” di Gesù Cristo. Non hanno mai fatto ricorso “ad azioni coercitive” né ad “artifizi indegni del Vangelo”. Si sono appoggiati solo alla “forza della Parola di Dio”, avendo riguardo “ai deboli, sebbene fossero nell’errore”: riguardo, si intende, nel modo di esporre la dottrina. Come Cristo, hanno predicato la Parola di Dio “arditamente” di fronte alle autorità costituite e al popolo, senza curarsi delle loro reazioni, convinti che il Vangelo “fosse veramente la forza di Dio per la salvezza di ogni credente”. Come il Maestro hanno riconosciuto la legittimità dell’autorità civile (Rm 13, 1-5) resistendo però al pubblico potere quando “si opponeva alla santa volontà di Dio”. In conclusione, si può dire che gli Apostoli «hanno predicato la parola di Dio pienamente fiduciosi nella divina virtù di tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio e nell’avviare gli esseri umani alla fede e all’ossequio di Cristo» (DH 11.2).

Anche in questo riassunto del “modo di agire” degli Apostoli troviamo la dimostrazione che essi abbiano disdegnato di usare la coercizione perché riconoscevano ai fedeli un diritto naturale individuale alla “libertà religiosa”? Direi proprio di no. Agendo su mandato sovrannaturale del loro divino Maestro, lo imitavano in tutto, mossi dalla misericordia e dalla carità, che sicuramente non vedono le anime da salvare sotto l’aspetto dei diritti e delle dignità da tutelare e da imporre. Dal “modo di agire” di Nostro Signore e degli Apostoli, come esposto dal Concilio, si ha semplicemente la conferma della dottrina tradizionale: che la predicazione della Chiesa ha sempre garantito l’immunità da costrizioni alla fede — costrizione peraltro di per sé illogica — senza per questo concepire tale “immunità” come un diritto naturale della persona. Cosa che si può legittimamente concepire, se si vuole, ma nei confronti del potere statale.

A proposito dell’interpretazione conciliare di alcuni tra i passi neotestamentari citati, vorrei fare delle precisazioni sul significato di alcuni di essi, che a parer mio è stato deformato o forzato nel senso della nuova dottrina

1. Nel passaggio nel quale si ricorda che gli Apostoli hanno sempre avuto riguardo “per i deboli, sebbene fossero nell’errore”, si aggiunge, di seguito: «mostrando in tal modo come “ognuno di noi renderà conto di sé a Dio” (Rm 14,12) e sia tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza [et in tantum teneatur conscientiae suae oboedire]». Chi legge ha sicuramente l’impressione che il senso del versetto paolino citato sia proprio quello di affermare il principio che ognuno è “tenuto soltanto ad obbedire alla propria coscienza”, frase uscita dalla penna del Concilio e che commenta san Paolo in modo da farvi apparire il principio dell’obbedienza alla propria coscienza quale principio dotato di un valore assoluto.
A me sembra che san Paolo voglia insegnarci un concetto del tutto diverso. Situiamo il passo nel suo contesto e vediamo come si arriva a questa frase. San Paolo sta ammonendo a non giudicare e a non disprezzare gli altri, cioè “i fratelli”, gli altri Cristiani (Rm 14, 7-8). «Tutti compariranno, scrive, davanti al tribunale di Dio, poiché sta scritto: “Come è vero che io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà avanti a me e ogni lingua liberamente confesserà Dio [Is 45,23]”. Così dunque ognuno di noi renderà conto di se stesso a Dio [itaque unusquisque nostrum pro se rationem reddet Deo]. Dunque, non giudichiamoci gli uni e gli altri etc.». Dal contesto, si vede nettamente che il “render conto” è quello del giudizio di fronte a Dio dopo la morte. Di fronte a Dio, non alla nostra coscienza. Non dovremo “render conto” a Dio degli altri che abbiamo stoltamente giudicato e disprezzato (e quindi pensiamo ai casi nostri) ma unicamente di noi stessi, di quello che abbiamo pensato e fatto nella nostra vita terrena. Punto e a capo. L’obbedire soltanto alla propria coscienza, di cui a DH 11.2, non c’entra per nulla. L’Apostolo ci ammonisce a non dimenticare mai che, il giorno del Giudizio, ci attende il redde rationem finale dell’anima nostra a Dio e non certo la proclamazione del principio della coscienza individuale quale unico nostro giudice al quale “render conto”! 

2. Di nuovo il Concilio cita san Paolo (Ef 6,11-17 e 2 Cr 10,3-5) a sostegno del concetto visto alla fine del nostro riassunto di DH 11.2, che richiama la fiducia degli Apostoli “nella divina virtù di tale parola nel distruggere le forze avverse a Dio” e nell’avviare gli uomini alla fede. Il passo della Lettera agli Efesini contiene la famosa metafora dell’armatura di Cristo. Come un soldato il Cristiano doveva “rivestirsi dell’armatura di Dio per affrontare le insidie del diavolo”. E quindi della “corazza della giustizia”, dello “scudo della fede” sul quale potevano “spegnersi tutti i dardi infuocati del maligno”, e infine della “spada dello Spirito, che è la parola di Dio”. La metafora sembra avere un significato difensivo. Si tratta di difendersi dai “dardi infuocati” del Diavolo, difesa garantita non solo dalla “parola di Dio”, come sembra far credere DH 11.2, ma anche dalla pratica della giustizia e della fede, dopo essersi preparati “nel Vangelo della pace”. La “parola di Dio” è “la spada dello Spirito” ossia l’arma dello Spirito Santo.
La connessione tra la predicazione e lo Spirito Santo, senza il cui aiuto la conversione è impossibile, non mi sembra sia messa bene in rilievo dalla Dichiarazione, che sembra privilegiare la “virtù divina” della parola di per sé stessa, nella sua capacità intrinseca di “distruggere le forze avverse a Dio”. Ma senza l’aiuto sovrannaturale dello Spirito Santo, inviato da Nostro Signore, questa parola, nonostante sia “divina” quanto alla sua origine, non distrugge un bel niente.
Nella seconda Lettera ai Corinti 10, 3-5, san Paolo, per difendersi dai falsi ragionamenti di persone che lo calunniavano, parla della sua predicazione come di «armi della nostra milizia che non sono carnali ma potenti in Dio [sed potentes in Deo] a distruggere anche delle fortezze, distruggendo noi i falsi ragionamenti [dei nostri nemici] e ogni rocca elevata contro la conoscenza di Dio etc.». Ora, qui egli esalta la potenza della parola che distrugge i falsi ragionamenti, ma è sempre “potenza di Dio”, che viene da Dio più che dalla parola, per opera dello Spirito Santo.

3. In quest’esaltazione della forza e della potenza della Parola di Dio, il Concilio, a mio avviso, non sottolinea come dovrebbe che la “divina virtù di tale parola” è appunto divina, nel senso di operare con potenza, soprattutto ad opera dell’influsso dello Spirito Santo. Quest’esaltazione della forza della parola in quanto tale è un tratto tipico del Vaticano II, che ha voluto dare un particolare rilievo alla Liturgia della Parola nella celebrazione della Nuova Messa e (come si è visto) ha voluto vedere nella “predicazione della Parola di Dio” la caratteristica fondamentale del sacerdozio, contro tutta la tradizione della Chiesa, ribadita dal Tridentino contro i Protestanti eretici, secondo la quale ciò che caratterizza il sacerdote cattolico è innanzitutto la celebrazione del Santo Sacrificio della Messa e la facoltà di rimettere i peccati.
10. I Martiri hanno offerto la loro testimonianza per render gloria a Dio e convertire i Pagani, assai più che per la “libertà religiosa”, ed aspiravano ad uno Stato cristiano
L’analisi critica del tentativo di ritrovare il riconoscimento del concetto della “libertà religiosa” nella Tradizione della Chiesa, deve ora da ultimo rivolgersi alla tesi, sopra richiamata, secondo la quale, nel riconoscere un principio fondamentale della concezione laica (e anticristiana) dello Stato, il Concilio avrebbe contemporaneamente ritrovato o riscoperto “il patrimonio più profondo della Chiesa”, quello costituitosi grazie alla testimonianza del sangue offerta dai Martiri. Per sostenere simile tesi bisogna evidentemente attribuire al martirio dei primi Cristiani anche il significato di un sacrificio consapevole per la libertà di fede e di culto (ossia di coscienza e di espressione). Bisogna in sostanza farne dei precursori consapevoli della libertà di coscienza propugnata in modo uguale per tutte le religioni dallo Stato moderno (fondato sul principio di immanenza, indifferente se non ostile al fenomeno religioso in quanto tale). E dico appositamente: “sacrificio consapevole”. Infatti, se noi diciamo che solo oggettivamente (ma senza saperlo né volerlo) essi si sono sacrificati per la libertà religiosa, da attribuire ugualmente a tutte le fedi quale diritto inalienabile della persona, non applichiamo al loro sacrificio la nostra ottica di moderni, alterandone il significato?

Bisogna quindi accertare se le testimonianze rimasteci dei primi Martiri mostrino in loro il desiderio di sacrificarsi per la libertà religiosa nel senso moderno del termine, per tutti e per tutte le religioni, come diritto universale della persona. Rileggendo gli Atti e le Passioni dei Martiri non si trova però traccia alcuna di riferimenti a siffatta “libertà”. Si ha anzi l’impressione che ai Martiri, che sembravano letteralmente posseduti dallo Spirito Santo, di questa famosa libertà importasse assai poco. Non voglio dire, con questo, che non sarebbero stati contenti di goderne. Non condivido certo le idee dei Donatisti, rigoristi che, nel III e IV secolo, sostenevano essere la persecuzione il modo normale ed unico di vita dei Cristiani, negando il perdono a coloro che avevano apostatato durante le persecuzioni (i c.d. lapsi, letteralmente “scivolati”, nell’apostasia) e attaccando fisicamente chi non la pensava come loro, finendo col cadere nell’eresia quando cominciarono a rifiutare l’autorità della Chiesa, dopo che essa ebbe condannato la loro dottrina estremista e il loro comportamento. Qui si tratta solo di verificare l’effettiva realtà storica, la quale mostra che, nella testimonianza dei Martiri, la rivendicazione della libertà religiosa resta generalmente implicita, come se costituisse un elemento secondario. Importava loro, soprattutto, non cadere nel grave peccato di apostasia. La morte era consapevolmente accettata e persino invocata per render gloria a Dio e come sacrificio per la conversione del mondo pagano, grazie alla forza dell’esempio da essa rappresentato. “Potessi io persuadere voi a farvi cristiani!” gridava alla folla persecutrice il martire Pionio mentre veniva condotto al supplizio, respingendo l’invito pressante ad abiurare per salvarsi la vita392. L’atteggiamento dei Martiri non aveva, comunque, nulla di sentimentale. Pressati com’erano ad abiurare e sottoposti spesso a percosse, torture, umiliazioni, ingiurie, essi reagivano mantenendo un atteggiamento fiero ed impavido, a volte “minacciando il Giudizio di Dio” ai persecutori, cioè ricordando loro che sarebbero stati giudicati dal vero Dio per le loro azioni infami393.

La religione cristiana, in quanto unica vera perché unica sicuramente rivelata da Dio, era per loro incomparabile (oltre che incompatibile) con le altre. Battersi per l’universale libertà di coscienza in religione avrebbe significato metterla sullo stesso piano delle altre, tutte false perché non rivelate da Nostro Signore. Esse non venivano da Dio ma dagli uomini, in particolare il Paganesimo, impestato dal Demonio (Salmo 96,5; 1 Cr 10,20). I Martiri volevano la libertà di martirio, di morire per la loro fede, e sembravano disinteressarsi completamente della libertà di professarla come una religione uguale alle altre, tra le altre. Quando Santa Perpetua, condotta con gli altri a morire nell’Arena di Cartagine, vide che per dileggio e per farli in qualche modo apostatare volevano far indossare a tutti loro indumenti usati nelle iniziazioni ai misteri pagani, esclamò, ottenendo dal tribuno il contrordine: «Siamo giunti al martirio spontaneamente, proprio perché la nostra libertà non venisse incatenata (ne libertas nostra obduceretur); abbiamo rinunciato alla nostra vita proprio per non esser costretti a fare cose simili: questo era il patto che avevamo concordato [con le autorità]»394. Quale libertà temevano venisse loro conculcata, quella “religiosa”, di “culto”, da riconoscersi per di più su di un piano di parità anche alle false religioni? No: era la libertà di poter correre subito con tutta l’anima e persino con gioia verso il Cristo Risorto, grazie al “Battesimo di sangue”!

Se poi guardiamo alla letteratura apologetica, non mi sembra che il quadro subisca mutamenti sostanziali. Gli Apologisti si preoccupavano soprattutto di dimostrare la vacuità e l’assurdità delle infami calunnie diffuse sui Cristiani (“l’ateismo, cene tiestee e unioni edipoidee”, cioè orge ed incesti [sic], nelle parole di Atenagora), dimostrando la falsità del politeismo, le ipocrisie di chi li voleva giudicare, la dignità e l’onestà della loro religione; rivendicando la loro fedeltà all’Impero, in quanto governo civile legittimo, giusto ed efficiente, purché non pretendesse di usurpare gli attributi di Dio395. Non mi sembra che gli Apologisti presentino i Cristiani in generale quali vittime della mancata libertà di parola e di coscienza o i Martiri quali caduti nella lotta per questo tipo di libertà. Di essa non troviamo traccia nella breve esortazione Ad Martyras di Tertulliano. La libertà di parola, per la mentalità romana, era da attribuirsi a chi possedesse auctoritas: non c’era il concetto moderno di un diritto universale della persona in quanto tale a siffatta libertà e pertanto a quella di manifestare comunque la propria fede religiosa, con l’obbligo da parte dello Stato di garantire tale manifestazione396.

Che significato bisogna dare, allora, al riferimento alla “libertas religionis” negata ai Cristiani, che ritroviamo in un noto passo di Tertulliano? A mio avviso, il riferimento del grande apologista più che a rivendicare un diritto mira a far vedere le contraddizioni della legislazione imperiale in materia religiosa. Ma come, esclama, voi ci perseguitate già solo per il nostro nome, mettendoci brutalmente di fronte all’alternativa: abiura o condanna (e spesso a morte); non ci lasciate esporre il vero contenuto del nostro credo, che è quello della fede nel vero ed unico Dio; voi vi preoccupate di “sopprimere la libertà religiosa [adimere libertatem religionis]” nei nostri riguardi mentre autorizzate tutte le religioni possibili ed immaginabili, tant’è vero che «è stato permesso agli Egiziani di praticare la loro fatua superstizione che è tutta nella celebrazione di uccelli e bestie, condannando a morte chiunque si renda reo di soppressione di uno qualsiasi di questi dèi. Non c’è provincia, non c’è città che non abbiano il loro dio: per la Siria Atargatis, per l’Arabia Dusares, per il Norico Beleno, per l’Africa Celeste, per la Mauritania i suoi reucci». E nei municipi italiani, troviamo “Delventino a Cassino, Visidiano a Narni, Ancaria ad Ascoli, Norzia a Bolsena, Valenzia a Otricoli” e chi più ne ha più ne metta. «Solo a noi si contesta il diritto di una religione propria! [Sed nos soli arcemur a religionis proprietate!]». Si arriva così all’assurdo che voi ammettete «il diritto di adorare chi si vuole fuorché il vero Dio, quasi questi non fosse piuttosto l’Iddio di tutti perché tutti siam suoi»397.

Pur essendo qui evidente una rivendicazione implicita al riconoscimento della libertà di culto anche per i Cristiani, che certo (ripeto) sarebbero stati lieti di vedersela attribuire, lo spirito che la informa non è sicuramente quello moderno della rivendicazione di un diritto universale della persona e quindi da riconoscersi allo stesso modo a tutte le religioni. A Tertulliano preme soprattutto far vedere l’assurdità di una legislazione che permette libertà di culto a tutte le religioni, anche le più strane, e a tutti i culti del genius loci, mentre vieta l’unica dedicata al vero Dio e quindi intrinsecamente superiore a tutte le altre. Il rilievo sembra in realtà costituire un’ulteriore rivendicazione della superiorità assoluta del Cristianesimo, non una rivendicazione di una libertà religiosa uguale per tutti. È questa superiorità, che gli deriva dalla sua intrinseca, assoluta verità di unica religione rivelata da Dio, a rendere meritevole il Cristianesimo del riconoscimento di religio licita (che fu poi accordato tra il 311 e il 313).

Ma i “primi Cristiani”, secondo la rilettura oggi corrente, si limitavano a richiedere “la libertà di poter confessare la loro fede religiosa senza esser vessati dallo stato”, senza “rivendicare la promozione da parte dello stato della verità religiosa”, facendo di fatto valere l’esigenza di una “libertà di coscienza” che “corrisponde esattamente” al modo nel quale la si intende oggi398. E si limitavano a questo perché “a partire dal Vangelo e dall’esempio di Gesù Cristo”, il Cristianesimo “è stato concepito come fondato essenzialmente sulla separazione tra religione e politica”399. Ma anche nei Cristiani poco inclini al martirio — obietto — dobbiamo sempre presumere la stessa convinzione di Tertulliano: che solo la loro religione fosse l’unica vera e che a questa, secondo il dettato evangelico, tutto l’orbe dovesse esser convertito, evidentemente a scapito delle altre, frutto di testarde apostasie o di perniciose superstizioni, onde la libertà di culto ad essa eventualmente concessa mai avrebbe potuto avere il significato che già aveva per le altre. E ciò a prescindere dalla “promozione” della verità religiosa da parte dello Stato. Ma si può dire che i primi Cristiani si disinteressassero del rapporto tra Stato e religione, accontentandosi di ottenere il libero esercizio del loro culto da parte di uno Stato che si mantenesse neutrale ed imparziale in materia? Se rileggiamo un famoso passo di Tertulliano, non vi troviamo già inevitabilmente l’ipoteca cristiana sullo Stato?

Respingendo l’accusa di “lesa maestà” per via del rifiuto a sacrificare per l’imperatore, Tertulliano replica che i Cristiani pregano per l’imperatore invocando su di lui la protezione del vero Dio, che gli ha conferito la sovranità per il bene dei popoli. Gli imperatori “sanno molto bene chi ha loro conferito l’impero”. E ognuno di loro deve capire che “è sovrano in virtù di colui da cui dipende come uomo prima che come imperatore; la potestà gli viene là donde gli viene pure l’anima”400. I Cristiani possono dunque dire, con pieno diritto: “Cesare è più nostro che vostro, perché è il nostro Dio che l’ha costituito come tale”401. Ma che significa ciò, se non auspicare da parte degli imperatori la presa di coscienza della giusta origine divina del loro potere; presa di coscienza che poteva aver luogo solo mediante la loro conversione a Cristo? La missione di convertire tutti i popoli e le nazioni, e non solo Israele, ordinata da Cristo risorto (Mt 28,18-20), non poteva certo limitarsi alla coscienza individuale dei privati: essa doveva necessariamente investire anche i governanti, in quanto individui preposti al bene dei popoli, e quindi mirare a render cristiano il governo dello Stato. E uno Stato cristiano avrebbe potuto limitarsi ad una posizione neutra ed equidistante nei confronti della vera religione, senza promuoverne gli insegnamenti nella società, a cominciare da quelli morali, e senza difenderla dall’attacco delle eresie, corruttrici delle anime e dei costumi, e in generale da ogni tipo di ostilità e pericoli? Mi sembra pertanto assai poco credibile fare dei primi Cristiani una sorta di liberali ante litteram, preoccupati soltanto della libera manifestazione del loro particulare confessionale, nel rispetto della “libertà religiosa” altrui, garantita dallo Stato.

I sostenitori di questa tesi — di recente il prof. Rhonheimer citato — accusano il Magistero anteriore, in particolare Pio IX, di aver trasformato “la giusta battaglia contro l’indifferentismo e il relativismo”, fatali alla religione, in una “battaglia contro il diritto civile alla libertà religiosa e di culto”, perché avrebbero fatto prevalere considerazioni storicamente datate, secondo le quali «lo Stato è il garante della verità religiosa e la Chiesa possiede il diritto a servirsi dello Stato come del suo braccio secolare per assicurare le sue responsabilità pastorali. Ora, una tale concezione dello Stato non riposava minimamente sui princìpi della dottrina della fede e della morale cattoliche ma piuttosto sulle tradizioni e le pratiche del diritto religioso di origine medievale così come sulle loro giustificazioni teologiche». Riposava, allora, unicamente «su modelli medievali e della tarda antichità cristiana ma che hanno acquistato la loro forma definitiva soltanto all’interno dello Stato confessionale moderno»402. Queste affermazioni mi sembrano del tutto inaccettabili: l’Autore sostiene in pratica che tutta la dottrina della Chiesa sulla necessità per lo Stato di essere cristiano e di operare pertanto anche come braccio secolare in difesa della vera religione e della Chiesa, “non riposava minimamente sulla fede e sulla morale cattoliche” e pertanto nemmeno sul dogma! La Gerarchia avrebbe sbagliato per così tanti secoli, dunque! E non solo, osservo, dalla tarda antichità ma da sùbito. Il tetrarca Agrippa non interruppe forse l’incalzante argomentare di san Paolo, dicendogli: «Poco manca che tu non mi fai diventar cristiano!», ricevendo questa risposta: «Manchi poco o molto, desidero da Dio che non solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano, diventiate tali quale son io, salvo queste catene [della prigionia]» (Atti 26, 28-29; ma vedi anche: 2 Tm 4,1 ss.). San Paolo stava forse perorando per la “libertà religiosa”, perché la vera fede si vedesse elargita l’elemosina del riconoscimento di religio licita? I Martiri e gli Apologisti (come si è visto) non sentivano e non parlavano diversamente da san Paolo. Proselitismo, dunque, anche trovandosi in catene, e fino all’ultimo respiro, affinché il più gran numero possibile di convertisse e si salvasse! E nel pieno delle persecuzioni di Marco Aurelio, Melitone, vescovo di Sardi, non ebbe il coraggio di affermare che “la fede cristiana doveva diventare la filosofia [la concezione della vita] dell’impero romano?”403 Rischiavano la morte per il solo fatto di esser tali eppure già pensavano di poter conquistare l’impero romano, di fare della Fede la sua “filosofia”. Che anche lo Stato debba esser cristiano, che debba perciò proteggere la vera religione e la Chiesa e farne applicare la morale, è dottrina (e prassi) costante, da sant’Ambrogio a sant’Agostino a san Tommaso, allo “Stato confessionale moderno”; dottrina inalterata, possiamo dire, sino a Pio XII, fondata sulla Scrittura, oltre che sulla Tradizione. Ma davvero dobbiamo credere che tutti avrebbero sbagliato, che solo il Vaticano II, dopo un’oscurità di circa venti secoli, avrebbe fatto chiarezza?

E per qual motivo questa dottrina non riposerebbe “né sulla fede né sulla morale cattoliche”? Come giustifica il prof. Rhonheimer un’affermazione del genere? Con l’intendere il “rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Lc 20,25) come se Nostro Signore avesse comandato una separazione radicale tra “religione” e “politica” e quindi fra lo Stato e la Chiesa. Già l’epoca “post-costantiniana del cristianesimo” avrebbe rappresentato una deviazione, mediante “decisioni concrete [quali?]” poi «cristallizzatesi in tradizioni canoniche e nelle loro interpretazioni teologiche corrispettive, grazie alle quali la Chiesa ha cercato di difendere la sua libertà, la “libertas ecclesiae”, dagli attacchi incessanti delle potenze temporali: si pensi in particolare alla dottrina medievale delle due spade che, all’epoca, cercava di giustificare teologicamente e biblicamente la comprensione della “plenitudo potestatis” del papa». Dalla teoria delle due spade, che sembra non godere la simpatia dell’Autore, si è giunti, nei secoli più vicini, a “una giustificazione dello stato cattolico ideale”, quello della simbiosi tra “il trono” e “l’altare”, nel quale lo statista cattolico zelante «sosteneva la causa dei “diritti della Chiesa” invece che dei diritti civili alla libertà religiosa; si è giunti al trionfo del “clericalismo” e ad una “società clericale”, cose che “hanno oscurato il volto della Chiesa”»404.

Insomma, il Papa teorico delle “due spade” sarebbe stato tra i responsabili del “clericalismo” che (sino al Vaticano II escluso) avrebbe “oscurato il volto della Chiesa”. Ma il significato della celebre frase del Signore sul rapporto tra Cesare e Dio, tra Stato e Chiesa, mi chiedo, chi lo deve stabilire? Non è compito che spetta alla Chiesa stessa, come ribadiscono i dogmatici Tridentino e Vaticano primo? E se la Chiesa stessa l’ha interpretato in un medesimo senso per così tanti secoli, con quale autorità il prof. Rhonheimer ne dà un’interpretazione diversa e persino opposta, proponendo l’idea della separazione là ove si tratta invece di distinzione? Infatti, nel famoso passo dell’epistola dell’AD 494 indirizzata ad Anastasio imperatore d’Oriente, Gelasio I affermò che “le due spade”, i due poteri i quali, per volontà divina, reggevano il mondo (la “auctoritas sacrata pontificum” e la “regalis potestas”) erano due “dignitates distinctae”, poiché presiedevano la prima “all’eterna vita”, la seconda “al corso delle cose temporali”, e tuttavia coordinate nella subordinazione a Cristo, unico vero Capo405.

Distinzione e non separazione poiché lo Stato, pur essendo distinto ed autonomo nella sua sfera (così come la Chiesa nella sua), deve tuttavia considerarsi sempre subordinato allo Spirituale, dal quale dipendono le norme morali che lo Stato ha il dovere di attuare sia per realizzare il suo fine specifico (il Bene comune, con la sua giustizia) sia per concorrere anch’esso (per ciò che gli spetta e quindi sempre nella sua sfera) alla finale fruizione del Bene Sommo da parte di ciascun cittadino, costituito dalla salvezza della sua anima. La separazione è inaccettabile perché implica divergenza quanto ai rispettivi fini specifici. Invece, anche lo Stato deve ritenersi ordinato nella sua sfera alla realizzazione del Bene Sommo, che è sovrannaturale: rappresentato dalla Visione Beatifica, della quale godranno un giorno gli Eletti da Dio, in eterno. Che questa bimillenaria dottrina della Chiesa, fondata da sempre su Rm 13,1-6, e su di un’interpretazione costante della celebre frase di Nostro Signore sopra ricordata, non sia in accordo con la fede e la morale cristiane, e quindi con il dogma, è affermazione che mi sembra a dir poco temeraria.

La Chiesa non poteva accettare l’unione di politica e religione che si realizzava nella persona pagana dell’imperatore romano. Ma essa ha ovviamente sempre respinto l’idea di una separazione tra Stato e Chiesa poiché quest’ultima comporta appunto la concezione laica dello Stato, indifferente ad ogni credo religioso e alla vita eterna, inteso solo alle finalità di questo mondo. E comporta quel pluralismo religioso che sicuramente non è mai stato insegnato da Nostro Signore, il quale ha detto e ripetuto che solo Lui è la verità, la via, la vita, la Porta attraverso la quale il buon pastore può far uscire le pecore, le anime dei fedeli da questo mondo per condurle al pascolo della vita eterna (Gv 10,7 ss.). Dal punto di vista veramente cristiano, ossia cattolico, non può esistere uno Stato che sia neutrale ed imparziale rispetto alla religione e quindi indifferente a Cristo. Il Signore stesso ci ha ammonito: «Chi non è con Me è contro di Me e chi non raccoglie con Me disperde» (Lc 11,23). La profonda verità racchiusa in queste parole colpisce vieppiù oggi, costretti come siamo a constatare il carattere sempre più anticristiano della nostra società, governata da uno Stato che vuole essere laico, cioè senza religione, senza Dio, senza morale, preoccupato soprattutto dei bisogni materiali dei cittadini, piaceri carnali inclusi, anche i più bassi!
11. La DH salvaguarda l’unicità del Cattolicesimo? 
La cosa è alquanto dubbia Se la nuova dottrina crede ancora che la religione cristiana ossia cattolica (perché bisogna evidentemente escludere gli eretici e gli scismatici) sia l’unica vera perché l’unica autenticamente rivelata da Dio, allora non può porre la sua rivendicazione della connessa “libertà religiosa” sullo stesso piano di quella delle altre religioni, nessuna delle quali può considerarsi rivelata. Se la fa, tale equiparazione deve prescindere totalmente dal contenuto dalla religione ossia dalla sua verità. Adoratori delle cipolle sacre, della dea Kalì, adepti del Vûdû, Totemisti, Cattolici, Protestanti, Ebrei, Mussulmani, sono posti tutti sullo stesso piano in quanto titolari di un supposto “diritto naturale” della persona alla “libertà religiosa”, diritto fondato sulla “dignità della persona stessa” (DH 2). In quanto “diritto naturale”, esso spetta ontologicamente ad ogni individuo, perché ogni individuo è persona, sia esso un uomo civilizzato o un cacciatore di teste. In quanto diritto naturale, si tratta poi di un diritto assoluto, che lo Stato deve riconoscere e che implica di per sé l’equiparazione assoluta di tutte le religioni.

Ma in tal modo, la nuova dottrina non viene a contraddire implicitamente il dogma della fede, secondo il quale la religione predicata da Cristo, essendo l’unica vera a causa della sua indiscussa origine divina, non può esser mai considerata uguale alle altre, con le relative conseguenze che ciò comporterebbe?321 Insomma, che ne è dell’unicità della nostra religione, del Cattolicesimo in quanto Verità divinamente rivelata, unico strumento della salvezza? Se la religione cattolica è l’unica vera, la rivendicazione di cui sopra non può esser paritaria; se la si vuole paritaria, ciò equivale a negare che la religione cattolica sia l’unica vera.

Come esce il Concilio da questo dilemma, provocato dall’aver concepito la “libertà religiosa” come un diritto naturale assoluto, di ogni individuo in quanto persona a professare la religione che la sua coscienza gli detta; diritto che non solo lo Stato ma anche la Chiesa e tutte le religioni devono riconoscere, se non vogliono violare la “dignità” della suddetta “persona”? Dopo aver concepito questo “diritto” in modo così universale e rigido, il Concilio riesce ad accordarlo con il principio, assoluto dato il suo fondamento sovrannaturale, dell’unicità della religione cattolica, in quanto unico strumento di salvezza? Dal tenore della Dignitatis humanae sembra indubbiamente che tutte le religioni si equivalgano. Ma i difensori del Decreto sostengono che esso si mantiene in linea con l’insegnamento tradizionale. Vediamo la loro tesi.

Lascio di nuovo la parola al prof. Rhonheimer. «Come insegna il Vaticano II, il diritto alla libertà di religione e di culto non implica in alcun modo che tutte le religioni si equivalgono. Questo diritto è in effetti un diritto delle persone e non concerne la questione di sapere in quale misura ciò che le persone credono contraddica alla verità. In altri termini, riconoscere che i fedeli di tutte le religioni godano del medesimo diritto civile alla libertà di culto, non significa che, poiché è un diritto di tutti, allora tutte le religioni debbano essere “ugualmente vere”»406. Il Concilio sarebbe dunque rimasto, in sostanza, a quanto proposto da Pio XII nel citato discorso radiofonico del Natale del 1942. Ma dove insegna il Concilio che non c’è questa equivalenza tra tutte le religioni? Verosimilmente in DH 1.2, già citato, ove si dice che: «E poiché la libertà religiosa [...] riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» che «sussiste nella Chiesa cattolica e apostolica». Sull’ambiguità di questa formulazione mi sono già soffermato (vedi supra, § 2 di questo capitolo). Ma per capire come la nuova dottrina lasci “intatta” la dottrina tradizionale cattolica, si dovrebbe avere un’idea chiara della dottrina tradizionale cattolica, che qui non sembra facilmente identificabile, dato che il suo oggetto viene indicato con l’oscura espressione “dovere verso la vera religione etc.”. Dovere di far che cosa, ripeto?

Il significato di queste affermazioni, ci ricorda il prof. Rhonheimer, è chiarito dal Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 2105, il quale afferma, «citando il passaggio sopra menzionato, che è dovere tanto dell’individuo che della società “rendere a Dio un culto autentico”. Culto che la Chiesa realizza “evangelizzando senza posa gli uomini”, affinché essi possano penetrare di spirito cristiano “la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui vivono”. A ogni Cristiano si chiede di far conoscere “l’unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostolica”. Questo è il modo — conclude l’articolo del CCC — nel quale la Chiesa manifesta “la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane»407.

La dottrina nuova esprimerebbe dunque gli stessi concetti della “dottrina tradizionale”, quando stabilisce i doveri dell’uomo verso Dio. E questi “doveri” si sintetizzano nel “dovere” di rendere a Dio “un culto autentico” (non di riconoscere nel solo culto cattolico l’autentica Rivelazione). Questo dovere — osservo — vale come sappiamo per ogni uomo, non solo per i Cristiani. Ma poiché i culti sono non solo diversi ma persino opposti tra loro, quale sarà allora “il culto autentico”? È possibile ricavare un concetto universale di “culto autentico”? Sarà forse quello di una religione naturale, che viene dal cuore, come per i Pietisti, o dalla sensibilità, come per il rousseauiano “Vicario Savoiardo”? Che vuol dire poi “autentico”? L’animista che adora il suo feticcio o il quacchero che recita parole incomprensibili torcendosi sotto l’émpito dello “Spirito”, offrono un culto meno “autentico” o più “autentico” di chi prega devotamente in una chiesa cattolica o invoca Allâh inginocchiato nel deserto? Applicato al concetto generale del culto a Dio, il termine “autentico” non resta indeterminato? Ricordo che la Mediator Dei, in modo netto e preciso, parlava invece del dovere per tutti gli uomini di offrire: “debitum cultum atque obsequium per religionis virtutem Deo uni et vero”: “il debito culto ed ossequio, mediante la virtù della religione, all’unico e vero Dio”408. E con “unico e vero Dio” si intendeva sempre la Santissima Trinità, “unico Dio in tre persone uguali e distinte”.

Comunque sia, siffatto “culto autentico” da cosa è costituito, per la Chiesa, anzi per “i cristiani”? Dall’“evangelizzazione”. Per convertire gli uomini, praticando il proselitismo della dottrina tradizionale? No. Per far sì che “la mentalità, i costumi, la società etc.” siano “penetrati” dello “spirito cristiano”. Questo il dovere dei singoli Cristiani, per “affermare la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane”. Bisogna che il mondo sia “penetrato” ed anzi “impregnato dello spirito di Cristo” (LG 36); che i Cristiani “animino e perfezionino con lo spirito cristiano l’ordine delle realtà temporali” (Decreto Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici, 4). La dottrina tradizionale sosteneva che la missione della Chiesa era quella stessa degli Apostoli: convertire (“render discepoli di Cristo”) i popoli e gli individui, perché solo diventando Cristiani potevano esser graditi a Dio ed ottenere la vita eterna. La nuova dottrina, invece, afferma che l’evangelizzazione deve limitarsi a “impregnare” [imbuere] gli uomini di spirito cristiano, facendo loro conoscere “l’unica vera religione”, che è quella “che sussiste [anche o solamente?] nella Chiesa cattolica ed apostolica”. “Penetrare”, “impregnare”, “animare”: tanti termini oscuri al posto di uno semplice e chiaro quale: “convertire”. Ma ammettiamo pure che il Concilio, nonostante le ambiguità, mantenga la dottrina tradizionale sulla necessità imprescindibile della conversione delle Genti per la loro salvezza. Si concilierebbe tale professione con il riconoscimento della libertà di religione quale diritto naturale e quindi assoluto della persona? Si concilierebbe con l’accettazione di fatto del conseguente pluralismo religioso?

Il Concilio, a proposito della “libertà religiosa”, propugna, dunque, “un diritto della persona e non della verità”409. Esso separa (alla maniera dei Moderni) la libertà della persona, con le sue esigenze di libera manifestazione del pensiero, dalla verità religiosa, che ha le sue proprie esigenze. Quest’ultima, il Concilio l’avrebbe salvata dall’indifferentismo perché avrebbe mantenuto (nel modo che si è appena visto) l’idea dell’unicità del Cattolicesimo per la salvezza, onde graverebbe sempre sulla persona singola l’obbligo morale di ricercare la verità, sì da giungere alla conoscenza della vera religione. Ma quest’unica e superiore verità, costituita dalla Verità Rivelata, non resta come in una sorta di limbo, se non se ne proclama il diritto ad esser predicata nei confronti delle altre religioni (tutte non rivelate tranne l’Ebraismo, caduto però nell’apostasia a causa del suo rifiuto cosciente e persistente del Messia preannunciato, Gesù Cristo Nostro Signore) affinché i loro seguaci le abbandonino per convertirsi al Cattolicesimo, cioè a Cristo? Se la religione cattolica ha effettivamente preservato, grazie al Magistero della Chiesa, la Parola del Dio che si è fatto uomo, non c’è alcun (supposto) “diritto naturale” alla libertà religiosa che possa esserle opposto, per impedirle di convertire i popoli e gli individui, sostituendosi alle altre religioni, facendole sparire (sostituendovisi di fatto, grazie alla conversione dovuta alla predicazione e all’esempio di vite veramente cristiane, illuminate dalla Grazia, non ad un intervento dello Stato, la cui azione come “braccio secolare” ha del resto sempre avuto un significato secondario, di intervento a difesa).

Invece il Concilio afferma che lo Stato non deve “promuovere” la religione cristiana e deve invece garantire l’opportuna libertà di culto a tutte le religioni (DH 2,4,6). Il rispetto del diritto naturale alla libertà religiosa da parte dello Stato deve esser assoluto: lo Stato ha il dovere di garantirla a tutti come “diritto civile” (DH 2,4,7,13). Ad individui e gruppi. Ai “gruppi religiosi” deve esser concesso il culto pubblico del “numen supremum”, dell’Essere supremo (si noti la formulazione deista-massonico-giacobina), con l’unico limite generico delle “giuste esigenze dell’ordine pubblico” (DH 4).

Ma questo rispetto assoluto ha una conseguenza anche per la Chiesa: quella di rendere praticamente impossibile l’opera di conversione degli infedeli. Anche la conversione, inattuabile senza proselitismo, sarebbe, infatti, una coartazione del diritto naturale alla libertà religiosa degli Acattolici, perché essa (come si vede dall’intero corpo neotestamentario) consiste nell’investirli frontalmente con la proclamazione della Parola di Dio, che incita al pentimento, a mutar vita, ad affidarsi alla Grazia, ad abbandonare le loro vane credenze anteriori. Tutto ciò, oltre a provocare la reazione (spesso violenta) delle altre religioni, nell’ottica adottata dalla DH non appare comunque un far violenza all’altro? Violenza in senso psicologico, si intende, menzionata espressamente dal Concilio, quando afferma che gli uomini sono sì tenuti a ricercare la verità nella religione e ad ordinare ad essa tutta la loro vita, una volta conosciutala, ma alla condizione di godere sempre della “libertà psicologica” oltre che dell’assenza di “coercizione esterna” (DH 2). Si comprende, allora, il perché degli impegni formali della Gerarchia attuale con Grecoscismatici o Ebrei a non far opera di proselitismo nei loro confronti o perché una Madre Teresa di Calcutta non abbia mai cercato di convertire nessuno alla vera fede410. In realtà Acattolici e scismatici non hanno, a ben vedere, motivo di preoccuparsi: le dottrine deuterovaticane sull’ecumenismo e la libertà religiosa eliminano di per sé la possibilità stessa della conversione perché cercare di convertire eretici, scismatici ed infedeli, per la salvezza della loro anima, viene ora inteso come un coartarli nella loro “libertà psicologica”!

La concezione della libertà religiosa della DH appare astratta, radicale ed utopistica. Astratta ed utopistica anche nel prevedere i limiti di questa libertà, in DH 7, che sono solo quelli dell’ordine pubblico, da tutelarsi con norme giuridiche uguali per tutti, senza favorire “iniquamente una delle parti” (e quindi nemmeno la Chiesa); norme pertanto che siano “conformi all’ordine morale obiettivo”, il cui concetto non viene però specificato. L’eguaglianza di trattamento che tali norme devono mantenere deve essere assoluta. I “gruppi religiosi” hanno diritto a non essere intralciati dal potere nell’esercizio del loro culto, nella loro autonomia organizzativa e giuridica, nella loro libertà di movimento (DH 4) ed infine — cosa più importante — non devono essere «impediti di manifestare liberamente la virtù singolare della propria dottrina [singularem suae doctrinae virtutem] nell’ordinare la società e nel vivificare ogni umana attività» (DH 4.5). Come appare chiaramente dal contesto, tra i “gruppi religiosi” (communitates religiosae) è incluso anche il Cattolicesimo, su di un piano di perfetta parità con gli altri. Ne consegue che, per il Concilio, la “virtù singolare” dell’unica Religione rivelata non è tale da farle assumere una posizione di supremazia assoluta nei confronti delle altre religioni, che non sono rivelate! Ciò significa affermare di fatto che tutte le altre religioni hanno lo stesso diritto del Cattolicesimo a manifestare pubblicamente il loro culto, contraddicendo apertamente la proposizione n. 78 del Sillabo, che condanna un simile diritto, non riconosciuto nemmeno da Pio XII nel celebre messaggio radiofonico del Natale 1942, di cui sopra. Ci troviamo o no di fronte ad una grave deviazione dottrinale, che consiste nel conferire all’errore gli stessi diritti dell’unica Verità Rivelata, facendo venir meno, per i credenti, la differenza tra Verità ed Errore, tra la Luce e le Tenebre?

La perdita dell’unicità del Cattolicesimo, imposta quest’unicità dall’identificarsi della Chiesa di Cristo unicamente con la sola Chiesa Cattolica Romana, perché l’unica rimasta fedele nella continua successione apostolica al Deposito della Fede, completatosi con la morte dell’ultimo Apostolo; questa perdita risulta anche da altre affermazioni della DH.

Dall’illegittima inclusione paritetica della Chiesa Cattolica nei “gruppi religiosi”, cioè dall’equiparazione a tutti gli effetti del Cattolicesimo con le altre religioni, il Concilio trae dunque la logica conclusione che la libertà religiosa spettante alla Chiesa Cattolica è solo specie del genere libertà religiosa, che si deve concedere a tutti i “gruppi religiosi”, indistintamente, fatta salva la tutela dell’ordine pubblico in nome di un indeterminato “ordine morale obiettivo”. Questo appiattimento radicale risulta a mio avviso con chiarezza dalla seguente frase: «la Chiesa rivendica a sé la libertà in quanto è una comunità di esseri umani che hanno il diritto di vivere nella società civile secondo i precetti della fede cristiana» (DH 13.2). La frase sembra tratta da un documento di Pio XI, citato in nota411. Ma in quel documento il Papa si limitava ad esporre un argomento ad hominem nei confronti di quegli Stati che negano alla Chiesa persino il comune diritto all’esistenza, che il Papa vuole invece le venga giustamente riconosciuto, come ad ogni altra associazione legittima.

Il Concilio, invece, trasforma questa richiesta di una libertà minima e preliminare in un principio fondamentale del diritto pubblico della Chiesa, come se quest’ultimo avesse propugnato per la Chiesa nient’altro che una libertà di diritto comune, “quasi la Chiesa fosse semplicemente un’associazione paragonabile ad altre esistenti nello Stato”412. Si tratta, anche qui, di un grave errore dottrinale, sempre condannato dai Pontefici poiché esso misconosce la superiore natura della Chiesa, che è quella di una societas perfecta, ed il suo necessario primato su tutte le altre societates, ex sese imperfectae, intrinsecamente imperfette, che concorrono in maniera subordinata a procurare alla “comunità politica” il bene comune temporale. Si tratta inoltre di un incredibile regresso sul piano storico. In pieno XX secolo, sopravvissuta alle persecuzioni comuniste e naziste, assediata dal secolarismo montante dal lato dell’incombente democrazia di massa, la Gerarchia chiede tuttavia che la Chiesa, anche nei paesi nei quali è riconosciuta come unica religione dello Stato, sia ridotta alla semplice condizione di religio licita, di culto ammesso, ed accettata in questa veste: un culto permesso accanto a tutti gli altri, come ai tempi dell’Editto dell’imperatore Costantino, che pose termine alle persecuzioni (AD 313). In questa deminutio capitis, in quest’autodiminuzione, come non vedere all’opera (e con successo) l’odio per la Chiesa Cattolica Romana, che insultavano abitualmente come “costantiniana”, da parte di Modernisti e Neomodernisti, impadronitisi del Concilio nel modo che sappiamo?

E questa perdita dell’unicità della Chiesa Cattolica mi sembra risulti anche da un altro passaggio di DH 13. Si tratta dell’affermazione che “la libertà della Chiesa”, intesa nel modo appena visto, sia da intendersi quale «principio fondamentale nelle relazioni fra la Chiesa e i poteri pubblici e tutto l’ordinamento giuridico della società civile» (DH 13.1). L’affermazione appare non conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa perché il principio fondamentale del diritto pubblico della Chiesa è da sempre quello secondo il quale lo Stato ha il dovere di riconoscere la “regalità sociale di Cristo”. Si tratta di una interpretazione costante nei secoli dello “oportet illum regnare” (“occorre che Egli regni”, di 1 Cr 15,25), per ciò che riguarda i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e nell’ambito della società stessa. Ma il principio dello “oportet illum regnare” è stato lasciato cadere nell’oblio a partire dal Vaticano II. Una conseguenza è stata, per l’appunto, il ridurre sul piano teorico l’aiuto che lo Stato deve prestare alla Chiesa al solo riconoscimento della sua libertà, della sua indipendenza, al solo aspetto negativo del non-impedire, quando invece la Chiesa Cattolica, proprio a causa della sua unicità di sola e vera Chiesa di Cristo, ha diritto anche ad un aiuto positivo, che consiste nell’aiutarla secondo le sue necessità e riconoscendo la sua legittima preminenza. 
12. Quale “diritto naturale” ci propone la “Dignitatis humanae”? 
Di fronte ad un quadro del genere, poiché DH 2 presenta la libertà naturale come un “diritto” che ha il suo fondamento “sulla stessa dignità della persona umana”, ne consegue che tale diritto è posto come un vero e proprio diritto naturale, anche se il Concilio preferisce parlare in genere di “diritti umani”, servendosi di una terminologia più moderna. Bisogna quindi chiedersi, a questo punto, se questo diritto naturale alla libertà religiosa sia in armonia con l’idea del diritto naturale professata dalla Tradizione della Chiesa. In altre parole: quale concetto di “diritto naturale” è posto a fondamento della libertà religiosa? Non si tratta certo di quello elaborato dalla Scolastica e sempre insegnato dal Magistero preconciliare. E perché differisce dalla Tradizione della Chiesa? Perché “il diritto [naturale] della persona” alla libertà religiosa, di cui a DH 2, riposa esclusivamente sulla persona stessa, sull’uomo, sull’individuo in sé e per sé considerato, sulla sua supposta “sublime dignità”, come scrive GS 22. È in sostanza un diritto naturale dell’uomo in quanto uomo.

Ma questo è appunto il concetto laico del diritto naturale, espressione della ben nota visione antropocentrica del diritto e della giustizia. Nella plurisecolare concezione cristiana tradizionale, invece, il diritto naturale è visto sempre come l’espressione di un’idea di giustizia il cui fondamento è nella volontà stessa di Dio: esso non riposa mai sull’essere umano in quanto tale, riposa in Dio. Ciò risulta con chiarezza dall’architettura dei concetti di legge, diritto e giustizia elaborata da san Tommaso nella Summa. In questa sede non posso addentrarmi in un’analisi approfondita. Mi limito a ricordare che, per il Doctor Angelicus, l’idea del diritto è inseparabile da quella della giustizia, onde “ius est obiectum iustitiae”, “il diritto è l’oggetto della giustizia”, il suo “oggetto” in senso proprio. Ciò significa che il suo “contenuto” concreto non può contraddire l’idea della giustizia, che dipende sempre dalla legge divina, come si attua nella “legge naturale”; la quale, secondo la famosa definizione è: «partecipazione della legge eterna nella creatura razionale [participatio legis aeternae in rationali creatura]»413. Può allora concepirsi come fondato “sulla dignità della persona” ossia sulla “natura” della persona e quindi sulla “legge naturale” il diritto che si vuole attribuire ad ogni uomo di professare come meglio ritiene un qualsiasi credo religioso o antireligioso? Non può, ovviamente, se la “natura” in questione è quella da determinarsi sempre secondo la “legge di natura” stabilita dalla “legge divina” ossia dal vero Dio, Uno e Trino, incarnatosi in Nostro Signor Gesù Cristo; Dio il quale, nel dare i suoi Comandamenti, ha messo al primo posto il comando: “Non avrai altro Dio all’infuori di Me”.

Può, invece, se la “dignità della persona” è quella fabbricata dal pensiero laico, sulla base di un concetto di natura che esclude sia la legge divina che quella naturale da essa necessariamente dipendente, intendendo per legge di natura un principio razionale riferibile soltanto all’uomo, che diventa così l’autore del suo proprio diritto e dell’idea di giustizia che ad esso si debba riferire. Ma tale concezione della “dignità della persona” non ha niente di cattolico, non si può in alcun modo inserire nella Tradizione della Chiesa. E, come credo di aver dimostrato, vani sono apparsi i tentativi del Concilio stesso (in DH 11) di rinvenire tale concetto di “dignità della persona” nella Sacra Scrittura (vedi supra, § 9 di questo capitolo).

In realtà, il “diritto naturale” posto dal Concilio a fondamento della libertà religiosa è parente stretto dei Diritti dell’Uomo dell’89, come vengono chiamati, dichiarati in 17 articoli dall’Assemblea Nazionale rivoluzionaria “en présence et sous les auspices de l’Être suprême”, come se quell’Assemblea fosse stata una Loggia. Lo conferma indirettamente lo stesso prof. Rhonheimer quando ricorda che Benedetto XVI, sempre nel famoso discorso alla Curia del dicembre 2005, di contro alla doverosa condanna di Pio VI di quella famosa dichiarazione, «prende le difese della prima fase, quella “liberale” della Rivoluzione francese, che egli distingue anche così dalla seconda, la fase giacobina, plebiscitaria e radical-democratica, che portò al Terrore e alla ghigliottina. Facendo ciò, riabilita ugualmente la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, sorta dallo spirito del parlamentarismo rappresentativo e dal pensiero costituzionale americano»414.

Il primo di questi famosi articoli proclama che: «Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits»415. Poiché si parla di nascita senza menzionare un Dio creatore, si deve ritenere che siffatta uguaglianza sia considerata intrinseca agli uomini in quanto tali, in quanto prodotto di una natura che si riferisce solo a sé stessa. La libertà e l’uguaglianza sono allora caratteristiche naturali dell’uomo che la ragione coglie da sé stessa, nel porsi come quella coscienza di sé che l’uomo possiede in quanto io pensante, che è però nello stesso tempo parte della natura a sua volta increata e solo della natura, senza dover render conto a nessun Ente sovrannaturale. In tal modo la libertà e l’uguaglianza, intese come “diritti” che ci appartengono per natura, vengono in realtà ad essere un prodotto dell’io pensante, ossia della ragione che concepisce l’uomo come quella parte della natura increata che deve ritenersi sempre uguale ed indipendente da ogni altra parte della stessa natura: quella parte che si presenti come essere umano. Siffatta visione naturalistica del diritto naturale è nello stesso tempo antropocentrica, nel senso che è l’uomo a rappresentarsi come “diritto” il suo semplice modo di essere, in quanto natura, ponendosi come legislatore al centro del Tutto della natura. L’idea laica di un’uguaglianza di tutti gli uomini per il solo fatto di esser tali e non perché creati da Dio, Padre comune; idea che degrada l’idea legittima di uguaglianza ad anarchico ugualitarismo, anche nell’epoca attuale costituisce uno dei principali fondamenti della “dignità dell’uomo” e dei diritti “naturali” od “umani” che su di essa si vogliano costruire.

Di contro a tutto ciò, bisogna invece richiamare il limpido insegnamento della Chiesa del passato ma in realtà di sempre. Ho già ricordato (supra, § 2.1) che Leone XIII escludeva a chiare lettere la possibilità di concepire come “diritti naturali” i vari “diritti” riconducibili alla libertà di coscienza. L’esclusione si imponeva innanzitutto sul piano logico, poiché essi apparivano in perfetta antitesi con il concetto stesso di “verità rivelata”, sulla quale, oltre alla religione, si fonda anche la morale cristiana. Non solo. Come si è visto già nel pensiero di Spinoza l’ideologia della “libertà religiosa” si presenta sotto il segno dell’impostura. In che senso? Nel senso che essa si presenta come neutrale nei confronti della religione, compresa quella rivelata, in nome delle esigenze di una giusta libertà individuale e della pace sociale, che richiede siano evitate le dispute dei teologi e le conseguenti lotte delle fazioni politicoreligiose. Ma in realtà, come si è visto, quell’ideologia era ed è profondamente ostile alle religioni basate su di una Rivelazione ed in verità a qualsiasi religione. In particolare essa avversa il Cattolicesimo, la cui dottrina mantiene intatta sia la natura sovrannaturale della vera Rivelazione che l’etica su di essa fondata. Il Cattolicesimo era calunniato come superstizione buona al massimo a tenere a freno la canaglia con la paura dell’Inferno e comunque respinto sul piano del concetto, dal momento che Dio doveva ritenersi, dal punto di vista dei liberi pensatori, solamente un ente di ragione i cui attributi venivano elaborati dalla ragione stessa. In tal modo Dio diventa un prodotto della ragione stessa e l’uomo finisce con il divinizzarsi, con il porre la sua “ragione” al centro dell’universo al posto di Dio, come abbiamo appena ricordato. 

Come se non bastasse, tale laica concezione comportava la dissoluzione dell’etica cristiana ed anzi di ogni etica, con il toglierle ogni fondamento oggettivo, dal momento che il principio morale delle nostre azioni lo si faceva sempre ed esclusivamente dipendere dalla nostra libera coscienza individuale, dal sentimento morale che c’è in noi o dalla nostra volontà, obbediente ai dettami di una “ragion pratica” fondata sempre sul nostro io. Ma l’etica cristiana non dipende dal sentimento del soggetto né dalla sua coscienza di sé né dalla sua volontà: è fondata sulla Verità Rivelata, ossia sugli insegnamenti del Signore e su quelli degli Apostoli infusi dallo Spirito Santo che spira dal Padre e dal Figlio, e mantenuti nei secoli dal Magistero della Chiesa. Essa si compone di precetti che il nostro libero arbitrio (la “libertas” di cui all’Enciclica Libertas praestantissimus di Leone XIII), con l’aiuto indispensabile delle Grazia, deve riconoscere come obbliganti, sia per il retto agire in questo mondo che per la salvezza della nostra anima.

Era perfettamente logico che i Papi condannassero nel modo più energico la “libertà religiosa” propugnata, alla fine, dall’ideologia liberale dell’Ottocento, fondata com’era su quel deismo che conduceva inevitabilmente all’indifferentismo e all’agnosticismo in campo religioso e morale e in campo politico ad una inaccettabile separazione tra Chiesa e Stato (da non confondersi con la legittima distinzione delle rispettive sfere di competenza). Infatti, lo Stato moderno, dandosi giustificazione e fini solo terreni, non riconosceva più come propri i valori religiosi (cosa che comportava il venir meno della difesa della morale cristiana e della Chiesa Cattolica) e pertanto non si considerava più come ordinato anch’esso da Dio (nella sfera di sua competenza, che è quella del Bene comune) alla realizzazione del fine sovrannaturale per il quale ciascuno di noi è stato creato, fine costituito dal conseguimento della vita eterna. In tale condanna si distinsero, come sappiamo, pontefici del XIX secolo quali Gregorio XVI e Pio IX, senza escludere Leone XII e XIII.

Per i Papi, la condanna della “libertà religiosa” propagandata dai Liberali realizzava la difesa della verità religiosa, l’unica autentica perché rivelata da Nostro Signore. I Liberali, più ancora che negare l’esistenza “di una verità religiosa”, negavano la possibilità stessa dell’esistenza di una verità assoluta, sulla fede e sui costumi, come quella costituita appunto dalla Verità Rivelata. Ciò era conforme alla loro nozione soggettivistica della verità, cui non conferivano un sicuro fondamento oggettivo fuori di noi, dipendendo essa sempre (dicevano) dai nostri sensi e dal concetto elaborato dalla nostra mente e pertanto alla fine dalla nostra opinione, dal nostro modo di sentire. Per i Liberali, la Bibbia era (ed è) nient’altro che mitologia, allo stesso modo, per dire, del Rig Veda. Tra Cattolicesimo e Liberalismo c’era (e c’è) un contrasto insanabile nel modo di intendere la verità e per conseguenza la libertà. Il soggettivismo e il relativismo del punto di vista liberale privilegiava la “libertà” intellettuale, morale e pratica del soggetto, dandole un valore assoluto, prevalente sulle esigenze della verità, che non potevano mai esser tali da impedire quella libertà; veritas ancilla libertatis, potremmo dire: della libertà incondizionata del nostro io, condizionata solo da esigenze esterne quali la correttezza contrattuale, l’ordine pubblico e la pace sociale.

Il punto fu colto egregiamente da Leone XII nell’Enciclica Mirari vos, del 1832. Egli sottolineò come l’indifferentismo, che metteva sullo stesso piano tutte le religioni, fosse figlio della “libertas opinionum” proclamata dalla coscienza moderna, noncurante dell’ammonimento di sant’Agostino: «At quae peior mors animae, quam libertas erroris?»416. “La morte dell’anima non è peggiore della libertà di errare?”. Lo è, dato che essa, provocata dal peccato mortale, comporta la “morte seconda” o dannazione eterna. Ma, per la coscienza moderna, “l’errore” non esiste, negando essa assurdamente l’esistenza di una verità oggettiva, tanto più se assoluta perché di origine sovrannaturale. Per il Cattolicesimo, invece, l’errore esiste e può condurci alla dannazione eterna. La libertà di coscienza in religione, nella forma di assoluta ed indifferenziata “libertà religiosa” non poteva pertanto essere ammessa, derivando essa dall’errore di far scaturire la religione dal sentimento o dalla ragione. «E poiché iniquamente [i nemici di Cristo e della Chiesa] osano derivare dalla virtù naturale della umana ragione tutte le verità religiose, così a ciascun uomo attribuiscono un tale quasi primario diritto, per il quale egli sia libero di pensare e di parlare a suo senno di religione, e rendere a Dio quell’onore e quel culto, che secondo suo piacimento giudica migliore»417.

Qui è espressa chiaramente la ripulsa di un “diritto naturale”, come “diritto” della persona in quanto tale alla “libertà religiosa”, consistente in un culto a Dio stabilito unilateralmente dalla “virtù naturale della umana ragione” della persona stessa. Diritto negato implicitamente anche da Pio XII, come si è detto. E non potendo riconoscere una tale “diritto naturale”, che, facendo strame della Verità Rivelata, avrebbe precipitato la vera religione nel caos, dandola in pasto alle sette e aprendola all’assalto delle altre religioni (come poi è successo), i Papi non potevano nemmeno riconoscerne la logica conseguenza, ossia “il diritto civile” ad esercitarlo come libertà di culto o “religiosa”, estesa per di più anche al suo contrario, e quindi da intendersi anche come libertà “di culto” per l’irreligione, alla maniera della Dignitatis humanae!

Nelle loro condanne i Papi del passato si attenevano al vero concetto cristiano del diritto naturale, il cui contenuto, per esser giusto, deve sempre esser conforme alla legge di natura, della quale partecipa la legge divina. L’impianto logico che sorregge il giusnaturalismo cattolico è quello della metafisica classica, di Platone, Aristotele e di san Tommaso, e si fonda sul principio di identità e non contraddizione e su quello di causalità. Che il “diritto naturale” contemplato nella DH esprima invece un concetto distorto, lo si deduce già dal fatto che esso, violando impunemente il principio di non contraddizione, pretende di ricomprendere sia la libertà della coscienza religiosa che di quella irreligiosa.
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271) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., pp. 55-78.
272) Vedi B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 163-188; Quod et tradidi vobis, pp. 376-377.
273) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., p. 63.
274) Ivi, p. 55. Il testo citato si trova in Quod et tradidi vobis, pp. 376-377. 275) Ibidem.
276) Ivi, p. 56.
277) Ivi, pp. 56-57.
278) B. Gherardini, Quod et tradidi vobis, cit., p. 376.
279) Ivi, p. 377.
280) B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II, cit., p. 169.
281) Ivi, p. 170.
282) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., pp. 58-59.
283) Ivi, p. 60.
284) Ibidem.
285) Ivi, pp. 60-61.
286) Ivi, p. 61.
287) Ibidem. 
288) Ibidem. 
289) Ivi, p. 62. 
290) Ivi, p. 63. 
291) «In hominis iuris hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad rectam conscientiae suae normam, venerari possit, et religionem privatim et publice profiteri» (Denzinger- Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., 3961). L’editore mette in rapporto in nota questa dichiarazione con l’art. 18 della Universal Declaration of Human Rights, proclamata dall’ONU il 10 dicembre 1948: «Everyone has the right to freedom of thought, conscience and religion; this right includes freedom to change his religion or belief, and freedom, either alone or in community with others and in public or private, to manifest his religion or belief in teaching, practice, worship and observance». La Convenzione con la quale gli Stati vi aderirono, all’art. 9 § 2 conteneva restrizioni all’esercizio di questo diritto, da applicarsi per legge in una società democratica: «in funzione della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche, o della libertà o diritti altrui» (Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., p. 804, nota n. 1 al § 3961). Di tali limitazioni non sembra esservi traccia nella Pacem in terris.
292) Giovanni XXIII, Pacem in terris, tr. it. Ediz. Paoline, Roma 1983, § 8. Il passo di Lattanzio è tratto da: Divinae institutiones, 4, 28, 2 (PL, 6, 535); per il passo dell’enciclica vedi Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., 3250, che lo riporta quasi integralmente. Si ferma a "vindicavere Apostoli... " 
293) Per le tre citazioni, vedi nell’ordine M.J. Rouët de Journel S.I. (a cura di), Enchiridion Patristicum, cit., 633, 634, 637. L’originale dell’ultima recita: «Sola igitur catholica ecclesia est quae verum cultum retinet. Hic est fons veritatis, hoc domicilium fidei, hoc templum Dei; quo si quis non intraverit vel a quo si quis exierit, a spe vitae ac salutis alienus est». 
294) M.J. Rouët de Journel S.I. (a cura di), Enchiridion Patristicum, cit., 630.
295) Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., 3252. 296) Ivi, 3245-3249. 297) Ivi, 3250.
298) Pio XI, Mit brennender Sorge [Con bruciante afflizione], 10 aprile 1937, AAS 29
(1937) pp. 145-167; p. 160.
299) Ibidem.
300) Pio XII, Radiomessaggio natalizio del 1942, AAS 1943 (XXXV) pp. 9-24; p. 23.
301) Ivi, p. 19. Corsivo mio.
302) Joseph Lémann, Napoléon et les juifs (1891), rist. Avalon, Paris 1989, pp. 78-81. Per la lettera di san Gregorio Magno: Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., 250/480.
303) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., p. 63, che riporta Dignitatis humanae 1. 304) Ivi, pp. 64-65. 305) Ivi, p. 65. 306) Ivi p. 66, nota n. 17. 307) Ivi, p. 66. 308) Ivi, pp. 67-68.
309) Ivi, pp. 74 ss. 310) Ivi, pp. 75-76. 311) Ivi, pp. 77-78. 312) Ivi, p. 78.
313) Benedetto Spinoza, Trattato teologico-politico, introd. di Emilia Giancotti Boscherini, tr. it. e commenti di Antonio Droetto e E. Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1972, p. 150. L’edizione contiene un ricco apparato di note, del quale mi sono servito, sempre valido per l’erudizione anche se tendenzioso per via del pronunciato anticattolicesimo ed eccentrico in certi paralleli tra il “cattolicesimo di Spinoza” e quello “di san Paolo”. Per l’edizione latina originale, vedi la recente, fondamentale edizione critica dell’intera opera di Spinoza: Baruch Spinoza, Tutte le opere. Testi originali a fronte, Saggio introduttivo, presentazioni, note e apparati di Andrea Sangiacomo, traduzioni di M. Buslacchi, A. Dini, G. Durante, S. Follini, A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, pp. 629-1139. La parte del saggio introduttivo di A. Sangiacomo dedicata al Trattato è però solo apologetica. L’Autore non sente la necessità di una revisione del lascito spinoziano (op. cit., pp. 7-88; 44-54).
314) Ivi, p. 151.
315) Ivi, p. 152.
316) «Abbiamo dimostrato nell’Appendice della Prima Parte che la Natura non agisce secondo un fine: questo Essere eterno e infinito che chiamiamo Dio o la Natura agisce secondo la medesima necessità per la quale esiste [aeternum namque illud et infinitum Ens, quod Deum seu Naturam appellamus, eadem, qua existit, necessitate agit]» (Ethica, IV, Praefatio, ed. Appuhn). 317) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., pp. 179-180 nota n. 38. 318) Ivi, pp. 154-155. 319) Ivi, p. 155.
320) Ivi, pp. 161-163. «Nella Scrittura infatti sono raccontati come reali e come tali anche erano creduti, molti fatti che tuttavia non furono che semplici rappresentazioni e cose immaginarie» (ivi, p. 164). 321) Ivi, p. 308. 322) Ivi, pp. 308-309
323) Giuseppe Ricciotti, Paolo Apostolo. Biografia con introduzione critica e illustrazioni, Coletti, Roma 1957, pp. 264-265. In 1 Cr 15,1-3, c’è di nuovo l’espressione: «Vi ho infatti trasmesso, in primo luogo, quello che io stesso ho ricevuto, cioè che Cristo è morto per i nostri peccati etc.». Manca però il riferimento esplicito a Nostro Signore. Nella sua edizione delle Lettere ai Corinzi, mons. Piero Rossano nega l’attendibilità del riferimento paolino a Cristo quale sua fonte privata. «[In 1 Cr 11,23] Si notino i due termini tecnici della tradizione ecclesiastica: ho ricevuto (gr. parélabon), ho trasmesso (gr. parédoka). Ci si domanda se la fonte di questo insegnamento sia direttamente il Signore, il quale avrebbe rivelato a san Paolo i termini di questo evento e la sua significazione. Ma anche se qualcuno ha voluto pensarlo, sia il contesto, sia le stesse parole adoperate indicano sufficientemente una derivazione e una trasmissione di tale insegnamento attraverso normali organi ecclesiali» ossia, concludo io, attraverso gli altri Apostoli, dai quali pure aveva ricevuto la formazione cristiana necessaria (Le lettere di san Paolo, Edizioni Paoline, Milano 1985³, p. 159 n. 23). Perché “il contesto” debba escludere la rivelazione privata della quale parla san Paolo, non si riesce a comprendere. L’argomento filologico mi sembra poi alquanto debole: di quali termini avrebbe dovuto servirsi san Paolo se non di quelli già in uso? Non scriveva per farsi capire da convertiti di cultura e lingua greca? Il verbo e il sostantivo per indicare il “trasmettere” e il “ricevere” una dottrina, non si trovavano già nel greco classico? (cfr. F. Zorell S.I., Lexicon Graecum Novi Testamenti, cit., sotto le due voci, paralambáno e parádosis). Mons. Rossano mostra di dubitare anche del carattere sovrannaturale dell’Apparizione sulla via di Damasco, che egli presenta come “una folgorazione improvvisa”, termine che in italiano si riferisce inmgenere ad un pensiero improvviso non a un fatto esteriore improvviso (op. cit., Introduzione generale, p. 16). Siamo stati invasi da un’esegesi succube del razionalismo di quella protestante, che cerca costantemente di eliminare la presenza del Sovrannaturale dai Testi Sacri, ricorrendo senza batter ciglio agli argomenti più superficiali o alle pure, immotivate negazioni. 
324) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 309. 
325) Ivi, pp. 310-311. 
326) G. Ricciotti, Paolo Apostolo, cit., pp. 195-207; p. 200. Scarsi cenni in Karl Hermann Schelkle, Paolo. Vita, lettere, teologia, tr. it. Umberto Proch, Paideia, Brescia 1988, pp. 118 e 212, che mi sembra riduttivo nella sua interpretazione: «In Paolo lo Spirito è la forza dell’impensato e del miracoloso, ma è anche sperimentabile in gesti e azioni nei quali si dimostra quotidianamente la vita cristiana. Lo Spirito è così sempre “lo Spirito della fede” (2 Cr 4,13)» (ivi, p. 212). I dettagliati riferimenti di cui al commento di mons. Piero Rossano alle due Lettere ai Corinti, mi sembrano troppo preoccupati di ricondurre il fenomeno alla religiosità mediterranea, locale, pagana, oscurandone in tal modo il significato genuinamente cristiano (vedi Le lettere di san Paolo, cit., p. 168 ss.).
327) G. Ricciotti, Paolo Apostolo, cit., pp. 200-201. Vedi anche la voce Carismi nel Dizionario Biblico, cit. 
328) Ivi, p. 201. «Supponiamo che tutta quanta la Chiesa si raduni insieme e tutti parlino le lingue: se vi entrano dei semplici catecumeni o degl’infedeli, non diranno forse che siete tutti impazziti? Ma se tutti invece profetizzano, qualora entri un infedele o un semplice catecumeno è convinto da tutti, è giudicato da tutti; i segreti del suo cuore vengono svelati, e così, gettandosi con la faccia a terra, adorerà Iddio e proclamerà che Dio è veramente in mezzo a voi» (1 CR 14, 23-25). La Chiesa primitiva godeva di carismi eccezionali, in seguito non più concessi dalla S.ma Trinità in quella misura. 
329) Ivi, p. 202. 
330) Ibidem. 
331) G. Ricciotti, Storia di Israele, I. Dalle origini all’esilio, SEI, Torino 1937³, pp. 381- 395. Vedi anche la voce Profeta. Profetismo nel Diz. Bibl. citato.
332) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., pp. 311-312. 
333) G. Ricciotti, Paolo Apostolo, cit., p. 265. 
334) Atti 15, 36-41. Vedi anche la voce Barnaba nel Diz. Bibl.: san Paolo successivamente mutò opinione su Marco e se ne servì nel suo ministero (Col 4,10). San Paolo e san Barnaba rimasero sempre in buoni rapporti (1 Cr 9,6; Gal 2,1). 
335) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 110. 
336) Ivi, pp. 312-313. 
337) Ivi, p. 48. 
338) Ivi, pp. 48-49. 
339) Ivi, p. 49. 
340) L’uso del termine “testimonianze” appare inspiegabile, non avendo Spinoza accennato in precedenza a “testimonianze” diverse dai “segni”. Ma egli, nonostante scriva tamquam testibus, signis, voleva probabilmente dire “testimonianza dei segni”, come traduce Alessandro Dini nell’edizione del Trattato ricompresa in B. Spinoza, Tutte le opere, cit., p. 937.
341) Ivi, p. 313. 342) Ivi. Il passo è da 1 Cr 7,40.
343) Ivi, p. 313. 344) Ivi, p. 314. 345) Ibidem. 346) Ivi, p. 315. 347) Ivi, pp. 325-326. 348) Ivi, p. 326. 349) Senza entrare nei dettagli, Leo Strauss, nel suo importante studio su Spinoza esegeta della Bibbia, rileva che l’interpretazione spinoziana di san Paolo “può valere solo con le opportune riserve” (Leo Strauss, Die Religionskritik Spinozas als Grundlage seiner Bibelwissenschaft. Untersuchungen zu Spinozas Theologisch-Politischen Traktat [La critica spinoziana alla religione quale fondamento della sua esegesi biblica. Ricerche sul Trattato teologico-politico di Spinoza], Berlin, Akademie-Verlag 1930, rist. anast. Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1981, p. 254). Le “ricerche” di Strauss sulla “esegesi biblica” di Spinoza sono dedicate soprattutto al rapporto tra Spinoza e l’Ebraismo. Egli mette molto bene in rilievo l’ostilità preconcetta di Spinoza per la religione rivelata, che per lui, nella migliore tradizione epicurea e “libertina”, era solo “superstitio”, prodotto dell’“immaginazione” per rispondere a passioni e bisogni puramente umani, economici e politici (ivi, pp. 207-216) e come la sua “critica della religione” fosse in realtà “il presupposto della sua esegesi biblica” ovvero come egli leggesse la Bibbia già da convertito alla miscredenza (ivi, pp. 259-264). Nell’analizzare “la funzione sociale della religione”, così come la intende Spinoza, sulla base dei dogmi di un teismo imposto dallo Stato, mi sembra tuttavia che Strauss non sottolinei a sufficienza il carattere autoritario ed esclusivo, di instrumentum regni che la religione (in quanto culto pubblico di Stato) viene ad avere per Spinoza (ivi, pp. 241-246). Questo carattere non sfugge a Gioele Solari, che tuttavia, in maniera per me incomprensibile, insiste nel presentare la religione di Spinoza come “espressione dell’esperienza etica cristiana fissata nei suoi princìpi essenziali e perenni”, anche per ciò che riguarda il rapporto tra lo Stato e la fede (Gioele Solari, La politica religiosa di Spinoza delJus Sacrum” (1930), ora in ID., Studi storici di filosofia del diritto, con prefaz. di L. Einaudi, Giappichelli, Torino 1949, pp. 73-117; p. 84, p. 110). 
350) F. Spadafora (a cura di), Dizionario Biblico, cit., voce Paolo apostolo. 
351) F. Zorell S.I., Lexicon Graecum Novi Testamenti, cit., voce themélion. 
352) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. XXXVII. 
353) L’influenza di Hobbes è accuratamente documentata dai curatori nelle note al Trattato. Per l’influenza sulla “esegesi biblica” spinoziana della “critica alla religione” che riprende nel Seicento i noti temi epicurei, vedi le precise e penetranti ricostruzioni nella parte introduttiva di L. Strauss, Die Religionskritik Spinozas, cit., pp. 1-86. 
354) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., pp. 19-20. 
355) Ivi, p. 20. 
356) Ivi, pp. 20-21. 357) Ivi, p. 47. 
358) Ivi, p. 49. 359) Ivi, pp. 48-52; 52. 360) Ivi, p. 61. Strauss fa vedere come questa svalutazione radicale del profetismo dipendesse anche dalla metafisica spinoziana, già ampiamente elaborata all’epoca del Trattato: dalla concezione delle facoltà umane su di essa fondate (op. cit., pp. 211-214). 361) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 384. 
362) Ivi, p. 389. 
363) Ibidem. 364) Ivi, p. 348-349. 
365) Solari si scaglia contro gli interpreti che hanno messo in rilievo il nesso tra il teismo imposto dallo Stato spinoziano e la rousseauiana “religione civile” a sfondo teistico, ugualmente professata dallo Stato e ugualmente ostile al Cattolicesimo. Il paragone non reggerebbe perché «la religione civile del Rousseau è l’etica dello stato spogliato da qualsiasi prestigio religioso; né si fonda sui dogmi della Scrittura, ma su postulati razionali con forte tinta nazionalistica, incompatibile con l’universalismo essenzialmente politico religioso di Spinoza. Nel quale lo stato ottimo ha significato essenzialmente religioso e attua il regno di Dio secondo i principii della morale cristiana rivelata» (op. cit., p. 110). Mancano in Spinoza i rousseauiani nessi tra religione “civile” e patriottismo e tuttavia l’orientamento del Trattato, a prescindere dalle apparenze, non sembra meno laico di quello del Contratto sociale. E la Respublica spinoziana su quali “dogmi della Scrittura” si fonderebbe? Per Spinoza la Scrittura non è verità rivelata né lo è la “morale cristiana”, alla quale egli contrappone la sua “etica”, fondata su di una concezione utilitaristica della morale e del diritto. Ricordo che, per Spinoza, il bene e il male in senso assoluto non esistono, egli afferma un integrale relativismo etico, ancora più estremo di quello di Hobbes. Scrive, infatti, che «la conoscenza del bene e del male non è altro che il risultato dell’esser affetti dalla gioia o dalla tristezza, per quanto se ne sia coscienti» (Ethica IV, Propositio VIII). Affermare, poi, che lo Stato spinoziano “attua il Regno di Dio secondo i princìpi della morale cristiana rivelata” significa o non aver capito la vera natura dello Stato pensato da Spinoza o aver una concezione del tutto razionalistica dei principi della morale cristiana, tanto da assimilarli ai “precetti” che Spinoza vuol riduttivamente ricavare dal Discorso della Montagna
366) B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 453. 
367) Ivi, p. 483. 
368) Ivi, p. 482.
369) Ivi, p. 412. 
370) Ivi, p. 207. 
371) Ibidem. 372) Ibidem. 373) Ibidem. 374) Ivi, p. 484. 375) Ibidem. 376) Ivi, p. 460. 377) Ivi, p. 462. 378) Ivi, p. 463. 379) Ivi, p. 465. 380) Ivi, p. 466. 381) Ivi, p. 482. 382) Ivi, pp. 481-483. 383) Ivi, p. 483. 384) Ibidem. 385) Ivi, p. 490. 386) Jean-Jacques Rousseau, Il Contratto Sociale, con un saggio intr. di Robert Derathé, tr. it. e note di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1966, p. 181. 
387) Ivi, p. 176. 
388) Ivi, p. 182. 
389) Citato da G. Solari, La politica religiosa di Spinoza del Jus Sacrum”, cit., p. 95, nota n. 1. Nel sigillo che si era fabbricato, riprodotto a p. 101 di Tutte le opere, cit., Spinoza aveva raffigurato una rosa, simbolo di riservatezza e segreto, con sotto la scritta: “caute”, cautamente, con circospezione. Il motto di Cartesio si ispirava ad un’idea simile: “larvatus prodeo”, je m’avance masqué. 
390) P. Cantoni, Riforma nella Continuità, cit., pp. 58-59. 
391) Ho trovato il riferimento a sant’Agostino in Martin Heidegger, Sein und Zeit, § 29, p. 139 dell’edizione di Niemeyer, Tübingen 196310, nota n. 1 (p. 403 della traduzione italiana curata da Alfredo Marini con testo tedesco a fronte: ID., Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006). Heidegger utilizza il concetto ai suoi fini, per la sua peculiare nozione del “comprendere”, fondata sull’idea della “precomprensione” quale essenza del “comprendere” stesso. 
392) Atti e Passioni dei Martiri, nell’edizione critica apparsa nella collana della Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1995³, p. 167. Dichiararsi cristiano significava rischiare la condanna a morte, se non si abiurava sacrificando agli dèi del culto ufficiale o per o all’imperatore. Ma compiere questo “sacrificio” significava appunto apostatare, violare il Primo Comandamento. 
393) Ivi, p. 139, Passione di Perpetua e Felicita. 
394) Ivi, p. 141. 
395) Atenagora, Supplica per i cristiani, tr. it. introd. e note a cura di P. Gramaglia, Edizioni Paoline, 1965, p. 36, per le calunnie. Sembra che queste mostruose falsità trovino ancora largo credito tra le plebi musulmane. Ma le calunnie più incredibili investono di nuovo il Cattolicesimo in Occidente grazie alle campagne mediatiche organizzate sulla scorta di romanzi di terz’ordine, che sembrano scritti con il preciso scopo di attaccare la nostra religione, quali il tristemente noto: The Da Vinci Code, dell’americano Dan Brown. 
396) Sul nesso libertà di espressione-autorità, cfr. Arnaldo Momigliano, La libertà di parola nel mondo antico (1971), ora in ID., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Ediz. di Storia e letteratura, Roma 1980, pp. 403-436; p. 432. Sottolinea inoltre l’illustre Autore: «Per quel che ne so, nessuno presentò la disputa pro o contro il cristianesimo come una questione che coinvolgesse il principio della libertà di parola» (ivi, p. 433). La libertà di parola è sempre stata considerata aspetto essenziale della libertà di coscienza e religiosa nel senso moderno del termine.
397) Apologeticum, 24, tr. it. con testo a fronte di E. Buonaiuti, introduz. revis. e commento di Ettore Paratore, Laterza, Bari 1972, pp. 150-153. 
398) Martin Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, in “Nova et Vetera”, n. 4, oct.-déc. 2010, http://www.novaetvetera.ch/Art%20Rhonheimer.htm, 14 pp. Traduzione italiana, sotto la rubrica: “Chi tradisce la tradizione. La grande disputa” di Sandro Magister, in: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1347670, 14 pp. Poiché il testo italiano omette alcuni passaggi e le note, l’ho a volte integrato con quello in francese, apparso inizialmente in tedesco, in forma più ridotta, nel 2009, su “Die Tagespost” del 26 settembre 2009; tr. it., p. 4. 
399) M. Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, cit., p. 11. 
400) Apol., 30, ed. cit., pp. 175-177. 
401) Ivi, 33; pp. 181-183. 
402) M. Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, cit., p. 11, ed. it., corsivi miei. 
403) Étienne Gilson, La filosofia del Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo (1952), tr. it. di M. Assunta della Torre, present. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 31.
404) Ivi, p. 27, ed. it. Corsivi miei. 
405) Francesco Calasso, Medio Evo del diritto. I – Le fonti, Giuffrè, Milano 1954, p. 140. 
406) M. Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, cit., p. 8., corsivi miei.
407) Ivi, p. 7. Il CCC evita di dire: “che l’unica vera religione sussiste esclusivamente nella Chiesa Cattolica”. 
408) Mediator Dei, ed. cit., pp. 12 e 13. 
409) M. Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, cit., p. 5. 
410) A proposito dei moribondi di Calcutta, era solita dire: “Noi diamo loro ciò che desiderano, secondo la loro fede” (H. Greslaud, Madre Teresa, una beatificazione equivoca, in “La Tradizione Cattolica”, XVI (2005) 2 (59), pp. 25-39; 36-37. Su Madre Teresa di Calcutta, vedi supra nel Cap. VIII, il rilievo critico di mons. Gherardini. 
411) Pio XI, Lettera Apostolica, Firmissimam constantiam, del 28 marzo 1937 in AAS 29 (1937), p. 196. 
412) Cfr. l’Enciclica Immortale Dei, del 1° novembre 1885 di Leone XIII, Acta Leonis, V, p. 118. 
413) ST, I-II, q. 91, a. 2. Vedi inoltre: ST, II-II, q. 57, a.2.
414) M. Rhonheimer, L’“herméneutique de la réforme” et la liberté de religion, cit., p. 6. 
415) Felice Battaglia (a cura di), Le carte dei diritti, Sansoni, Firenze 1934, p. 122. 
416) Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, cit., 3731. 
417) Pio IX, Allocuzione Maxima quidem, del 9 giugno 1862, in Appendice a Pio IX, Il Sillabo, nuova ediz. it. con testo a fronte e appendice documentaria, a cura di G. Vannoni, Cantagalli, Siena 1985², pp. 189-198; p. 192.

11 commenti:

mic ha detto...

Stralcio dall'Introduzione del libro Unam sanctam i capitoli che peecedono:
Dell’ampio e denso studio vogliamo segnalare i temi fondamentali: l’analisi del nuovo concetto di Chiesa “allargato” ai non-cattolici in nome del nuovo ecumenismo (costituzione conciliare Lumen Gentium 8 e decreto Unitatis Redintegratio 3) – capp. I e II; l’accurato parallelo tra gli artt. 1-7 dello schema preparatorio sulla Chiesa, scartato grazie ai colpi di mano dei progressisti in Concilio, intitolato Aeternum Unigeniti e gli articoli 1-8 della Lumen Gentium – parallelo che permette di vedere come lo schema scartato sia stato modificato in modo da far sparire (in quello definitivo, approdato alla fine alla Lumen Gentium) tutti i riferimenti al Primato di Pietro, alla Chiesa come unico nuovo “Israele dello Spirito”, al concetto di Chiesa “militante”, etc. (capp. III-VIII); l’analisi critica del nuovo concetto di Incarnazione che compare nella costituzione Gaudium et spes 22, [vedi nel blog] come “unione in certo modo di Cristo ad ogni uomo”, non conforme alla Tradizione della Chiesa e fortemente sospetto di panteismo (di blondeliano “pancristismo” secondo mons. Gherardini) – capp. XI-XIII; l’esposizione del possibile “antropocentrismo” di Gaudium et spes 12 e 24,[vedi] per il modo nel quale si presenta il concetto della creazione dell’uomo, “sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa”, quasi l’azione creatrice di Dio avesse avuto nell’uomo il suo “termine” ultimo (cap. XIV); la critica della nuova collegialità (Lumen Gentium 22), che sembra aver creato due distinti titolari e due distinti esercizi della suprema potestà di governo sulla Chiesa universale: il Papa da solo ed il Collegio dei vescovi con il Papa (non più il Papa da solo e quando è in concilio con tutti i vescovi nell’esercizio del magistero straordinario del Concilio ecumenico ma il Papa da solo e il Collegio con il Papa, con l’unico limite al Collegio di non poter esercitare la sua titolarità della detta giurisdizione senza l’autorizzazione del Papa) – cap. XV;

mic ha detto...

E, poi, il Capitolo pubblicato e quelli che seguono
la critica al nuovo concetto di “libertà religiosa”(dichiarazione conciliare Dignitatis humanae) che appare in effetti un laico corpo estraneo nel contesto dottrinale del Concilio (cap. XVI). In questo capitolo (il più lungo dell’opera) l’autore dedica un’accurata analisi all’esegesi biblica di Spinoza (considerato uno dei padri della moderna libertà religiosa, anche dai cattolici progressisti) dimostrandone gli errori e le falsità, condotta com’è da Spinoza all’insegna di una luciferina avversione sia per l’Antico che per il Nuovo Testamento. Due capitoli sono poi dedicati ai gravi problemi posti dalla costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione, che, oltre ad aver introdotto un concetto ambiguo di “tradizione vivente” sembra aver intorbidato alquanto il dogma dell’Inerranza delle Scritture (capp. XVII e XVIII). Una riflessione sull’insostenibile concetto di dogmaticità che si vuole attribuire al pastorale Vaticano II (cap. XIX: “Se esiste un’infallibilità implicita e surrettizia allora anche il Vaticano II è un concilio dogmatico”) e sul carattere neoilluministico della Gaudium et spes, costituzione “sulla Chiesa nel mondo contemporaneo” aperta a tutti i soffi del pensiero moderno e contemporaneo, concludono il volume.

https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2014/04/unam-sanctam-di-paolo-pasqualucci.html?m=1

Se non vi sembra troppo fuori tema.. ha detto...

L'ANALISI
di Padre Paolo M.Siano
O la Croce o la loggia: conciliarle è un'illusione
L'avvicinamento tra Chiesa e massoneria può avvenire solo a spese della Verità: la luce di Cristo non è una delle tante "luci" del tempio massonico, dove si è liberi di professare qualsiasi religione... purché non la si consideri "troppo vera".
https://lanuovabq.it/it/o-la-croce-o-la-loggia-conciliarle-e-unillusione

AAAAA.cercasi... ha detto...

Cercasi preti. Contro la crisi delle vocazioni, in Germania una diocesi ricorre agli annunci di lavoro
https://www.aldomariavalli.it/2024/02/22/cercasi-preti-contro-la-crisi-delle-vocazioni-in-germania-una-diocesi-ricorre-agli-annunci-di-lavoro/

Anonimo ha detto...

Se è vero che la Chiesa Cattolica non può definire cose contrarie alla Verità e alla Fede e non può incorrere in errori nel suo Magistero (ricordiamo la Bolla Auctorem Fidei di Pio VI che condannò la proposiz. 78 del sinodo di Pistoia che aveva affermato la possibilità di definizioni erronee da parte della Chiesa in talune materie, con licenza dei fedeli di non seguirle) come si giustifica il CVII nell sue definizioni diciamo poco ortodosse? Come si giustificano le posizioni di coloro che scelgono quali disposizioni papali seguire, secondo una certa ortodossia, considerando quindi la possibilità implicita che il magistero possa errare? Qui non parliamo di interviste rilasciate da Bergoglio, qui parliamo di documenti ufficiali della Chiesa. Come ammettere che il magistero sia in contrasto col passato bimillenario (e non mi riferisco solo a Bergoglio, ma anche al magistero postconciliare dei vari papi) della Chiesa senza porsi il problema della sussistenza formale dell'autorità papale? La rivoluzione liturgica, i contorsionismi e le deviazioni bizantine in tema di morale e dottrina mettono il fedele in una condizione anomala e assolutamente inedita che deve essere quanto prima risolta per il bene delle anime.

Anonimo ha detto...


Il Vaticano II non ha voluto essere un Concilio dogmatico, l'ha detto espressamente.
Pertanto, non ha dato "definizioni" di verità di fede che possano considerarsi "di fede divina e cattolica", come si suol dire.
È dogmatico dove richiama i dogmi stabiliti in passato, come nell'art. 25 della Lumen gentium, ove si ribadisce l'infallibilità pontificia come definita nel Concilio Vaticano I, espressamente citato.
Ma nell'art. 22 della LG propone una forma di collegialità che rappresenta una nuova dottrina, non in armonia con la tradizione della Chiesa. Questa dottrina ha creato non poca confusione nella Chiesa, attribuendo essa la suprema potestas sulla Chiesa anche al collegio deei vescovi, sia pure (ovvio) sempre con il Papa (accanto alla suprema potestas del Papa uti singulus abbiamo allora la suprema potestas del collegio cum Papa, che non può esercitarla da solo mentre il papa lo può).
Ora, una dottrina così ambigua è stata possibile perché la suprema Assise, dichiarandosi solo pastorale, non ha voluto godere dell'assistenza dello Spirito Santo, garantita ad un Concilio che avesse voluto invece procedere a definire di nuovo il dogma o a condannare solennemente gli errori del Secolo (come il marxismo, p.e., la sui assenza dai testi del Concilio fu uno scandalo inaudito, dato la situazione all'epoca, con il marxismo e alleati all'attacco su tutto il fronte della cultura, laica e cristiana - ma è dimostrato che ci fu un accordo sottobanco con Mosca in tal senso).

Non bisogna dimenticare che il Signore ci lascia sempre la possibilità di usare il nostro libero arbitrio, sul presupposto che si ricorra sempre alla sua Grazia per superarne i limiti, dovuti alle conseguenze del peccato originale, al prevalere delle passioni e dei vizi.
Pertanto, non si commette alcun peccato di ribellione quando si contestano e anche rifiutano gli insegnamenti del Vaticano II ove si presentano ambigui e in contrasto con la Tradizione e persino inclini all'errore (come in Gaudium et spes, 22, nel famoso paragrafo che afferma essersi il Cristo unito con l'Incarnazione in un certo senso ad ogni uomo - un errore già confutato da S. Giovanni Damasceno).

Il magistero postoconciliare si guarda bene dal toccare anche una sola virgola del Concilio, che viene anzi presentato come se fosse "superdogmatico", quasi Carta Costituzionale della nuova Chiesa del dialogo e aperta ai valori del Secolo. Esso intuisce, il magistero in questione, che anche solo concedere di aprire un dibattito sul Concilio potrebbe rappresentare l'inizio della fine per la "Chiesa conciliare".
Ma bisogna insistere, far valere le giuste critiche, mantenere la posizione, quella della critica seria e documentata, l'unica che sia sicuramente gradita a Nostro Signore.
PP

Anonimo ha detto...

Il Magistero della Chiesa nella persona del Papa e/o di questi con il Collegio episcopale può essere di due tipi: straordinario e solenne (ex cathedra) e quindi infallibile, oppure ordinario, a sua volta distinto in ordinario definitivo, infallibile anch'esso, e in ordinario autentico, che non è infallibile, ma da ritenere vero e sicuro.
Il giudicare secondo il proprio libero arbitrio se quanto insegnato dal magistero ordinario sia o meno conforme alla Tradizione espone il fedele al pericolo di farsi arbitro della propria fede (mi pare che fu atteggiamento già condannato da Pio XII).
Dove sta scritto che si possa ridurre l'infallibilità della Chiesa ai soli pronunciamenti ex-cathedra, quando tale infallibilità permea anche il Magistero ordinario in molti suoi atti (il Magistero definitivo, sicuramente)?
Tale atteggiamento "riduzionista" in tema magisteriale comporta che ci troviamo da sessant'anni dinanzi a Pastori che, in nome di una sempliciotta pastoralità, demoliscono gradualmente il deposito della Fede e vengono tuttavia "tollerati" in forza di tale presunta pastoralità che invece pare confermarsi sempre più quale Dottrina mascherata da prassi.

Margotti

Anonimo ha detto...


Il fedele che contesta le novità introdotte dal VAticano II si farebbe arbitro della propria fede?

Si farebbe arbitro, se contestasse in nome di un'impostazione di tipo luterano, a base di "libero esame" individuale.
Ma in nessun modo si fa "arbitro" quando sottopone le novità conciliari al raffronto con la dottrina di sempre della Chiesa, trovandole discordanti in diversi punti essenziali.
Non l'ha fatto anche mons. Gherardini, considerata l'ultimo valido esponente della c.d. "scuola teologica romana", quella sempre fedele alla dottrina cattolica ortodossa?
Il VAticano II è stato un Concilio atipico, non perché ecumenico solo pastorale (ce ne sono stati altri in passato, solo pastorali) ma per aver cambiato l'impostazione stessa della Chiesa (dalla conversione al dialogo) e promosso la riforma di praticamente tutta la Chiesa nello spirito di questa diversa impostazione.
Lo spirito del Concilio, come rivelatosi alla fine, fu imposto con i colpi di mano illegali, tollerati da Giovanni XXIII, che buttarono a mare gli schemi già preparati dalla Curia in tre anni di duro e serio lavoro, per poi riuscire a sostituirli con i documenti conciliari che conosciamo, contenenti un insegnamento che si rivela ambiguo e gravemente sospetto di errore in alcuni punti.
Mantenere la critica documentata alle storture del Concilio è un dovere per il fedele che se la senta, per ragioni sia religiose che culturali.
Del resto, giudicando il Concilio dai suoi frutti, cosa dobbiamo concludere, che è stato un Concilio positivo per la Chiesa cattolica?
PP

Anonimo ha detto...

La questione del rivoluzionario CVII e delle sue devianze andrà affrontata e risolta quanto prima. Dico di più: siamo già tremendamente in ritardo e sono in gioco le anime dei fedeli, che potrebbero trovarsi sulla sponda protestante a loro insaputa.
Il problema fondamentale, a mio avviso, come dicevo nella parte finale del precedente intervento, è questo: come evitare che a colpi di PRASSI si demolisca gradualmente la dottrina bimillenaria della Chiesa Cattolica. Il Modernismo a questo gioco ci ha abituati, ma sarebbe ora di mettere un sigillo.
Dovremo attendere un Papa santo?

Margotti

Anonimo ha detto...


La dottrina bimillenaria non viene demolita solo "a colpi di prassi". Il Vaticano II ha anche una sua dottrina, anche se esposta in modo appunto "pastorale".
Et pour cause, direbbe qualcuno: volendo infilare nel Concilio dottrine eterodosse, grazie al rifacimento degli schemi, non potevano che ricorrere ad un insegnamento di tipo pastorale, cioè fluido e fluidificante.
Mons. Gherardini nota che il Concilio ha una dottrina, mostra intenti dottrinali; ciò che non mostra mai è l'intento definitorio ovvero la proclamazione di un dogma o la condanna solenne di un errore. Giovanni XXIII aveva detto più volte che il Concilio non avrebbe condannato errori né proclamato nuovi dogmi. E allora perché farlo, si chiesero in molti, ma tacquero.
Per cambiare la dottrina della Chiesa e la Chiesa stessa da cima a fondo, "riformando" tutto - per questo motivo fu fatto il Concilio.
Non essendo stato dogmatico, un Papa del futuro, santo appunto, potrebbe cassare il Vaticano II? Ce l'ha il papa questo potere? Non può certo il papa toccare un Concilio ecum. dogmatico, come il Tridentino, il Vaticano I. Ma il Vaticano II?
Pongo questa domanda perché a mio avviso il Vaticano II non è riformabile. Lo è in teoria, distinguendo le parti conformi alla Tradizione da quelle ambigue o difformi. Ma in pratica il tutto dei suoi infiniti documenti costituisce un intreccio inestricabile, posseduto da uno spirito che non è cattolico ed anzi si mostra persino avverso al cattolicesimo (p.e., l'ultmo paragrafo di Nostrae Aetate, che incita i fedeli a rafforzare i membri delle altre religioni nei loro valori - un'evangelizzazione rovesciata, l'opposto di quanto comandato da Nostro Signore).

Sul valore del Concilio, le cose migliori le ha sicuramente scritte mons. Gherardini, p.e. nel Prologo e nel cap. II di "Concilio Ecumenico Vaticano II: Un discorso da fare", Casa Mariana Editrice, 2009. Il cap. II si intitola: "Valore e limiti del Vaticano II".
La Casa Mariana Editrice era dei Francescani dell'Immacolata, la cui soppressione è stato uno dei primi atti del presente regnante.
PP

Anonimo ha detto...

Saint Thomas d'Aquin parlant de l'alliance entre l'autel et le trône...

« La science politique doit être ordonnée à la fin suprême des hommes, c'est-à-dire à la recherche et à la conquête de la suprême béatitude. Et c'est pourquoi, vu que la vertu naturelle ne saurait conduire à cette fin, les gouvernements laïques qui ont à procurer celle-là, doivent être subordonnés au gouvernement de l'Église instituée par Jésus-Christ, qui, seule, est capable de communiquer celle-ci. Les rois sont soumis aux prêtres en tout ce qui touche au salut des âmes. L'autorité religieuse domine ainsi la société sans l'absorber comme la grâce domine la nature sans la détruire.»