Tradizione e ‘giusto uso’.
Una nota sullo stile di papa Leone XIV.
Nelle analisi che molti osservatori stanno facendo dei primi passi del pontificato di Leone XIV, mi pare che prevalga finora l’uso della categoria di continuità/discontinuità, applicata al confronto con il pontificato precedente. Se si potesse impiegare una metafora ludica, direi che, dagli spalti delle opposte tifoserie, le prime mosse del nuovo papa vengono giudicate paragonando il suo ‘stile di gioco’ con quello del predecessore e valutando di conseguenza quanto egli si dimostri ‘bergogliano’ o ‘non bergogliano’, se non addirittura ‘antibergogliano’. È una tendenza comprensibile, sia perché si tratta del confronto più facile ed immediato – e spesso anche l’unico possibile ad una cultura sociale ormai del tutto priva di memoria storica e abituata al respiro corto di un’attualità schiacciata sui tempi stretti della cronaca –, sia perché la ‘discontinuità’ è stata in effetti la cifra, puntigliosamente cercata fin dal primo momento ed esibita con indubbia efficacia comunicativa sino alla fine, del papato di Francesco; o quantomeno della sua rappresentazione mediatica, da lui stesso peraltro voluta e promossa e che, in ogni caso, è quella che è giunta alla grande maggioranza delle persone, dentro e fuori la Chiesa. Il messaggio percepito praticamente da tutti è che Francesco è stato un papa diverso. Diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto, diverso dal resto della gerarchia cattolica, diverso dalle istituzioni della Chiesa (papato compreso), e per questo ‘straordinariamente’ amato o detestato proprio in quanto ‘eccezione’.
Lo ‘stile’ di papa Leone.
Tale criterio, tuttavia, risulta a mio avviso largamente inadeguato a comprendere il senso di ciò che sta accadendo nella Chiesa, ed in particolare non aiuta a cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di papa Leone XIV, che mi pare stia invece emergendo con nettezza nei suoi primi discorsi; un tratto che è invece meritevole della massima attenzione per il suo valore paradigmatico, non solo sul piano dei contenuti ma anche, e direi soprattutto, su quello del metodo. Non vi è dubbio infatti che, rispetto all’eccezione bergogliana, il pontificato di Leone XIV si presenti chiaramente, quantomeno nello stile – e, direi, non tanto per una scelta programmatica, quanto per il suo naturale modo di essere – come un ritorno all’ordine, alla ‘normalità’ e alla tradizione cattolica (se si intende questa espressione nel suo significato autentico, su cui tra poco torneremo), ma sarebbe del tutto sbagliato interpretare tale movimento come una reazione, cioè come un’azione di segno contrario ma di uguale natura rispetto alle tante ‘novità’ del pontificato precedente, volta a ripristinare la continuità eliminando ciò che nel recente passato l’aveva messa in discussione.
Colpisce, in tutti i primi interventi del nuovo papa, la felice naturalezza con cui egli fa continuamente appello alla tradizione della Chiesa attraverso grandi autori che ne sono testimoni: nell’omelia della messa celebrata con i cardinali all’indomani della sua elezione ha citato Ignazio di Antiochia; nel discorso agli operatori della comunicazione, il 12 maggio, Agostino; il 14 maggio, nel discorso ai partecipanti al Giubileo delle chiese orientali, è stata la volta di Efrem il Siro, Isacco di Ninive, Simeone il Nuovo Teologo e di nuovo del ‘suo’ Agostino, che è ritornato nell’omelia della messa di inizio del pontificato, il 18 maggio, poi nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti di altre chiese e comunità ecclesiali, nell’omelia a San Paolo fuori le mura il 20 maggio – durante la quale il papa ha evocato anche Benedetto da Norcia – e ancora nel discorso all’assemblea delle Pontificie Opere Missionarie del 22 maggio e nell’omelia a San Giovanni in Laterano, il 25 maggio, in cui ha citato anche Leone Magno. Riferimenti brevi (come brevi, peraltro, sono i suoi discorsi, e anche questo è un tratto significativo), ma non di maniera, bensì tutti rilevanti per la pertinenza ai temi che il papa stava toccando. A questi riscontri patristici si accompagna quello costante al magistero dei papi moderni, in particolare Leone XIII, che è stato ricordato almeno cinque o sei volte nei primi discorsi, e soprattutto Francesco, che è per così dire onnipresente: credo che il nuovo papa non abbia mai mancato di citarlo, ogni volta che ha preso la parola.
Un papa tradizionale, non tradizionalista.
È proprio su quest’ultimo dato che vorrei attirare l’attenzione. Nella prospettiva ermeneutica del confronto tra Leone e Francesco sopra accennata, esso potrebbe facilmente venire interpretato o come una prova della sostanziale ‘continuità’ del nuovo papa con il predecessore, dal quale si distinguerebbe solo in superficie, per ovvie e scontate differenze di temperamento; oppure, al contrario, come un mero accorgimento tattico e strumentale, volto a prevenire e lenire possibili reazioni ostili nei confronti di un papato che starebbe operando con discrezione una sostanziale (e salutare, dal punto di vista di chi sostiene questa tesi) rottura con la cosiddetta ‘chiesa di Francesco’. Credo che entrambi gli approcci siano sbagliati. Ciò che papa Leone ha espresso, in ogni suo atto e parola durante queste prime due settimane di pontificato, non è altro che la concezione autenticamente cattolica di tradizione.
Sul modo di intendere tale concetto mi pare sia molto diffuso oggi tra i cattolici un equivoco che paradossalmente accomuna in larga misura i fronti opposti dei ‘tradizionalisti’ e dei ‘progressisti’ (adopero per brevità queste etichette ormai logore confidando nella comprensione del lettore): quello di legare la tradizione al passato, poco importa se con l’intento di preservare e riproporre tale passato, o al contrario per rifiutarlo e superarlo definitivamente. In entrambi i casi, infatti, si dipende da un’idea della tradizione come depositum, una sorta di patrimonio ereditato, magazzino o scrigno in cui giace tutto ciò che hanno pensato e vissuto i nostri antenati, cristallizzato in dottrina e in usanze. Lo si può apprezzare o disprezzare, ma resta in ogni caso un oggetto, un lascito che appartiene al passato e che spetta agli eredi, cioè a noi soggetti viventi oggi, decidere se e come impiegare. Tradizionalisti e novatori, pur combattendosi, su questo la pensano, loro malgrado, in modo molto simile: se ci si pensa bene, a entrambi si potrebbe muovere l’accusa di ‘passatismo’ o di ‘indietrismo’ (come avrebbe detto papa Bergoglio). Se si prende, ad esempio, il tema delicato e doloroso del conflitto sulla liturgia, si può vedere che, paradossalmente, tanto i fautori del vetus ordo quanto i difensori esclusivi del novus ordo possono essere considerati dei traditionis custodes (per riprendere ironicamente il titolo dell’infelice Motu proprio del luglio 2021) nel senso riduttivo e inadeguato di cui sto parlando. Gli uni, infatti, rifiutano di riconoscere che fa parte della tradizione anche ciò che è avvenuto dopo il 1962, ma non si accorgono che, così facendo, la dichiarano finita, cioè morta; gli altri non accettano che anche ciò che chiamano novus appartenga in realtà alla tradizione di un’epoca della Chiesa per certi aspetti già remota (anche perché, nella sua pretesa di innovazione, è invecchiata prestissimo). I primi fanno dell’antiquariato, i secondi del modernariato; entrambi, però, non colgono il punto, che è la vita attuale della Chiesa come tradizione vivente.
La ‘tradizione vivente’
Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. È un nomen relationis che si riferisce ad un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione, che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo. In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora; e proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta. Non è mai una ‘parola primaria’ originata da un soggetto umano, ma sempre e comunque una ‘parola secondaria’, in risposta ad un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda. Ne deriva che, in questo senso, la parola della Chiesa è sempre e solo parola ricevuta, perciò intrinsecamente ‘tradizionale’. In quanto ricevuta, tale parola va custodita e trasmessa agli altri fedelmente, secondo la modalità limpidamente dichiarata da Paolo sin dai primordi della storia cristiana (quando ancora di passato alle spalle quasi non ce n’era): «vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3). Definire la parola ecclesiale come parola ricevuta significa anche affermare che la Chiesa – a tutti i suoi livelli, papa compreso! – non ha alcuna potestà su di essa: la serve, non se ne serve. Non può dunque disporne come vuole, ad esempio per renderla più idonea ad incontrare la mentalità e le attese della società contemporanea, così come noi le intendiamo.
C’è però ancora un aspetto che bisogna mettere in luce, per cogliere adeguatamente il carattere cattolico di tale concezione: la parola di Dio, a cui ciascuno di noi risponde personalmente, non viene a noi per una rivelazione diretta e personale (come nell’illuminazione interiore, sola Scriptura, della concezione protestante), ma ci viene trasmessa da un’ininterrotta catena ‘martiriale’ di testimoni autorevoli, e dunque ci arriva arricchita, anzi ‘vissuta’ da tutte le risposte che ha ricevuto nel corso della storia cristiana. Come ha scritto splendidamente Joseph Ratzinger, riferendosi al ruolo dei Padri nella teologia contemporanea, «solo perché la parola ha trovato risposta è rimasta tale ed effettiva. La natura della parola è una realtà di rapporto […] cessa di esistere non solo quando nessuno la pronuncia, ma anche quando nessuno l’ascolta». Per questo «non possiamo leggere e ascoltare la parola prescindendo dalla risposta che prima l’ha recepita ed è diventata costitutiva della sua permanenza».
Ecco perché la Chiesa non può mai, in nessun caso, rompere con la tradizione o trascurarla: è sempre ‘sulla scorta dei Padri’ (intendendo qui in senso lato tutti coloro che ci hanno preceduto nella fede e ce l’hanno consegnata) che essa legge la Scrittura e comprende la Rivelazione. La tradizione ha dunque un’autorità a cui nessuno nella Chiesa può sottrarsi: meno di tutti il papa. Da un punto di vista cattolico, è perciò aberrante la teoria, che pure è circolata in questi anni, secondo la quale esisterebbero, nella dinamica ecclesiale, due poli distinti: da una parte il depositum fidei tradizionale, acquisito sì come patrimonio inalienabile della Chiesa, ma di per sé ‘morto’ e bisognoso di essere attivato e ‘rianimato’ per acquisire significato pastorale e vitalità comunicativa, e dall’altra un carisma petrino (che però sarebbe, più che istituzionale, strettamente legato alla singola personalità del papa pro tempore), a cui spetterebbe, in via preminente se non addirittura esclusiva, appunto la funzione di vitalizzare, interpretare (e a questo punto, perché no, all’occorrenza correggere) tale depositum, per tracciare la strada che la Chiesa deve percorrere. Si rischia, per questa via, di dare corpo ad una forma di ‘papismo non cattolico’ che, sulla base dell’erroneo principio che il ‘papa che può fare quello che vuole’, attribuisce al successore di Pietro non il compito di confermare nell’unità della fede i suoi fratelli, secondo il mandato di Cristo, ma piuttosto quello di plasmare una chiesa a sua immagine. Ieri la ‘chiesa di Francesco’, oggi quella di Leone e così via.
Non è così: l’unica Chiesa che noi conosciamo è ‘di Cristo’, e l’unica qualifica che le appartiene, con riferimento ad una funzione umana di custodia e di governo, è di essere ‘apostolica’ cioè incardinata sul fondamento stesso della tradizione, che va accolta e compresa nella sua integralità. Per la sua natura di ininterrotta trasmissione della parola divina continuamente rivissuta attraverso le risposte di fede che l’hanno accolta e ridonata, la tradizione non può essere sezionata, prendendone alcune parti e rifiutandone altre. Questo significa che – piaccia o meno ai tradizionalisti – di essa oggi fa parte anche il Concilio Vaticano II e i pontificati che lo hanno seguito, compreso quello che è terminato poco più di un mese fa. Nei confronti del quale, dunque, per quante critiche si possano muovere, non avrebbe alcun senso cattolico invocare una damnatio memoriae da parte del successore.
Discernimento (krisis) e ‘giusto uso’ (chrêsis) anche della storia della Chiesa.
Questo vuol forse dire che tutto ciò che è avvenuto nel corso della bimillenaria storia della chiesa, per il solo fatto di essere stato, deve essere approvato, santificato e caricato di una ‘valenza normativa’ per il presente, in una sorta di versione cattolica del principio hegeliano che «tutto ciò che è reale è razionale»? Niente affatto, ci mancherebbe altro! La storia della chiesa, che è una realtà teandrica, nel suo versante umano è piena di errori e persino di malefatte, e sotto questo profilo va esercitato nei suoi confronti un discernimento senza sconti. Qui acquista rilievo un altro aspetto che mi ha molto colpito nei primi atti del nuovo papa, ed è la pratica del ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa. È merito di un grande studioso recentemente scomparso, a cui mi piace qui rendere omaggio, Christian Gnilka (1936-2025), avere attirato l’attenzione degli studiosi sulla centralità di tale concetto nell’approccio che i Padri hanno verso la cultura profana e, in generale verso tutti i beni mondani. La chrêsis è un atteggiamento che sfugge alla dicotomia, oggi imperante, di inclusione ed esclusione, perché si tiene lontano sia dall’accettazione acritica (che poi degenera in sottomissione), sia dal rifiuto pregiudiziale (di cui è figlio il settarismo), ma è proteso a incontrare l’altro in ogni occasione, “vagliando tutto e trattenendo ciò che vale”, secondo la formula paolina di 1 Ts 5, 21, cioè operando una krisis, il giudizio che ‘entra e separa’: è interessato ad ogni cosa, si coinvolge con chiunque, ma in tutto ciò che incontra distingue ciò che è buono, bello e vero da ciò che non lo è. Con quale criterio? L’unico possibile per il cristiano: quello che, sempre Paolo, con un’espressione folgorante chiama il nous (cioè il pensiero, la mente) di Cristo (cfr. 1 Cor 2, 16).
Ogni valore umano che il cristiano incontra, accoglie e fa suo, non può dunque mancare di criticarlo e di risignificarlo alla luce di Cristo. Non si tratta di un’appropriazione culturale, come oggi forse si direbbe per stigmatizzarla, bensì di ricondurre ogni cosa alla sua verità originaria. Mettere le cose al loro posto: questo è il ‘giusto uso’, la chrêsis di cui parlano i Padri della Chiesa, che si compendia nel modo più sintetico nella dichiarazione del Paolo di Atti agli Ateniesi: «Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l’annuncio» (At 17, 23). Tale pretesa cristiana, in cui concretizza il compito di essere «sale della terra e luce del mondo» assegnato da Cristo ai suoi, vale però non solo verso il mondo, ma anche, in un certo senso, verso la chiesa stessa nella sua componente umana. Ogni cosa umana, infatti, ha bisogno di essere continuamente purificata, corretta e rimessa a posto: in una parola, riconsegnata alla verità del progetto divino. Qui sta l’origine del principio ecclesia semper reformanda, non in un’istanza di aggiornamento alle vicende del mondo. Per compiere un’operazione di questo tipo occorrono tre cose: una certezza di posizione determinata dall’autocoscienza di essere nuove creature, perché non siamo più noi che viviamo ma Cristo vive in noi; una piena e cordiale apertura alla realtà, che per principio non rifiuta pregiudizialmente niente dell’umano (perché tutte le cose sussistono in Cristo); un grande coraggio nel giudizio (perché il giudizio è una forma di testimonianza di Cristo, cioè di martirio).
Il papa custode dell’unità cattolica.
Nella storia della Chiesa Cattolica non si danno né rivoluzioni né restaurazioni. Nella misura in cui avvengono delle rotture, se esse non vengono ricomposte – e non ‘politicamente’, per via di compromesso o di dissimulazione, ma nella verità della fede – danno luogo a scismi e scomuniche, cioè alla resezione di parti che ‘danno scandalo’ affinché il corpo nella sua organicità possa continuare a vivere unito. Il compito di Pietro è essenzialmente preservare la verità della fede e l’unità del popolo di Dio. Un equivoco che negli ultimi anni mi pare abbia adombrato la coscienza ecclesiale è stato quello di pensare invece che spettasse al papa ‘avviare i processi’ di un cambiamento nel modo di essere della Chiesa, per giunta senza che fosse chiaro in quale direzione andare: si pensi ad esempio a tutto il confuso discorrere di ‘sinodalità’ come se fosse un nuovo carattere essenziale della Chiesa). Oggi sarebbe altrettanto sbagliato pretendere che spetti al papa compiere una sorta di ‘controriforma’. Se posso azzardare una previsione, credo che questo comunque non accadrà. Penso invece che da Leone XIV possiamo attenderci non tanto delle correzioni esplicite o delle formali ritrattazioni di certi aspetti ambigui, confusi e in qualche caso problematici del precedente pontificato, quanto un loro ‘giusto uso’ che, se così posso esprimermi, li ‘rimetta al loro posto’.
Per fare un solo esempio, ad alcuni è dispiaciuto che nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti delle altre chiese e di altre religioni papa Leone abbia citato la controversa Dichiarazione di Abu Dhabi. È vero che quel documento contiene il passaggio forse più ‘problematico’ del pontificato di Francesco, perché vi si trova un’affermazione circa la volontà divina che gli uomini aderiscano a religioni diverse dalla fede cristiana che è pressoché impossibile interpretare in modo compatibile con la dottrina cattolica; tuttavia, da parte di chi è ben saldo nella certezza (scritturistica e tradizionale!) che tutti gli uomini sono chiamati a convertirsi a Cristo, perché «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12), si può benissimo citare un altro passo, del tutto innocuo, di quello stesso documento, proprio nella logica che ho cercato di descrivere. È anche in questo modo, io spero, che si realizzerà una sorta di ‘riassorbimento dell’eccezione bergogliana’ nel corpo vivo della tradizione.
Un fattore fondamentale di sicurezza, nel nuovo pontificato, sembra che in ogni caso si possa già dare per acquisito, sulla base dell’esperienza di queste prime settimane. A differenza del suo predecessore, Leone non ci darà da temere che faccia il papa ‘di testa sua’, e questo è decisivo. Lo ha chiarito sin dall’inizio, quando, richiamandosi ad una frase di Ignazio di Antiochia (ma riecheggiando riflessioni che a suo tempo aveva fatto anche Benedetto XVI), ha definito «un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità [quello di] sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo». È in questo senso che mi azzarderei a sperare che lo stile del suo pontificato sarà ‘ratzingeriano’ e ‘patristico’. - Fonte
28 commenti:
Articolo esemplare: complimenti all’autore e grazie a chi l’ha riproposto.
Da meditare da soli e poi da condividere in famiglia e con le anime che voglio e bene a Cristo e alla Chiesa.
Habemus Papam!
Il problema non è nello stile di un Papa piuttosto che di un altro, o il confronto tra un vero Papa con grazia di stato o di un impostore ..
Il vero problema sta nei documenti magisteriali e ancora prima in quelli conciliari, ovvero documenti che affastellano idee, alcune buone e vere, altre dubbie, altre ambigue o perfino ereticali però "interpretabili", altre eretiche ma giustificate pastoralmente...
Dove sta il "Sì Si No No" di Gesù Cristo?
C'è poi da aggiungere che citare alcune frasi buone da documenti quantomeno ambigui, prodotti da chissà chi e firmati da un Papa quantomeno dubbio, finisce per legittimarli. Andrebbero invece anatemizzati ed espunti dagli Acta Aposticae Sedia, con coraggio.
Quanta confusione teologica in questo articolo! A cominciare da questo concetto:
"Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione".
No! È lo stesso errore di chi legge la Scrittura al mero scopo di "dialogare con essa", cioè prescindere dai suoi contenuti.
Scrittura e Tradizione sono fonti della Rivelazione in quanto veicolano contenuti stabili, il depositum fidei.
In questi contenuti (non processi e relazioni, contenuti) non ci può essere contraddizione, ed ecco perché il Vaticano II almeno in alcune sue dottrine fondamentali va semplicemente rifiutato in quanto estraneo alla e inconciliabile con la Tradizione. I tradizionalisti non fanno alcun errore in questo, è semmai Lugaresi che ha una concezione errata della tradizione.
Non è la prima volta che leggo un articolo (e sono sempre articoli molto lunghi) con questa impostazione: Vetus e Novus sarebbero ormai il passato, e dovremmo "aprirci" alla nuova impostazione di Leone, come se ogni papa avesse il compito di ricominciare la Tradizione.
Il tradizionalista non crede che dopo il 1962 sia morta la tradizione, essa è sempre viva, non c'è luogo più vivo della Messa Tradizionale.
La "tradizione vivente" non è quello che oggi insegna il papa di turno, ma ciò che la Chiesa ha sempre e ovunque creduto.
Recentemente Sandro Magister ha pubblicato il testo Tradizione e giusto uso. Una nota sullo “stile” di Leone XIV di Leonardo Lugaresi - https://blog.messainlatino.it/2025/06/magister-pro-o-contro-francesco-leone.html
Dove Lungaresi afferma il seguente concetto di Tradizione:
"Tradizione, infatti, in senso autenticamente cattolico non indica un oggetto, bensì un processo, anzi una relazione. Si riferisce a un rapporto di trasmissione, o meglio di donazione, che implica essenzialmente degli attori viventi (donatore e donatario) e delle interazioni reciproche che vanno al di là del tempo.
In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora. E proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente. Essa sta al cuore della fede, apportandovi un aspetto essenziale, senza il quale semplicemente non c’è più il cristianesimo. La fede cristiana, infatti, è per sua natura sempre e solo una risposta a un appello che spetta solo a Dio il quale, per primo, si rivela a noi. Tale è la fede di Abramo, di Mosè, dei profeti e la fede degli apostoli, su cui la nostra si fonda".
La Tradizione è una delle due fonti di rivelazione insieme alla S. Scrittura, come fonti supone delle verità (oggetti) a trasmettere. Il concetto di Tradizione esposto per il Prof. Lugaresi è quello sbagliato che identifica la Tradizione appena con il magistero attuale della Chiesa, come ha spiegato negli anni 50 il P. Giuseppe Filograssi, S. J. nell'articolo La Tradizione divino apostolica e il magistero ecclesiastico:
"Altro giudizio si deve portare di quell'opinione, che identifica la tradizione col magistero della Chiesa, ma soltanto con l'attuale e, per giunta, indipendentemente dalla trasmissione della rivelazione nelle età trascorse.
I documenti del passato non gioverebbero a darci la dimostrazione positiva che la verità oggi annunziata dalla Chiesa risponde a quella che già prima si era costantemente predicata. I documenti attesterebbero soltanto i vari stadi per cui quella verità è passata, nel processo evolutivo di età in età. Questo modo di vedere si allontana dalla dottrina cattolica, la quale riconosce una linea continua di movimento in progresso dagli apostoli sino a noi, e i documenti del passato giudica connessi con la presente fede della Chiesa, come sue manifestazioni, più o meno chiare, più o meno espresse. Tale è il metodo seguito nella Munificentissimus Deus : si parte dall'odierna credenza universale nell'assunzione di Maria, per scoprirne poi e individuarne gli indizi, i vestigi, le testimonianze esplicite attraverso i secoli". https://pascendidominicigregis.blogspot.com/2024/05/la-civilta-cattolica-la-tradizione.html
Sull'autentico concetto di Tradizione, ho parlato - tra l'altro - qui, partendo da un'anomalia del concilio...
https://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2012/04/fusione-delle-fonti-della-rivelazione.html?m=1
Posso permettermi di suggerirle di commentare la riflessione di Leonardo Lugaresi sul suo blog?
https://leonardolugaresi.wordpress.com/2025/06/01/tradizione-e-giusto-uso-una-nota-sullo-stile-di-papa-leone-xiv/
“Ciò che papa Leone ha espresso, in ogni suo atto e parola durante queste prime due settimane di pontificato, non è altro che la concezione autenticamente cattolica di tradizione”.
Sono in totale disaccordo con il redattore dell’articolo sul concetto da lui veicolato di” tradizione”: ciò che attualmente avrebbe ricevuto Leone XIV e che dovrebbe custodire e poi trasmettere al suo successore.
Poniamo che la “Tradizione” sia una bottiglia contenente acqua purissima, che questa sia stata affidata da Nostro Signore Gesù Cristo a Pietro, quest’ultimo poi l’abbia trasmessa al suo successore, così fino a giungere nelle mani di Leone XIV. L’acqua contenuta nella bottiglia è vita per la Chiesa militante in ogni epoca, la disseta, la nutre e permette la sua esistenza sino al ritorno del suo Fondatore. Ora quest’acqua ad un certo punto della storia è stata infiltrata da veleno, quindi l’acqua che deve custodire Prevost ora risulta avvelenata. Come sia accaduto questo? Semplice!! Un custode, in un dato tempo, ha deciso di togliere il tappo della bottiglia, poi il suo successore ha permesso che un veleno entrasse in quell’acqua pura. A partire dal CVII, semplicemente, si è decretato di eliminare il sistema immunitario per mezzo del quale quell’acqua veniva protetta. Domanda: il “depositum fidei” può contenere il magistero bergogliano e altri documenti e pronunciamenti a dir poco eretici dal CVII ?
Cosa dovrebbe fare un Papa tradizionale? Filtrare quell’acqua, eliminando tutte le eresie introdotte in essa, permettendo alla Chiesa del suo tempo di dissetarsi per vivere. Non secondo la prospettiva mortifera dell’articolista. No!!! Non è permesso a Leone XIV di continuare a propinare alla Chiesa militante in questo tempo ancora veleno. E’ pura follia nutrire la Chiesa contemporaneamente con Leone Magno e con Bergoglio. Alessandro da Roma.
Il valore aggiunto di questo blog. Un articolo magnificato da tutti che ha i suoi pregi ma di cui nessuno aveva notato le pecche. Suggerisco a Mic. di alimentare un confronto pubblico utile per tutti...
Concordo con Alessandro, bravissimo !
E’ ora di finirla con lo hegelismo che infetta il magistero, palese o strisciante che sia.
Infatti l ‘ impostazione di tutto il discorso del prof. Lugaresi è hegeliana proprio mentre lui lo nega … infatti subito esprime sinceramente il suo mito , augurando che quello di papa Leone sia un pontificato Ratzingeriano !
Così si è dichiarato : un programma di persistente andatura hegeliana del magistero in cui tutti gli errori devono essere non combattuti e respinti bensì costantemente RIASSORBITI nella Tradizione “vivente” … che sarebbe quella del papa del momento, volta per volta eletto ….
E non ne usciamo più : impostazione hegeliana senza fine … fino alla fine del mondo in un moto perpetuo che nessuno potrà interrompere per tornare alla vera Tradizione (quella delineata da Mons. Gherardini: “vita e Giovi e sa della Chiesa”) .
Salvo intervento divino imprevedibile per ora.
Lettrice
Sono riuscito a leggere fino in fondo codesto articolo con gran pena. Che sballata! Con me non attacca. Così avrebbe detto qualche curato di campagna un po' burbero di un tempo; ho fatto in tempo a conoscerne qualcuno, sempre in veste talare, sempre presente in chiesa per qualsiasi bisogno dei fedeli. Insomma, quando la gerarchia ecclesiastica si degnerà di ritornare pienamente e sinceramente alla Tradizione, lo vedremo chiaramente. Per adesso, quel ritorno resta un miraggio. Intanto, con un buon caffè cerco di riprendermi dallo sballo.
PAX ET BONUM!
Nel Regno di Dio ci sono cose nuove e cose antiche dice Gesù.
Chiedo scusa per l ‘ errore di digitazione, il titolo completo dell ‘ opera di mons. Gherardini che ho citato è :
“QUOD ET TRADIDI VOBIS.
La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa
Un commento che usa un'arma a doppio taglio.
La realtà è che tutte le cose, sia le nuove che le antiche vanno ricondotte al cuore dell'uomo radicato in quello di Dio. Perciò, nella Rivelazione e dunque anche nella Tradizione, le cose nuove restano ancorate ai principi immutabili... non sono i principi che cambiano ma le contingenze!
Avevo messo in guardia nell'incipit ("vedere bene in che senso") e mi aspettavo i rilievi... Ringrazio del suggerimento anche Luisa. Lo farò certamente.
Ho inserito un link a Chiesaepostconcilio segnalando tutto il dibattito nato dall'articolo, grazie del suggerimento!
Personalmente non credo che la Tradizione sia o possa essere in evoluzione. È quello che è e tale rimane. Viceversa sono gli uomini che capiscono ora questo ora quello, è nel loro sforzo di comprensione che allargano, restringono, oppure contaminano i concetti, involontariamente se sono dei semplici, volontariamente se semplici non sono.
Non è vero che comprendiamo tutto e subito. A volte comprendiamo i nostri stessi genitori decenni e decenni dopo la loro morte. Con grande dolore e rimpianto.
Quando i monaci parlano di ruminatio dicono di un tempo lungo necessario prima alla masticazione, poi alla digestione, poi alla assimilazione.
L'altro giorno ho accennato ai dieci Comandamenti in contrasto numerico con tutte le leggi, i commi, le regole con cui ci siamo lasciati legare come salsicce. Nei dieci Comandamenti nei fatti abbiamo l'essenziale buono per ogni uomo, di ogni epoca. Agli uomini semplici bastano ed avanzano e sono in grado di assimilarli e tramandarli tali e quali, ad altri uomini non bastano o perché hanno bisogno di più tempo per assimilarli o perché vogliono fare di testa loro, testa che ritengono superiore a quella di Dio.
I nostri Padri, i nostri Santi, che sono i nostri Classici, hanno cercato di lasciarci Testimonianza, della loro assimilazione degli insegnamenti ricevuti da Gesù Cristo e della cultura che aveva preparato la Sua nascita e di come bisognasse procedere dopo la Sua ascesa al Cielo quando avrebbe mandato lo Spirito Santo.
La Tradizione è stata seguita nel tempo, a volte sempre meglio, altre volte così così, altre volte ancora, man mano che l'età moderna si imponeva, diventava sempre più difficile abbeverarsi ad essa. Il perché credo che giaccia nella ingigantita presunzione dell' uomo dovuta all'aver scoperto la sua capacità di padroneggiare la scienza e la tecnica. Ora che l'età moderna è al suo tramonto ed anche il Cattolicesimo sembra seguirne le sorti, ci troviamo davanti ad una scelta come persone Cattoliche, scelta che richiede prima una analisi di errori compiuti come Cattolici e come persone moderne e poi scegliere la strada da percorrere. Ritengo che tre siano gli ambiti da vagliare: la Tradizione, la Scienza, la Tecnica e di quali aggiustamenti necessitano e quale ruolo debbano avere nel nostro futuro.
Il precedente pontificato sará riassorbito? Formula di compromesso... forse ci sono tanti nervi scoperti al momento e si preferisce rimandare il ... giudizio, perché la Chiesa in primis ha il coraggio del giudizio. Il compromesso fa ricordare san Pietro che dovette essere rimproverato pubblicamente da san Paolo. Ben venga un san Paolo allora.
C’è da domandarsi: sappiamo ancora leggere e capire un parere diverso dal nostro, oppure alla prima sillaba che stona con quello che avremmo scritto noi ciò basta e avanza per buttare a mare tutto quanto, credendoci nella purezza di intenzione e di cuore? Non è così semplice esserne certi e non in spregio alla Verità, ma per eccesso di zelo nel vedere il marcio secondo il filtro di certi paraocchi che con la Verità qualche difficoltà l’avrebbero.
Non ricordo chi parlava e/o scriveva della libertà dei teologi che possono scrivere e stampare le loro riflessioni liberamente, non essendo quegli scritti Magistero. Ora pensa e ripensa, alla luce dei fatti, non so quanto bene abbia fatto alla Chiesa questa libertà stampata. Certamente tutti possono e devono scrivere le proprie riflessioni, esercizio importante per la coerenza, l'approfondimento, la limatura del proprio pensiero, ma la stampa è un'altra cosa. Ogni casa editrice ha lettori interni che valutano gli scritti che le vengono proposti dagli autori più vari e ogni casa editrice ha la sua linea di tendenza e su questa linea di tendenza i lettori interni fanno la scrematura. Man mano poi che si va su case editrici più specializzate più la scrematura diventa aderente alla specializzazione che la casa editrice persegue. Se poi si va sullo scientifico o sul tecnico i lettori interni sono professori con ampia esperienza. Credo che sarebbe opportuno per la Chiesa mandare in circolo libri che rispondano al vero, al buono, al bello, in quanto il livello si è abbassato di molto perfino nelle traduzioni della stessa Bibbia.
. [36]Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio; altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio. [37]E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. [38]Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi. [39]Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!». LC 5, 36-39
Lei scrive nel testo « il precedente Magistero è spazzato via all’insegna d’una radicale tanto quanto insostenibile unificazione. Unificati sono i concetti di Scrittura, Tradizione e Magistero. […]. La “reductio ad unum” della Dei Verbum, pertanto, corregge se non proprio non cancella letteralmente il dettato del Tridentino e del Vaticano I»".
La conseguenza è proprio una certa identificazione della tradizione e della S.Scrittura appena con il magistero attuale. Dico una certa identificazione perché ci sono degli insegnamenti del Magister dal Concilio fino ad oggi che non se trovono nella Tradizione e nella S. Scrittura. In questo punto ci troviamo nel proprio Magister un'adesione al modernismo in quanto afferma che la Rivelazione non se è finita con la morte dell'ultimo apostolo.
Mi ripeto, e me ne scuso, perchè tutti coloro che criticano aspramente, talvolta con parole durissime, addirittura Leonardo Lugaresi avrebbe una "prospettiva mortifera" , non vanno sul suo blog per incominciare una dialogo, una discussione con lui? Non discuto la libertà di criticare e esprimere opinioni diverse, anche se c` è modo e modo a mio avviso, ma perchè non dare la possibilità a chi viene criticato di rispondere?
"In questo senso, la tradizione è sempre vivente: appartiene al presente, non al passato, perché avviene ora. E proprio in quanto è vivente ha l’autorità e la forza di esigere un’obbedienza nel presente".
La morte di Francesco non significa forse che anche il suo Magistero sia morto e che i suoi insegnamenti appartengano ormai al passato e ciò che ha valore è il presente, l'attuale pontificato? Lo stesso principio non si applica forse al passaggio dal pontificato di Benedetto XVI a quello di Francesco? Ora, se la Tradizione non include la trasmissione di oggetti, di verità rivelate, se si colloca nel presente e non appartiene al passato, perché condannare il pontificato di Bergoglio?
Il concetto di Tradizione esposto è perfetto per definire la generazione apostolica, poiché la rivelazione è avvenuta al loro tempo e la Tradizione consiste nella trasmissione di ciò che i dodici hanno ricevuto. Il concetto esposto riguarda la Rivelazione più che la Tradizione. Si basa proprio sulla proposizione 21 condannata dal decreto Lamentabili: la rivelazione non è terminata con la morte dell'ultimo apostolo.
Molti hanno parlato di assolutismo papale nel pontificato precedente senza rendersi conto che tale assolutismo è direttamente associato alla visione del Concilio come superdogma (riconosciuta da Ratzinger) e che si fonda proprio su questa concezione del rapporto tra Rivelazione, Tradizione, Sacra Scrittura e Magistero. In questo contesto, l'ermeneutica della rottura vede una realizzazione assoluta di questa relazione solo nel Magistero attuale, mentre nell'ermeneutica della riforma nella continuità essa è relativa, perché utilizza lo stesso principio in alcuni temi, pur cercando di preservarne altri. Ad esempio, Lazzaro non è in purgatorio, e l'inferno non è riservato solo a poche persone del livello di Hitler o Stalin, come ha chiarito Benedetto XVI nell'Enciclica Spes Salvi...
Il concetto di tradizione cattolica l'ha elaborato san Paolo. E' da lui che bisogna ripartire. Ricordiamoci poi delle parole del Signore: "Il cielo e la terra passeranno, le mie parole non passeranno". Questo dovrebbe essere lo spirito della tradizione cattolica la cui immutabilita' riguarda le verita' insegnate da Cristo sulla religione e sui costumi.
Sul concetto di tradizione. Un tentativo di definizione.
L'idea stessa di tradizione racchiude quella di determinati valori, che vengono tramandati e mantenuti nel corso delle generazioni. Tramandati e mantenuti, quindi insegnati e fatti rispettare come valori che costituiscono il fondamento inalterabile di una determinata concezione del mondo e quindi del modo di essere e di vivere di una determinata societa'. La tradizione si sostanzia infatti nel costume.
Qui non si lascia spazio ad una determinazione soggettiva di che cosa sia il valore: il valore mantenuto dalla tradizione e' proprio quello che si impone per il fatto stesso di fondare la tradizione e di appartenerle, al di sopra e al di la' di quello che possano pensare i singoli individui, che anzi devono riconoscerlo ed ottemperarvi. I valori espressi nella tradizione costituiscono la verita' della tradizione stessa. Pero' essi sono sentiti nello stesso tempo come degni di appartenere alla tradizione per il fatto di esser veri, perche' si ritiene che in essi si esprima una verita' di carattere religioso e morale o solo religioso o solo morale o morale e politico o solo politico od infine solo di costume: una verita' comunque oggettiva, che appartiene alla cosa in quanto tale, indipendentemente dal flusso e riflusso delle opinioni e degli eventi. La verita' che si sente nei valori della tradizione equivale alla loro conformita' all'idea della giustizia: i valori della tradizione sono giusti, questa e' la loro verita' ed e' giusto osservarli e conservarli.
La caratteristica della tradizione cattolica e' quella di rappresentare le verita' e i valori contenuti nella dottrina e nella pastorale della Chiesa cattolica, che li "trasmette" ossia mantiene ed insegna come verita' di origine sovrannaturale.
La tradizione cattolica non rinvia ad una sapienza anteriore ma e' cattolica proprio perche' matiene la pretesa di trasmettere (tradere) le verita' sulla fede e i costumi rivelate da NSGC, seconda Persona della S.ma Trinita', incarnatosi storicamente nell'ebreo Gesu' di Nazareth, che ha dimostrato in parole ed opere di essere il Messia annunciato nell'Antico Testamento, Dio fatto uomo.
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Nella parte finale del suo commento Gederson sembra scrivere il contrario di quello che vuol dire. INfatti, Benedetto XVI non ha "chiarito" che Lazzaro non si trova in Purgatorio e che l'Inferno non è riservato solo ai grandi peccatori come HItler o Stalin. Al contrario (nella Spe Salvi mi pare) insinua proprio lui l'idea che Lazzaro stia in Purgatorio e non all'Inferno e che l'Inferno sia solo per i grandi peccatori. Insinua o meglio sembra accettare, in pagine non chiarissime, questa interpretazione "irenizzante" del Purgatorio e dell'INferno.
Che il Lazzaro della famosa parabola si trovi all'Inferno, questa è stata la costante interpretazione della Chiesa nei secoli. Metterlo in Purgatorio significa far violenza al testo. Ma rientra nella visione dell'ermeneutica neo-modernista prevalente, che ha di fatto eliminato dal "messaggio cattolico" sia inferno che purgatorio. Allo stesso modo del peccato originale.
Caro Anonimo08 giugno, 2025 11:07, grazie per la correzione, è proprio così.
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